venerdì 31 ottobre 2014

BAGLIONI 7-11 al PalaTrieste / intervista

«Poche città hanno vissuto e conoscono il tema dell’integrazione, del rapporto con l’altro come Trieste, una delle grandi porte tra Europa ed Est. Una tra le capitali europee dell’incontro tra culture. Una città che sa perfettamente - come scrive Claudio Magris - che “ogni diversità arricchisce, perché si cresce uscendo da se stessi e incontrando gli altri”...». Claudio Baglioni torna a Trieste, venerdì 7 novembre al PalaTrieste, nell’ambito della ripresa autunnale del “Con voi ReTour”. Ha voglia di parlare, di raccontare, di emozionare. Come fa da (quasi) mezzo secolo. «Trieste - prosegue il cantautore romano, classe 1951 -, proprio come Magris, sa anche che la diversità diventa “retorica truffaldina” se la si invoca per eludere i conflitti che possono derivare dal contatto fra culture diverse. La penso così anch’io». Per anni he organizzato O’scià nella “sua” Lampedusa... «Negli ultimi dieci anni abbiamo chiesto che la politica faccia la propria parte, ma non in termini strumentali o di propaganda elettorale. E il problema non è solo italiano, ma europeo, e deve essere affrontato e risolto a livello europeo. Se non, addirittura, dall’intero Occidente». L’isola? La sua gente? «È uno degli angoli più belli del mondo. Io sono un appassionato di mare e di mari ne ho visti tanti e bellissimi. Ma quello di Lampedusa è uno tra i più belli in assoluto. Mi piacerebbe che fosse conosciuta e amata per questo, oltre che per l’umanità straordinaria della sua gente, che da anni dà una grande lezione di civiltà, solidarietà e umanità a tutto il pianeta. Invece se ne parla - e male - solo per il dramma delle morti in mare e il problema dell’immigrazione. Se ne parla ma si fa pochissimo». Musica. Come si fa a rimanere ad altissimi livelli? «Non so se ci sia un segreto, ci sono cose inspiegabili e il successo è una di queste. Ma è vero che mantenerlo è più difficile che raggiungerlo. Se un segreto c’è, è l’autenticità. L’onestà intellettuale di non mentire a se stessi, né agli altri. Dicendo ciò che si ha dentro - ciò che si avverte il bisogno o l’urgenza di dire - e cercando di dirlo nella maniera migliore possibile». Facile con le canzoni? «La canzone è un’arte povera e breve, che però dà molto e alla quale siamo abituati a chiedere molto. Le chiediamo di emozionarci e farci sognare, ma anche riflettere: compiti non facili. La responsabilità di chi scrive, dunque, non è piccola. Richiede di scandagliare a fondo dentro se stessi, per trovare le parole che non fanno rimpiangere il silenzio. Bisogna lavorare seriamente, con passione e professionalità, «Poche città hanno vissuto e conoscono il tema dell’integrazione, del rapporto con l’altro come Trieste, una delle grandi porte tra Europa ed Est. Una tra le capitali europee dell’incontro tra culture. Una città che sa perfettamente - come scrive Claudio Magris - che “ogni diversità arricchisce, perché si cresce uscendo da se stessi e incontrando gli altri”...». Claudio Baglioni torna a Trieste, venerdì 7 novembre al PalaTrieste, nell’ambito della ripresa autunnale del “Con voi ReTour”. Ha voglia di parlare, di raccontare, di emozionare. Come fa da (quasi) mezzo secolo. «Trieste - prosegue il cantautore romano, classe 1951 -, proprio come Magris, sa anche che la diversità diventa “retorica truffaldina” se la si invoca per eludere i conflitti che possono derivare dal contatto fra culture diverse. La penso così anch’io». Per anni he organizzato O’scià nella “sua” Lampedusa... «Negli ultimi dieci anni abbiamo chiesto che la politica faccia la propria parte, ma non in termini strumentali o di propaganda elettorale. E il problema non è solo italiano, ma europeo, e deve essere affrontato e risolto a livello europeo. Se non, addirittura, dall’intero Occidente». L’isola? La sua gente? «È uno degli angoli più belli del mondo. Io sono un appassionato di mare e di mari ne ho visti tanti e bellissimi. Ma quello di Lampedusa è uno tra i più belli in assoluto. Mi piacerebbe che fosse conosciuta e amata per questo, oltre che per l’umanità straordinaria della sua gente, che da anni dà una grande lezione di civiltà, solidarietà e umanità a tutto il pianeta. Invece se ne parla - e male - solo per il dramma delle morti in mare e il problema dell’immigrazione. Se ne parla ma si fa pochissimo». Musica. Come si fa a rimanere ad altissimi livelli? «Non so se ci sia un segreto, ci sono cose inspiegabili e il successo è una di queste. Ma è vero che mantenerlo è più difficile che raggiungerlo. Se un segreto c’è, è l’autenticità. L’onestà intellettuale di non mentire a se stessi, né agli altri. Dicendo ciò che si ha dentro - ciò che si avverte il bisogno o l’urgenza di dire - e cercando di dirlo nella maniera migliore possibile». Facile con le canzoni? «La canzone è un’arte povera e breve, che però dà molto e alla quale siamo abituati a chiedere molto. Le chiediamo di emozionarci e farci sognare, ma anche riflettere: compiti non facili. La responsabilità di chi scrive, dunque, non è piccola. Richiede di scandagliare a fondo dentro se stessi, per trovare le parole che non fanno rimpiangere il silenzio. Bisogna lavorare seriamente, con passione e professionalità, per mettere la canzone nella condizione di arrivare dove deve arrivare e depositare i suoi semi in anime, coscienze e cuori. Come far fruttare quei semi, poi, spetta a chi ascolta». Per lei è tempo di bilanci? «I bilanci si fanno tutte le sere e si rifanno tutte le mattine. Ma non è un peso: è un sano allenamento che aiuta a mantenere lucidità ed equilibrio. La lucidità per capire chi siamo e dove vogliamo andare, l'equilibrio necessario a fare le scelte giuste e percorrere la strada scelta. Ciò non significa rinunciare a guardare avanti, a darsi nuovi obiettivi. Al contrario: i bilanci servono per affrontare al meglio i nuovi obiettivi. Ci dicono di quante energie disponiamo, quante ce ne servono per superare il prossimo ostacolo e dove trovarle». La sua prossima sfida? «Tabucchi scriveva che si muore quando non si sogna abbastanza. È il futuro l’alimento principale del presente, al quale nessuno può rinunciare. Se togliessimo il futuro dalla nostra dieta, moriremmo. La parola sfida deriva da “disfidare” che significa “sfidare a duello”. Noi sfidiamo a duello la quotidianità, per arrivare là dove sentiamo il bisogno di arrivare. A questo servono le mete: a fare in modo che ci mettiamo in cammino. Solo così eviteremo di perderci tutto ciò che merita di essere incontrato lungo la strada della vita, che è una strada che non ha mai smesso di sorprendere nessuno». Le pesa cantare le stesse canzoni? «C’è stato un momento nel quale mi ha pesato. E molto. Non a caso per anni ho cercato di cambiar pelle ai miei pezzi. Ho cambiato gli arrangiamenti, stravolto l’armonia, qualche volta ho modificato persino le melodie. Avevo bisogno che le canzoni suonassero diverse e nuove. Per me ma anche per chi veniva ad ascoltarmi. È un’esigenza comune a molti musicisti». E i nuovi dischi? «Quando esce un nuovo disco, per chi lo ascolta per la prima volta è nuovo, ma per chi ha passato anni a scrivere le canzoni e mesi in studio di registrazione a perfezionarle, di nuovo rimane poco. E il rischio è che uno si trovi con la testa più avanti del punto nel quale il disco lo ritrae. Il disco è una fotografia: fissa un momento. Ma le idee - come la vita - non si possono fermare: vanno avanti, sempre. Cambiano e gli artisti cambiano con loro». Di chi sono le canzoni? «Una volta realizzate, non ci appartengono più. Sono di chi le ascolta. E chi le ascolta spesso le ama per come le ha sentite la prima volta. Ho capito che, se il pubblico le ama per quel che sono, significa che non sono poi così male. E così ho imparato a “riamarle” anch’io. Ho capito che una canzone non ha bisogno di cambiare nella forma per assumere nuovi significati, valori, energie, perché siamo noi a renderla diversa ogni volta che la riascoltiamo. Lo stesso vale per chi la interpreta». Questo tour? «Ho cercato di raccogliere alcuni passaggi rappresentativi del mio universo musicale e “riportarli a legno”, per ritrovare il senso autentico di quelle canzoni e cercare di ripercorrere, con chi ascolta, le tappe fondamentali di questa lunga strada fatta insieme». Quella sorta di cantiere sul palco? «Un messaggio semplice: ricostruire si può, ma bisogna farlo insieme, “ConVoi”, appunto. Il cantiere è il simbolo di un luogo nel quale si lavora per costruire assieme qualcosa di grande, bello e importante per tutti». Costruire cosa? «Noi stessi, innanzitutto. La prima rivoluzione è quella interiore. Se diventiamo persone migliori, la realtà migliorerà insieme a noi. E se riusciremo a “scambiarci il meglio” - dare il meglio di noi stessi agli altri e prendere il meglio che gli altri ci possono dare -, allora tutto sarà migliore. Il mondo è quel che costruiamo assieme, il futuro è una strada che si lastrica sotto i nostri piedi: se seminiamo bellezza, raccoglieremo bellezza. Il mio cantiere è qui per suggerirlo, senza retorica e senza la pretesa di dispensare verità. Diciamo: venite, rimbocchiamoci le maniche e diamoci da fare. Insieme ce la possiamo fare». Quel suo simbolico caschetto? «Serve a proteggerci dai rischi che ci sono in ogni cantiere. Costruire è un’attività che prevede sempre qualche rischio, ma questo non ci deve spaventare, né ci deve impedire di metterci a lavorare per realizzare ciò che sentiamo di dover realizzare. Il caschetto è l’assicurazione sul futuro: ci protegge e ci fa arrivare sani e salvi alla fine. Quel che conta è ciò che troveremo. Che sarà ciò che avremo costruito insieme». Il suo rapporto con i fan? «Negli anni è cresciuto. Sono cresciuti loro, sono cresciuto io. Quando si ha la fortuna di fare un così lungo tratto di strada fianco a fianco, si ha l’opportunità di conoscersi e scambiarsi sguardi, gesti, emozioni e pensieri. È uno scambio che arricchisce e rende migliori. Io non sono quel che ero quarant’anni fa, lo stesso vale per chi mi segue. Io dò tutto quel che ho, rischiando sempre l’intera posta e non nascondendo mai nulla nelle tasche del cuore». Quest’Italia? «Si vive divaricati tra la consapevolezza che questo è il Paese più bello del mondo e il dolore che dà vederlo ferito, disamorato, stanco e sfiduciato. Se guardo al passato, non è il primo periodo difficile che viviamo». Pensa ai suoi genitori? «Si sono trasferiti a Roma dalla campagna umbra subito dopo la guerra e non hanno certo trovato uno scenario migliore di quello odierno. Ma avevano una certezza: che il loro futuro sarebbe stato migliore del loro presente. Ed è stato così, anche perché hanno plasmato quel futuro con le loro mani». I ragazzi di oggi? «Questa è la prima generazione convinta che il futuro sarà peggiore del presente. Una generazione alla quale viene impedito di dar forma al proprio futuro. Occorre scardinare questa convinzione e rimettere in moto la fiducia, ma bisogna “liberare le mani” della generazione giovane. Le energie ci sono, le intelligenze e le idee anche e non mancano nemmeno le volontà: tutto quello che bisogna fare è aprire le porte e mettere in circolo questo patrimonio gigantesco. I frutti verranno. E saranno sorprendenti». Lei rifarebbe tutto? «Tutto, davvero. Ma con la speranza di farlo ancora un po’ meglio di così...».

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