mercoledì 10 dicembre 2014

PAOLO CONTE sempre SNOB ma senza i guizzi di un tempo

Quattro anni dopo “Nelson”, Paolo Conte ha sfornato un nuovo album, intitolato “Snob” (Universal). A gennaio compie settantotto anni, è in carriera dai Sessanta, prima solo come autore e subito dopo (sarà stato il ’74...) come originalissimo cantautore che miete successi anche all’estero. Chiaro che non deve più dimostrare nulla a nessuno. Quando suona a Londra il Guardian lo presenta come un mix fra Tom Waits e George Brassens, l’Observer come “maestro di un’eleganza perduta”. A Parigi è di casa all’Olympia, miete consensi a New York e Berlino, a Montreal e Amsterdam, a Madrid e Atene, insomma, ovunque. Tutti apprezzano le sue canzoni, i suoi spettacoli colti e cosmopoliti sempre in bilico fra Cotton Club e vecchia Europa, New Orleans e Langhe, Duke Ellington e Guido Gozzano, afrori esotici e lampi di passione. Arte vera, che è frutto del genio, della creatività, della fantasia di un italiano che da ragazzo sognava l’America, masticando ogni sera jazz in jam session carbonare. Tutti lo amano anche per “quella faccia un po’ così”, quella voce roca e macerata intenta a scandagliare i segreti delle nostre vite, delle nostre solitudini, del nostro mal di vivere. Il nuovo disco è ben scritto e benissimo cantato, suonato, arrangiato. Ma, va detto per onestà, non aggiunge granchè al mito autentico dell’ex avvocato astigiano. Non siamo ancora al manierismo ma poco ci manca. Intendiamoci, niente di male. Chi in qualche modo crea un genere ha tutto il diritto poi di frequentarlo per il resto dei suoi giorni e dei suoi dischi. E nessuno pretende da Paolo Conte, alla sua età e con la sua magnifica carriera, svolte stilistiche o novità. Ma si avverte il sapore del già sentito. Che poi non è nemmeno questo il problema. Si prenda “Tutti a casa”, uno degli episodi a nostro avviso più riusciti. Profuma della poetica contiana degli anni Settanta, però e forse proprio per questo brilla di una sua semplicità che ne esalta la cifra stilistica. Divertente il brano di apertura “Si sposa l’Africa”, con quel “kunta kinte” che finisce per essere più di uno scherzoso intercalare. Il resto - “Donna dal profumo di caffè” e “Tropical”, “Fandango” e “Incontro”, “L’uomo specchio” e “Maracas”, “Manuale di conversazione” e “Signorina saponetta”, la “Snob” del titolo e “Argentina”, che era stata incisa tanti anni fa da Bruno Lauzi e ricorda le scansioni della classicissima “Sudamerica”... - è il Paolo Conte che ti aspetti. Perfetto, ma senza i guizzi geniali che ce lo hanno fatto amare. Dicono che il nostro, prima di questo disco, avesse accarezzato l’idea di un ritiro “alla Guccini” per sopraggiunta e soffertissima aridità creativa. Fosse vero, si capirebbe tutto.

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