mercoledì 25 febbraio 2009

IL LASCITO DEL 68


Mitizzato e rimpianto da alcuni, demonizzato da altri. Ma sempre evento centrale della seconda metà del Novecento. Il Sessantotto è da tempo oggetto di studio e di dibattito. Del suo ”lascito” si parla oggi alle 16, alla Biblioteca Statale (Largo Papa Giovanni), nella conferenza degli storici Marcello Flores e Roberto Finzi. «La prima scintilla del ’68 - spiega Flores, docente di storia contemporanea a Siena, dopo aver insegnato anche nell’ateneo triestino - fu la protesta degli studenti dell'università di Berkeley, nel ’64. Era la prima generazione che cercava da sola la propria strada, contrapponendosi al mondo di adulti in cui non aveva fiducia».

Il contesto internazionale?

«L'evento che incide maggiormente è la guerra nel Vietnam. Ma non va sottovalutato quanto avviene in America latina, con le spinte guerrigliere che si accendono in diversi paesi sotto l'influsso della rivoluzione cubana».

In Europa?

«Era la fase finale del boom economico. Della società dei consumi, caratterizzata dalla perdita di valori e incapace di offrire dignità e uguaglianza per tutti».

I carriarmati sovietici a Praga e gli scontri alla convention democratica di Chicago?

«Mostrano come anche le due superpotenze fossero coinvolte in una protesta di tipo assai diverso ma ugualmente significativo del clima di lotta generazionale rappresentata da quell’anno».

Come diventa un anno simbolo?

«Con le manifestazioni contro la presenza americana in Vietnam, mentre il maggio di Parigi sembra offrire un possibile sbocco politico (che qualcuno s'illude possa essere rivoluzionario) a una mobilitazione che coinvolge l'intera società».

Il ’68 italiano?

«Più ideologizzato e politicizzato. Anche se il peso dei gruppi extraparlamentari sembra diluirsi e quasi scomparire nella più generale protesta degli studenti che acquista un carattere di massa con le occupazioni delle università».

La protesta operaia come si salda con la contestazione studentesca?

«Nel maggio francese, nel corso delle grandi manifestazioni. Da noi l'influenza della protesta giovanile nell'accendere la protesta operaia è forte, ma sarà poi quest'ultima a fare da catalizzatore nei confronti degli studenti».

Roma e Berkeley, Parigi e Berlino si muovevano assieme in tempi in cui la comunicazione era meno veloce.

«Contatti e viaggi tra le varie città centro della contestazione erano all'ordine del giorno. Ma c’era soprattutto una sorta di sintonia comune, di senso di appartenenza generazionale e politico, nella voglia di essere protagonisti della nuova epoca storica».

La violenza?

«All’inizio ha poco spazio. Poi acquista un peso crescente per la risposta repressiva, che accresce la voglia di risposta, anche violenta, da parte di alcune frange del movimento. Da questo punto di vista Valle Giulia è una svolta, anche se si tratta di una violenza molto circoscritta».

Perchè i successivi movimenti hanno sempre evocato ma mai ripetuto la forza del ’68?

«Perché era un movimento nuovo, che ha creato sorpresa, nuovi modelli, costretto i partiti a ridefinire le proprie strategie. E perché era il primo movimento "di generazione", perché al suo interno erano presenti tante anime diverse che avevano trovato il comun denominatore nel disagio per il presente, nel desiderio di una profonda trasformazione, nella speranza di un cambiamento radicale. Poi ci sarà solo il tentativo di ricrearlo un po' artificiosamente».

La forza del ’68?

«La sua spontaneità, la rottura culturale oltre e più che quella politica con la tradizione e il passato. Poi la politica ha ripreso il sopravvento, incanalando i possibili nuovi movimenti in percorsi noti e prevedibili».

Il suo lascito?

«Prevalentemente culturale: modi di pensare, di parlare, di vestirsi, di vivere in modo egualitario, di sentirsi coinvolti nella cosa pubblica. Ma anche nel riconoscere di vivere in un mondo interconnesso, nello spazio e nel ruolo che ha acquistato la comunicazione, in forme di solidarietà generazionale che si traducono nell'appartenenza a un clima condiviso di speranza, di valori riscoperti, di accettazione di una modernità che in alcuni paesi - l'Italia tra questi - era ben lontano dall'essere arrivata e diffusa».

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