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martedì 25 marzo 2014
domani NOMADI a Udine, intervista a Beppe Carletti
Un festeggiamento importante come quello del mezzo secolo di attività merita di durare un anno intero. È così che Beppe Carletti e i suoi rinnovati - ma sempre fedeli agli ideali originari - Nomadi proseguono nei teatri il tour che l’anno scorso li ha portati in giro per piazze, stadi e palasport su e giù per la penisola. Domani alle 21 sono di nuovo nel Friuli Venezia Giulia, al “Nuovo” di Udine, e c’è da scommettere che il loro pubblico transgenerazionale, equamente diviso fra giovani di oggi e giovani di ieri, non mancherà all’appello.
Carletti, come va l’inseguimento ai Rolling Stones?
«Eh, lei scherza e ha ragione. Ma i dati parlano chiaro: secondo Wikipedia siamo il gruppo più longevo al mondo dopo i Rolling Stones. Ci battono solo di pochi mesi. E se Jagger, dopo il recente lutto, decide di chiudere la baracca, entriamo dritti nel Guinness dei primati. Ma non credo che il vecchio Mick mollerà nemmeno stavolta».
A lei, di mollare, non passa nemmeno per la testa.
«Quando suoniamo incontro tanto entusiasmo, i ragazzi che sono entrati in questi anni nel gruppo hanno portato tanta freschezza, tante idee nuove, che in effetti no, nonostante i miei sessantotto anni, i figli e i nipoti, a mollare non ci penso proprio».
Com’era quell’Italia del ’63?
«Avevo sedici anni, non sapevo nulla del mondo, avevo solo tanto entusiasmo e amore per la musica. Nel bene e nel male era un’altra Italia. Non so se migliore o peggiore. So che c’era tanta voglia di fare, di stare assieme. Si era felici davvero con poco. Eravamo tutti meno ricchi, ma c’era una ricchezza interiore che era più importante. Oggi abbiamo tutto, ma un cellulare nuovo non potrà mai sostituire un libro, un disco, una chiacchierata con gli amici».
Basterà Renzi per riportare un po’ di speranza?
«Siamo costretti a sperarlo. Anche perchè l’uomo ha creato così tante aspettative nella gente, che ora quasi mi spaventa: spero che non segua una bruciante delusione. Il rischio c’è, tutte le volte che bisogna passare dalle parole ai fatti. Ma sia chiaro: sarei felice se riuscisse nell’impresa».
La crisi tocca anche la musica?
«Ovvio. A parte quei due o tre che in Italia possono fare gli stadi, per tutti gli altri il calo del lavoro c’è, ed è forte. Prima c’erano i Comuni, le Aziende di soggiorno che davano i contributi. Oggi viviamo un’altra storia, ognuno cammina sulle proprie gambe. Abbiamo calato i prezzi dei biglietti, ma non sempre basta».
Il vostro ultimo album s’intitola “Terzo tempo”.
«Volevamo indicare il nostro “terzo tempo”, il fatto che continuiamo a cantare e suonare dopo tanto tempo. Ma anche il “terzo tempo” che si usa nel rubgy, quello degli abbracci dopo la battaglia. Tempo fa hanno provato a importarlo anche nel calcio, ma mi sembra che l’esperimento non abbia avuto molto successo».
Sono passati ventidue anni dalla scomparsa di Augusto Daolio.
«E per me, per noi è sempre un dolore grandissimo. Lui è sempre al nostro fianco. Quando è mancato nessuno avrebbe scommesso una lira sulla nostra sopravvivenza. Invece siamo qui, e una delle soddisfazioni maggiori è vedere oggi ai nostri concerti tanti ragazzi giovani e giovanissimi. Ci sono anche tanti capelli bianchi: il nostro pubblico è una grande famiglia senza età, anagraficamente trasversale. E il nostro è un successo basato sul passaparola».
Trasversali anche sul palco.
«Certo, fra me e il più giovane ci sono quasi trent’anni di differenza. Ma viviamo e lavoriamo in buon accordo, come una grande famiglia. Penso che ogni generazione abbia qualcosa da imparare da quella precedente ma anche da quella successiva. Ci vuole umiltà, semplicità».
Prossimo disco?
«Esce fra un mese, s’intitola “50 più uno”: una manciata di inediti e quei classici che il nostro pubblico ama sempre risentire. È stato anticipato proprio nei giorni scorsi dall’inedito “Come va la vita”...».
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