giovedì 14 agosto 2014

JIMI HENDRIX, quei quattro anni che rivoluzionarono il rock

«Alla mia morte ci sarà una jam session, puoi giurarci. Voglio che tutti diano il massimo e si sballino. E conoscendomi, finirò per cacciarmi nei guai al mio stesso funerale...». Così scriveva Jimi Hendrix pochi mesi prima di morire, pervaso quasi da un oscuro presagio. Il 18 settembre saranno passati quarantaquattro anni dalla sua morte, ma si parla ancora di lui: la leggenda costruita in pochi anni di carriera da colui che non solo la rivista Rolling Stone considera “il più grande chitarrista di tutti i tempi” (meglio di Eric Clapton, più di Jimmy Page...) non accenna a sbiadire. Capita agli eroi morti giovani, fotografati nell’immaginario collettivo nelle fattezze che avevano da ragazzi. Jimi aveva infatti appena ventisette anni, quando se ne andò troppo presto, bruciato dalla sua fretta di vivere, dopo aver rivoluzionato il rock e l’arte di suonare la chitarra elettrica. Si riparla di lui per un libro, “Zero - La mia storia” (Einaudi, pagg. 255, euro 22). Ma anche per lo storico accordo fra la famiglia Hendrix e la Sony (per la precisione: la Legacy Recordings, divisione catalogo di Sony Music Entertainment) che hanno acquisito i diritti sulle 88 registrazioni in studio e dal vivo di Curtis Knight & The Squires con Jimi Hendrix effettuate tra gli anni ’65-’67, un tempo detenuti da Ppx Enterprises e Ed Chalpin. Il libro è una sorta di autobiografia post mortem, resa possibile dal lavoro del produttore cinematografico e musicale Alan Douglas e del documentarista Peter Neal, che hanno selezionato e messo in fila, cronologicamente, tutti gli scritti di Hendrix che hanno trovato: lettere ai fan, cartoline spedite ai familiari, stralci di interviste, frasi scritte su pacchetti di sigarette o tovaglioli, discorsi fatti dai palchi dei suoi concerti, testi delle sue canzoni. Un materiale solo apparentemente eterogeneo, che ha come minimo comun denominatore la visione della vita e della musica del chitarrista mancino. Che dice: «Quando salgo sul palco e canto, quella è tutta la mia vita. La mia religione. Io sono la religione elettrica...». Il libro - spiegano i curatori - «è opera di Jimi Hendrix a tutti gli effetti. È merito suo che amava parlare di sé con sensibilità, candore e ironia». Niente di sostanziale è stato cambiato, nessuna parola è stata aggiunta, nessun concetto modificato. Fra le pagine scorre la sua storia, proprio come l’avrebbe potuta raccontare lui stesso se ne avesse avuto il tempo. E se non fosse entrato nel terribile “club 27”, quello dell’età maledetta, che ha segnato il capolinea - oltre per per lui - per Brian Jones, Janis Joplin e Jim Morrison, morti tutti tra il ’69 e il ’71. E in tempi più recenti anche per Kurt Cobain e Amy Winehouse. James Marshall Hendrix, per tutti solo Jimi Hendrix, racconta allora della sua infanzia passata tra Seattle, dove era nato il 27 novembre 1942, e la riserva indiana di Vancouver, dove viveva la nonna materna per metà Cherokee. La passione per la musica, che nemmeno i mesi nell’esercito per evitare la galera riesce a pacare. Diceva: «Non me ne fregava di niente, solo della musica». Molla allora lo zio Sam, non ha nemmeno i soldi per tornare a casa, allora comincia a girare per gli States: gli stati del Sud, New York, Kansas City, Los Angeles, di nuovo New York, passando da un lavoro all’altro, dunque da una band all’altra. Gli capita di incontrare Little Richards, Bob Dylan, Mick Jagger, Eric Clapton, i Beatles. Nel ’66 parte per l’Europa, è la svolta. In Inghilterra fonda Jimi Hendrix Experience: prime incisioni, i dischi, i concerti. È l’inizio di quei quattro anni che, oltre a rappresentare la sua breve ma fulminante carriera, anche grazie a lui cambiano la storia della musica contemporanea. La citazione ripresa all’inizio prosegue così: «(al mio funerale) ...non voglio canzoni dei Beatles, ma qualche pezzo di Eddie Cochram e parecchio blues. Roland Kirk verrà di certo, e farò di tutto perchè non manchi Miles Davis. Per una cosa così varrebbe quasi la pena morire. Solo per il funerale. È strano il modo in cui la gente dimostra il proprio amore per chi muore. Devi morire prima che ti riconoscano qualcosa. Una volta morto, sei pronto per la vita. Quando non ci sarò più non smettete di metter su i miei dischi...». Un anno prima di morire, Jimi Hendrix celebrò se stesso a Woodstock. Il suo turno arrivò all’alba del 19 agosto 1969. In due ore di concerto l’artista introdusse per la prima volta la sua nuova - e purtroppo ultima - band, lanciata in una scaletta ricca di classici come “Voodoo child” e “Fire”, “Purple Haze” e “Foxy Lady”. Anche se di quella visionaria esibizione rimane soprattutto la versione straniata e straniante dell’inno nazionale statunitense, “Star Spangled Banner”. Era l’alba di lunedì, a chiusura della tre giorni di pace, amore e musica. Hendrix aveva insistito per essere l’ultimo a esibirsi. E lo fece davanti a “sole” 200mila persone, visto che altre 300mila erano già ripartite. Ma si diceva anche dell’accordo sulle vecchie registrazioni del biennio ’65-’67. L’acquisizione delle quali pone fine ad anni di controversie tra la società degli eredi Hendrix e i precedenti proprietari dei diritti. Anche questa è una storia che merita di essere raccontata. Nei primi anni Sessanta, ventenne, Jimi era un musicista semisconosciuto, lavorava per brevi periodi, con una varietà di artisti tra cui i fratelli Isley, Don Covay, Little Richard e Curtis Knight & The Squires. Ed Chalpin era invece un imprenditore e produttore discografico, che nel ’60 aveva fondato la Ppx International Inc, una piccola società specializzata nella fornitura di basi per film, spettacoli televisivi, trailer e spot. Nel ’65 Chalpin fa firmare un contratto capestro a Hendrix, che di lì a poco diventa una star anche grazie a Chas Chandler, bassista degli Animal, che lo porta a Londra con tutto quel che ne consegue. Quando il chitarrista fa il botto, Chandler cerca e acquisisce tutti i contratti che l’ex turnista sconosciuto aveva in sospeso. Riesce nel suo intento, con l’unica eccezione proprio dell’accordo di Hendrix con Chalpin e la sua Ppx. Seguono anni, anzi, decenni di battaglie legali, fino al recente e risolutivo accordo. Le 88 registrazioni includono la performance del 26 dicembre 1965 al “George’s Club 20” di Hackensack, New Jersey, e brani in studio con Curtis Knight & The Squires del luglio ’67. Pare che i nuovi proprietari pubblicheranno nei prossimi tre anni queste registrazioni storiche - opportunamente mixate e rimasterizzate - in nuove edizioni curate da Eddie Kramer, a lungo tecnico del suono di Hendrix.

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