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venerdì 5 dicembre 2014
GUCCINI domenica a CormonsLibri, Gorizia: intervista
«Mi mancano i musicisti, quell’allegra brigata con cui giravamo nelle tournèe. Vedo ogni tanto Flaco (il chitarrista Juan Carlos “Flaco” Biondini - ndr), gli altri molto meno. Ma a parte questo, sto benissimo. Sono passati due anni, sono contento della scelta fatta...».
Francesco Guccini ha appeso metaforicamente la chitarra al chiodo esattamente due anni fa, in concomitanza con l’uscita dell’album “L’ultima Thule”. Non farò più dischi né concerti, disse quella volta, confidando che si sarebbe dedicato interamente all’attività - fino a quel momento secondaria - di scrittore.
E solo quanti lo conoscevano poco potevano credere in quell’occasione che il nostro - classe 1940, in carriera dagli anni Sessanta - potesse pentirsi e ripensarci.
«Ero stanco - dice al telefono dalla sua Pavana, appennino toscoemiliano, provincia di Pistoia -, fare concerti cominciava a essere faticoso: stare due o tre ore in piedi...».
Agli inizi cantava seduto.
«Certo, poi ho conquistato la posizione eretta. E non mi sembrava il caso di sedermi di nuovo, poteva rappresentare plasticamente l’inizio del declino. Meglio chiudere quando sei ancora in piedi, prima che ti caccino a pedate. E ho conquistato anche una libertà: quella di prendermi un raffreddore senza pensare al fatto che devo fare un concerto».
Domenica a Cormons?
«Presento il nuovo libro che ho scritto con Loriano Macchiavelli, “La pioggia fa sul serio”. Il titolo giusto per queste giornate uggiose, adatto al clima, qui a Pavana piove da giorni. Ma il freddo non è ancora arrivato».
Basta col maresciallo Santovito?
«Santovito lo abbiamo mandato in pensione. La nuova storia è il secondo capitolo delle avventure dell’ispettore forestale Marco Gherardini, che nel paese degli Appennini dove è ambientata la vicenda tutti chiamano Poiana».
La vita di città le manca?
«Assolutamente no. Ormai vivo qui da tanti anni, le poche volte che vado a Bologna scappo via prima possibile. Ho scoperto di non sopportare più il traffico, il caos, forse anche la gente. E poi qui in paese sto bene, vita tranquilla, molti mi vengono a trovare».
L’anno scorso ha fatto una piccola vacanza nella “sua” vecchia Trieste.
«Sì, grazie a Paolo Rumiz e altri amici ho fatto un bel giro. Ho scoperto luoghi che non conoscevo, sia in città che sul Carso. Ho scoperto anche il mondo delle “osmize”, una bella tradizione che non «Mi mancano i musicisti, quell’allegra brigata con cui giravamo nelle tournèe. Vedo ogni tanto Flaco (il chitarrista Juan Carlos “Flaco” Biondini - ndr), gli altri molto meno. Ma a parte questo, sto benissimo. Sono passati due anni, sono contento della scelta fatta...».
Francesco Guccini ha appeso metaforicamente la chitarra al chiodo esattamente due anni fa, in concomitanza con l’uscita dell’album “L’ultima Thule”. Non farò più dischi né concerti, disse quella volta, confidando che si sarebbe dedicato interamente all’attività - fino a quel momento secondaria - di scrittore.
E solo quanti lo conoscevano poco potevano credere in quell’occasione che il nostro - classe 1940, in carriera dagli anni Sessanta - potesse pentirsi e ripensarci.
«Ero stanco - dice al telefono dalla sua Pavana, appennino toscoemiliano, provincia di Pistoia -, fare concerti cominciava a essere faticoso: stare due o tre ore in piedi...».
Agli inizi cantava seduto.
«Certo, poi ho conquistato la posizione eretta. E non mi sembrava il caso di sedermi di nuovo, poteva rappresentare plasticamente l’inizio del declino. Meglio chiudere quando sei ancora in piedi, prima che ti caccino a pedate. E ho conquistato anche una libertà: quella di prendermi un raffreddore senza pensare al fatto che devo fare un concerto».
Domenica a Cormons?
«Presento il nuovo libro che ho scritto con Loriano Macchiavelli, “La pioggia fa sul serio”. Il titolo giusto per queste giornate uggiose, adatto al clima, qui a Pavana piove da giorni. Ma il freddo non è ancora arrivato».
Basta col maresciallo Santovito?
«Santovito lo abbiamo mandato in pensione. La nuova storia è il secondo capitolo delle avventure dell’ispettore forestale Marco Gherardini, che nel paese degli Appennini dove è ambientata la vicenda tutti chiamano Poiana».
La vita di città le manca?
«Assolutamente no. Ormai vivo qui da tanti anni, le poche volte che vado a Bologna scappo via prima possibile. Ho scoperto di non sopportare più il traffico, il caos, forse anche la gente. E poi qui in paese sto bene, vita tranquilla, molti mi vengono a trovare».
L’anno scorso ha fatto una piccola vacanza nella “sua” vecchia Trieste.
«Sì, grazie a Paolo Rumiz e altri amici ho fatto un bel giro. Ho scoperto luoghi che non conoscevo, sia in città che sul Carso. Ho scoperto anche il mondo delle “osmize”, una bella tradizione che non ricordavo ai tempi della mia naja a Banne».
È passato mezzo secolo, ci pensa?
«Già, rimasi sul Carso dal gennaio all’ottobre del ’63. Ricordi indelebili. E poi quell’eskimo della canzone, comprato su una bancarella in piazza Ponterosso, prima di ritornare a casa. Bei tempi, difficile dimenticarli».
Era una Trieste molto diversa?
«Certamente sì, anche se io non conosco bene la città, i suoi problemi. Quando sono tornato, in tutti questi anni, è stato sempre o per lo spazio di un concerto, o comunque per pochi giorni, insufficienti a vivere la città. Quel che posso dire è che Trieste mi è sempre piaciuta e continua a piacermi molto. Mi piacciono le sue strade, le piazze, il mare. Mi piace il vostro modo di vivere, diciamo così, mitteleuropeo. Si avvertono la dimensione europea, il crogiuolo di razze e di culture. Ed è sempre bello vedere la gente che ama divertirsi, frequentare i caffè, le osterie».
Come le vecchie balere della sua Emilia Romagna?
«In un certo senso. Anche da noi ora quel mondo si è trasformato, ma ho ricordi piacevoli delle balere, delle feste paesane e di quelle dell’Unità. Quando insegnavo agli americani, al Dickinson College di Bologna, dicevo loro: andate alle feste dell’Unità, così capirete come sono veramente i comunisti italiani di cui avete tanta paura...».
La sua regione produce cantanti e musicisti in quantità industriale.
«Penso sia dovuto alla nostra tradizione contadina, alla gente nei campi, alle mondine che cantavano nelle ore di lavoro. E finito di lavorare c’erano le feste paesane, le sagre. Che dire: siamo individui canori, musicali, che hanno voglia di cantare e suonare. E i cantanti di oggi sono figli e nipoti di quelle tradizioni».
Al cinema la chiamano ancora?
«Qualche volta. La gente ricorda le mie parti con Pieraccioni o nel “Radiofreccia” di Ligabue, ma la mia frequentazione col cinema ha radici antiche. La prima volta da attore fu nel ’76, in “Bologna. Fantasia, ma non troppo, per violino”, di Gianfranco Mingozzi. Ma ricordo “I giorni cantati” di Paolo Pietrangeli, che inserì nella colonna sonora le mie “Eskimo” e “Canzone di notte n.2”, e poi “Musica per vecchi animali” di Stefano Benni, “Ormai è fatta” di Enzo Monteleone. E le colonne sonore, fra cui “Nené” di Salvatore Samperi».
Si divertiva?
«Ho ricordi piacevoli, ma “cum grano salis”. Mi spiego: mi piace il cinema, soprattutto da spettatore, ma farlo è molto noioso: tempi morti, ore di attesa, cambi, ripetizioni, non fa per me».
Meglio il fumetto?
«Certo, molto più vicino alle mie corde. Più compatibile con i miei ritmi di lavoro, in fondo è artigianato anche quello, come la canzone. Ho scritto alcune sceneggiature, le storie di un brigante toscano, alcune cose con l’amico Bonvi».
Sono passati quarant’anni da “Stanze di vita quotidiana”: è vero che la vicenda con Bertoncelli e “L’avvelenata” partì da quel disco?
«Sì, Riccardo Bertoncelli scrisse che ero “un artista finito, che non aveva più niente da dire”. Non faceva una critica, ovviamente più che legittima, sul disco, sulle canzoni: non si trattava insomma di un “mi piace, non mi piace”. Diceva che ero stato costretto a fare quell’album da una non meglio identificata “logica di mercato”. Allora scrissi quei versi, non volevo nemmeno pubblicare il brano, invece mi convinsero e andò come andò».
Poi vi siete chiariti?
«Sì, quasi subito. Venne a trovarmi a Bologna, ci parlammo a lungo. In tutti questi anni siamo rimasti in ottimi rapporti, magari non amiconi, ma ottimi rapporti. Tanto che per il suo recente libro dedicato al 1967 mi ha fatto una lunga intervista che conclude il volume».
Quando hanno rieletto Napolitano lei ha preso un voto in due scrutinii consecutivi.
«In realtà in uno scrutinio ne ho presi due, uno è sfuggito ai conti ufficiali, ed è stata una iattura: mi hanno spiegato che se prendi almeno due voti entri nell’annuario ufficiale del Quirinale...».
Scherzi a parte?
«Scherzi a parte mi sono fatto una bella risata. E non ho mai scoperto chi è stato il buontempone. Forse era un mio fan. Del resto anche Renzi ha detto che veniva ai miei concerti».
Dopo Napolitano meglio un politico o un uomo di cultura?
«Io mi ero già espresso a favore di Prodi, ma sembra che non sia più disponibile. Andrebbe bene anche un uomo di cultura, anche se ormai si tratta di un ruolo dai compiti sempre più politici».
Alle regionali ha votato Sel.
«Ho votato una persona che stimo, non ho cambiato bandiera. Dunque riprenderò a fare come suggeriva Montanelli ai tempi della Dc: mi turo il naso e voto Pd».
Che dunque non la entusiasma. Meglio renziani e vincenti ma lontani dalle tradizioni della sinistra o duri, puri e perdenti?
«La seconda ipotesi non mi sembra granchè piacevole».
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