martedì 26 dicembre 2006

MORTO JAMES BROWN

Padrino del soul, Mister Dynamite, Sex machine... Tante definizioni per una leggenda sola, quella di James Brown, morto per una polmonite in un ospedale di Atlanta nella notte di Natale. Aveva 73 anni. Due anni fa aveva annunciato di essere malato di cancro alla prostrata, ultima magagna di una vita vissuta pericolosamente, fra eccessi e vizi e problemi di ogni tipo. Ma quando parliamo di lui - che l’estate scorsa si era anche esibito per l’ultima volta nella nostra regione, al Castello di Udine - parliamo di una pietra miliare, un rivoluzionario che ha segnato la storia della musica nera del secolo scorso. Dal ’56 - anno del primo successo - a oggi, ha pubblicato un’ottantina di album e inanellato qualche decina di hit. Recarsi a vedere un suo concerto è sempre stato come andare a lezione di soul.

Era nato nel maggio 1933 (ma sulla sua età è sempre regnato un po’ di mistero: secondo alcune biografie era del ’28) a Barnwell, nella campagna della Carolina del Sud, da una famiglia poverissima. Infanzia difficile, difficilissima. A sei anni cresceva in un bordello di Augusta, in Georgia. Per pagarsi l’affitto lavorarava come lustrascarpe e nelle piantagioni di cotone. A otto anni prova a rubare un’automobile e finisce in riformatorio. Per lui è quasi una salvezza, perchè è lì che conosce Bobby Bird ed entra nel suo gruppo di gospel.

La musica diventa la sua ragione di vita. Nel ’52, a diciannove anni, fonda il suo primo gruppo, The Flames. Nel ’56 scrive «Please, please, please». E fa il botto: diventa James Brown. Altri successi. Nel ’62 registra dal vivo, nel tempio della musica nera dell'Apollo Theatre ad Harlem, un album diventato un vero e proprio culto.

I neri lo amano. I bianchi pure. Perchè sa trasformare il gospel in rhythm’n’blues, creando un genere soul del tutto originale, chiamato funk e caratterizzato dai ritmi incalzanti. È uno che fa scuola anche sul palcoscenico, con la sua fisicità dirompente, che influenzerà successivamente cantanti del calibro di Mick Jagger e Iggy Pop, Michael Jackson e Prince.

Nel ’64 «Out of sight» scala le classifiche. L'anno successivo «Papa's got a brand new bag» e «I got you (I feel good)» consolidano la sua carriera. Nello stesso anno viene pubblicato il singolo «It's a man man's world» e James Brown diventa «Soul Brother n.1» per il movimento dei diritti dei neri Black Power.

Nel frattempo diventa anche un fenomeno mondiale, in grado di infilare 350 serate all'anno e trasformandosi, con la ricchezza, in un esempio di «capitalista nero». Apre ristoranti e negozi ed esorta i suoi concittadini di colore a vivere l’american dream, il sogno americano. È lui che, quando ammazzano Martin Luther King, invita la popolazione di colore alla calma. E il presidente Johnson lo ringrazia. Dopo quegli eventi, regala agli afroamericani il loro inno «Say it loud - I'm black and I'm proud».

Negli anni Settanta è ancora grande protagonista con ben otto album di successo: dopo una serie di dieci canzoni che lo proiettano ogni volta in classifica, James Brown viene consacrato come «The godfather of soul», il padrino del soul. Negli anni Ottanta il nostro diviene anche un volto cinematografico, interpretando il ruolo del predicatore nel leggendario film «Blues Brothers», di John Landis, con John Belushi e Dan Aykroyd. E sempre al cinema si esibisce anche in «Rocky IV», il film con Sylvester Stallone, con il brano «Living in America».

Più recentemente, in uno dei tanti «Pavarotti & Friends», duetta anche con Luciano Pavarotti nel brano «It's a man man's world». E il pubblico pare non aspettare altro per esplodere...

Poi c’è il capitolo eccessi e vizi. Quelli a causa dei quali Mister Dynamite diventava spesso, soprattutto negli ultimi anni, protagonista di fatti di cronaca nera: cose di droga, di violenza, di gesti folli, di galera... Chissà, situazioni forse causate da un artista che non riusciva a confrontarsi con gli anni che passano, con la fama artistica che si appanna, con il declino fisico e creativo. Fino alla notte di Natale del 2006 che se l’è portato via, lasciandoci però il suo ruolo da gigante nella musica del Novecento.

Anche il presidente Bush ha diffuso una nota di cordoglio. E il reverendo Jesse Jackson ha detto: «James Brown è morto come una stella di Natale. Solo una stella può morire a Natale...».

giovedì 14 dicembre 2006

GORIZIA Il nuovo album di Caparezza - che domani alle 21 canta al Teatro Verdi di Gorizia - si apre con la stessa frase con cui si chiudeva il disco precedente: «Mamma quanti dischi venderanno se mi spengo...».

«Sono ripartito da quella frase - spiega il rapper-cantautore pugliese, che all’anagrafe di Molfetta si chiama Michele Salvemini - per imbastire tutto il discorso. ”Habemus Capa” parte dalla finzione della mia morte, per prendermi la libertà di raccontare le mie cose senza dover mettermi in prima persona. Non è sicuramente una novità, visto che tanto artisti hanno finto di essere morti. Ma è un artificio teatrale con cui ho provato a giocare...».

Cosa voleva dire, nascondendosi dietro questo artificio?

«Tutte le mie canzoni sono ispirate alle cose che vivo. E io ho la fortuna - o la sfortuna, a seconda dei punti di vista - di vivere in un tempo che ha tante cose da raccontare...».

Il disco è uscito ad aprile. In questi mesi cosa avrebbe voluto raccontare?

«Tante cose. Tanti spunti da sfruttare. Dalla storia dei brogli alle elezioni a quella dei servizi segreti, fino al fatto che tutti i tg hanno dato per prima notizia lo svenimento di un ex premier mentre tacciono sul genocidio del Darfur...».

Le canzoni non parlano spesso di questi temi. Anzi, non ne parlano proprio...

«Il problema è che non ne parlano nemmeno i giornali. Tutto quello che riguarda l’Africa, il terzo mondo, nei nostri giornali e nei nostri notiziari o viene liquidato in poche righe o non esce proprio. Si preferiscono gli affari delle famiglie reali o altre facezie di questo tipo...».

Cosa la indigna?

«La superficialità con cui si accetta tutto quel che avviene. Manca la voglia di essere contemporanei, di essere parte di questo mondo. Si preferisce essere consumati da questi tempi, da questo mondo dominato appunto dal consumismo, dal denaro, dall’apparenza».

Nella sua Puglia questi tempi che spunti le danno?

«La mia regione, come altre del Sud, è purtroppo dominata dalla malavita. C’è un’immagine della Puglia come regione ricca, soprattutto se messa a confronto con le altre regioni del Sud. Ma si pensi soltanto allo sfruttamento degli immigrati che raccolgono i pomodori: un dramma denunciato da un’inchiesta dell’Espresso...».

Caparezza, ma è vero che ha fatto baruffa anche con la sua casa discografica?

«No, il fatto è che per loro il mio album, uscito ad aprile, è ormai morto e sepolto. Per questo, dopo averne tratto tre singoli, erano contrari a finanziare l’uscita del quarto e soprattutto la realizzazione del quarto videoclip...».

E lei che ha fatto?

«Il quarto singolo esce lo stesso. È ”The Auditel Family”. E il video me lo autoproduco...».

Arrabbiato?

«No, anzi. Del resto dovevo aspettarmelo: essendo io morto nella finzione delle canzoni, anche il mio album è morto. Almeno per la mia casa discografica. Invece io penso che un disco, proprio come un libro, è una testimonianza che può durare anche un anno, o molto di più, nel caso delle opere di valore...».

Ma il disco nuovo quando esce?

«C’è tempo. Ora sono in tour fino a marzo. Poi si vedrà. Penso verso la fine dell’anno prossimo...».

martedì 12 dicembre 2006

Un nuovo modello di città a volte parte da piccole grandi cose. Per esempio da un gruppo di mamme che cura un giardino pubblico, che affianca l’ente pubblico in un’azione di recupero di uno spazio verde, che organizza attività ricreative e culturali. E fa rivivere, così, un pezzo di città. È la storia del giardino triestino di via San Michele, sotto San Giusto.
E dell’associazione AnDanDes: un nome che deriva dal verso di una filastrocca, duecento soci e una combattiva presidente, l’argentina di Trieste Laura Flores. Un lavoro cominciato da sei anni, regolamentato nell’aprile scorso con tanto di concessione triennale, che scade per l’appunto nel 2009.

Oggi questa esperienza è portata ad esempio a livello nazionale, con l’inserimento nel volume «Buone pratiche e servizi innovativi per la famiglia», curato da Pierpaolo Donati e Riccardo Prandini per l’Osservatorio nazionale sulla famiglia ed edito da Franco Angeli.

«Come molte altre città - scrive nel suo intervento Daniele Ventura, dottorando in sociologia all’università di Bologna - Trieste viveva da alcuni anni il problema dell’abbandono degli spazi verdi. Questo fatto aumentava per le famiglie che rimanevano nel contesto urbano il rischio di isolamento e la difficoltà di spazi per il gioco per i propri bambini. Nella zona di Cittavecchia l’associazione di madri AnDanDes aveva cominciato a sperimentare un’azione di recupero di uno spazio verde per trasformarlo in un’area di gioco libero e successivamente, nel periodo estivo, in uno spazio di gioco, accudimento e cura organizzati, gestito dalle socie, da volontari, artisti e membri di altri organismi del privato sociale».

AnDanDes, segnala ancora Ventura, ha raggiunto negli anni, con l’appoggio delle istituzioni comunali, «risultati molto positivi sia per il recupero dell’area sia per la promozione della socialità e della partecipazione alla cura dell’infanzia. Il progetto è continuato a crescere (e tuttora è in fase di espansione) fino ad arrivare alla progettazione e costruzione di uno spazio strutturato, attivo per tutto l’anno, che interessa sia il gioco organizzato per bambini piccoli che forme di azione, sostegno, socializzazione per le madri e in generale per i genitori».

Nel volume si registra inoltre come il Comune di Trieste, «colpito positivamente dalla capacità di fare animazione coinvolgendo la cittadinanza in progetti di educazione, accudimento e cura per l’infanzia», abbia negli ultimi anni recepito l’esperienza, valutando anche la possibilità di diffusione della stessa sul territorio cittadino, con il coinvolgimento di altri organismi e strutture.

Fin qui il libro, che porta ad esempio l’esperienza triestina ma ovviamente ignora le recenti difficoltà che essa sta attraversando. Nelle pagine di cronaca del nostro giornale i lettori sono infatti già stati informati, negli ultimi mesi, dei ripetuti atti vandalici che il giardino di via San Michele ha subito. E poi, anche negli ultimi giorni, delle incomprensioni fra l’associazione e il Comune.

«In tutti questi anni - sottolinea Laura Flores, argentina trapiantata a Trieste, dove è arrivata per la prima volta nell’89, attirata come tanti dalla rivoluzione psichiatrica di Franco Basaglia - abbiamo avuto sempre un ottimo rapporto con l’amministrazione comunale. E vogliamo continuare ad averlo, convinti come siamo dell’importanza del lavoro comune fra la nostra associazione e l’ente pubblico. Diciamo però che da qualche tempo abbiamo dei problemi di comunicazione e di vera e propria incomprensione con il Servizio verde pubblico».

«Negli ultimi mesi - prosegue la presidente dell’associazione - nel giardino ci sono stati diversi atti vandalici, nonostante da parte nostra siano sempre stati rispettati tutti i controlli e le cautele del caso. Atti vandalici e danneggiamenti da cui siamo noi per primi colpiti. Ciononostante, e nonostante la convenzione sia stata firmata soltanto nell’aprile di quest’anno, ci sono già state rivolte delle minacce di revocare la stessa...».

Per ovviare a questa situazione, e auspicando una sempre maggiore collaborazione con il Comune di Trieste, l’associazione AnDanDes ha incontrato recentemente la Commissione trasparenza del Comune. Si è parlato degli atti vandalici e dei danni alla struttura, ma anche delle scritte ingiuriose apparse nel giardino e rivolte proprio contro chi si occupa di gestire l’area. E si è parlato pure delle incomprensioni che l’associazione lamenta con il Servizio verde pubblico del Comune, che ultimamente ha chiesto all’associazione un controllo più attento della pulizia e un monitoraggio più costante sulla chiusura dei cancelli e sulla situazione dei servizi igienici.

Per risolvere la situazione, e per proseguire nella collaborazione, una delle ipotesi è di discutere con l’amministrazione comunale l’istituzione di un regolamento interno alla struttura.

L’obiettivo è sempre quello maturato anni fa, in una serie di incontri tra genitori in piazza Hortis: pensare a uno spazio dove poter allevare con tranquillità i propri figli. Lo spazio venne identificato nel bel giardino a più livelli di via San Michele, una struttura importante creata verso la metà degli anni Cinquanta dai lavoratori disoccupati raggruppati sotto la sigla Selad.

Un’esperienza cresciuta nel corso degli anni, che ora il volume edito da Franco Angeli porta ad esempio a livello nazionale. Ma in una città dove c’è chi pensa di poter risolvere i gravi problemi del disagio e dell’emarginazione eliminando le panchine, quell’esperienza oggi vive un momento di difficoltà.

domenica 10 dicembre 2006

DISCHI: CAMMARIERE, ELISA, LUTTAZZI/FIORELLO/VENDITTI

Canzone e jazz, un amore irrisolto. Soprattutto per gli italiani. Ma è sempre bello ritrovare Sergio Cammariere, quarantasei anni, calabrese di nascita, romano di adozione, cultore del connubio. Ed è bello accorgersi che è rimasto se stesso. L’effimera sbornia di notorietà seguita al terzo posto al Sanremo del 2003, con «Tutto quello che un uomo», rischiava di travolgerlo. Di mettere a rischio quel sottile equilibrio che anni di lavoro erano riusciti a creare nella sua produzione. L’ascolto del nuovo album, «Il pane, il vino e la visione» (Capitol Emi), che arriva a due anni di distanza dal precedente «Sul sentiero», anticipato dal singolo «Non mi lasciare qui», fuga qualsiasi timore. La musica di Cammariere crea con le parole di Roberto Kunstler (che ha un passato di cantautore) un unicum originale e di grande qualità.

Fra i solchi si respira profumo di quelle cose semplici richiamate anche dal titolo. C’è, come spiega l’artista, «voglia di sognare che è la forza di credere e di sperare, partendo dalla consapevolezza semplice e sincera dei propri sentimenti...». La canzone allora diventa jazz, e il jazz scivola nella canzone, in un viaggio lungo e meditato, nel quale ogni sonorità trova una sua ragione d’esistere e si fonde senza soluzione di continuità. Un viaggio in cui gli strumenti diventano voci, echi di luoghi lontani in costante cambiamento, nella necessità d’espressione e nella voglia di comunicare, «di sollevare le parole come se fossero vento e di contrappuntarle in un dialogo continuo...». Fra i brani: «Canzone di Priamo», «E mi troverai», «Le cose diverse» (parole di Pasquale Panella), «Padre della notte»...

La nostra piccola grande Elisa è appena tornata in pista con «Soundtrack ’96-‘06» (Sugar Warner), prima raccolta dei suoi maggiori successi in dieci anni di carriera. È una selezione dei singoli che in hanno segnato la carriera della popstar di Monfalcone: da «Labyrinth» a «Sleeping in your hand», da «Luce (Tramonti a Nord Est)» a «Gift», da «Rainbow» a «Together». Ma ci sono anche quattro inediti, che rendono unica la raccolta: «Stay» che apre il cd, «Gli ostacoli del cuore» scritta da Ligabue (con duetto) e singolo di lancio, «Qualcosa che non c’è» e «Eppure sentire (Un senso di te)». È un gran disco (in commercio anche nella versione «cd+dvd», comprendente i videoclip usciti in questi anni), che per Elisa potrebbe rappresentare una sorta di punto e a capo. In una carriera che in fondo è soltanto agli inizi.

Spostiamoci da Monfalcone a Trieste per il grande omaggio che il mondo dello spettacolo italiano ha finalmente tributato a Lelio Luttazzi. Ottantatre anni, già protagonista della musica e dello spettacolo di casa nostra quando la tivù era ancora in bianco e nero, trentacinque anni fa si ritirò a vita privata. Ci ha pensato Fiorello a coinvolgerlo recentemente in un suo show, e poi sono arrivati la recente serata omaggio romana e questo disco: «Per amore» (SonyBmg). Mina e Luttazzi nello storico duetto iniziale, «Chi mai sei tu». E poi Christian De Sica che fa «Canto (anche se sono stonato)», Fiorello nel «Giovanotto matto», Arbore in «Souvenir d’Italie», Morandi in «Una zebra a pois», Dalla in «Vecchia America»... Chiusura con il grande Lelio e la sua «El can de Trieste». Davvero una bella pagina di storia della nostra canzone.

 

Ascoltare la Pfm è come tornare ragazzi. «Stati di immaginazione» (SonyBmg) è il nuovo progetto (cd+dvd) di quella che, prima di celarsi dietro l’acronimo, si chiamava Premiata Forneria Marconi, più o meno trentacinque anni dopo gli esordi di «Storia di un minuto». Si tratta di un progetto strumentale in otto brani, ispirati da altrettanti lavori visivi. Uno spettacolo multimediale ideato da Iaia De Capitani, manager del gruppo, nato per «coinvolgere i cinque sensi con un linguaggio universale in grado di parlare a tutte le generazioni». I video raccontano lo splendore e l’angoscia di Venezia («La città dell’acqua»), l’affascinante caos nella testa dell’uomo («Il mondo in testa»), le conquiste quotidiane degli aborigeni («La conquista»), l’inquietudine del futuro («Cyber Alpha»), il genio di Leonardo e il suo sogno irrealizzato di volare («Il sogno di Leonardo»), l’Olanda del passato, («Nederland 1903»), la libertà dell’acqua («Agua Azul»), le invenzioni di un genio («Visioni di Archimede»).

Il disco arriva dopo quello dedicato interamente al commento musicale alla versione teatrale di «Dracula», nel quale aveva avuto un ruolo predominante Flavio Premoli, tastierista e fondatore del gruppo, da poco uscito nuovamente dalla band, dopo esservi brevemente rientrato. Ora del nucleo originario della Pfm sono rimasti Franz Di Cioccio (cantante ma inizialmente batterista), Franco Mussida alle chitarre e Patrick Djivas al basso (che peraltro nella prima formazione non c’era: entrò quasi subito al posto del primo bassista Giorgio Piazza).

Il tour del gruppo è partito a fine novembre da Roma, tocca stasera Milano e arriva a Trieste, al Rossetti, giovedì 21 dicembre. Sarà l’occasione per vedere dal vivo questo nuovo spettacolo, quasi trentacinque anni dopo l’esordio triestino, al Dancing Paradiso di via Flavia, di quella che allora si chiamava - per esteso - Premiata Forneria Marconi. Era appena uscito l’album «Storia di un minuto», che fra gli altri brani comprendeva «Impressioni di settembre» e «La carrozza di Hans».




Anche il 2006 è stato l’anno di Fiorello, autentico numero uno dello spettacolo italiano. Dopo il successo del cd «W Radio2» (180 mila copie vendute), ecco il dvd con il «dietro le quinte» della trasmissione radiofonica. Fiorello, Baldini e il maestro Cremonesi spiano se stessi, regalando un'ora di divertimento. La stesura dei copioni, le prove, le battute in libertà, l'improvvisazione con gli ospiti, gli scherzi, le goliardate in diretta... Si ride con Mike Bongiorno, il tabagista Camilleri, il «cattivo» Morandi, il centralinista del Quirinale, scoprendo ciò che accade ogni giorno nello studio dove ha luogo la diretta. Fra gli ospiti anche Abatantuono, Baudo, Nanni Moretti, la Bellucci, Buffon, la Cortellesi... Un’unica pecca: dura poco.

 

Anche Venditti sforna il suo bravo triplo. S’intitola «Diamanti», ed è la raccolta più completa e ricca della lunga serie disponibile nella discografia ufficiale del cantautore romano. Quarantasei brani che abbracciano trentatre anni. Non c’è ordine cronologico. Si comincia con «Alta marea», si chiude con «L’amore insegna agli uomini». In mezzo: «Notte prima degli esami», «Compagno di scuola», «Lacrime di pioggia», «Amici mai», «Che tesoro che sei», «Una lurida e stupida storia d’amore», «Mio padre ha un buco in gola», «Lilly»... Di alcuni brani (come «Buona domenica»), che erano usciti per un’altra casa discografica, non sono proposte le versioni originali, ma nuove versioni dal vivo.





martedì 28 novembre 2006

Ogni Natale che Dio manda in Terra ha sotto l’albero, da molti anni a questa parte, un disco di Mina. Per tanto tempo è stato il classico «doppio natalizio», che era così concepito: un disco di inediti, un altro di riletture. Da qualche anno la formula è cambiata. Ma non l’abitudine di accontentare le schiere di fan. Ed ecco allora che il Natale 2006 fa «Bau» (SonyBmg), titolo del disco che è appena arrivato nei negozi, ma prima in quelli di telefonia cellulare. Il disco è infatti in vendita anche assieme a tre cellulari Nokia. Andrea Mingardi è autore di ben otto dei tredici brani. Ha detto: «Quando Mina apre la bocca c'è un ruscello che sgorga...». La copertina è illustrata da un ritratto «fumettoso» di Mina firmato da Gianni Ronco. E fra gli autori debutta Axel Pani, figlio di Massimiliano Pani e dunque nipote della cantante, che ha firmato un brano assieme a un compagno di università. Risultato: una miscela di swing, jazz, pop, rock... Con la grande voce di Mina a far da collante. Era da «Kyrie», del 1980, che non si verificava una presenza così numericamente significativa di brani firmati dallo stesso autore - o dalla stessa coppia di autori - in un disco di Mina. Se si escludono, ovviamente, i dischi monotematici dedicati ai Beatles, a Lucio Battisti, a Renato Zero e a Domenico Modugno...

Ma se in «Kyrie» le canzoni di Simonluca erano sei (ma l'album era in origine doppio, e conteneva complessivamente sedici titoli), in «Bau» Mingardi e Maurizio Tirelli (suo collaboratore di lunga data, fin dai tempi dei Supercircus) firmano insieme sette brani su tredici, e il solo Mingardi è autore anche di un'ottava canzone: il che fa del cantautore bolognese il detentore di un invidiabile record (già nell’86 una canzone di Mingardi, «Ogni tanto è bello stare soli», era stata inclusa da Mina nel suo album «Sì buana»).

Due delle otto canzoni sono anche eseguite in coppia da Mina e Mingardi: quella che apre il cd, la già nota «Mogol Battisti», e quella che lo chiude, «Datemi della musica», canzone che intitolava il secondo Lp di Andrea Mingardi, datato 1976. Le altre sono «Sull'Orient Express», «Johnny Scarpe Gialle» (scritta 25 anni fa), «Nessun altro mai», «The end», «L'amore viene e se ne va», «Inevitabile».

Gli altri brani sono firmati da Maurizio Morante («Un uomo che mi ama»), dal 1991 presente abbastanza regolarmente sui dischi di Mina; Giancarlo Bigazzi e Marco Falagiani («Fai la tua vita», già presentato al Festival di Sanremo del 2000 dal giovane Claudio Fiori, qui con alcune modifiche al testo originario); Agostino Guarino, giovane cantautore di belle speranze che firma «Come te lo devo dire» (in cui la signora si permette pure una parolaccia...); Luca Rustici, fratello del più famoso Corrado, chitarrista e autore, già collaboratore degli Audio 2, che ha composto «Alibi»; e l'inedito trio Samuele Cerri, Mattia Gysi e Axel Pani (il figlio di Massimiliano aveva già dato la sua voce, per un messaggio in segreteria telefonica, a «Portati via», uno dei brani di «Bula Bula», 2005), che firma «Per poco che sia».

Fra i musicisti, oltre ai collaudati Lele Melotti, Danilo Rea, Faso e Lorenzo Poli, si segnalano Ugo Bongianni, ventenne pianista e arrangiatore, che ha programmato e suonato le tastiere, e il chitarrista Luca Meneghello; gli arrangiamenti dei fiati sono stati scritti da Gabriele Comeglio. La produzione è di Massimiliano Pani, che ha confermato le voci secondo le quali Mina sta lavorando a un disco per il mercato latino, tutto di canzoni nuove o di nuove versioni (in spagnolo) di grandi successi del suo repertorio.




Prosegue l’invasione dei dischi tripli. Ma per Fabrizio De Andrè si tratta già di un «sequel». Dopo il successo del primo volume - 300 mila copie e un primo posto in classifica - arriva infatti a circa un anno dal precedente il secondo capitolo di questa grande opera di lettura del suo lungo percorso artistico.

Lettura originale, dal momento che anche qui prosegue l’operazione di recupero del calore del suono analogico voluta da Dori Ghezzi: ovvero la pulizia e precisione del supporto digitale ma che restituisce il suono che avevano gli album nel loro anno di uscita, i toni originali della voce così pieni di note basse, così avvolgenti e così naturalmente indirizzati all'intimità dell'ascolto.

«In direzione ostinata e contraria 2» (SonyBmg) prosegue dunque per una strada che non è quella della semplice antologia di successi, ma quella del tributo che con questa seconda uscita arricchisce il suo contenuto filologico di classici rimasti esclusi - solo per una questione di capienza - dalla precedente emissione.

Sono ben 14 gli album dai quali sono tratti i 53 brani, in un arco di tempo che va dal 1967 di «Fabrizio De Andrè Vol. I» fino ad «Anime salve» del 1996. Insomma, siamo vicini alla realizzazione di una opera omnia. Il triplo propone ad esempio l'ascolto quasi per intero di album storici come «Tutti morimmo a stento», «La buona novella» e «Rimini»; recupera tre figure di quella straordinaria rilettura dell'«Antologia di Spoon River» di Edgar Lee Masters che De Andrè fece con «Non al denaro non all'amore né al cielo». E ci ricorda una interpretazione suprema di «Suzanne» di Leonard Cohen (presente in «Canzoni» del 1974); ci fa rivivere la dignitosa esistenza e la sobria tristezza de «La storia di un impiegato»; condensa nel terzo cd tre capolavori assoluti come «Creuza de ma», «Le nuvole» e «Anime salve».

Scrive Salvatore Niffoi nell'introduzione: «In ogni sua canzone è presente la poesia come atto d'amore e di riscatto verso l'umanità ferita, dimenticata; verso quegli ultimi che lui sognava primi in questo mondo, non nell'improbabile altro...».

 

A settantun anni, il grande Jerry Lee Lewis si ripropone con una serie di duetti all’altezza del suo nome e della sua fama. Classici del suo repertorio assieme a Jimmy Page, BB King, Bruce Springsteen, Mick Jagger & Ronnie Wood, Neil Young, Keith Richards, Ringo Starr, Rod Stewart, Willie Nelson, Kid Rock, Eric Clapton, Don Henley... Il titolo del disco è un riferimento sia al caratteristico modo di suonare il pianoforte stando in piedi che al fatto che oggi Jerry Lee Lewis - col suo inimitabile stile vocale - è l'unica leggenda del rock'n'roll ancora in attività, l'unico tra quelli (Elvis Presley, Johnny Cash, Roy Orbison, Carl Perkins...) che Sam Phillips scoprì con la sua Sun Records a Memphis, Tennessee, cinquant'anni fa.



Ve lo ricordate Billy Idol? Quello di «Eyes without a face», primi anni Ottanta. Ebbene, ritorna con un album di canzoni natalizie alla sua maniera. Nella sua carriera il cantante inglese ha attraversato diversi stili, dagli inizi punk in compagnia dei Generation X ai suoi lavori solisti, sintesi perfetta di hard rock, pop ed attitudine ribelle. Ora gioca ancora una volta la carta della sorpresa e propone un album di canzoni natalizie in cui veste i panni del crooner o paga il tributo al suono rock'n'roll delle origini, da Elvis Presley a Chuck Berry. L'ironia è l'arma vincente e queste versioni di canzoni come «Frosty the snowman», «Jingle bell rock» e «Silent night» non hanno nulla da invidiare a quelle classiche.

venerdì 24 novembre 2006

PRIMA AL “VERDI”

di Carlo Muscatello


TRIESTE Buio in sala. Venti e trentacinque: parte il primo applauso. Daniel Oren, kippà rosso cremisi sulla nuca, ringrazia con ampi e circolari gesti del braccio. Gli stessi che gli servono, subito dopo, a far partire le immortali note dell’Inno di Mameli. Allora luci in sala, tutti in piedi, qualcuno porta la mano sul petto. E il consueto rito può entrare nel vivo.





Sì, perchè in questa città che non va né avanti né indietro, ieri sera al Teatro Verdi è andato scena il solito, immutabile, immarcescibile rito della prima. Inutile come una pelliccia in questo mite novembre (e infatti nel fiammeggiante foyer bardato a festa ne giravano pochissime). Vuoto come il nostro porto che aspetta il miracolo di San Boniciolli. Staccato dalla realtà e autoreferenziale come gran parte della nostra classe politica. Triste come piazza Venezia senza uno straccio di panchina.





La musica, ovviamente, non è in discussione. Soprattutto quando è grande musica proposta da grandi interpreti. È il contorno del gala inaugurale, quello che va in scena innanzitutto nel foyer, che lascia sempre più perplessi. Occasione mondana de noantri, in stile «voio ma no’ poso», col sindaco compagnone (absit iniuria verbis) sempre a suo agio nel far gli onori di casa, e tutto quel corollario di personaggi che animano - si fa per dire - il nostro piccolo mondo antico di provincia.




La signora prefetto vestita di viola (colore che a teatro fa l’effetto di una bestemmia in chiesa), il questore in trasferta da Udine, l’assessore regionale in gran spolvero (il principale, si sa, marca visita da anni: evidentemente non ama l’appuntamento...), il consigliere regionale di maggioranza con mantella risorgimentale e quello di opposizione fresco di barbiere. E poi un ex presidente della Provincia in disuso, quella in carica scortata dal nuovo sovrintendente del Verdi, la cinquantenne leopardata, il notaio con la passione del jazz e il giovane avvocato di sinistra, il farmacista e il medico accomunati dall’amore per la vela. E ancora la Signorina Buonasera che ha lasciato più traccia all’Isola dei Famosi che alla presidenza dello Stabile regionale, i carabinieri in alta uniforme, rarissime fanciulle in fiore, compensate da diverse signore reduci da complicati lavori di restauro...




Fra smoking, abiti lunghi, gioielli, acconciature fresche di parrucchiere, papillon rispolverati per l’occasione e decollété d’ordinanza e sorrisi di circostanza, sembrano stare tutti sulla tolda del Titanic la sera prima di quel problemuccio che capitò alla grande, inaffondabile nave. A proposito: della crisi del Teatro Verdi nessuno parla più. Che dio li abbia in gloria...


venerdì 10 novembre 2006

Le case discografiche continuano a combattere come possono la grande guerra con la musica su internet. Le vendite dei cd sono in netto calo ormai da anni, mentre continuano ad aumentare a livello vertiginoso i «download» - illegali ma soprattutto illegali - dalla rete. Dopo chiusure e accorpamenti, le grandi multinazionali discografiche sono ormai ridotte a cinque. Che tentano di salvarsi come possono. Proponendo in vendita i file digitali di dischi vecchi e nuovi. Ma anche... raschiando il fondo del barile dei loro ricchi cataloghi. Ecco allora la recente invasione del mercato a botte di doppi e soprattutto tripli antologici, a volte con uno o due brani inediti, e il resto attingendo agli archivi. Che per artisti presenti sulla scena da decenni sono decisamente notevoli. Ecco allora che, soprattutto nel periodo di fine anno, quello delle strenne natalizie, ogni casa discografica tira fuori tutto quel che ha. Nelle settimane scorse abbiamo già parlato dei tripli di Lucio Dalla, Ivano Fossati, Lucio Battisti (con Mogol o con Panella), Edoardo Bennato, Pierangelo Bertoli...

Oggi spazio ad Adriano Celentano e al suo «Unicamente Celentano» (Clan-SonyBmg), scritto sulla copertina in maniera tale da far pensare che l’«unica mente» sia quella dell’ex ragazzo della via Gluck. Quarantadue brani, fra vecchi successi («Il tuo bacio è come un rock», «Ciao ragazzi», «Azzurro», «L’emozione non ha voce»...) e brani meno noti, e una versione inedita di «Diana» cantata con Paul Anka, con un testo italiano riscritto dallo stesso Celentano con Mogol. Un monumento al passato, in attesa del nuovo disco. Particolarità: la raccolta viene venduta anche nel circuito dei 13 mila uffici delle Poste.

Spazio anche al cofanetto di Francesco De Gregori, «Tra un manifesto e lo specchio» (SonyBmg), titolo tratto da un verso di «La valigia dell’attore», brano presente del terzo cd della raccolta. Una raccolta che è la summa del cantautore romano, dalle origini di «Alice» e «Niente da capire» fino alle cose più recenti. Non mancano i classici: «Generale», «Titanic», «La donna cannone», «La storia siamo noi»... E non mancano due inediti: apertura con «Mannaggia alla musica» (scritta nel ’79 per Ron), chiusura con «Diamante» (scritta con e per Zucchero), che è forse la cosa più bella del disco.

Altro cantautore romano, con una storia assai meno lunga e importante, è Niccolò Fabi. Il suo «Dischi volanti - 1996-2006» (Emi Virgin) è composto da due cd (con «Capelli», «Dica», «Il negozio di antiquariato»...) e un dvd, che propone episodi live, backstage e una manciata di videoclip dei suoi brani più noti. Per Fabi - che ha registrato l’ultimo album, «Novo Mesto», nella vicina Slovenia - la prima raccolta in dieci anni di carriera.

Uno che, invece, nel corso degli anni non ha lesinato raccolte, «best of» e «greatest hits» è Umberto Tozzi. «Tutto Tozzi - Ti amo e altre storie» è la più recente. Un doppio con trentaquattro canzoni: «Gloria, «Tu», «Donna amante mia», «Stella stai», «Gli altri siamo noi»..., ma anche «Gente di mare» con Raf e «Si può dare di più» con Morandi e Ruggeri. Versioni rimasterizzate e prezzo ridotto, il che basta per avere in un colpo solo tutta la carriera del cantante e autore torinese.


Alla prova del terzo album, Le Vibrazioni propongono un disco intitolato «Officine Meccaniche» (Sony Bmg Ricordi) ancora una volta in bilico fra pop di facile ascolto e reminiscenze rock anni Settanta. L’amore per i suoni e le atmosfere vintage emerge anche dalla tecnica di registrazione: Francesco Sarcina e compagni (tutti «barbudos», nelle nuove foto) hanno scelto di immortalare i brani su nastro, preferendo la tecnica analogica a quella digitale. Il disco - venduto per la prima settimana solo con un cellulare - prende il nome dallo studio di registrazione milanese (di Mauro Pagani, sui Navigli) in cui è nato, un po’ come avevano fatto i Beatles con Abbey Road e Jimi Hendrix con Electric Ladyland. Fra i brani: «Fermi senza forma», «Dimmi», «Portami via»...

«Go-the very best of Moby» (Emi Virgin) raccoglie quindici brani del quarantunenne musicista newyorkese, supremo manipolatore di suoni e ritmi, vero nome Richard Melville Hall, pronipote del grande scrittore Herman Melville. Dall’ipnotica «Go», primo singolo della sua carriera a destare interesse nel pubblico, fino a «Natural Blues», «Lift me up» (da «Hotel», l’album uscito l’anno scorso), «Move», «Honey»... In questa sua prima raccolta che suggella dieci anni di carriera c’è anche un brano inedito, «New York, New York», cantato da Debbie Harry.

E chiudiamo con Gianni Morandi, reduce dall’ennesima avventura televisiva con cui ha provato a scherzare della sua immagine da eterno bravo ragazzo. Il nuovo disco s’intitola «Il tempo migliore» (Epic Sony Bmg) e propone una dozzina di canzoni inedite, sfornate da autori del calibro di Morra, Fabrizio, Cogliati, Malavasi, Mingardi... Un testo, quello di «Adesso tocca a lui», è firmato dallo stesso Morandi, coautore anche di un paio di musiche. «Il tempo migliore è il mio presente qui con te...», canta l’artista nel brano che dà il titolo all’album, sorta di canzone-manifesto in stile «La vita è adesso...».


Lunga vita al patrimonio di classe ed eleganza lasciatoci da Lennon e McCartney. Sì, perchè anche riletti in chiave «ambient», o «new age», o quasi «disco», i capolavori dei Beatles funzionano sempre. Ascoltare per credere «And I love her» leggermente swingata, «Eleanor Rigby» quasi reggae, «Something» profumata di bossa nova, le suadenti «Let it be» e «Michelle», ma anche «From me to you», «I’ll be back», «A day in the life», «When I’m sixty-four»... Le voci sono quelle della cubana Odette Telleria e dell’americana Natalia Fox Chapman. Il progetto è nato in Spagna, dove il disco ha già venduto oltre centomila copie. In attesa di «Love», in uscita il 17, con gli storici brani rimissati da George Martin per il Cirque du Soleil.


Un doppio cd per un viaggio nella memoria «tra brani giganti di autori e interpreti giganti». Così Baglioni descrive questo suo ultimo lavoro, dedicato ad alcune tra le più belle pagine della grande musica italiana degli anni Sessanta. Si comincia per la verità dal ’58 di «Nel blu dipinto di blu», la rivoluzione di Modugno, e si conclude nel ’70 delle «Emozioni» di Battisti. In mezzo c’è davvero la storia della nostra canzone: «Cinque minuti e poi» (Maurizio), «Una lacrima sul viso» (Bobby Solo), «Lontano lontano» (Tenco), «C’era un ragazzo» (Morandi), «Una miniera» (New Trolls)... Il divo Claudio fa la sua bella figura anche solo come interprete. Esercizio già praticato anni fa, in tivù con Fabio Fazio...

martedì 7 novembre 2006

Che elezioni, le politiche del 2006... Sono passati soltanto sette mesi, ma a volte la sensazione è che siano trascorsi anni. E la materia sembra pronta per essere trasferita ai libri di storia della politica della nostra scalcagnata ma amata repubblica.

Ricordate? Il forte vantaggio iniziale del centrosinistra, la campagna sulle tasse e in particolare sulla tassa di successione, la rimonta di Berlusconi, e poi quel testa a testa finale, nella lunga notte fra il 10 e l’11 aprile, con quello scarto ridottissimo, sul filo di poche migliaia di voti. E quell’immagine, alle tre del mattino, da piazza Santi Apostoli, con Prodi e gli altri leader e leaderini del centrosinistra a esultare, con gli inni e le bandiere e le dita a indicare vittoria, nemmeno avessero stravinto i mondiali per dieci a zero. Chissà, forse l’inizio della fine va cercato proprio in quell’immagine, va identificato con quei volti entusiasti e ridenti, ignari di quel che sarebbe avvenuto soltanto di lì a pochi mesi...

Materia per gli studiosi e per i libri, insomma. E infatti stanno uscendo vari volumi sull’argomento. Uno s’intitola «Dov’è la vittoria - Il voto del 2006 raccontato dagli italiani» (Il Mulino/Contemporanea, pagg. 248, euro 13) e raccoglie vari interventi scritti nell’ambito di Itanes, acronimo che sta per Italian National Elections Studies, programma pluriennale di ricerca sui comportamenti elettorali e le opinioni politiche degli italiani, che vede impegnate alcune università e l’Istituto Cattaneo di Bologna.

«Io sono convinto che la campagna elettorale l’abbia vinta Berlusconi - premette Paolo Segatti, ordinario di sociologia politica alla Statale di Milano, che ha coordinato la ricerca con Paolo Bellucci - anzi, se fosse durata una settimana di più, avrebbe vinto anche le elezioni».

Eppure il distacco da cui partiva il centrosinistra era notevole...

«Ma ha fatto una campagna disastrosa. Partiva da un presupposto sbagliato. Avendo stravinto le regionali del 2005, Prodi e compagnia pensavano fosse sufficiente confermare il dato, consolidarlo, senza bisogno di andare all’attacco, senza ricordarsi che gli sfidanti erano loro».

E invece?

«Invece non si teneva conto che nelle amministrative, dove fra l’altro il centrosinistra è sempre stato più forte, chi sta al governo viene sempre penalizzato. Diverso il discorso alle politiche. Dove c’era sì una delusione nei confronti di Berlusconi, ma l’abilità di quest’ultimo e gli errori del centrosinistra hanno praticamente ribaltato la situazione esistente...».

Quali errori?

«Beh, su tasse e successioni sono stati fatti degli errori clamorosi, e il centrodestra è stato abilissmo a sfruttarli. Poi il centrosinistra ha vinto ugualmente, seppur di pochissimo, in virtù della sua ampia coalizione, dell’arretramento del centrodestra al Nord e di un passaggio di elettori dal centrodestra al centrosinistra al Sud...».

Da un decennio chi è al governo perde le elezioni. Siamo un Paese impossibile da governare?

«Non credo sia questo il punto. Diciamo che è sempre cambiata, di volta in volta, l’offerta politica. Nei vari appuntamenti sono mutati i giochi delle alleanze: il centrodestra ha perso senza la Lega, il centrosinistra senza Rifondazione e Di Pietro, poi c’è il ruolo dei radicali...».

Insomma, l’elettorato è stabile, sono le alleanza che cambiano...

«Appunto. La stabilità dell’elettorato italiano è un dato impressionante. E in questo il voto del 2006 è simile, a parti invertite, a quello del 2001: stabilità al Nord, passaggi di voto al Sud, dove il Novecento ideologico non è mai arrivato e dove le dinamiche del voto rispondono maggiormente a criteri di convenienza».

Lei nel libro firma un intervento su ”I cattolici al voto, tra valori e politiche dei valori”. Che cosa segnala, al proposito?

«Innanzitutto che il centrodestra nel 2006 ha ottenuto più voti dei cattolici praticanti rispetto al recente passato. Non è un ritorno alla Dc, ma è un segnale, perchè interrompe un trend: dal ’94 in poi, infatti, i cattolici erano più attratti dal centrosinistra».

Cos’è cambiato?

«Ci sono stati due fatti, che hanno causato l’inversione di tendenza. Innanzitutto il referendum sulla procreazione assistita, poi l’ingresso dei radicali nel centrosinistra. Si sa che quello di Pannella è il partito meno gradito dai cattolici praticanti».

Dunque una questione di valori...

«Sì, attraverso quei due fatti si è riproposta la vecchia divisione fra laici e cattolici che in parte era stata superata in passato. I cattolici del centrodestra sono uguali a quelli del centrosinistra in quanto a condotta morale personale. Divergono nelle opinioni su alcuni temi politici eticamente sensibili: l’eutanasia, i pacs, il matrimonio fra gay... Ecco, il centrodestra ha saputo intercettare maggiormente questa richiesta di valori».

Professore, se si votasse oggi?

«Fare calcoli sul futuro è sempre molto difficile. Di certo c’è un dato: il crollo della fiducia nei confronti del governo Prodi. Bisognerebbe vedere quanto questa situazione potrà poi incidere effettivamente sul voto. Magari con l’astensione di chi ha votato centrosinistra e ora è deluso. Al proposito sarà interessante vedere il voto regionale del 2008 nel Friuli Venezia Giulia. Ma l’elettorato rimane comunque stabile, con l’Italia divisa in due».

E dietro l’angolo c’è anche il possibile referendum sul sistema elettorale...

«Quella è una vera e propria mina, che potrebbe avere un effetto devastante su tutto il sistema ma soprattutto su Prodi e sui suoi alleati. Spostando infatti il premio di maggioranza dalla coalizione al partito vincente, è chiaro che si rafforzerebbe la spinta ad aggregarsi all’interno del futuro Partito Democratico. Con un effetto penalizzante innanzitutto per i partiti minori del centrosinistra, che infatti sono contrari...».

Qualcuno auspica il ritorno del proporzionale...

«Non farebbe altro che assecondare la tendenza molto italiana a ritagliarsi un proprio piccolo feudo, dal quale condizionare nascita e morte dei governi...».

Ma anche questo maggioritario permette ai partitini con l’uno o il due per cento di essere decisivi...

«È vero. Ma quel poco di bipolarismo che abbiamo ci salva dal rischio di governi incerti, variabili, privi di un indirizzo politico preciso».

Lei ha un suo sistema elettorale ideale?

«Sicuramente il maggioritario a doppio turno, come avviene in Francia. Funziona molto meglio del doppio turno italiano, previsto nell’elezione dei sindaci. Ma dubito ci arriveremo...».

sabato 4 novembre 2006

TRIESTE Cinque minuti dopo le ventuno. Il buio in sala è sufficiente per far partire il primo applauso. A trasformarlo in boato ci pensano l’accordo iniziale di chitarra e subito dopo la voce di Ligabue. Solo in scena, seduto con la chitarra in braccio, un po’ alla maniera dei cantautori di una volta. Attacca con «Metti in circolo il tuo amore». E la festa può cominciare. Sarà innanzitutto una festa della musica e delle parole. «Figlio di un cane», «Ho messo via», «Una vita da mediano», «Il giorno dei giorni»... Uno alla volta entrano anche i musicisti: prima Mauro Pagani (bouzouki, violino...), poi tutti gli altri. Dopo «Il giorno dei giorni» arriva anche la prima poesia, «Le cartoline non inviate»...

Luciano Ligabue, quarantasei anni, da Correggio, Reggio Emilia, torna nello stesso teatro a quattro anni di distanza da quel «Giro d’Italia» che allora era concepito così: prima sera a teatro, più o meno acustico, seconda sera nel palasport, più o meno elettrico. La voglia, di più, l’esigenza di diversificare era dunque presente già allora. Stavolta ne ha fatto una sorta di impresa lunga un anno e più. Tutto è cominciato nel settembre dell’anno scorso, col megaconcerto dei record a Campovolo, dalle parti di casa sua: quattro palchi e quattro situazioni musicali diverse. Poi, il «Nome e cognome Tour» (dal titolo dell’ultimo album) è partito nei piccoli club, è proseguito a primavera nei palasport, d’estate negli stadi, e ora arriva finalmente nei teatri. Dimensione ideale per il progetto che ha in testa il nostro.

A lui, come si diceva, interessa la musica ma anche le parole. Non è come quei rocchettari duri e puri votati solo alla prima, ma nemmeno come quei cantautori di tanti anni fa cui interessavano solo le seconde. Il Liga, figlio o fratello minore sia degli uni che degli altri, cura suoni e liriche quasi con la stessa cura e dedizione. Le parole, poi, sono la sua àncora di salvezza, il tramite con cui tira fuori quel che ha dentro. E come sanno ormai tutti, il bisogno e la necessità di esprimersi l’hanno trasformato in pochi anni da uno dei due rocker italiani capaci di riempire gli stadi (l’altro è ovviamente Vasco...) in un artista a tutto tondo: regista, sceneggiatore, scrittore, ora anche poeta, col recente «Lettere d’amore nel frigo».

Che gli permette, nel doppio concerto triestino (stasera infatti si replica), di infilare fra una canzone e l’altra qualche poesia. Anche qui un segnale c’era già stato nel 2002, quando aveva recitato qualche verso di Charles Bukowski. Stavolta è tutta roba sua, in quella che qualcuno ha già definito una piccola Spoon River in salsa emiliana. Storie, situazioni, volti...

Lo spettacolo è quasi interamente acustico. Se l’altra volta non aveva saputo o potuto rinunciare del tutto alle chitarre elettriche, stavolta il nostro indio padano si è fatto coraggio. Una grossa mano gliela dà la band in cui - accanto a un organo Hammond che profuma di anni Settanta - brilla anche stavolta la presenza di Mauro Pagani. I musicisti lo affiancano prima l’uno, poi l’altro, poi due o tre alla volta, infine tutti assieme... Ma al centro della scena, verrebbe da dire: al centro della musica, c’è ovviamente sempre e solo lui, con la sua inconfondibile voce, col suo modo di esprimersi, schietto, diretto, senza fronzoli, con la sua musicalità, con la sua anima nascosta dietro a un verso o a un accordo di chitarra.

I ragazzi, quelli giovani e quelli con qualche anno in più, pendono dalle sue labbra e dalle sue corde. Le poltroncine e i velluti del teatro non creano soggezione. Lui all’inizio avverte: «Fate un po’ quello che volete...». E l’atmosfera somiglia presto a quella di uno stadio. Anche se lui, stavolta, oltre agli strumenti elettrici, rinuncia anche a una scaletta «fatta tutta di singoli». Cosa che potrebbe permettersi, visto il successo che ha sorriso praticamente a tutto quello che ha scritto e cantato dal ’90, anno del primo album, a oggi.

Ieri sera, assieme a classici come «Hai un momento Dio», «Vivo o morto o X», «Questa è la mia vita» - e poi ancora «L’amore conta», «Si viene e si va» (coro del pubblico), «Non è tempo per noi» (gente ormai in piedi), «Ho perso le parole», «Le donne lo sanno», «Piccola stella senza cielo»... - Ligabue è andato a pescare episodi meno frequentati, che comunque non prendono alla sprovvista il suo popolo, che conosce a memoria e canta in coro anche cose meno note come «Lettera a G» (dal nuovo album), «I ragazzi sono in giro» (da «Buon compleanno Elvis», del ’95) e «Walter il mago» (da «Sopravvissuti e sopravviventi», del ’93).

Le poesie, in mezzo a questo materiale sonoro, fanno quasi da collante. Ammesso e non concesso che in un concerto del Liga ce ne sia bisogno, di un collante. Certe liriche sembrano l’altra faccia della medaglia di alcune canzoni. Pensiamo ai vecchi «Sogni di rock’n’roll», cui adesso si sposa un testo - non letto ieri sera - intitolato «Ce lo vedi Mick Jagger morire a 27 anni?», dedicato ai tanti morti giovani del rock, da Jimi Hendrix a Jim Morrison, da Janis Joplin a Brian Jones, fino a Kurt Cobain. Morti eccellenti, cui fanno da anonimo contraltare tanti ragazzi «la cui disperazione non merita di essere considerata di serie B solo perchè non sono famosi...».

Con questo spettacolo il rocker - e poeta, e regista, e... - padano ridà fra l’altro fiato alla vecchia diatriba, avvitata sull’eterno dilemma se una canzone possa esser considerata poesia, e se dunque i cantautori possano fregiarsi del titolo di poeti. Fernanda Pivano, ch’è una che se ne intende, ha detto che sì, che anche lui - come De Andrè - fa parte della ristretta schiera. Ligabue si è schermito, rivendicando solo l’urgenza di comunicare, sempre e comunque, con qualsiasi forma. Ma intanto scrive.

Nel concerto si nota, infilata fra una canzone e una poesia, una differenza: se quando impugna la chitarra e svolge quello che considera comunque il suo mestiere c’è sempre un ottimismo di fondo, una sorta di invito alla leggerezza, quando invece si offre al pubblico da solo, nudo con le sue liriche, i toni sono piuttosto quelli di un malinconico pessimismo. Come se ancora una volta ci fosse bisogno del rock, per salvarsi la vita...

A Trieste, ieri sera, dire che c’è stato «successo di pubblico» è effettivamente dir poco. È stato un piccolo grande trionfo. Un abbraccio lungo due ore fra Luciano Ligabue e la sua gente, il suo popolo, arrivato anche da lontano per l’appuntamento del Rossetti. E quando nel finale è toccato a «Happy hour», trasformato in tormentone estivo dall’urticante pubblicità della Vodafone, la gente è letteralmente esplosa. Poi, in un teatro trasfigurato in bolgia, fra i bis sono arrivati anche «Urlando contro il cielo» e «Fra palco e realtà».

Stasera, come detto, si replica. Ma tranquilli: non c’è più un biglietto neanche a pagarlo oro... Vorrà dire che tutti gli altri si dovranno consolare col dvd annunciato in uscita prima di Natale.

L’aveva quasi promesso che in autunno sarebbe tornato a Trieste. E Ligabue è uno di parola. Che, quando può, le promesse al suo popolo le mantiene sempre. A primavera, quando il tour negli stadi aveva fatto tappa a Udine, ce l’aveva detto chiaro e tondo: «A Trieste tornerei davvero volentieri. Mi ricordo un concerto a San Giusto dal clima quasi magico. E poi quando siamo venuti a girare il video di ”Eri bellissima”: stavamo su una terrazza dalla quale si vedeva il mare, ricordo che c’era una luce davvero particolare, che ha regalato un tocco in più a quel video...». Eccolo, allora: stasera e domani sera, con inizio alle 21, al Politeama Rossetti. Biglietti già tutti esauriti da un pezzo.
Ligabue ritorna nello stesso Rossetti che lo aveva ospitato nel dicembre di quattro anni fa. Anche quella volta due concerti: il primo in teatro, il secondo al PalaTrieste. Stavolta il concerto doveva essere uno solo, ma la velocità con cui è stato raggiunto il «tutto esaurito» ha convinto gli organizzatori a raddoppiare.

Quella volta, nel ’92, fra una canzone e l’altra lesse i versi di Charles Bukowski, cantore dell’America degli emarginati, dei disadattati, dei perdenti. Stavolta, l’indio padano si permette il lusso - si fa per dire - di leggere le sue, di poesie, tratte dalla recente raccolta «Lettere d’amore nel frigo», con cui ha ulteriormente allargato il proprio raggio d’azione: non solo rocker, ma anche regista, e poi scrittore, e ora anche poeta...

«Quelle poesie risalgono a quasi tre anni fa - ha spiegato il Liga - quando le scrissi di getto sull'onda di un momento emotivamente forte, fatto di lutti familiari, separazioni, e umori altalenanti. Fu il pretesto per prendermi una serie di libertà e buttare fuori quello che avevo dentro senza il filtro della musica. Vennero fuori dei componimenti in cui raccontavo il mondo dal mio punto di vista un po' come nei primi tre album, prima che in 'Buon Compleanno Elvis' cominciassi a raccontarmi in prima persona...».

In prima o in terza persona, quella raccontata da Luciano Ligabue - classe 1960 - è l’Italia vista da un mediano. Un mediano che fa molti gol, ma che importa. Passano gli anni, le canzoni, i dischi e i tour. Ma l’immagine che resterà sempre attaccata addosso al rocker di Correggio è ancora quella della «vita da mediano». Quello sempre «a recuperar palloni», quello «nato senza i piedi buoni», quello costretto a «lavorare sui polmoni...». Versi del ’99, sempre attuali in questa (brutta) Italia del 2006.

Il doppio concerto triestino fa parte della quarta e ultima parte del «Nome e Cognome Tour 2006»: dopo il debutto nei club l’anno scorso, subito dopo la pubblicazione dell’album (e dopo il megaconcerto di settembre a Campovolo, con quattro palchi e quattro situazioni musicali diverse, col record dei 165 mila spettatori paganti...), sono arrivati prima i concerti nei palasport e poi quelli negli stadi. Ora l’appendice teatrale, acustica, cominciata il 3 ottobre da Verona.

Stasera e domani sera, a celebrare l’ennesimo trionfo del rocker padano, al Rossetti non ci saranno soltanto i fan triestini e regionali: biglietti sono stati venduti infatti anche in Veneto, ma persino a Torino, Bergamo, Bolzano, Firenze, Arezzo, Ferrara, Milano, Modena, Bologna, Roma, addirittura Catania... Oltre che all'estero, in Slovenia, in Carinzia, a Vienna. Lo Stabile - che organizza il doppio evento assieme all’Azalea Promotion - segnala che circa la metà dei biglietti venduti per le due serate è stato acquistata fuori Trieste.

Sul palco, con Ligabue, ci saranno Mel Previte alle chitarre e al sax, Antonio Rigetti al basso, Roberto Pellati alla batteria, Josè Fiorilli alle tastiere e soprattutto Mauro Pagani, flauto, bouzouki e tanti altri strumenti. Spettacolo diviso in due parti. Si comincia alle 21. E domani sera si replica. Buon divertimento.



mercoledì 1 novembre 2006

La storia non si cancella. E la storia del rock sono loro, gli Who, cui nemmeno la recente scomparsa di John Entwistle - dopo quella nel ’78 di Keith Moon - ha fiaccato la voglia di esserci di nuovo, di contare ancora, insomma di ricominciare. Dopo ventiquattro anni di silenzio (l’ultimo disco di brani originali era infatti «It’s hard», dell’82), Pete Townshend e Roger Daltrey - entrambi classe ’45 - tornano infatti alla carica con un nuovo lavoro, intitolato «Endless wire» (Polydor) e appena uscito. Già il titolo, che significa «filo senza fine», sembra sospeso fra passato e presente. Il filo è quello della moderna tecnologia ma anche quello della storia del rock, quella storia che gli Who hanno contribuito a scrivere. Da «My generation» (’65) e dall’opera rock «Tommy» (’69) in poi.

Il disco si apre con «Fragments», brano collegato a un progetto di Townshend che vuole ricreare il ritratto di una persona attraverso la musica. Ma più della metà dell’album è occupata dalla mini-opera rock «Wire and glass», che il chitarrista ha scritto per accompagnare il suo racconto «The boy who heard music». E ci sono anche due brani ispirati al film «La passione di Cristo»: «Man in a purple dress» e «Two thousand years». In questi come in altri momenti del disco, i momenti acustici prevalgono sui riff e sull’energia rock del passato. Insomma, i due superstiti della grande avventura non giocano a rifare se stessi. Guardano avanti, sono ovviamente molto più maturi di un tempo, ma anche nelle ballad e nelle atmosfere a tratti folkeggianti che popolano i brani si riconosce il loro marchio di fabbrica. Lo stile e la classe della loro indiscussa grandezza.





Da una leggenda di sempre a una leggenda per ora soltanto... di nome. Lui si chiama per l’appunto John Legend (all’anagrafe: John Stephens), che con «Once again» (Sony Bmg) tenta di ripetere i fasti del disco d’esordio, «Get lifted», tre milioni di copie e tre Grammy. Disco ancora una volta pop-soul, ricco di contaminazioni per l’ex session man diventato solista, che però non gli sottraggono quel senso di unità e coesione già apprezzato nella prova precedente. Insomma, funziona.




Come funziona, nella sua grandezza, il nuovo disco di Rod Stewart, «Still the same... Great rock classic of our time» (Sony Bmg). A sessantuno anni, dopo cento e rotti milioni di dischi venduti, l’ex ragazzaccio del rock non propone né un disco di brani nuovi né un’antologia. A due anni dal terzo «Stardust: the Great American Songbook», continua a confrontarsi con la storia della musica che gli ha cambiato la vita, a lui come a milioni di persone in tutto il mondo. E mette la sua inconfondibile voce al servizio di una manciata di classici di tutti i tempi: da «Have you ever seen the rain» (Creedence Clearwater Revival) a «If not for you» (Bob Dylan), da «Still the same» (Bob Seger) a «Father & son» (Cat Stevens), fino a «Missing you» (John Waite)... Che dire? Forse solo che la classe non è acqua.




Ultima segnalazione per i Servant e il loro nuovo «How to destroy a relationship» (Edel). Mollati i Planet Funk, Dan Black scrive con i suoi soci inglesi il secondo capitolo della loro giovane discografia. Territori del cosiddetto britpop, suoni elettrici e diretti, nel tentativo di ripetere il successo del disco d’esordio. «Save me now» e il brano del titolo sembrano gli episodi più riusciti.





C’è chi ha amato soltanto il primo Battisti, quello con Mogol. Pochi - fra cui chi scrive - hanno trovato superlativo anche il secondo periodo, quella della collaborazione con l’assai ermetico poeta Pasquale Panella. Cinque album, usciti fra l’86 e il ’94. Titoli come «Don Giovanni», «L’apparenza», «La sposa occidentale», «Cosa succederà alla ragazza», «Hegel»... Canzoni, anzi, post-canzoni dai versi straniati e stranianti, dai suoni robotici che a tratti germogliavano sublimi melodie. Roba non commerciale, comunque. Oggi quelle canzoni ritornano nel cd triplo «Battisti-Panella / Il cofanetto» (Numero Uno - Sony Bmg), che arriva dopo i due volumi «Le avventure di Lucio Battisti» e «Mogol». Quaranta canzoni, quelle conosciute, odiate o amate dai vecchi fan. Non ci sono purtroppo i famosi inediti scritti dalla coppia: pare una decina di brani, finiti chissà dove...




Sesto album per Gianmaria Testa, intitolato «Da questa parte del mare» (Fuorivia Fandango Edel), che arriva a tre anni da «Altre latitudini». Il cantautore piemontese, scoperto prima in Francia che in patria, prosegue sulla strada dell’artigianato nobile e raffinato, della canzone come messaggio semplice e diretto, senza fronzoli né strizzate d’occhio alla moda. «Seminatori di grano» apre il disco ed è anche il singolo di lancio. Fra arpeggi di chitarra e sonorità jazzate comincia il viaggio di una sorta di concept-album sulle migrazioni moderne, sui viaggiatori in cerca di pane e lavoro. Storie di imbarchi clandestini, di terre sognate e mai trovate, storie di straordinaria umanità.




Chiusura col veneto Massimo Priviero, quello che ai tempi dell’esordio con «San Valentino» (1988) sembrava potesse diventare quel che poi è diventato Ligabue. «Dolce Resistenza» (Mbo) è il suo nuovo disco, parla la lingua del rock e del rifiuto della guerra. Anche con «Ciao amore ciao», di Tenco, col testo originale d’impronta antimilitarista «Li vidi tornare».


Prosegue la serie nata andando a scavare nei ricchissimi archivi Rai. Per far rivivere il leggendario Quartetto Cetra i curatori della collana hanno restaurato alcune vecchie incisioni dell'ottobre 1954, tratte dalle riviste radiofoniche realizzate dal gruppo canoro tra il ’53 e il ’55. È infatti dall'ottobre ’53 che va in onda sul Secondo Programma della Rai «Sassofoni e vecchie trombette. L'impossibile storia del jazz». Come dire: la storia del genere afroamericano riveduta e corretta da Tata, Virgilio, Felice e Lucia, in un alternarsi di gag e canzoni scritte appositamente per l'occasione. Fra i classici, anche «Night and day» di Cole Porter.




E un capitolo della collana è dedicato anche al grande Gorni Kramer, nato a Rivarolo Mantovano nel 1913, genio della fisarmonica. Non tutti sanno che Gorni era il cognome e Kramer il nome (in onore di Frank Kramer, grande ciclista degli anni Dieci). Il cd ce lo fa ricordare com’era: chiacchierone, sorridente, sempre di buon'umore... C'è il Kramer «opinionista» (anche se all'epoca il termine non era ancora stato inventato) e quello canterino («Ai tempi che Gallo correva», «È vero signor Strauss che il valzer non le piace?»...), ma soprattutto l'arrangiatore capace di passare dai temi popolari («Reginella campagnola») allo slancio vitale dello swing. Di cui era un maestro.


lunedì 16 ottobre 2006

di Carlo Muscatello


«Abbiamo fame di giustizia», c’era scritto ieri mattina sugli striscioni dei ragazzi di Locri, in piazza nel triste anniversario dell’omicidio di Francesco Fortugno. Ma la domanda di giustizia che c’è nel Paese, a vari livelli, può essere soddisfatta da questo Stato? E la nostra Costituzione, dopo la bocciatura referendaria della riforma che voleva stravolgerla, va bene così o avrebbe bisogno di qualche aggiustamento? E la riforma Castelli, quella che ha allargato il solco fra politica e magistratura, quella osteggiata dall’opinione pubblica di sinistra, che fine ha fatto? E con le intercettazioni continue, come dobbiamo comportarci: tutela della privacy o privilegio di eventuali strumenti di prova?

Sarebbero molte, se si parla di legge e di giustizia, le domande da un milione di dollari. Domande a cui i giornali non danno risposta, presi come sono a riferire delle gaffe e degli errori di una maggioranza che se prosegue di questo passo rischia di tornare opposizione, e dell’inconsistenza di un’opposizione che presto si potrebbe trovare di nuovo al governo più per demeriti altrui che per meriti propri. Domande alle quali oggi tentiamo di dare risposta, affidandoci alla saggezza e all’esperienza di Sergio Bartole, docente di Giustizia costituzionale e Diritto costituzionale comparato all’Università di Trieste, nonchè presidente dell’Associazione italiana dei costituzionalisti. Di Bartole l’editore Il Mulino ha appena pubblicato il volume «Il potere giudiziario» (pagg.100, euro 8,50), che ripropone - aggiornato alla luce degli eventi più recenti - l’analogo capitolo contenuto nel Manuale di diritto pubblico di Giuliano Amato e Augusto Barbera.

Professore, cominciamo dalla Carta del ’48: è ancora una delle migliori Costituzioni d’Occidente?

«Alcune correzioni sono necessarie, per esempio per quanto riguarda quella parte dell’ordinamento regionale modificata nel 2001. C’è un eccessivo frazionamento di competenze fra Stato e Regioni. Ma non so se è necessaria una effettiva riforma della Costituzione...».

Prosegua.

«Io credo sia anzitutto un problema di legislazione. Per certi aspetti noi siamo ancora legati a normative vecchie, pensiamo per esempio all’ordinamento giudiziario. C’è stato il progetto di riforma del governo Berlusconi, ma è stato molto osteggiato dal centrosinistra...».

Ecco, che fine ha fatto la riforma Castelli?

«Sarebbe dovuta entrare in vigore proprio di questi tempi, ma il nuovo governo si è mosso per dilazionare l’entrata in vigore di molte parti di quella riforma. Per esempio il problema dell’incomunicabilità delle carriere giudiziarie, per esempio la limitazione dei poteri del Csm in materia di carriera dei giudici, per esempio la disciplina dei poteri dei capi delle procure...».

La frattura fra politica e magistratura, originata dalla riforma Castelli, è sanabile o ha causato danni duraturi?

«Intendiamoci: i politici hanno ecceduto nel tentare di mettere le mani sulla magistratura. In Inghilterra non verrebbe in mente a nessun politico di esprimere le critiche che vengono fatte alle decisioni dei giudici dai nostri politici. Lì c’è maggior rispetto per l’autonomia di determinazione dei giudici».

Magistrati esenti da colpe?

«No. Quante volte, di fronte a promozioni o provvedimenti di carriera, c’è la sensazione che siano il risultato di una sorta di lottizzazione fra le correnti. Il Csm ha tentato di porre un freno a questa situazione, introducendo una sorta di normativa ulteriore rispetto alla legge. Ma in ciò è andato al di là di quelli che sono i suoi poteri...».

Un altro cavallo di battaglia del centrodestra, cui l’opinione pubblica è sensibile, riguarda la responsabilità civile dei giudici.

«Mi limito a osservare che c’era stato un referendum per introdurre tale responsabilità civile. E nonostante il suo esito positivo, è stata poi fatta una legge che ha reso forse persino più difficile l’attivazione della responsabilità civile. Bisognerebbe invece saper individuare i casi in cui si può procedere per responsabilità, penso a quando si ritardano dei provvedimenti senza giustificazione».

Secondo il Censis il 90% degli italiani boccia la giustizia, considerata lenta, costosa, iniqua...

«La gente ha purtroppo ragione: effettivamente le procedure vanno al di là di ogni accettabilità. L’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la lunghezza dei suoi processi. C’è una legge che prevede il risarcimento per coloro che vengono danneggiati dalla lunghezza di tali procedure. Abbiamo insomma introdotto una misura per risarcire il danno, ma non facciamo molto per accorciare i tempi».

Nove milioni di processi pendenti, due milioni e mezzo di reati denunciati...

«Io questi dati non li ho...».

Erano compresi nella relazione del ministro Mastella al Csm. La domanda è: come se ne esce?

«Il tema è scottante. Noi siamo vincolati in questa materia dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Il Consiglio d’Europa, che sovrintende all’applicazione della Convenzione, comincerà a fare una sorta di screening per verificare l’adempimento degli obblighi in materia di diritti umani, quali discendono dalla Convenzione europea. Finora ciò veniva fatto solo nei confronti dei nuovi membri, gli Stati dell’Europa centro orientale entrati nel Consiglio d’Europa dopo la caduta del Muro di Berlino. Ora questo lavoro verrà fatto anche nei confronti dei vecchi membri».

Ma il potere giudiziario è in grado di soddisfare quella domanda complessiva di giustizia che sale dal Paese?

«Talvolta le stesse leggi sono fatte male, dunque di difficile applicazione giudiziaria. Molte volte la cosiddetta supplenza giudiziaria è derivata dal fatto che i giudici si trovavano di fronte a leggi inapplicabili, e ritenevano di dover rispondere a quella domanda anche sociale di giustizia cercando loro stessi di colmare le lacune del diritto. Portando avanti dunque quell’attività di supplenza e di invadenza in territori non propri per cui la magistratura è stata spesso criticata. Certe volte, insomma, la colpa è del legislatore».

Così ne soffre però il principio della separazione dei poteri...

«Certo. E il rischio è anche quello che le procure cadano sotto l’ombrello del potere esecutivo, perdendo la loro indipendenza. Se invece garantiamo la separazione delle procure nei confronti degli organi giudicanti, rischiamo di avere organi molto potenti e assolutamente incontrollabili».

Intercettazioni telefoniche: più importante tutelare la privacy o acquisire elementi di prova?

«Il problema è sapere se funziona il controllo giudiziale al momento dell’autorizzazione dell’intercettazione. Si ha l’impressione che tale controllo sia andato vanificandosi. Col risultato di confondere le intercettazioni autorizzate con quelle illegali».

domenica 15 ottobre 2006

Quarant’anni di carriera, di grande carriera, cominciata nel ’66 con il 45 giri «Lei (non è per me)». Tanti anni per chiunque, dunque anche per il piccoletto bolognese nato il 4 marzo 1943, data che divenne tanti anni fa il titolo di uno dei suoi primi successi. Lucio Dalla festeggia la ricorrenza con il triplo cd «12000 lune» (Rca Sony Bmg), contenente la bellezza di 53 canzoni, fra cui tre inediti, in chiusura del primo cd: «Stella», «Sottocasa» e soprattutto «Dark Bologna», già diventato un piccolo e folle tormentone di questo inizio d’autunno. Per festeggiare, il nostro si è regalato una splendida copertina firmata da Milo Manara (riprodotta qui a destra), ma anche il grande concerto dell’altra settimana, in piazza Maggiore, a Bologna, con Patti Smith, Morandi, Carboni, Renato Zero e tanti altri. Nella copertina d'autore di Manara è già racchiuso gran parte del mondo di Lucio: il mare (con quella mano sul timone che tiene la rotta verso il futuro); la luna, anzi, tante lune («questa palla che fa paura e tenerezza e che ispira i poeti...»); la facciata di una chiesa che richiama la sua piazza e la sua città... Alla fine del terzo cd le canzoni più antiche: da «Paff... Bum!» (Sanremo del ’66, in coppia con gli Yardbirds, che altro non erano se non i futuri Led Zeppelin) a «Bisogna saper perdere» (Sanremo del ’67, in coppia con i Rokes di Shel Shapiro), alla citata «Lei (non è per me)». I capolavori ci sono praticamente tutti: da «Caruso» a «Com’è profondo il mare», da «Futura» a «Quale allegria», da «Anna e Marco» a «L'ultima luna»... E ancora «L'anno che verrà», «Chissà se lo sai», «Ciao», «Canzone», «Attenti al lupo», «Washington», «Tu non mi basti mai», «Il cielo», «Piazza grande», «Occhi di ragazza», «Il gigante e la bambina», ovviamente «4 marzo 1943»... A riascoltarle, una dietro all’altra, sembra di ripassare la colonna sonora della nostra vita e - perchè no - dell’Italia degli ultimi decenni.

Restiamo a Bologna, e restiamo nel giro di Dalla, per parlare del nuovo disco di Luca Carboni, intitolato «...Le band si sciolgono» (Rca Sony Bmg), che segna il ritorno del sensibile cantautore a cinque anni di distanza dal precedente album di inediti, «Lu.Ca». Anticipato dal singolo «Malinconia», il disco brilla soprattutto per il duetto con Tiziano Ferro nel brano «Pensieri al tramonto». Ma anche per la presenza di Pino Daniele (suona la chitarra nel brano «La mia isola», la canzone che Carboni ha voluto dedicare all’Isola d’Elba) e di Gaetano Curreri (sue le musiche di «Lampo di vita», forse il brano migliore del disco). Non si tratta di un concept album, ma c’è comunque un tema dominante che lega tutti i testi: il tempo e il rapporto che l’autore ha con lo stesso. Una sorta di viaggio intimista fra passato, presente e futuro, insomma, che si veste di toni a tratti ironici e a tratti amari, spesso dolci e romantici, dunque sempre nel segno della caratteristica cifra stilistica del cantautore bolognese, che debuttò giovanissimo nell’84 con «Intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film». Anche musicalmente, il tema del tempo è molto presente. Si tratta infatti di un lavoro in bilico fra suoni elettronici e atmosfere acustiche, con varie citazioni da quell’autentico pozzo delle meraviglie che è il patrimonio lasciatoci in dote dagli anni Settanta.


 


Lei si chiama Nieves Rebolliedo Vila, in arte soltanto Bebe, ha ventotto anni, è spagnola. Il suo primo disco solista «Pafuera telarañas» (Virgin Emi) è uscito in Spagna due anni fa, in Italia a primavera di quest’anno. Ma è solo dopo l’estate appena trascorsa (col tormentone «Malo») e la comparsata da Morandi su Raiuno dell’altra settimana, che il grande pubblico l’ha scoperta. «Malo» è rabbiosa, le strofe sono dolenti e tristi, il ritornello è aggressivo e quasi feroce. Con tono accusatorio parla di violenza, di violenza familiare. Bebe canta «Sei cattivo, non si fa del male a chi si ama... Sei stupido, non pensare di essere migliore delle donne...». Nel disco (che sull’onda del successo ora esce anche in versione «cd + dvd», coi video di «Malo», «Ella», «Con mis manos» e «Siempre me quedarà») l’artista mette in campo le sue grandi doti espressive e interpretative. L’impressione, ascoltandola e guardandola, è che Bebe con le sue canzoni originali e coinvolgenti ci racconti per davvero parte della sua vita. A tratti triste, a tratti allegra e divertente. Ne sentiremo parlare ancora, vedrete...

Restiamo nel mondo latinoamericano per questo «Limon y sal» (Sony Bmg), quarto disco di Julieta Venegas, trentasei anni, originaria di Tijuana, in Messico, al confine con la California. Ha alle spalle una carriera già lunga, nel corso della quale si è affermata come una delle più conosciute e apprezzate cantautrici pop/rock latinoamericane. Attraverso «Me voy», primo singolo tratto da questo album, anche il pubblico europeo ha cominciato ad apprezzare il suo orecchiabile mix, al cui interno è possibile rintracciare accenni di salsa, reggae, latin pop, ma anche qualche tentazione rock.

Ultima segnalazione per Sandi Thom, una scozzese tosta, già passata alla storia per essersi imposta via web. «Smile... it confuses people» (Sony Bmg) arriva infatti dopo la popolarità guadagnata dal basso, mettendo i suoi brani in rete. Offre ballate folk-pop astute e orecchiabili, commerciale al punto giusto, strizzando l’occhio agli anni Sessanta. «Time» è il pezzo migliore.


 


SAM MOORE Grandi duetti con Bruce Springsteen, Sting, Jon Bon Jovi, Mariah Carey, Eric Clapton, Nikka Costa, Billy Preston (completo di organo Hammond in «You’re beautiful»), Steve Winwood, ovviamente il nostro Zucchero. Il grande vecchio della musica nera propone - con la produzione di Randy Jackson - il frutto di collaborazioni avvenute nel corso degli ultimi vent’anni ed è tutta roba di prima qualità, intendiamoci. Il fatto è che sembra mancare - oltre all’originalità - un filo conduttore che non sia la presenza dello stesso Sam Moore. L’album somiglia a una sorta di dizionario del soul, con la gran voce del nostro in bella evidenza, gli ospiti illustri e a volte molto illustri, ma in fondo poco di più...


PARIS HILTON Che sia giovane e bella, non si discute. È anche ricca da rimettere in sesto una finanziaria. Ma all’ereditiera arrestata per guida in stato di ebrezza il facilotto singolo «One night in Paris» e il video nel quale non lasciava nulla all’immaginazione evidentemente non bastavano. Ecco allora, completo di produzione e promozione «de luxe», un cd con annesso dvd per tutti quelli a cui Britney Spears e Christina Aguilera - soprattutto ora che sono cresciutelle - non bastano più. Pop facile facile, spruzzate reggae e hip hop, scritto e suonato con dovizia di mezzi. Lei è sexy e sensuale quanto basta e forse avanza, ogni tanto tira fuori anche qualche spunto rock. Dunque in questo clima da basso impero funziona... Purtroppo.

domenica 8 ottobre 2006

CODROIPO E se avesse ragione lui, il Boss? La notte friulana scende sul nobile profilo di Villa Manin mentre il dubbio si fa strada fra gli undicimila che hanno risposto al suo richiamo. Il grande mostro d'acciaio del megapalco (31 metri per 18) fronteggia quasi da pari a pari la splendida facciata dell'antica dimora. Il popolo del rock è pronto. Aspetta solo un segnale. Aspetta soltanto che la miccia venga accesa.  Cosa che accade dieci minuti dopo le ventuno, quando Bruce Springsteen ppare per la prima volta nel Friuli Venezia Giulia e dà il via alle danze. «Ciao Udine, come state?».


Bruce attacca con «O Mary don’t you weep», prosegue con «John Henry» e «Old Dan Tucker».  Solo a questo punto inserisce un suo classico: «Johnny 99». «Eyes on the prize» offre lo spunto al popolo di Villa Manin per la prima fiaccolata.  Subito dopo il nostro prosegue in italiano: «Udine è famosa anche per la grappa, ma dov’è...?» (più tardi, seguirà un brindisi sul palco con tutti i musicisti).  Gianola e Benito Nonino, in tribuna autorità insieme a mezza giunta e mezzo consiglio regionale, prendono nota per un probabile invio natalizio oltreoceano...

Con Springsteen, sul palco, i diciassette della Seeger Sessions Band.  Armati di chitarre acustiche, banjo, violini, armoniche e fisarmoniche, contrabbasso...  Davanti alla loro genuina vitalità, alla loro spontanea allegria, il dubbio di cui si diceva prende forma e si articola così: e se per salvarci la vita e forse l’anima, se per sfuggire alle bruttezze e alle malvagità di questo mondo moderno, l’unica ancora di salvezza fosse rappresentata dallo spostare indietro di cinquanta o magari cent’anni le lancette dell’orologio del tempo e dunque anche della musica?  Tornare insomma alle sane e solide certezze del passato, a quando la musica profumava di storie vere, di sentimenti, di emozioni, di vita.

E’ in fondo quel che ha fatto lui, l’ex ragazzo che era nato per correre, che a cinquantasette anni, da rockstar planetaria e miliardaria, da autentico numero uno che ha scalato tutte le vette e non deve dimostrare più niente a nessuno, un bel giorno ha deciso di andare a scavare alla ricerca delle radici della propria musica, del proprio mondo.  E di non fare dunque la fine di quei patetici vecchietti (i Rolling Stones? boh, lo avete pensato voi...), che passati i sessant’anni ancora sculettano sui palcoscenici di mezzo mondo, ripetendo all’infinito i riff adolescenziali di «Satisfaction» e «Let’s spend the night together».  Nell’illusione di un’eterna giovinezza che altro non è, in realtà, che un dorato museo del rock’n’roll.

Lui, l’ex ragazzo del New Jersey, con l’ultimo disco e con questo show è andato a scavare nel terriccio nobile e fertile della storia culturale e musicale del suo grande Paese, gli Stati Uniti, chissà, forse anche per prendere le distanze da un presente imbarazzante assai.  E’ andato a far rivivere canzoni vecchie di un secolo, accomunate dal fatto di aver fatto parte dell’eterno repertorio di quell’amabile e indomito vecchietto che risponde ancora al nome di Pete Seeger.  Un’operazione che poteva lasciar perplesso più d’uno (sarebbe come se il nostro Vasco andasse a rileggere i canti delle mondine, o quelli della Resistenza...), ma che soprattutto dal vivo rivela tutto il suo valore e la sua bellezza.  Sì, perchè questi brani ci restituiscono leggende popolari e storie vere: storie di schiavi neri che sognano un futuro senza catene, operai che lasciano la pelle sui binari della ferrovia che stanno costruendo, marinai che solcano mari lontani e soffrono di nostalgia («Pay me my money down»), poveracci costretti a vivere da nomadi alla ricerca di un lavoro, menestrelli di strada che raccontano davanti al fuoco di banditi (la godereccia e battagliera «Jesse James») che rubano ai vecchi per dare ai poveri, immigrati italiani o irlandesi (come la madre e il padre del nostro...) con la valigia di cartone, schiene piegate nei campi di cotone...

Ma non pensate a tristi e malinconiche ballate, sul modello della nostra pur nobile tradizione popolare.  Con Springsteen e i suoi arzilli musicanti della Seeger Band, il ritmo, la danza, l’allegria la fanno quasi sempre da padrone, anche quando c’è da denunciare un disagio, o recriminare per un’ingiustizia subita, o per chiedere la giusta paga.

Il folk, il country, gli accenti blues, i cori gospel sono la colonna sonora di uno spettacolo che racconta come in una festa paesana l’epopea del viaggio, della strada, della polvere, della provincia più remota, in fondo del sogno americano.  D’accordo, manca il graffio rock che era e rimane la cifra stilistica dell’autore di «Born to run».  Che dirige le danze con piglio fermo e con la sua voce roca e strascicata.  E si conferma artista versatile e sensibile, per nulla incline ai clichè, vagabondo della musica ed eroe dei perdenti di ieri e di oggi e forse di domani.  Alla ricerca di un senso per questa vita, per questo mondo.

A Villa Manin, ieri sera, successo caloroso.  Con, nel finale, una toccante «My city of ruins» e una «When the Saints go marching in» da antologia.

martedì 3 ottobre 2006

CODROIPO Quasi diecimila biglietti già venduti, casse aperte alle 16 e cancelli alle 18, inizio alle 21. Insomma, tutto è pronto per la prima volta di Bruce Springsteen nel Friuli Venezia Giulia, nella superba cornice di Villa Manin, Passariano. Dove l’unica vera incognita può arrivare solo dalle condizioni atmosferiche. In caso di pioggia, per la verità, la Regione - che affianca gli organizzatori locali dell’Azalea Promotion e quelli nazionali della Barley Arts - mette a disposizione ben cinquemila ombrelli con il logo «Ospiti di gente unica» (con la speranza ovviamente di non doverli aprire...).

Il tour è quello con la Seeger Sessions Band: diciassette elementi (fra cui Patti Scialfa, mamma dei tre pargoli Springsteen), che suonano violini, basso tuba, trombone, tromba, sassofono, banjo, pedal steel guitar, pianoforte, batteria... Per un repertorio quasi interamente composto dalle canzoni dell’ultimo disco, «We shall overcome - The Seeger Sessions», dedicato appunto alla musica di Pete Seeger e alle radici della musica americana.

Non sarà dunque il «solito» concerto di Springsteen, una di quelle adrenaliniche cavalcate lunghe quattro ore, grazie alle quali l’ex ragazzo del New Jersey ha costruito parte del suo mito.

A Bologna, domenica sera, al debutto del tour italiano (il più lungo mai tenuto dal Boss nel nostro Paese: ben sette date, fra cui domani all’Arena di Verona, con gran finale il 10 ottobre a Roma...), Springsteen ha aperto con «John Henry», proseguendo con «Oh Mary don’t you weep», «Old Dan Tucker», «Eyes on the prize» e «Jesse James». Solo a questo punto il nostro ha inserito un paio dei suoi classici, «Atlantic City» e «The river» e ancora «Johnny 99», seguiti più tardi da altri tre o quattro suoi brani, fra cui «My city of ruins» fra i bis.

Come lui stesso ha raccontato, in questi concerti l'atmosfera sul palco è quella delle feste di campagna, la stessa che in fondo pervade il recente disco. Un ritorno alle radici soul: una scelta che forse ha spiazzato i vecchi fan, quelli innamorati appunto delle maratone rock con la E Street Band. Pensando ai quali Springsteen ha detto: <WC1>«Buona parte delle mie composizioni viene dalla tradizione folk, specialmente quando scrivo materiale acustico. Incidere questo album è stato liberatorio perchè ho un grande amore per i diversi suoni delle radici capaci di creare un mondo con poche note e qualche parola...».

Da segnalare che oggi esce in Italia, molto attesa dai fan, «Greetings from E Street» (Rizzoli, 96 pagine, 40 euro), la biografia firmata da Robert Santelli che ripercorre tutta la storia musicale del Boss. In un cofanetto che riproduce la valigia rinforzata che i musicisti usano per gli strumenti, fra una pagina e l’altra sono applicate delle buste che contengono riproduzioni di biglietti, pass, scalette autografe, manifesti, vecchi articoli...

Pochi giorni fa è invece stata pubblicata una nuova versione dell’ultimo disco, «We shall overcome - The Seeger Sessions - American Land Edition»: cd più dvd, con tre nuove canzoni («How can a poor man stand such times and live», «Bring ’em home» e «American land», ritratto dell'America di oggi, descritta come un posto dove i valori democratici sono sotto attacco...) e altre due presenti solo su alcune copie della prima edizione («Buffalo gals» e «How can I keep from singin’»).

Ma torniamo al concerto di stasera. Col Boss, sul palco, ci saranno Sam Bardfeld al violino, Art Baron alla tuba, Frank Bruno alla chitarra, Jeremy Chatzy al contrabbasso, Mark Clifford al banjo, Larry Eagle (batteria e percussioni), Charles Giordano (organo, piano e fisarmonica). E ancora Ed Manion al sax, Mark Pender alla tromba, Richie Rosenberg al trombone, Soozie Tyrell al violino e le voci di Lisa Powell e Patti Scialfa.

Gli organizzatori segnalano che ci sono ancora dei biglietti disponibili: apertura delle casse alle 16.

mercoledì 27 settembre 2006

Bruce Springsteen ritorna in Italia. E per la prima volta il suo tour fa tappa anche nel Friuli Venezia Giulia. Evento da non perdere, insomma, visto che il Boss (così lo chiama il suo popolo...) è uno di quelli che hanno scritto la storia della musica rock.

Dunque innanzitutto la conferma delle date: domenica primo ottobre a Bologna, lunedì 2 a Torino, mercoledì 4 a Villa Manin di Passariano, Codroipo (prima regionale e seconda volta nell’intero Triveneto dopo lo stadio Bentegodi di Verona nella primavera ’93). E poi il 5 all’Arena di Verona, il 7 a Perugia, l’8 a Caserta (dove è in corso una polemica sulla concessione della Reggia per il concerto), il 10 gran finale a Roma. Il tour è quello con i 17 della «Seeger Sessions Band».

Ma si diceva che Bruce è uno dei pochi protagonisti di primissimo piano dell’intera storia del rock. Quattro, cinque, sei...? Gli altri nomi metteteli voi, a seconda dei gusti e delle sensibilità. Ma sappiamo tutti che un posto spetta di diritto a lui, assoluto numero uno degli ultimi trent’anni di questa (relativamente) giovane vicenda culturale e sociale.

La sua storia comincia il 23 settembre del ’49 a Freehold, New Jersey. Douglas Springsteen (origini irlandesi, classe ’24, morirà nel ’98) e Adele Zirilli (chiaramente italiana, il Boss le fece fare una comparsata nei suoi concerti italiani nel ’99) danno al primo figlio il nome Bruce Frederick. Poi arriveranno le sorelle Virginia e Pamela.

A sette anni, nel ’56, il ragazzino vede alla tivù Elvis Presley all’Ed Sullivan Show: la leggenda vuole che subito dopo dica alla madre «io voglio essere come lui» e si faccia comprare la prima chitarra. La seconda, quella vera, l’avrà per diciotto dollari, di seconda mano, nel ’63. E comincia a suonarla seriamente, attratto dal rock e dal soul che ascolta alla radio.

Nel ’65 entra in un gruppo locale chiamato The Castiles: due chitarre, basso e batteria, in linea con la dilagante Beatlemania. Poi incontra Steve Van Zandt (il futuro Little Steven) e Danny Federici, con cui nel ’69 forma gli Steel Me. Qualche anno dopo, i due saranno con lui nella E Street Band. Segue la solita trafila, serate e audizioni fra una costa e l’altra degli States. Fino al giugno ’72, quando il ventitreenne Springsteen firma con la Columbia Records un contratto per dieci album.

Il primo esce nel gennaio ’73, s’intitola «Greetings from Asbury Park, New Jersey». A novembre dello stesso anno fa già il bis con «The wild, the innocent & The E Street Shuffle». Accoglienza buona, popolarità crescente. Ormai si aspetta solo il botto. Un giorno il critico John Landau (suo futuro produttore) scrive su un giornale la memorabile frase «Ho visto il futuro del rock’n’roll: il suo nome è Bruce Springsteen».

E il botto arriva col terzo album: esce nel ’75, s’intitola «Born to run», un milione di copie piazzate in pochi mesi. «Time» e «Newsweek» dedicano le copertine al nuovo «re del rock’n’roll».

Il resto è storia. Nel ’78 «Darkness on the edge of town», nell’80 il doppio «The river», nell’82 la parentesi acustica di «Nebraska», nell’84 la consacrazione come superstar mondiale di «Born in the Usa»... Un percorso costellato di galoppate d</IP>al vivo (con i suoi memorabili concerti di quattro ore e passa, come a San Siro nell’85...) e nuove perle musicali, fino alla suggestioni di «The ballad of Tom Joad» e a quel monumento discografico che è «Tracks»: cofanetto di quattro cd uscito nel ’98, nel quale il Boss ha inserito brani inediti scartati in occasione delle registrazioni dei precedenti album, e rivelatisi di livello eccellente.

Ancora dischi, ancora tour. Nel 2002 Springsteen pubblica «The Rising», il cui tema è la rinascita di un paese dopo l’attacco alle Twin Towers, senza scadere in tematiche patriottiche e comunque rimanendo sempre a distanza da Bush e dalla sua scelta guerrafondaia. Nel 2005 l’album acustico «Devils & Dust» parla anche delle sensazioni di un soldato statunitense in guerra.

Quest’anno è uscito «We Shall Overcome: The Seeger Sessions», ventunesimo album ufficiale e lavoro in qualche modo anomalo, composto com’è da cover di brani della tradizione americana accomunati dal fatto di essere stati tutti interpretati da Pete Seeger, padre con Woody Guthrie della tradizione folk americana, ma anche della canzone sociale e politica.

«Molto di quello che scrivo - ha riconosciuto Springsteen - soprattutto quando compongo in modo acustico, attinge direttamente dalla tradizione folk. Realizzare quest’album ha rappresentato per me un cammino liberatorio a livello creativo, perché tutte le diverse sonorità delle origini mi appassionano... hanno il dono di riuscire a rievocare un intero universo con semplici note e poche parole».

E Jon Landau, il suo storico manager: «Il disco è attraversato da un senso di spensieratezza, di grande serenità e di incontaminata gioia che lo rendono speciale dall’inizio alla fine. Bruce ha raccolto l’anima del repertorio classico americano ed è riuscito a dare ad ognuno di questi brani un’interpretazione personale di grande energia, modernità e intensità...».

Springsteen ha registrato il disco con Sam Bardfeld al violino, Art Baron alla tuba, Frank Bruno alla chitarra, Jeremy Chatzy al basso, Mark Clifford al banjo, Larry Eagle (batteria e percussioni), Charles Giordano (organo, piano e fisarmonica). E ancora Ed Manion al sax, Mark Pender alla tromba, Richie Rosenberg al trombone, Soozie Tyrell al violino e le voci di Lisa Powell e Patti Scialfa. I titoli: «Old Dan Tucker», «Jessie James», «Mrs. McGrath», «Oh, Mary, don't you weep», «John Henry», «Erie Canal», «Jacob's ladder», «My Oklahoma home», «Eyes on the prize», «Shenandoah», «Pay me my money down», «We shall overcome», «Froggie went a-courtin'».

Anche rileggendo le sue radici Springsteen continua dunque a cantare l’altra faccia dell’America e del sogno americano: quella dei perdenti e degli umili, della provincia e delle periferie, del rock - e più in generale della musica popolare - come ultima ciambella di salvataggio per vite altrimenti smarrite.

Per gli amanti del gossip Bruce è sposato in seconde nozze dal ’91 con Patti Scialfa, voce della E Street Band, dopo il breve matrimonio con la modella Julianne Phillips. Da lei ha avuto tre figli: Evan, Sam e Jessica. Quest’estate si è parlato di crisi fra i due, ma poi la cosa è stata smentita.

Il concerto del 4 ottobre a Villa Manin comincia alle 21.15. Novemila biglietti sono stati già venduti, altri sono ancora disponibili nell’abituale circuito di prevendite (a Trieste al Ticketpoint di Corso Italia 6/c). Altre informazioni su www.azalea.it