mercoledì 27 febbraio 2013

Un anno senza LUCIO DALLA

Un anno senza Lucio Dalla, un anno con le canzoni del piccolo grande uomo. Era la mattina del primo marzo. L’artista bolognese era all’hotel Ritz di Montreux, dove si era esibito la sera prima. Un infarto. Il primo a trovarlo è Marco Alemanno, da qualche anno suo compagno di vita nonchè collaboratore sul palcoscenico. Nel libro “Dalla Luce alla notte”, appena edito da Bompiani, il giovane attore pugliese scrive: «Il giorno prima che morisse arrivammo a Montreaux nel pomeriggio. La sera avevamo il terzo concerto della tournèe europea. Prendemmo la nostra stanza, una suite con una vista meravigliosa sul lago. Finito di cantare, mi portò a vedere la statua di Freddie Mercury, lì vicino. Mi inginocchiai per accendere una candela. Lucio disse una preghiera in silenzio». Ancora Alemanno: «Poi diede una gran pacca sul braccio della statua e disse: ci vediamo domani, vecchio Freddie! Il giorno dopo, in effetti, credo che si siano visti davvero...». La mattina dopo, la notizia rimbalza prima su Twitter e poi fra le varie agenzie e i siti. Il feretro viaggia verso la residenza bolognese dell’artista, in via D’Azeglio. La camera ardente viene allestita in municipio, a Palazzo d’Accursio. La città proclama il lutto cittadino. E il 4 marzo, giorno in cui Dalla avrebbe compiuto sessantanove anni, si svolgono i funerali nella basilica di San Petronio. Cinquantamila persone in piazza. Nei giorni successivi, polemiche per il ricordo di Alemanno in lacrime sull’altare. Alcuni lamentano che l’omosessualità dell’artista - che in vita non aveva mai fatto mistero delle sue scelte ma nemmeno le aveva ostentate - sia stata in qualche modo “sdoganata” in chiesa. Tutte occasioni mancate per un rispettoso silenzio. Passano le settimane e le polemiche si spostano sull’eredità. L’artista non ha lasciato testamento, dunque il suo enorme patrimonio (oltre cento milioni di euro fra immobili, opere d’arte, diritti d’autore, royalties discografiche...) viene diviso tra i suoi cinque cugini di primo grado, che avranno anche l’ultima parola sulla fondazione a lui intitolata e che finora è rimasta sulla carta. Alemanno, in mancanza di una precisa volontà testamentaria, non ha alcun diritto ed esce dalla sontuosa abitazione bolognese (duemilacinquecento metri quadrati a due passi da piazza Maggiore, soffitti affrescati, opere d’arte, cinema privato...) che aveva condiviso con l’artista. Resta la musica. Restano le canzoni. Lasciate al mondo in quarant’anni di carriera da quell’uomo innamorato del futuro. Che vita, che carriera quella del piccolo grande Lucio. Esordi come clarinettista e sassofonista jazz, nella Bologna povera ma pulita del dopoguerra. Incrocia Chet Baker, suona con la Rheno Dixieland Band, di cui fa parte anche il futuro regista Pupi Avati. Approda a Roma, fa parte dei Flippers e degli Idoli, nel ’64 esce il primo 45 giri: “Lei (non è per me)” - scritta da Gino Paoli e portata senza successo al Cantagiro - e “Ma questa sera” (cover di “Hey little girl” di Curtis Mayfield). Nel ’66 esce il suo primo album. Nello stesso anno lo mandano a Sanremo. Canta “Paff bum”, in coppia nientemeno che con gli Yardbirds. Torna al Festival nel ’67, l’anno del suicidio di Luigi Tenco: lui canta con i Rokes “Bisogna saper perdere”. Al cinema in quegli anni lo vediamo nei cosiddetti “musicarelli” ma anche in un film dei fratelli Taviani, “I sovversivi”, candidatura come miglior attore alla Mostra di Venezia. Il secondo album s’intitola “Terra di Gaibola” (un sobborgo di Bologna), il terzo Sanremo è quello di “4 marzo ’43”. Nel ’71, basco in testa e barba nera, ad affrontare le censure dell’epoca. Il verso “per i ladri e le puttane” diventa “per la gente del porto”, il titolo originario “Gesù bambino” (titolo originario, titolo da lui sempre mantenuto nei concerti...) è considerato irrispettoso, cambiare cambiare, altrimenti la Rai non l’avrebbe mandato in onda. Ma la gente era già allora più avanti dei suoi governanti: la canzone, testo della poetessa Paola Pallottino, arrivò terza. Anni Settanta, anni di cambiamento. Dalla comincia a collaborare con il poeta bolognese Roberto Roversi (scomparso anche lui nel 2012). Con lui scrive, fra il ’73 e il ’76, tre album: “Il giorno aveva cinque teste”, “Anidride solforosa” e “Automobili” (con il brano “Nuvolari”), da cui poi viene tratto lo spettacolo “Il futuro delle automobili e altre storie”. Fino a quel momento era stato musicista e interprete. Poi diventa cantautore. Gli album “Com’è profondo il mare” (’77) e “Lucio Dalla” (’78) consegnano alla scena italiana un nuovo, grande protagonista. Collabora con Ron e con gli Stadio. L’accoppiata con Francesco De Gregori, nel tour del ’79 dal titolo “Banana Republic”, fa il resto. I trent’anni successivi lasciano a referto dischi e tour di successo (uno con l’amico Gianni Morandi), punteggiati da piccoli grandi capolavori: “Anna e Marco”, “Balla balla ballerino”, “Cara”, “La sera dei miracoli”, “Washington”, “Ayrton”, mille altri, fino all’inarrivabile “Caruso”. Altri dischi, altri tour, altre collaborazioni. L’ultima, con il giovane Pierdavide Carone, accompagnato come umile spalla (da corista e direttore d’orchestra) hanno accompagnato due intere generazioni.al Sanremo 2012. La sua ultima apparizione in tivù. Pochi giorni prima di quel maledetto primo marzo. Lunedì 4 marzo Bologna ricorda il suo figlio che se n’è andato troppo presto. Evento in piazza Maggiore, tanti artisti ospiti, diretta televisiva. Il minimo, per il piccolo grande Lucio Dalla.

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