VASCO BRONDI AL TEATRO MIELA
Capita a volte - raramente - di imbattersi in oasi di viva intelligenza e originale genuinità, nel mare piatto e prevedibile della canzone italiana. È successo nel 2008 con Vasco Brondi, ventiquattrenne cantautore ferrarese che preferisce celarsi dietro la sigla Le luci della centrale elettrica, il cui tour l’altra sera ha fatto tappa in un Teatro Miela adeguatamente affollato per l’occasione.
Targa Tenco per la miglior opera prima con «Canzoni da spiaggia deturpata», Brondi è stato il miglior esordio dell’anno passato. Mischia rabbia generazionale e poesia metropolitana, sembra mosso da un’urgenza creativa a tratti fluviale, è visionario e ancora indignato al punto giusto. Il suo è «cantautorato attualizzato, che non trascuri le distorsioni sature, le frasi urlate, i ritmi ossessivi. Una chitarra acustica/distorta comprata a rate e una voce che sussurra urla e tossisce...» (dalla sua pagina su MySpace).
Dal vivo, nonostante problemi di acustica e un impianto voce non all’altezza, conferma quanto di ottimo si era percepito nel disco. La prima sorpresa è la formazione: da una parte lui e il suo produttore Giorgio Canali (cinquantenne di Predappio, già nell’orbita bolognese dei Cccp/Csi/Pgr e nel progetto Rossofuoco) alle chitarre, elettriche e acustiche; dall’altra la soave Daniela Savoldi (padre italiano, madre brasiliana, dieci anni di conservatorio alle spalle) al violoncello. Sì, avete capito bene, al violoncello. E l’incontro inedito fra quest’ultimo e le chitarre rabbiose dei due ragazzacci vale già il prezzo dell’attenzione.
Attaccano con «Produzioni seriali di cieli stellati» e «Piromani» (il brano di «andiamo a vedere le luci della centrale elettrica...», cui segue un’appendice parlata, quasi alla maniera di un reading lisergico), proseguono con «Stagnola» e «Sere feriali». Vasco canta di tram troppo mattinieri e sigarette fosforescenti, di farfalle meccaniche e occhi di criptonite, di motorini elaborati e cani avvelenati, di preservativi troppo costosi e sogni smantellati.
La scelta di alternarsi fra due microfoni, uno dei quali capace di rendere la sua voce meccanica e distorta fino all’incomprensibilità, non rende semplice l’ascolto dei brani alla parte (maggioritaria) del pubblico che li non conosce a memoria. Ma a nessuno sfugge un bisogno primario di comunicare che non lascia indifferenti. Nel racconto teso, vibrante, allucinato dei suoi - nostri - anni confusi. Anche se a tratti si avverte il retaggio di personaggi ed epoche che Brondi può aver conosciuto solo indirettamente: la Bologna del Settantasette, Claudio Lolli, i citati Cccp/Csi/Pgr, gli «altri libertini» di Pier Vittorio Tondelli...
Il concerto prosegue, c’è spazio anche per un brano di Casali, oltre che per l’abbozzo di un paio di cose nuove, che entreranno nel secondo disco («a primavera mi fermo e comincio a pensarci seriamente...», confida sceso dal palco). «Lacrimogeni», «Fare i camerieri», «La gigantesca scritta Coop», ma soprattutto «La lotta armata al bar» e «Per combattere l’acne» - scelta come bis - completano la serata.
Canzoni che brillano di piccole frasi storiche: «farò rifare l’asfalto per quando tornerai» e «siamo l'esercito del Sert», «con le nostre discussioni serie si arricchiscono solo le compagnie telefoniche» e «si fermavano i tram per deridermi», fino al trionfo nichilista generazionale di «cosa diremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero...?». Istantanee urlate, schegge di presente, malinconia e smarrimento e rabbia, desolazione dalla provincia italiana.
Alla fine, applausi convinti. Brondi saluta a pugno chiuso e scompare.
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