venerdì 21 marzo 2014

VANILLA FUDGE 28-3 a pordenone, intervista a Carmine Appice

Vabbè, sono un po’ invecchiati. Ma non lasciatevi ingannare dalla foto qui a fianco. Perchè tre di questi quattro ex ragazzi sono stati, a cavallo fra i Sessanta e i Settanta, fra i maggiori protagonisti del rock psichedelico. Stiamo parlando dei Vanilla Fudge, che saranno il 27 marzo a Torino ma soprattutto venerdì 28 a Pordenone, al Naonian City Hall (ex Deposito Giordani). In scena il batterista Carmine Appice, il tastierista Mark Stein e il chitarrista Vince Martell, membri originali e fondatori (con Tim Bogert) della band, ora affiancati da Pete Bremy al basso. Di loro, i meno giovani ricordano senz’altro le personalissime cover di brani come “You keep me hangin’ on” (originariamente delle Supremes), “Ticket to ride” e “Eleanor Rigby” dei Beatles, “Bang bang” (successo di Nancy Sinatra e in Italia dell’Equipe 84), ma soprattutto “Some velvet morning”, brano originariamente composto da Lee Hazlewood ed eseguito dall’autore in duetto con Nancy Sinatra: i Vanilla Fudge ne fecero una versione personalissima e psichedelica, che ebbe successo in tutto il mondo, arrivando al primo posto in hit parade anche in Italia. Carmine Appice, perchè soprattutto cover? «Perchè in quel periodo, a New York, la moda era quella. Noi abbiamo scritto musiche originali per gli arrangiamenti, non canzoni originali. Prendevamo brani di altri artisti e li arrangiavamo con nostre musiche originali, usando nuovi tempi, strutture e parti vocali adatti al nostro rock psichedelico». Com’è cominciata la vostra avventura? «Nel ’66 suonavamo tutti e quattro a New York e dintorni. Il primo nucleo del gruppo fu con Mark, Vinny e Tim. Io mi aggregai per ultimo. Cominciammo con le cover. E appena nove mesi dopo i nostri inizi “You keep my hangin’ on” era già un successo internazionale» Perchè questo nome? «Abbiamo scelto di chiamarci così per indicare il “soul bianco”. Suonavamo molta musica rhythm’n’blues, in quegli anni era pieno di cantanti e musicisti che suonavano musica nera. E il pubblico rispondeva». Quanto dovete ai Beatles? «Non siamo stati fan dei Beatles fino all’uscita dell’album “Revolver”. Eravamo e siamo molto più legati alla Motown, con cui abbiamo ottenuto i nostri maggiori successi. Anche se i Beatles hanno segnato tutti noi». E l’album-omaggio ai Led Zeppelin? «Siamo nati prima di loro, che sono arrivati dopo. È capitato che abbiamo suonato assieme e siamo diventati buoni amici. Poi è successo, molti anni dopo, che il nostro discografico ci ha proposto di fare un album di cover. Piuttosto che pescare un po’ da tutte le parti, abbiamo preferito dedicarci al repertorio di un solo gruppo. Abbiamo scelto i Led Zeppelin perchè le dinamiche della loro musica erano simili alle nostre. Così è nato “Out through the in door”». Perchè vi siete sciolti? «Dopo il 1970 Tim Bogert e io andammo a suonare con Jeff Beck, i trend musicali stavano cambiando, andavano forte i supergruppi. Volevamo essere parte di questa nuova situazione». Cosa avete fatto prima di ritrovarvi? «Ognuno ha suonato con tanti musicisti e gruppi. Io con Rod Stewart, i Cactus (che formai con Tim Bogert), Jeff Beck, Ozzy Osbourne, i Pink Floyd (per l’album “A momentary lapse of reason”, uscito nel 1987), Stanley Clarke, Ozzy Osbourne, Ted Nugent, John Entwistle, i Blue Murder, Edgar Winter. Ho avuto anche un mio gruppo: i King Cobra. Fra concerti in giro per il mondo, sedute di registrazione e seminari sono sempre stato molto impegnato». Poi? «Ci siamo ritrovati e abbiamo scoperto che c’era ancora voglia di suonare assieme. Cosa che abbiamo fatto a partire dal 1999, negli Stati Uniti e in varie parti del mondo. Ma questo è il primo, vero tour europeo che facciamo da quando ci siamo rimessi assieme». E ora? «Stiamo preparando un nuovo album, uscirà entro la fine dell’anno. C’è già il titolo: “Spirit of ’67”, lo spirito del ’67, un anno per noi fondamentale». Le sue origini italiane? «La mia famiglia - conclude Carmine Appice, italoamericano di Staten Island, classe 1946 - ha origini sparse fra Bari, Napoli e la Calabria. I miei nonni arrivarono in America nei primi anni del Novecento. Ma purtroppo, nonostante queste origini e il mio nome, non so parlare in italiano...».

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