domenica 2 novembre 2014

GILBERTO GIL, RIVOLUZIONARIO TROPICALISTA, successo a trieste

A volte bastano una voce e una chitarra, se la voce e la chitarra sono di un signore di nome Gilberto Gil. Sale sul palco del Rossetti pochi minuti dopo le ventuno. Camicia azzurra e pantaloni blu, sorride e ringrazia il pubblico per il primo di una lunga serie di applausi. E attacca con "Palco". A guardarlo ora, capelli corti e grigi al posto dei dreadlock che aveva anni fa, è difficile pensare a lui come a un rivoluzionario. Eppure quel signore di settantadue anni, elegante e dall’espressione divertita, il cui “Solo Tour 2014” dopo la tappa di ieri a Trieste si conclude giovedì a Padova, un vero rivoluzionario è stato, in tutto e per tutto simile a quelli che in ogni tempo e luogo scendono in piazza a lottare per i diritti e la libertà. A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, con il collega e amico fraterno Caetano Veloso, dopo essersi opposto alla dittatura che strozzava il suo Brasile con la forza delle parole, della musica e della cultura (il loro movimento si chiamava Tropicalismo, il Sessantotto carioca), fu addirittura costretto all’esilio. I due vennero in Europa, a Londra, dove la loro musica divenne più internazionale, e al ritorno in patria furono accolti come degli eroi popolari, oltre che simboli della nuova musica brasiliana. Tanti anni dopo, nel 2003, Gil fu chiamato dal presidente Lula, figlio di operai ed ex sindacalista, a fare il ministro della Cultura in un paese tornato alla democrazia. Ecco, bisogna aver ben chiare queste cose, per comprendere e godere appieno dello spettacolo. Che è un viaggio acustico, in compagnia soltanto delle sue chitarre, nella sua vicenda musicale cominciata oltre mezzo secolo fa a Salvador de Bahia e al tempo stesso nella storia meticciata della musica popolare brasiliana (che è «la musica del Brasile ma anche di tutto il mondo...», aveva detto l’artista venerdì sera, nell’incontro svolto nel piccolo e stipatissimo auditorium della Casa della musica), partendo dalle radici folk di Rio e Bahia, approdando ai primi vagiti della bossa nova, quel mix di samba e jazz che ha caratterizzato il periodo d'oro della musica brasiliana, senza ovviamente dimenticare le suggestioni “tropicaliste”. Approccio intimista e minimalista, per certi versi struggente, proprio come fra i solchi (ops, i solchi non ci sono più, nella musica liquida dei tempi digitali contemporanei...) del suo recente album “Gilbertos sambas”, omaggio al suo maestro e anche lui gran rivoluzionario João Gilberto (l’ambivalente titolo è il nome dell’uno ma anche il cognome dell’altro...). Che ripropone dal vivo, assieme ai classici di una carriera da incornicare, in questo tour nato come un viaggio con la moglie Flora (presente in sala, cui dedica la canzone omonima) nella bellezza e nella cultura di alcune città europee. Grande e carismatica presenza scenica, padronanza assoluta delle proprie meravigliose corde vocali, tecnica chitarristica consolidata. «Ascoltare Gil che suona João – non a caso scrive nelle note di copertina del disco Caetano Veloso – significa entrare in contatto con l’avventura stessa della nostra musica e della nostra vita». Autorevole notazione confermata anche dal vivo. A Trieste canta “Aos pés da cruz” e “Aquele abraco", la messicana "Tres palavras" e "Desafinado", "Io che non vivo" di Pino Donaggio e "No woman no cry" di Bob Marley, in una scaletta molto ricca. Accoglienza trionfale, con tanti brasiliani (bravissimi nei cori...) in platea: atmosfera rilassata e festosa ma al tempo stesso intrisa di quella "saudade" senza la quale il Brasile non è Brasile. Perlomeno a migliaia di chilometri da casa.

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