mercoledì 23 luglio 2014

CRISTIANO DE ANDRE' venerdì a Spilimbergo per Folkest

Dici De Andrè e pensi a Fabrizio. Ma da molti anni c’è anche il figlio Cristiano, a percorrere la sua onesta strada nel mondo della musica. Il suo tour “Via dell’amore vicendevole” fa tappa venerdì a Spilimbergo, per Folkest. Cristiano, chi sono gli “invisibili” nell’Italia del 2014? «Oggi sembra che non succeda niente, come se tutto fosse “silenzioso”, ma forse abbiamo bisogno di un momento di “silenzio” per arrivare a qualcosa di nuovo e bello. L’unica cosa importante deve essere l’arte, l’anima, e quindi ricominciamo, riprendiamo le cose belle e andiamo verso un linguaggio nuovo. Penso che il nostro presente e passato debbano essere ricordati per la cultura e l’arte». Nella canzone portata a Sanremo, invece... «“Invisibili” è una canzone che parlava degli anni ’70, periodo di fermento culturale, di voglia di cambiare, trovare nuove soluzioni, introdurre nuove cose. Nonostante l’assolutismo e la mancanza di libertà, gli anni ’70 si sono tolti la crosta di dosso e attraverso musica, letteratura, grandi pittori c’è stata la rivoluzione culturale. La libertà era scomoda, ci sono state situazioni pericolose». Una canzone che parla di droga. «Molti ragazzi l’hanno usata. Ciò è stato permesso da governi invisibili che volevano sterminare una generazione scomoda, che si auto sterminasse. Un ragazzo di vent’anni che veniva etichettato drogato diventava invisibile per la società perbenista. In molte famiglie c’era una differenza generazionale di linguaggio, ciò creava problemi. Come quella canzone che ho scritto insieme a mio padre “Cose che dimentico” sull’Aids. Anche loro invisibili, come gli omosessuali. Com’è stato tornare al Festival? «Sanremo è sempre particolare, in tre minuti devi riuscire a trasmettere tutto quello che hai dentro». Il nuovo album è arrivato 12 anni dopo Scaramante. «Per molti la musica è una distrazione, per altri un’amplificazione del proprio dolore, dei sentimenti che si provano. È morto mio padre, poi mia madre, mi sono mancate tante sicurezze e ho dovuto ritrovarle. La musica è faticosa, mi creava più nostalgia di quanta non ne avessi già senza di lei». “De Andrè canta De Andrè” ha dimostrato che il pubblico ama sentirla cantare le canzoni di suo padre. «Quando ho deciso di cantare le sue canzoni ho preso 25 suoi brani e con Luciano Luisi li abbiamo riarrangiati, anche con spunti dalla world music e dall’elettronica. Abbiamo portato le sue canzoni in un altro mondo. Poteva essere rischioso per chi è abituato a certe sonorità, invece è stato un successo. Tra il pubblico abbiamo anche ragazzi di 16-17 anni. Dai giovani agli adulti della mia età, sui cinquant’anni, e più grandi. Così ho fatto conoscere le parole di mio padre, che sono medicina per l’anima, a chi ascoltava magari solo rap e rock, ho portato loro una poesia che mancava».  L'influenza della California e di Corrado Rustici nel nuovo disco? «Sono andato in California, che non è più quella di una volta. Stavo quasi sempre in studio, con un italiano, appunto Corrado Rustici, e lui è stato davvero una bella scoperta». In questo tour? «Canzoni del mio passato riarrangiate, pezzi di “Scaramante” e di “Come in cielo così in guerra” e altri miei brani, intrecciati con brani di mio padre. Tutto questo in una scaletta funzionale, molto musicale. Pensavo di fare poche date invece siamo già a più di dieci». La musica di oggi? Cosa ascolta? «Di tutto, amo contaminarmi con ogni stile letterario, artistico. Ascolto world music, musica anni ’70, classica. Il rap è un linguaggio nuovo che deve ancora rinforzarsi con una certa poesia, ma sicuramente ci sarà questo passaggio. Mi piace mischiare di tutto, ma non così, come si mescolano le carte, ma far suonare in maniera migliore, armonica». Prossimi progetti? «Ho scritto la sceneggiatura di un film, e un’opera musicale, ma è presto per parlarne». Cosa le manca di suo padre? «Sono orgoglioso del cognome che porto. Ho fatto la mia strada, ho faticato, ho dimostrato che sono un artista. È stato un processo lungo. La prima volta, mentre studiavo al Conservatorio, mio padre mi fece salire sul palco e mi presentò: “Questo è mio figlio e suonerà il violino...”. Oggi rivisito il suo repertorio».

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