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PAOLO VILLAGGIO
«Perchè due libri a poca distanza l’uno dall’altro? Perchè avevo e ho un bisogno maledetto degli anticipi per sopravvivere, nella speranza di vendere almeno cinquantamila copie. Le case editrici per la verità contano di arrivare a duecentomila, ma loro sono un po’ folli. Lo so, è un’operazione bieca...».
Paolo Villaggio non si smentisce mai. Fra pochi giorni compie 79 anni, essendo nato a Genova il 30 dicembre 1932. Gli è appena stato assegnato il Premia Chiara alla carriera. Ma lui al solito prende in giro innanzitutto se stesso, anche se gli chiedi di parlare dei suoi due nuovi libri: il romanzo “La fortezza sulle nuvole” (Morganti, pagg 157, euro 16) e “La vera storia di Carlo Martello” (Dalai, pagg 222, euro 17).
Maestro, da dove cominciamo?
«Non mi chiami maestro - intima con tono burbero -. Comunque cominciamo dal romanzo. Che cosa vuole sapere?»
La megaditta, il megapresidente, il coglionazzo. Sembra di essere tornati a Fracchia, invece la storia è ambientata nel Medioevo.
«Sì, abbiamo sempre sentito cose terribili sul Medioevo: la divisione in classi, i ricchi con la loro rete di favori, lo sfruttamento, i soprusi. Ma il Medioevo di oggi è peggiore di quello di allora. Viviamo in un mondo pieno di brogli, furti, omicidi per pochi soldi. Le condizioni sono molto peggiorate. E ormai siamo rassegnati a vivere in mezzo alle difficoltà».
Dove abbiamo sbagliato?
«Preferiamo la finzione alla felicità. Guardi i giovani, hanno accettato di essere falsi e infelici. Ci si accontenta di spiare dal buco della serratura i ricchi, i cosiddetti vip».
Villaggio, c’è la crisi.
«Ma il problema non è la mancanza di lavoro, non è il precariato. E’ che abbiamo perso di vista la qualità della vita. Dai quindici ai quarant’anni, a volte oltre, sono tutti vestiti uguali. I ragazzi vogliono fare i calciatori, le ragazze le veline. Viviamo un periodo di involuzione culturale».
Quando scrisse le parole di “Carlo Martello”, invece?
«Negli anni Sessanta, e Cinquanta, l’Italia era davvero un’altra cosa. Non è questione di crisi o di boom, era davvero un altro Paese, pieno di iniziativa, di voglia di risollevarsi dopo gli anni bui, di crescere, di migliorarsi. E poi eravamo quaranta milioni di persone, non settanta come adesso: c’erano spazio e opportunità per tutti. Davvero, non credo di essere mai stato così felice come in quegli anni».
Come nacque quella canzone?
«Era una sera piovosa del novembre del ’62, a casa mia, a Genova. Con Faber (ovviamente Fabrizio De Andrè, ndr) ci conoscevamo da sempre, le nostre famiglie erano amiche, io avevo otto anni più di lui. Si mise a strimpellare con la chitarra quell’aria che gli era venuta in testa: po, poppò, poppò... Quasi un inno da corno inglese. Mi disse: dai, scrivici un testo. Obbedii, il testo fu completato in due settimane. E nacque “Carlo Martello torna dalla battaglia di Poitiers”».
Di cui ora ha scritto “la vera storia”.
«Parlando ancora di un Medioevo pieno di allusioni alla contemporaneità. Re Carlo che spia i suoi sudditi, li uccide, somiglia a tanti dittatori che hanno insanguinato il Novecento. Tutti circondati da un codazzo di servitori e maggiordomi che danno loro sempre ragione, nella speranza di un personale tornaconto. Esattamente come avviene oggi».
E’ vero che sulle navi ha lavorato con Berlusconi?
«E’ lui che ha lavorato con me, se permette. Eravamo fra il ’52 e il ’54. Io facevo l’entertainer sulle stesse navi da crociera sulle quali lui cantava canzoni francesi accompagnato al pianoforte da Fedele Confalonieri. Di Berlusconi non ho un gran ricordo, la sua forza era la simpatia, faceva di tutto per piacere».
Un episodio lo ricorderà?
«Certo, ma riguarda ancora De Andrè. Eravamo molto amici e alcune volte lo portai con me, presentandolo come una giovane promessa della canzone italiana. Avevo garantito agli organizzatori che Fabrizio avrebbe rallegrato il pubblico di prima classe, si badi bene composto da vegliardi ultraottantenni, gli unici che all’epoca potevano permettersi una crociera».
Ebbene?
«Fu un disastro. Lo presentai con fare allegro, della serie “Ed ecco a voi il grande...”. Cominciò ad arpeggiare la sua chitarra classica, e quando partì con i versi “Quando la morte mi chiamerà...”, feci un balzo e credetti di morire io, ma all’istante...».
Invece sono passati sessant’anni, lei per fortuna è ancora vivo, e alcuni falsi annunci continuano ad allungarle la vita...
«Quando dieci giorni fa l’Ansa mi ha chiamato dopo che era girata su internet la notizia della mia avvenuta dipartita, ho risposto che mi sentivo benissimo, ma a questo punto sarei andato farmi un check up... La verità è che io temo il decadimento mentale. Quello fisico meno. Temo di perdere la memoria, che è parte consistente della creatività».
Da ragazzo com’era?
«Molto timido. Alle feste da ballo, io e il mio fratello gemello stavamo in un angolo, ai lati opposti della stanza. Poi ci si metteva anche mia madre. Quando mi cercava una ragazza al telefono, rispondeva lei, diceva che non c’ero e riattaccava. Ditemi voi...».
Progetti? E’ vero che torna a teatro?
«Devo pur inventarmi qualcosa per sopravvivere. Sì, sto lavorando a una tournée teatrale con Lina Wertmüller per la prossima primavera. Non mi chieda cosa faremo. So solo che sarà qualcosa di divertente».
Un’ultima cosa: ma coi friulani cos’è successo?
«Ma niente. Avevo scritto in un altro libro - scritto per lo stesso motivo degli ultimi due - che ruttano fragorosamente, parlano un rozzo idioma e per giunta hanno l’alito insostenibile. E questi che fanno? Si offendono, non capiscono che era solo una boutade, uno scherzo, una presa in giro. Ma si può? Mi è toccato pure scusarmi...».
Non erano frasi gradevoli.
«Ha ragione, è tutta colpa mia. Io pensavo che esistesse ancora lo humour, il senso critico, la capacità di ridere innanzitutto di se stessi».
E invece?
«E invece - conclude Paolo Villaggio - qui la gente non sa nemmeno prendersi un po’ in giro. L’Italia è un posto strano, il mondo ci invidia, ma noi abbiamo la monnezza a Napoli, il Sud in mano alla malavita, coste e mare deturpati. Davvero, qui non c’è nulla da invidiare. Nel Rinascimento, forse...».
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