mercoledì 7 dicembre 2011

TRAVAGLIO AL ROSSETTI


«Cosa penso? Che non c’era bisogno di Monti e della sua squadra di fenomeni, per partorire una manovra che alza le tasse e finge di tagliare i costi della politica e di far pagare anche i ricchi...».

Marco Travaglio non le manda mai a dire. Voce e penna caustica, da anni spara a zero sui giornali (attualmente sul Fatto Quotidiano, di cui è vicedirettore), in televisione (ha seguito Santoro anche nell’avventura “multipiattaforma”), nei libri (è appena uscito per Chiarelettere “Silenzio, si ruba”...), a teatro.

E stasera alle 21, proprio a teatro, al Rossetti, presenta il nuovo spettacolo “Anestesia totale”, ovvero: «il primo spettacolo (poco spettacolare) del dopo B, che prova a immaginare ed esorcizzare il futuro dell’Italia senza Berlusconi». Con lui, l’attrice Isabella Ferrari. Sul palco un’edicola, una panchina, due microfoni. E l’aristocratica viola di Valentino Corvino che commenta.

«Quando proponevo di tassare i capitali scudati - prosegue Travaglio - mi dicevano che così si violava un patto sottoscritto con i cittadini. Cosa chiaramente non vera, visto che altri patti sono stati e vengono violati tranquillamente. Comunque ora Monti ha deciso di mettere mano a quella voce, e che fa? Aggiunge un misero 1,5 per cento, al 5 già pagato, a gente che ha portato i soldi all’estero, li ha fatti rientrare pagando un’inezia di tasse e ha evitato pure l’aspetto penale della vicenda. E questa sarebbe equità?»

Timidezza di Monti o paletti dei partiti?

«Credo lui volesse effettivamente fare una patrimoniale, ma Berlusconi lo ha bloccato. Come lo ha bloccato sul tema delle frequenze televisive, che valgono a seconda delle stime fra i sei e i sedici miliardi di euro, a occhio mezza manovra, e che invece vengono regalate a Rai e Mediaset...».

Prosegua.

«Passera ha detto: non abbiamo esaminato il problema. Ma mi faccia il piacere. Si cambino i termini dell’asta e si vada all’incasso. Chi vuole le frequenze, le paghi. Non si capisce perchè se io occupo il suolo pubblico devo giustamente pagare una tassa. Se loro occupano le frequenze, e ci impiantano un ricco business, gliele danno gratis».

Le lacrime della Fornero?

«Armi di distrazione di massa, come direbbe Sabina Guzzanti, o nella migliore delle ipotesi di coccodrillo. Ma insomma, quelle misure le hanno decise loro, se non vanno bene, se fanno piangere, che ne presentino delle altre. Perchè torna l’Ici sulla prima casa mentre il Vaticano continua a non pagare un euro sulle sue proprietà e sulle sue attività commerciali? Ancora nessuno me l’ha spiegato».

Lo spettacolo?

«E’ rimasto praticamente uguale al debutto, avvenuto nell’aprile scorso a Bologna, anche se ovviamente si nutre dell’attualità di questi giorni e mesi. Parto da una frase, una constatazione: finalmente è finita, lui non c’è più. E questa è la buona notizia. Quella cattiva è che le radiazioni restano. Nella primavera scorsa si era già capito tutto, era evidente che Berlusconi era arrivato a fine corsa. Per la verità lo si era capito già quando aveva rotto il patto a destra con Fini. Lì ha perso la partita».

Non c’è più Berlusconi, ma il berlusconismo?

«A parte che io di Berlusconi non voglio più parlare, il nome stesso mi provoca fastidio, e infatti nello spettacolo se ne parla solo al passato. Ma il punto è proprio quello che lei dice: Berlusconi è finito, ma il berlusconismo gli sopravvive, per il semplice motivo che gli preesisteva. L’uomo è arrivato vent’anni fa come caricatura, come esasperazione del conflitto di interessi».

Che è sempre esistito.

«Appunto. Non dimentichiamo che i partiti occupavano la Rai ben prima della sua cosiddetta discesa in campo. E fino a quando la televisione sarà in mano ai partiti e i giornali in mano a banche, imprese, concessionarie pubbliche, palazzinari, fabbricanti di scarpe, proprietari di cliniche private, il berlusconismo non finirà».

Ma un giornalista a teatro che ci fa?

«Dipende da quello che uno ci fa, a teatro. Io faccio le stesse cose che faccio in tivù, ma quello che lì racconto in dieci minuti, a teatro posso raccontarlo con calma, in due ore e mezzo. Il teatro è lo spazio ideale per raccontare, per spiegare con tutto il tempo che occorre, davanti a un pubblico che è venuto per te. La televisione richiede lo slogan, per controbattere e sovrastare le opinioni altrui. Il libro richiede tanto tempo, a chi scrive e a chi legge».

Qualche difetto l’avrà anche il teatro.

«Più che difetti, rischi. Il rischio che la sala sia vuota, cosa che per fortuna ancora non mi è mai successa. Quando avviene, significa che quel che dici non interessa. E poi c’è anche il rischio che ti tirino pomodori, cosa che in tivù è impossibile. Anche questo ancora non mi è accaduto. Ma a teatro, utile per capire quali messaggi passano e che cosa interessa veramente alla gente, si crea quel contatto diretto impossibile altrove. Se uno sospira, lo senti. Se tossisce, te ne accorgi. Come ti accorgi se qualcuno si addormenta mentre parli... Una cura che servirebbe ai nostri giornali»

Isabella Ferrari?

«Realizza in scena una sorta di controcanto, rappresenta la parte della speranza. Mentre io descrivo il virus, lei propone l’antidoto. E per uscire da quella misteriosa epidemia che ha cloroformizzato e lobotomizzato un intero Paese, riducendolo all’anestesia totale del titolo, si affida ai testi di Indro Montanelli».

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