di CARLO MUSCATELLO
Lucio Dalla era un uomo innamorato del futuro. Della vita, della musica ma soprattutto del futuro. Lo si capiva parlando con lui, assistendo ai suoi concerti, ascoltando le sue canzoni. Quel verso: «E se è una femmina si chiamerà Futura...». Quei titoli: “L’anno che verrà”, “Il motore del Duemila” (del ’76, nell’album “Automobili” e nello spettacolo “Il futuro delle automobili e altre storie”), per non parlare del primo album “1999” uscito nel ’66. Non si fermava mai, certo non si sedeva sui tantissimi allori, sembrava una freccia pronta per essere scoccata verso territori sempre nuovi.
E non è un caso che l’ultimo ricordo sia di due settimane fa, sul palco del Festival di Sanremo, a far da (umile) spalla al giovane Pierdavide Carone. Con il quale aveva scritto e prodotto “Nanì”, accompagnandolo all’Ariston come direttore d’orchestra e seconda voce.
Dopodomani l’artista avrebbe compiuto sessantanove anni. Già: Bologna, 4 marzo 1943. Una data, un titolo di una delle sue canzoni più famose. Un altro Sanremo, stavolta del ’71, basco in testa e barba nera, ad affrontare le censure dell’epoca. Il verso “per i ladri e le puttane” divenne “per la gente del porto”, il titolo originario “Gesù bambino” fu considerato irrispettoso, cambiare cambiare, altrimenti la Rai non l’avrebbe mandato in onda... Ma la gente era già allora più avanti dei suoi governanti: la canzone, testo della poetessa Paola Pallottino, arrivò terza.
Che vita, che carriera quella del piccolo grande Lucio. Esordi come clarinettista e sassofonista jazz, nella Bologna povera ma pulita del dopoguerra. Incrocia Chet Baker, suona con la Rheno Dixieland Band, di cui fa parte anche il futuro regista Pupi Avati. Approda a Roma, fa parte dei complessi (allora si chiamavano così) Flippers e Idoli, nel ’64 esce il primo 45 giri: “Lei (non è per me)” - scritta da Gino Paoli e portata senza successo al Cantagiro - e “Ma questa sera” (cover di “Hey little girl” di Curtis Mayfield).
L’ambiente della Rca è una fucina di talenti, affidati alla cura di discografici attenti e illuminati. C’è anche un’etichetta per giovani virgulti, per la musica e i personaggi nuovi che cominciano ad affermarsi: è la Arc, per la quale nel ’66 esce anche il suo citato primo album.
Nello stesso anno lo mandano a Sanremo. Canta “Paff bum”, in coppia nientemeno che con gli Yardbirds (Eric Clapton, Jeff Beck, Jimmy Page: roba da non credere...), presentati da Mike Bongiorno come “I gallinacci”, traduzione più o meno letterale del nome. Torna al Festival nel ’67, l’anno del suicidio di Luigi Tenco: lui canta con i Rokes “Bisogna saper perdere”, sembra fatto apposta, ma è solo uno scherzo di un destino tragico.
Ma a Lucio le canzonette vanno decisamente strette. E’ un tipo che non sta mai fermo. Al cinema lo vediamo nei cosiddetti “musicarelli” ma anche in un film dei fratelli Taviani, “I sovversivi”, dove guadagna una candidatura come miglior attore alla Mostra di Venezia. Il secondo album s’intitola “Terra di Gaibola” (un sobborgo di Bologna), il terzo Sanremo è quello di “4 marzo ’43”, il cui successo arriva persino da oltreoceano, in Sudamerica, con la versione di Chico Buarque de Hollanda.
Dalla vuole altro. E di più. Comincia a collaborare con il poeta bolognese Roberto Roversi. Con lui scrive, fra il ’73 e il ’76, tre album: “Il giorno aveva cinque teste”, “Anidride solforosa” e “Automobili” (con il brano “Nuvolari”), da cui poi viene tratto lo spettacolo “Il futuro delle automobili e altre storie”.
Fino a quel momento era stato musicista e interprete. Dopo la collaborazione con Roversi, diventa un cantautore. E riconosce: «Da lui ho imparato tanto, rimane un mio forte punto di riferimento culturale. Mi ha insegnato la disciplina della scrittura. Dopo quella collaborazione mi sentii davvero pronto. Lui mi fece scoprire un mondo diverso da quello che conoscevo».
Gli album “Com’è profondo il mare” (’77) e “Lucio Dalla” (’78) consegnano alla canzone italiana un nuovo, grande protagonista. Collabora con Ron e con gli Stadio. L’accoppiata con Francesco De Gregori (altro artista che lo influenzò nella sua trasformazione), nel tour del ’79 dal titolo “Banana Republic”, fa il resto.
I trent’anni successivi hanno lasciato a referto dischi e tour di successo (uno con l’amico Gianni Morandi), punteggiati da autentici capolavori: “Anna e Marco”, “Balla balla ballerino”, “Cara”, “La sera dei miracoli”, “Washington”, “Ayrton”, mille altri, fino all’inarrivabile “Caruso”.
Ma lui non si accontenta ancora. Fonda una sua etichetta (“Pressing”), fa il talent scout, compone musiche da film, realizza programmi tv, dipinge, fa il gallerista, si cimenta con la lirica e la classica. Fino all’ultima, defilata apparizione a Sanremo.
Cattolico e “comunista” (quando esisteva il Pci), Lucio Dalla non ha mai nascosto la sua omosessualità. La calvizie invece l’ha camuffata sempre e comunque, con berretti, baschi, cappelli e copricapi di tutte le fogge. Negli ultimi anni persino con un autoironico parrucchino dal colore decisamente improbabile per un uomo della sua età.
Amava il mare (casa e barca alle Tremiti) e non aveva paura della morte. Di cui diceva: «La morte non è un problema, è solo l’inizio del secondo tempo». Buona ripresa, allora, piccolo grande Lucio.
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