lunedì 9 febbraio 2009

INTERVISTA CAPOSSELA


«Per me Trieste è sempre stata la porta del viaggio, un oggetto di desiderio, il punto che ti fa prendere un treno e partire. È la porta di un immaginario che amo. Anche perchè il fronte dell’avventura è sempre a Oriente, come diceva Napoleone...».

Questa dichiarazione d’amore arriva da Vinicio Capossela, che a Trieste ha suonato tante volte, spesso in situazioni spartane, ma che stavolta arriva nel teatro più grande della città: domenica il musicista e cantautore nato ad Hannover nel ’65 (genitori emigrati dall’Irpinia) sarà infatti al Politeama Rossetti con il suo ”Solo Show”, che riprende i temi dell’ultimo album ”Da solo”.

Per lui, cresciuto in Emilia Romagna, Trieste e l’Istria sono anche territorio di ricordi: «Ricordo che a vent’anni la mia prima avventura è stata attraversare l’Adriatico. Prendere un aliscafo a Rimini, coi soldi guadagnati facendo il barista nella riviera romagnola, e sbarcare a Pola, scoprendo vestigia della cultura veneziana, fu per me un’esperienza importante. Scoprii luoghi dietro l’angolo di casa dove l’italiano era un elemento esotico...».

Nel nuovo spettacolo l’esotismo dove sta?

«In un certo sapore da vecchio West, da saloon, in una dimensione che attinge al Circo Barnum di fine Ottocento. ”Canzoni a manovella” (disco e spettacolo del 2000 - ndr) era legato all’idea del circo tradizionale. Ora ci spostiamo nel tendone a fianco, nel cosiddetto ”side show”: il baraccone delle attrazioni, delle stranezze, come la donna barbuta o il maiale a due teste. Una sorta di metafora dello spettacolo».

Tour dopo tour, l’allestimento teatrale è sempre più curato.

«A teatro non mi basta riprodurre cose che il pubblico già conosce. Voglio uno spettacolo vero, per lo spettatore dev’essere come salire su un ottovolante, il teatro permette di rendere abitabili le emozioni. Con gli occhi, il cuore, le orecchie, la pancia...».

Certe atmosfere del disco riportano alla grande depressione Usa degli anni Trenta.

«È un disco di inni, di cerimoniali. Che servono, allora come oggi, nel momento delle difficoltà. Quando non ci si piange addosso, ma ci si stringe in un abbraccio, in una sorta di preghiera laica».

Pensa all’America di oggi, a Obama?

«Anche. La politica può fare cose straordinarie. Già sentir parlare di un diverso approccio alle cose è un segnale che fa bene al cuore. Penso che, più della crisi economica, sia terribile l’abbruttimento del vivere civile. L’accanirsi contro gli ultimi, contro gli indifesi, in Italia come in tutto il mondo».

La strada è un suo elemento costante.

«Chatwin parlava dell’orrore del domicilio. Io amo la strada intesa come cammino che dobbiamo fare nella vita, come il lasciarsi dietro delle cose. E poi la strada è una cosa sempre viva, sempre diversa. È il luogo dell’incontro».

Al tributo a De Andrè ha cantato ”La città vecchia”.

«Sì, nella versione non censurata. Ho scelto io di cantare quel brano, espressione del De Andrè ”di strada”, che parla di una piccola comunità. Ero sinceramente emozionato. De Andrè è, con Piero Ciampi e Matteo Salvatore, l’artista italiano da cui sento di aver ricevuto di più. Le sue canzoni sono ricche di umanità».

Con Capossela, al Rossetti, i musicisti Glauco Zuppiroli, Zeno De Rossi, Vincenzo Vasi, Mauro Ottolini, Achille Succi e Alessandro Stefana. Ma anche il ”mago” Christopher Wonder e la ”mangiafuoco” Jessica Love.

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