venerdì 28 febbraio 2014

DISCHI, cristiano de andrè, come in cielo così in guerra

CRISTIANO DE ANDRÈ COME IN CIELO COSÌ IN GUERRA (Nuvole Production) La partecipazione al Festival di Sanremo obbliga un artista a uscire con un nuovo album, o almeno con la riedizione dell’ultimo lavoro discografico “aggiornato”. Il cinquantunenne figlio di Faber non sfugge alla regola. Riecco dunque questo disco pubblicato poco meno di un anno fa, con l’aggiunta delle due canzoni sanremesi. “Invisibili”, delicato affresco sulla Genova della sua adolescenza, brano fermato dal televoto ma premiato dalla critica, è sicuramente migliore di “Il cielo è vuoto”, con cui l’artista ha incassato un dignitoso settimo posto (nel ’93 con “Dietro la porta” arrivò secondo...). L’album è l’ideale seguito di “Scaramante”, il disco del 2001 al quale seguirono il “live” in studio “Un giorno nuovo” del 2003 e i due capitoli dedicati alla rilettura del repertorio del padre Fabrizio, “De André canta De André”, nel 2009 e 2010. Fra le canzoni del disco c’è anche “Il mio esser buono”, scritto da Zibba - finalista fra le Nuove proposte - per Cristiano.

DISCHI, david crosby, croz

Okay, dateci pure degli inguaribili nostalgici (solo musicalmente...). Ma noi continuiamo a pensare e dunque scrivere che fra i grandi del passato e i presunti grandi di adesso non ci sia proprio partita. Tre a zero, palla al centro. E, badate bene, non pensiamo soltanto ai soliti celebratissimi Beatles e Bob Dylan, Stones e Pink Floyd, David Bowie e gli altri dell’olimpo. Anche musicisti che negli anni Sessanta e Settanta inseguivano da vicino le primissime posizioni facevano, e in certi casi continuano a realizzare, musiche e canzoni che le star di oggi se le sognano. Un mese fa scrivevamo di Neil Young, che - a quarantacinque anni dagli esordi con i Buffalo Springfield, e i trionfi subito dopo con Crosby Stills & Nash e da solista - continua a essere apprezzato da legioni di fan e a influenzare generazioni di musicisti. Ne parlavamo in occasione della pubblicazione di “Live at the cellar door”, album nuovo e vecchio al tempo stesso, visto che è una summa delle cose migliori registrate in sei concerti tenuti fra il novembre e il dicembre 1970 al Cellar Door di Georgetown, Washington Dc. Per una sorta di par condicio proiettata al passato, oggi vi proponiamo invece “Croz” (Blue Castle / Warner), nuovo album ma anche soprannome usato dagli amici di David Crosby, che quaranta e passa anni fa - dopo l’avventura nei Byrds - stava nel trio citato, che quando arrivò Neil Young divenne più che un quartetto una vera e propria superband. David Van Cortlandt Crosby, nato a Los Angeles, classe 1941, ha avuto una vita spericolata che al confronto Vasco Rossi sembra un chierichetto. Droghe, galera, un rischioso trapianto di fegato sono solo i titoli dei capitoli di una vita che ha conosciuto anche una fase, negli anni Ottanta, in cui il nostro girava con la pistola perchè temeva di finire come John Lennon. Per fortuna Crosby ha prodotto anche perle musicali purissime. Oltre agli album con i “suoi” gruppi, il capolavoro solista rimane “If I could only remember my name”, pubblicato nel ’71. Ora, vent’anni dopo quel “A thousand roads” che può essere derubricato al rango di opera minore, ecco questo nuovo lavoro che coniuga esperienza e freschezza. Il racconto del viaggio di tutta una vita, come ha detto lui stesso, ma anche un autoritratto intimo e onesto. Dalla stagione hippy agli anni dorati da rockstar, dalla caduta alla rinascita, dalla rinata vena creativa fino all’equilibrio ritrovato o forse trovato per la prima volta. Nel disco, realizzato con la collaborazione del figlio conosciuto solo da adulto, profumo di West coast. Melodie e suoni rilassati. Lui, il grande vecchio, ci scruta dalla copertina coi capelli bianchi e gli inconfondibili baffoni. E uno sguardo che emana saggezza.

SACRI CUORI stasera ven a trieste, teatro miela

Romagnoli di nascita ma apolidi per vocazione, innamorati di blues e folk, senza mai dimenticare le origini italiane che sanno di melodia. Spiegano così il nome che hanno scelto: «Sacri Cuori erano quelli appesi sopra i letti delle nostre nonne, in un’Italia che sognava di più. Sacri Cuori erano quelli nelle case di Nogales, in Messico, appena sotto il confine con l’Arizona...». Noti in Italia soprattutto per aver firmato la colonna sonora del film “Zoran, il nipote scemo”, i Sacri Cuori - il cui tour fa tappa venerdì alle 21 a Trieste, al Teatro Miela - sono una band (ma loro preferiscono farsi chiamare “collettivo”) che suona molto in giro per il mondo: recentemente erano in Inghilterra, Grecia, Polonia, Bulgaria, ma hanno tenuto concerti anche in America, Australia, Argentina... «Sì, suoniamo molto all’estero - dice Antonio Gramentieri, classe ’72, chitarrista e membro originario del gruppo - dove viene apprezzata la nostra sensibilità italiana, la melodia che comunque rappresenta le nostre radici. Fuori dall’Italia c’è un approccio più culturale alla musica, c’è più curiosità, e ciò ci ha permesso di coltivare una sorta di patriottismo musicale di ritorno». Quando e come avete cominciato? «Con il batterista Diego Sapignoli e il bassista Francesco Giampaoli lavoriamo assieme da tanti anni. Ma come Sacri Cuori, originariamente un trio, siamo nati nel 2009. E nel 2010 è uscito il nostro primo album, “Douglas & dawn”, registrato in Arizona, seguito due anni dopo da “Rosario”, entrambi i dischi realizzati con vari ospiti internazionali. Noi tre siamo romagnoli, gli altri che si sono via via aggiunti arrivano da mezza Italia». Com’è che la Romagna sforna tanti musicisti? «Fra balere e feste dell’Unità, c’è sempre stata una grande tradizione di orchestre, musica da ballo, musicisti professionisti. Da noi c’è un tessuto di base forte, la musica è la forma di intrattenimento più diffusa». Ci spiega questa cosa del collettivo? «È una forma di collaborazione presente in altre arti, l’ambizione è quella di creare una sorta di cenacolo musicale. Nel quale ognuno coltiva altri interessi, chi la scrittura, chi le arti visive, i video...». Mischiate folk, blues, canzone... «Forti di una coerenza iniziale: proporre un mix che unisce le musiche con le quali ci siamo formati. Dunque musica americana, afroamericana, latina, senza dimenticare la melodia italiana di cui dicevo prima». La colonna sonora di “Zoran”? «Con Matteo Oleotto, regista del film, ci eravamo conosciuti in una rassegna intitolata “Rock in Rebibbia”. Aveva l’idea di questo film, ci eravamo lasciati con una mezza promessa di fare qualcosa assieme. E poi ci ha chiamati». Musiche “friulane” come il film? «Proprio “friulane” no, anche se ci abbiamo messo dentro anche qualche spruzzata musicale di Nordest. Diciamo che noi abbiamo sempre coltivato un interesse per le aree di confine, da noi spesso indagate anche all’estero. E poi la nostra è musica apolide, che pesca ovunque». Prossime cose? «Il nostro terzo album, che uscirà dopo l’estate. Dico terzo, e non quarto, anche se nella discografia c’è anche quello con la colonna sonora del film».

lunedì 24 febbraio 2014

SANREMO, ultimo pezzo

Difficile vedere il bicchiere mezzo pieno, in un’edizione di così basso livello. Tanta lunghezza e poca bellezza, il festival della canzone trasformato in un nostalgico varietà celebrativo dei sessant’anni della televisione italiana, canzoni che non entreranno nella miglior tradizione della rassegna e che l’anno prossimo tutti avranno (giustamente) dimenticato, da ultimo ascolti bassi. E del resto come poteva essere altrimenti...? Ma vogliamo tentare di essere almeno un po’ ottimisti. E allora segnaliamo un dato che regala un briciolo di speranza: i tre artisti che hanno conquistato il podio arrivano tutti da Sanremo Giovani, o dalle “Nuove proposte” della rassegna, che dir si voglia. Che ogni anno vengono snobbate e relegate a ore impossibili, ma che ci hanno regalato star come Laura Pausini, Eros Ramazzotti, Andrea Bocelli... Arisa, la vincitrice, vero nome Rosalba Pippa (classe ’82, nata a Genova ma lucana a tutti gli effetti), ha cominciato da questo palco appena cinque anni fa. La ricordiamo ancora, aria smarrita, occhialoni da cartoni animati, a sbaragliare la concorrenza con quel delicato affresco che era “Sincerità”. Con lei, al pianoforte, c’era il nostro Lelio Luttazzi, nella sua ultima apparizione davanti al grande pubblico. In questi anni la ragazza ha cambiato look e fatto quasi di tutto, da particine nel cinema alla giurata di “X Factor” (con storiche baruffe con l’insostenibile Simona Ventura). A Sanremo meritava di vincere due anni fa, quando arrivò seconda con quel gioiellino che rimane “La notte”, scritta da Giuseppe Anastasi, suo ex fidanzato, che firma anche questa “Controvento” che le ha permesso di vincere stavolta. Anche Raphael Gualazzi e Renzo Rubino arrivano dall’affermazione a Sanremo Giovani: il primo nel 2011, l’altro lo scorso anno. Il pianista e jazzista urbinate rappresenta anzi una delle note più commestibili dell’edizione: la sua partnership con “l’uomo mascherato” The Bloody Beetroots (l’italianissimo Simone Cogo, star dell’elettronica, originario di Bassano del Grappa) ha aggiunto pepe ai fiumi di camomilla dispensati nelle cinque serate. Il ventiseienne Oronzo in arte Renzo Rubino (classe ’88, nato a Taranto e cresciuto a Martina Franca) è la vera sorpresa del podio. Probabilmente è stato il cinquanta per cento dei voti affidato alla giuria di qualità a premiare il ragazzo, la sua freschezza, la sua verve. Penalizzando il grande favorito della vigilia Francesco Renga, cui la canzone regalatagli da Elisa non ha portato fortuna. Meglio così, tutto sommato.

domenica 23 febbraio 2014

ADDIO AL MUSICISTA WO ORSELLI

Il musicista Giuseppe Orselli, per gli amici “Wo”, è morto per un infarto all’ospedale di Udine, dove si era recato per dei banali controlli. Romagnolo di Bagnacavallo, classe 1956, era arrivato a Trieste da ragazzo. Da alcuni anni viveva con la famiglia a Codroipo, in posizione più comoda per i continui spostamenti conseguenti al suo lavoro di rappresentante di macchinari per gli ospedali. La sua passione, sin da ragazzo, era però la musica. Nella Trieste degli anni Settanta è elemento attivo della scena musicale, suonando la chitarra nel Gruppo di espressione e ricerca musicale e in altre formazioni. Appassionato di “free jazz”, con gli anni passa prima alla tromba e poi al trombone. Dopo un periodo negli Ocho Rios, da qualche anno era una delle colonne della BandOrkestra di Marco Castelli, ma gli amici ricordano che tuttora suonava con vari gruppi e “big band”, tutte le volte che era possibile: tanti chilometri percorsi ogni giorno, da molti anni, per il suo lavoro ma anche per la passionaccia per la musica. «Eravamo compagni di scuola al Liceo Galilei - ricorda commosso Donato Riccesi, imprenditore ma anche sassofonista, anche lui nella BandOrkestra -, abbiamo scoperto la musica e il jazz assieme. Allora suonava la chitarra non diversamente da come trattava il trombone oggi: la percuoteva, la violentava, un vero iconoclasta. La musica era la sua vita, la sua vera vita».

SANREMO, TANTA LUNGHEZZA E POCA BELLEZZA

Sempre meno festival della canzone, sempre più nostalgico varietà televisivo, avanspettacolo, autocelebrazione, gigantesco contenitore con dentro tutto e il contrario di tutto. In un mondo dove i consumi musicali da tempo si sono parcellizzati, dove ogni gruppo e ogni tribù - giovanile e non - hanno la propria musica, i propri artisti, le proprie mode, il problema è che ogni anno Sanremo pretende di fare un maxi-spettacolo per tutti i gusti, una mega-maratona di cinque sere, dall'ora di cena fino alle ore piccole, le cui leggi sono dettate sempre e comunque e solo dai dati di ascolto. Meno dell'anno scorso, più di quella volta con la Ventura, così così rispetto a Morandi, e vai con i paragoni che appassionano solo Rai e organizzatori. Fazio si è da tempo baudizzato, il suo immutabile e ormai decennale teatrino collaudato a "Che tempo che fa" con la Littizzetto mostra la corda. Siamo in presenza di quei meccanismi di spettacolo, il presentatore perfettino che finge di scandalizzarsi per le parolacce e le provocazioni di lei, che la prima volta ti divertono, la seconda un po' meno e poi, via via, fino a un senso di autentico e sincero fastidio. Idem per questo eterno clima da "politically correct" de noantri. Quest'anno il pretino savonese e il suo staff hanno puntato sulla bellezza ferita del nostro Paese, simboleggiata da quella scenografia settecentesca ma "sgarrupata" della triestina Emanuela Trixie Zitkowsky e dalle immagini, la prima sera, del treno deragliato sulla Genova-Ventimiglia. Sfiga ha voluto che il sipario non ha funzionato e sono subito arrivati i due disoccupati aspiranti suicidi dal loggione: "nu juorno buono", giusto per citare il rapper salernitano Rocco Hunt, vincitore fra i giovani, in questi casi si vede dal mattino... Come ha detto qualcuno, l'Italia è stufa dei suoi partiti (Baudo stava alla Dc come Fazio sta al Pd) ma anche del suo Sanremo, li vota e lo guarda ancora ma molto meno che in passato. E il paradosso vuole che nelle stesse ore in cui va al governo il più giovane premier di sempre (ieri sera brevemente sbeffeggiato da Crozza), le cui parole d'ordine sono rottamazione e una riforma al mese, al festivalone non cambia mai nulla. Anzi, i piccoli progressi intravisti l'anno scorso e in alcune edizioni passate stavolta sono stati spazzati via con un colpo di spugna. A botte di Carrà e Kessler, Franca Valeri e Don Matteo, maestro Manzi e Brignano e persino Mago Silvan. Ma la botta definitiva arriva dalle canzoni. Il vecchio patron Ravera diceva che per fare un buon festival ci vogliono almeno tre brani che non si dimenticano facilmente: merce quest'anno molto rara, anzi, inesistente. Le cose migliori da Cat Stevens, Damien Rice, Rufus Wainwright (tutti dopo mezzanotte), Paolo Nutini, Ligabue (tornato anche ieri sera), Stromae. In Italia siamo sempre in bilico, ha detto Crozza, fra la grande bellezza e l'enorme disastro. Parole sante. È vero, in Italia abbiamo ben altri problemi. Sanremo è fuori classifica, ma non può essere migliorato. Il suo dna è questo. Può essere trasformato in un Sanremo Awards, affidato a Pif (le cui pillole avrebbero alleggerito le serate se distribuite fra le canzoni, magari al posto di legioni di ospiti inutili). Oppure chiuso. Con buona pace per tutti.

sabato 22 febbraio 2014

ADDIO A FRANCESCO DI GIACOMO, VOCE DAL BANCO

Un malore mentre era al volante, lo schianto contro un’auto che procedeva in senso opposto, il tentativo di trasportarlo in ospedale, poi più nulla. È morto così, ieri sera, vicino Roma, Francesco Di Giacomo, il cantante del Banco del Mutuo Soccorso. Fabio Fazio lo ha ricordato durante il Festival di Sanremo, il pubblico dell’Ariston si è alzato in piedi. Di Giacomo aveva sessantasette anni, era la voce del “progressive” italiano. Nel ’71 era entrato nel Banco, fondato due anni prima dai fratelli Vittorio e Gianni Nocenzi: assieme hanno attraversato oltre quarant’anni di musica italiana. All’alba degli anni Settanta, con Orme, Premiata Forneria Marconi, Osanna e altri gruppi, la band romana ha scritto le pagine più importanti dell’allora nascente pop/rock italiano. «Nocenzi cercava un cantante alto e biondo ed arrivai io, che sono l’esatto contrario», disse una volta, scherzando sulla sua mole molto importante, utilizzata anche dal cinema. È apparso in ben tre lavori di Federico Fellini: “Satyricon” (1969), in una breve sequenza dove, in un vicolo di Roma, accenna una melodia con uno strumento a corde; “Roma” (1972), nella parte di un compare del protagonista nella scena del bordello; “Amarcord” (1973), nella parte di un addetto alla sicurezza del califfo, al Grand Hotel di Rimini. Voce tenorile, studi musicali da autodidatta, autore di quasi tutti i testi del gruppo, Di Giacomo aveva realizzato anche dei lavori solisti, fra cui “Non mettere le dita nel naso”, album pubblicato nell’89. Ma è soprattutto per la discografia con il Banco, che lo ricordiamo: nel ’72 “Banco del Mutuo Soccorso” (con la copertina ormai da collezione a forma di grande salvadanaio) e “Darwin!” (lavoro sull’evoluzione della specie, ripreso due anni fa nell’edizione del quarantennale), “Io sono nato libero” nel ’73, “Banco” nel ’75, “Come in un'ultima cena” nel ’76, “Canto di primavera” nel ’79, “Urgentissimo” nell’80, “Buone notizie” nell’81... Non si pensi però a una carriera declinata solo al passato. Non più tardi di sei mesi fa, Di Giacomo e gli altri del Banco (che nel corso degli anni ha cambiato varie formazioni, ma il cui nucleo centrale è rimasto quello formato da Vittorio Nocenzi e dallo stesso Di Giacomo) sono tornati al Deposito Giordani di Pordenone, nell’ambito dell’On the road tour 2013, che era il seguito della tournèe del quarantennale passata anche quella nella nostra regione. In quell’occasione Nocenzi ci aveva detto: «Nei concerti ci siamo accorti che “Darwin”, con un impianto narrativo così evocativo, pur avendo quarant’anni, funziona ancora. Nel disco la teoria scientifica è solo un pretesto per parlare dell’uomo, della sua storia, del suo percorso, delle sue lotte, della sua dignità. L’anno prossimo andiamo a suonare negli Stati Uniti e in Australia. E c'è un progetto per Cina e Giappone». Sì, perchè il Banco - come altri gruppi del pop/rock italiano - aveva un seguito anche all’estero: in Asia, in Sud e Centro America... Negli Stati Uniti “Darwin” è ancora al primo posto nella speciale classifica dei migliori album progressive di sempre. Una grande soddisfazione, per gli eterni ragazzi del Banco. «Che conferma - ancora parole di Nocenzi - il discorso appena fatto: quell’intuizione funziona ancora, a distanza di tanto tempo. All’estero hanno amato e amano la grande suggestione di un racconto così ampio, evocativo di riflessioni e immagini». Francesco Di Giacomo aveva detto una volta: «Quando penso alla morte la paragono al mare, immenso e aperto». Su Twitter Jovanotti lo ricorda con i versi di “Moby Dick”, altro loro capolavoro: «La sorte corre nella tua scia, colpo di coda e vola via. Ciao Francesco, voce meravigliosa...».

SANREMO, RENGA E ARISA in pole position

Che poi a pensarci bene basterebbe così poco. Fazio è dalla prima sera che ce la mena con la bellezza. E poi la vera bellezza, la grande bellezza della musica e delle canzoni deve spingere e brigare e aspettare le ore piccole, per essere ammessa al Festival di Sanremo. Ieri l'eccezione che conferma la regola. Sin dalla prime battute, affidate a Marco Mengoni, vincitore dell'anno scorso con "L'essenziale", che ha aperto con un delicato omaggio all'istriano Sergio Endrigo, vincitore a Sanremo nel '68 con "Canzone per te". Il fustacchione metrosexual di Ronciglione, provincia di Viterbo, che in pochi anni è passato da "X Factor" alle classifiche europee, ha scelto la crepuscolare "Io che amo solo te". Che ha cinquantadue anni sulle spalle ma ha ancora una grazia, una delicatezza che le canzoni in gara quest'anno se le sognano. Ecco il punto della questione. Che va ben al di là del calo degli ascolti, della formula che l'anno scorso funzionava e stavolta mostra già la corda, dell'interminabile varietà celebrativo dei sessant'anni della televisione, dei siparietti fra il presentatore perfettino e la guastatrice Littizzetto che ormai sanno di stantio. Il punto è che le canzoni quest'anno non sono un granchè. Anche al secondo e terzo e successivi ascolti non si riesce a trovarci dentro granchè di buono. Ne abbiamo avuto la controprova ieri, nella serata in onore del Club Tenco, che per tanti anni è stato "l'altro festival", quello dei cantautori. E i quattordici presunti big hanno riletto alla loro maniera, quasi tutti affiancati da un ospite, canzoni di De Gregori (Perturbazione, "La donna cannone"), Paolo Conte (Frankie Hi-Nrg con Fiorella Mannoia, "Boogie"), Dalla (Ron, "Cara"), Claudio Lolli (Sinigallia, "Ho visto anche degli zingari felici"). Senza dimenticare Battiato (con Arisa), Zucchero (Sarcina), Fossati (Noemi), Pino Daniele (Giuliano Palma), Bennato (Renga), persino Gaber (Rubino). Citazione a parte per una "Nel blu dipinto di blu", rivitalizzata da Raphael Gualazzi con l'uomo mascherato (alias The Bloody Beetroots). E per l'omaggio di un figlio a un padre: "Verranno a chiederti del nostro amore", che Fabrizio De Andrè aveva scritto per la mamma di Cristiano De Andrè. Tutto questo per dire che quando lo spazio viene lasciato alle grandi canzoni, la qualità sale. E si sente. Ma siamo alla finale, attesa oltre che per il ritorno di Ligabue (dopo la splendida apertura della prima sera, quando ha cantato Creuza de ma" con Mauro Pagani al bouzouki) e quello di Crozza (che metterà alla berlina il neo premier Renzi), anche per il motivo di sempre: vedere chi la spunta, alla fine. Diciamo allora che le quotazioni di Noemi, indicata fra i favoriti della vigilia, ma tornata dai mesi a Londra conzata come una squatter imbolsita, sono scese di molto.

venerdì 21 febbraio 2014

SANREMO, prima serata

La prima serata del 64.o Festival di Sanremo si sarebbe potuta concludere tranquillamente alle 21.10. Dopo le poche parole di Fabio Fazio dedicate alla bellezza, le immagini del treno deragliato un mese fa sulla Genova-Ventimiglia, la protesta dei due disoccupati che minacciavano di buttarsi dalla galleria (proprio come nel '95, quando Pippo Baudo salì sul cornicione a indurre l'uomo a più miti consigli). E soprattutto dopo Ligabue, che nel giorno del compleanno di Fabrizio De Andrè e nel trentennale dell'album "Creuza de ma", ha cantato il brano che dava il titolo a quel capolavoro, accompagnato al bouzouki da Mauro Pagani (autore delle musiche del disco e ora direttore artistico del Festival). Tornerà sabato per la finale, uno dei pochi buoni motivi per vederla. Perchè sapete qual è la novità? E' che forse per la prima volta quest'anno, del Festival di Sanremo, l'eterno rito, lo specchio del Paese e quelle balle là, in fondo in fondo non gliene importa più molto a nessuno. Nell'Italia alle prese con la peggior crisi economica di sempre, mentre in attesa del primo governo Renzi sembra che stiano crollando tutte le certezze, qui tutti o quasi tutti hanno ben altre cose a cui pensare. Stamattina magari i dati Auditel parleranno di grandi ascolti, meno dell'anno scorso ma più dell'edizione dell'anno prima ancora, ma l'impressione è quella di un approccio al Festivalone molto più soft, molto più rilassato che in passato. Fazio l'anno scorso ha puntato sulla contemporaneità, quest'anno raddoppia mettendo una fiche anche sulla bellezza, sulla "grande bellezza" sdoganata dal film di Sorrentino in corsa per l'Oscar. Ma la prima impressione è quella di un’edizione d’altri tempi - come la scenografia della triestina Emanuela Trixie Zitkowsky quasi suggerisce - interpretata dai protagonisti di oggi, l'Italia del 2014 non abita a Sanremo, ne è mille miglia lontana. E anche trovare sprazzi di bellezza fra le canzoni non è facile. I cantanti, poveracci, ci provano. Arisa (già favorita al podio con Noemi e Francesco Renga, attesi per stasera) punta sull'eleganza retrò per la definitiva affermazione. Frankie Hi Nrg viene dall'hip hop, colpisce soprattutto per la sua metafora della vita in salsa reggae: "Pedala" potrebbe essere dedicata a Renzi. Antonella Ruggiero sembra arrivare da un altro mondo: intimista, raffinata, quasi ascetica. Raphael Gualazzi & The Bloody Beetroots (alias Sir Bob Cornelius Rifo, che in realtà si chiama Simone Cogo e arriva da Bassano) sono la prima sorpresa musicale: trascinante miscela di soul, gospel ed elettronica. Cristiano De Andrè racconta con toni crudi e poetici la Genova della sua gioventù, papà Faber lo sorveglia dal cielo. Perturbazione spaziano nei due brani fra sesso disiinibito e luoghi comuni da bar. Giusy Ferreri è alla perenne ricerca di rilancio: difficile arrivi stavolta. Stasera secondo round. Fra i presunti big sfilano, oltre ai citati Noemi e Renga (una delle due canzoni è firmata da Elisa), Giuliano Palma, Renzo Rubino, Riccardo Sinigallia, Francesco Sarcina (quello delle Vibrazioni) e il sempiterno Ron. Ma c'è grande attesa anche per gli ospiti Claudio Baglioni e il canadese Rufus Wainwright, noto per i toni blasfemi di certi suoi brani, ma che qui canta la beatlesiana "Across the universe" e quella "Cigarettes and chocolate milk" che stava nella colonna sonora di "Caos calmo", di Nanni Moretti. Ecco, da Sanremo quest'anno arriva la solita sensazione di caos. Ma più calmo. Forse perchè la festa è finita.

mercoledì 19 febbraio 2014

ULTIMA LIBERTÀ, libro Gaudino su eutanasia, fine vita, etc...

L’ultima bomba arriva dal Belgio, che ha appena approvato - dopo mesi di polemiche e manifestazioni di piazza, a favore e contro - una legge che estende anche al minore il diritto all’eutanasia. Ovviamente solo in caso di malattia terminale grave e incurabile, abbinata a una sofferenza costante e insopportabile che non possa essere alleviata. Se il minore è cosciente, con la prospettiva di un decesso a breve. E con il consenso di entrambi i genitori e l’approvazione di uno psicologo. Condizioni dunque molto restrittive, ma la legge ha ovviamente scatenato polemiche su un tema molto delicato, con connotazioni etiche, mediche, filosofiche, religiose. Un tema che in Italia è legato al caso di Eluana Englaro (cinque anni fa, a Udine, fu interrotta la nutrizione artificiale, dopo diciassette anni di stato vegetativo) e negli Stati Uniti alla storia di Terri Schiavo (per lei l’interruzione avvenne nel 2005, dopo quindici anni di stato vegetativo e battaglie legali). «Bisogna distinguere - dice Luigi Gaudino, triestino, docente universitario a Udine e autore di “L’ultima libertà” -. L’accettazione o il rifiuto di terapie, anche mediante direttive anticipate, è un diritto ormai riconosciuto in gran parte degli ordinamenti. Diverso è il caso del suicidio del malato terminale: solo alcuni Paesi (ad esempio, l’Oregon e la Svizzera) ammettono che il medico possa aiutare il paziente a compiere questo passo. C’è poi la vera a propria eutanasia: un intervento attivo del medico, su richiesta del paziente, con somministrazione di sostanze mirate a provocarne la morte». Il Belgio? «Come l’Olanda prevedeva già tale soluzione per i maggiorenni. Ora l’ha estesa ai minori, suscitando molte comprensibili perplessità. È stata varcata una soglia di grande impatto psicologico. Ma non credo si corra il rischio di una riduzione delle cure assicurate ai bambini malati terminali. Non soltanto occorre che venga accertata “la capacità di discernimento” del minore e che la domanda sia condivisa dai genitori, ma è necessario che il decesso sia imminente e che le sofferenze, costanti e insopportabili, siano del tutto intrattabili: eventualità che, grazie alle terapie palliative, appare improbabile. Se poco cambierà nelle corsie degli ospedali belgi, resta comunque qualche dubbio circa l’opportunità di formalizzare una regola di questo genere». I casi di Terri Schiavo ed Eluana Englaro? «Presentano affinità e differenze. In entrambi si trattava di persone rimaste in stato vegetativo per molti anni, la questione riguardava il rispetto delle volontà – espresse in precedenza dalle interessate in maniera informale – di rinunciare ai trattamenti che le mantenevano in vita. Mentre però negli Stati Uniti le regole erano da tempo consolidate, per l’Italia il caso Englaro ha rappresentato un’assoluta novità». Dunque i giudici americani disponevano di precedenti. «E di leggi che indicavano in maniera univoca la via del rispetto dell’autodeterminazione formulata dal paziente: l’esito del caso Schiavo – nonostante l’accanimento giudiziario, politico e mediatico – era abbastanza scontato. Da noi ci si è mossi nel silenzio del legislatore, interpretando i dati normativi disponibili e valorizzando i principi dettati dalla Costituzione». In Italia invece il “fine vita” non è normato. «No, manca una legge in materia. Ciò non significa che vi sia un vuoto di regole ma che queste sono frutto del lavoro dei giudici i quali hanno interpretato il diritto vigente muovendosi alla luce della Costituzione: soprattutto l’articolo 2, sui diritti inviolabili dell’uomo, il 32 sulla volontarietà dei trattamenti sanitari, il 13 sulla libertà personale». Quindi il quadro italiano qual è? «Al momento la regola, di origine giurisprudenziale, dice che nessuno può essere costretto a subire un trattamento sanitario, salvo che l’obbligo sia previsto da una legge la quale, a sua volta, può giustificarsi solo con esigenze di protezione dell’interesse collettivo. Fa eccezione il Trattamento sanitario obbligatorio, il Tso psichiatrico, che mira a tutelare lo stesso malato ed è giustificato dalla sua incapacità di autodeterminarsi». E se la persona non è più in grado di esprimersi? «Deve essere rispettata la sua volontà, precedentemente espressa e ricostruita in base alle prove disponibili: scritti, dialoghi con le persone a lei vicine...». Negli Stati Uniti? «Fin dagli anni Settanta le corti e le leggi di tutti gli Stati tutelano l’autodeterminazione del paziente. Il soggetto può dettare le sue volontà in un “living will” e può anche nominare un rappresentante che interloquisca con i medici. Ove ciò manchi, si ricostruirà la volontà del soggetto in base a quanto egli abbia comunicato alle persone a lui vicine, alla sua personalità, alle sue convinzioni etiche, filosofiche, religiose». Dal punto di vista normativo quale paese ha la situazione migliore? «È difficile fare una classifica. Ogni Paese ha le sue specificità e il suo modo di declinare la libertà delle persone in un campo così delicato. Questo tipo di problemi trova origine nelle conquiste della scienza medica e della tecnologia. È nei Paesi in cui la medicina moderna è accessibile che la morte ha smesso, in molti casi, di essere un evento naturale diventando una questione di decisioni». E quando il soggetto rimane in uno stato di sospensione, nè di qua nè di là? «È qui che nasce quel lessico al quale cominciamo ad abituarci: stato vegetativo, sindrome “locked-in”, stato di minima coscienza, la scelta di “staccare la spina”». Il ruolo del Vaticano in Italia? «La religioni esprimono tutte una loro posizione sui grandi temi della bioetica. E il dialogo fra credenti e laici è prezioso. A patto che nessuno cerchi di imporre forzatamente le proprie tesi». E quello dei media? «La responsabilità dei media è enorme. Un libro scientifico affronta il problema in profondità, ma vende mille copie. Un giornale può raggiungere milioni di lettori; la televisione entra in tutte le case. Tutti hanno il diritto di formarsi un’opinione in base a dati corretti. Ciò non sempre è accaduto». Il futuro? «Il diritto è spesso vissuto come divieti e minacce di sanzione. Ma in questo campo il meccanismo non funziona. È possibile invece costruire regole flessibili, adatte alla complessità dell’esistenza umana e alle difficoltà che tutti noi sperimentiamo quando la malattia ci rende deboli. È questa l’idea che ispira la proposta di legge, formulata da un gruppo di giuristi all’insegna del “diritto gentile” e attualmente giacente in Senato». Cosa dice? «Che servono regole adattabili alle molteplici realtà e in grado di tener conto degli interessi del malato, delle preoccupazioni dei medici, dei timori e delle speranze dei familiari. E la guida dev’essere l’autodeterminazione del soggetto, il rispetto della sua dignità e identità: somma della sua esperienza di vita, delle sue convinzioni, dei suoi più profondi desideri».

domenica 16 febbraio 2014

STASERA TARJA TURUNEN, ex NIGHTWISH, a UDINE

Tarja Turunen è il soprano lirico finlandese, già voce dei Nightwish, che arriva domani a Udine, per un concerto al Teatro Nuovo che avrà inizio alle 21. Per ora si tratta dell’unica tappa italiana del tour mondiale “Colours in the road”, che tornerà nel nostro Paese a maggio: il 17 a Milano e il 19 a Roma. Una vera e propria anteprima, dunque, quella prevista nella nostra regione. «Ho cominciato a cantare da piccolissima - racconta l’artista -, basti pensare che fatto il mio primo spettacolo quando avevo tre anni. Non ricordo niente di quel momento, ma i miei genitori mi hanno detto che ho cantato una canzone di Natale durante un evento un chiesa». Cosa ricorda della sua infanzia in Finlandia? «Era un periodo bellissimo. Sono cresciuta in uno spazio molto sicuro, in un piccolo villaggio chiamato Puhos. Nel mio sogno c’era una foresta in cui suonare e molto spazio per correre in giro». Come combina la sua base classica con il rock, il metal? «Quando canto uso la mia tecnica classica per cantare anche musica rock. Utilizzo soltanto la mia voce in maniera più leggera quando canto musica classica. Nei miei concerti rock posso giocare ed essere più libera con la mia voce, piuttosto che cantare sempre in modo perfetto come negli spettacoli classici». L’esperienza con i Nightwish? «Non voglio andare indietro nel tempo per ricordare cose che sono successe durante quegli anni, sia belle che brutte. La mia esperienza con il gruppo è stata importante in quanto sono cresciuta anche come donna. Mi ha mostrato un aspetto diverso nella musica e senza l’esperienza e il mio lavoro con il gruppo non sarei dove sono ora. Per quanto mi riguarda non è necessario pensare ancora al gruppo. Rimarrà sempre come una parte della mia storia musicale e di vita, ma lasciamola come tale». Perchè la carriera solista? «Per molte ragioni, ma principalmente per la mia felicità. Volevo essere libera e fare arte a modo mio. Penso che i miei sogni fossero abbastanza forti». Cosa conosce, cosa le piace dell’Italia? «Amo il cibo, il vino, la cultura e l’antica architettura nelle città. Amo anche il fatto che posso ascoltare l’opera e la musica classica sulle strade italiane, indipendentemente da dove mi trovo. Il mio compositore classico preferito è Puccini. Ho visitato molti posti in Italia, ma credo di essermi innamorata della Lombardia, dei suoi laghi e delle sue montagne». Che musica ascolta? «Le colonne sonore dei film sono una delle mie più grandi influenze quando arriva il momento di scrivere nuova musica per i miei album. Ascolto anche vari generi di musica e di gruppi come i Muse, The Cure, Beatles e Laura Pausini». Tarja Turunen ha realizzato con i Nightwish album come “Wishmaster”, “Century child”, “Once”. Dal 2005 lavora come cantante solista, diventando una star del “symphonic metal”, con album come “Henkäys Ikuisuudesta” (pubblicato nel 2006), “My winter storm” (2007), “What lies beneath” (2010) e il recente “Colours in the dark” (2013). L’attuale tour “Colours in the road” è partito lo scorso ottobre dalla Repubblica Ceca e dopo la tappa udinese prosegue per vari paesi europei e il Sud America. In scena, con lei, una band che comprende anche Mike Terrana, batterista statunitense già componente della band metal dei Rage. Info www.musicandlive.it e www.azalea.it

sabato 15 febbraio 2014

SANREMO: LIGABUE ospite finale, testi delle canzoni

Per la serata finale Fabio Fazio incassa il sì di Ligabue, che arriva per la prima volta - e da “super ospite” - al Festival di Sanremo. Intanto le agenzie di scommesse danno Noemi, Francesco Renga e Arisa favooriti per il podio. E in attesa che martedì sera venga dato fuoco alle polveri, si passa il tempo dando un’occhiata ai testi delle canzoni in gara. Che sono ventotto, visto che ogni presunto “big” presenta - proprio come l’anno scorso - due brani, uno solo dei quali verrà ammesso alla finalissima di sabato 22. Insomma, viene confermata l’ecumenica formula secondo la quale nessuno viene eliminato (la tagliola rimane solo per i giovani), tutti vanno in finale ma con una sola delle due canzoni presentate. E allora leggiamoli, i testi di queste canzoni. Qualcuno ha già detto che, nonostante la voglia di contemporaneità manifestata da Fazio, la 64.a sarà come un’edizione d’altri tempi, interpretata però dai protagonisti di oggi. Tanta melodia, tanto amore, nessuna denuncia e nessuna “rottura”. Forse le uniche eccezioni sono quelle di Frankie Hi-Nrg Mc e Cristiano De Andrè. Il primo parte dalla metafora della bicicletta per allargare il tema alle salite e discese dell’esistenza, su una buona base ritmica (“Pedala”); mentre nell’altro brano, “Un uomo è vivo”, si lascia andare ai ricordi della casa d’infanzia per approdare a una riflessione esistenziale. Il secondo (con “Invisibili” e Il cielo è vuoto”) torna alla Genova della sua adolescenza, al rapporto difficile col padre Fabrizio, alle dure prove affrontate nei suoi primi cinquant’anni. Per il resto, si diceva, tanti temi sentimentali. Renga porta “Vivendo adesso”, firmata da Elisa: «Tu e io soltanto, il fuoco e le fiamme a dire che stiamo solo facendo sesso...». E in “A un isolato da te”: «Come mai non l’hai incontrato prima che commettessi il grave errore di credere che l’amore vero non esiste...». Giuliano Palma (“Così lontano” e “Un bacio crudele”, entrambe co-firmate da Nina Zilli) vira sull’esistenzial-intimistico. Proprio come Renzo Rubino, vincitore lo scorso anno fra i giovani, che propone “Ora” e “Per sempre e poi basta”. Arisa si affida a Cristina Donà (“Lentamente, il primo che passa”) e Giuseppe Anastasi (“Controvento”): un brano sembra teso al ritrovare se stessi, l’altro loda l’anticonformismo come scelta di vita. Noemi è anche co-autrice delle sue “Bagnati dal sole” (il racconto di una rinascita) e “Un uomo è un albero” (i desideri, i sogni di una giovane donna). E poi ci sono ancora Giusy Ferreri (“Il tuo passato non è invitato”: sottinteso, a questa cena...), Raphael Gualazzi & The Bloody Beetroots, Perturbazione (“L’Italia vista dal bar”), Antonella Ruggiero, Francesco Sarcina, Riccardo Sinigallia. E Ron, che torna a Sanremo 44 dopo il debutto (nel ’70, aveva sedici anni, in coppia con Nada), cantando ancora l’amore in “Un abbraccio unico” e “Sing in the rain”.

giovedì 13 febbraio 2014

VENDITTI a trieste / risposta alle polemiche

Noto con disgusto che il fascismo mediatico non è morto, al contrario è vivo e vegeto e detta le sue luride leggi. Il Comunismo invece è morto da tempo, perché nelle sue forme più aberranti è diventato puro fascismo. Io sono un uomo libero e penso di essere molto lontano dall'uno e dall'altro: il mio concerto ne è la mia testimonianza più pura. Credo che sia assurdo il solo pensare che una persona come me possa negare il dramma delle Foibe che sono il risultato e l'effetto di un modo di pensare vigliacco e assassino. Non mi sono soffermato su questo dramma perché il mio concerto è ricco di parole, di concetti di libertà e solo per parlare delle Foibe avrei dovuto spendere certamente più delle quattro ore di concerto che ho dato al mio pubblico. Dando per scontato l'assoluto disgusto verso quel dramma vissuto da tutto il popolo Istriano, il solo pensare che io possa essere dalla parte dei carnefici mi fa sentire parte di un paese ancora molto distante da qualsiasi forma di pacificazione. Io porto la pace e la libertà nel mio cuore, libertà per la quale ho lottato, in nome della quale vi chiedo di chiudere questa stupida e strumentale polemica. Onore ai Martiri delle Foibe e un abbraccio forte alla città di Trieste. Un Italiano libero Antonello

VENDITTI a trieste / 2

È finita dopo l'una di notte, l'altra sera al Rossetti, la tappa triestina del tour di Antonello Venditti "70-80, Ritorno al futuro". Quattro ore di tante, forse troppe chiacchiere, ma anche di splendide canzoni. Classici, come scrivevamo ieri a caldo, già consegnati alla storia della canzone italiana. E sta lì, fra quei brani, fra "Roma capoccia" e "Modena", fra "Lilly" e "Sara", fra "Ci vorrebbe un amico" e "Notte prima degli esami", la grande bellezza - omaggiata anche da Sorrentino, che lo ha voluto per un cameo nel film in corsa per l'Oscar - del 65enne cantautore romano. Che però ha sempre avuto, con gli anni è aumentata, questa esigenza di raccontare e soprattutto raccontarsi: dal ragazzino grasso che era alla mamma prof e "anaffettiva", dal padre viceprefetto che lo controllava alle manifestazioni studentesche alla nonna che lo portava sempre a messa, fino ovviamente al tormentato divorzio da Simona Izzo, sua eterna musa e ispiratrice di alcune delle sue più belle canzoni d'amore. L'altra sera, sapendo che aveva dinanzi una maratona (anche a Bologna, prima tappa del tour, aveva superato le tre ore e mezzo...), il nostro ha dosato le forze: quindici minuti di chiacchiere iniziali, poi altre, tante parole fra una canzone e l'altra, quelle degli anni Settanta, riprodotte come allora per pianoforte e voce. L'ingresso della band, un gruppo di ragazze invitate sul palco e alcune sigarette ("sì, sono un tabagista...") lo hanno rinfrancato. Poco prima di mezzanotte l'arrivo di Paolo Rossi, che aveva appena debuttato alla Sala Bartoli con "La coscienza di Zeno spiegata al popolo", ha acceso l'atmosfera. Due chiacchiere, altre sigarette, "Ricordati di me" cantata a due voci ("ma io la faccio da attore...", ha chiarito il monfalconese). È l'una di notte, pochissimi hanno dato forfait, la stragrande maggioranza resiste. Ma c'è solo il tempo per concludere, trionfalmente, con "In questo mondo di ladri".

VENDITTI a trieste / 1

Ci sono quelli che fra una canzone e l'altra non dicono una parola neanche se li ammazzi. Antonello Venditti, il cui tour "70-80 Ritorno al futuro" ha fatto tappa ieri sera al Rossetti, è di un'altra pasta. Dipendesse da lui, probabilmente parlerebbe e basta. Giusto con qualche cantatina ogni tanto, fra una chiacchiera e l'altra. Si scherza, ovviamente. Ma anche ieri quindici minuti iniziali a ricordare il ragazzino grasso che era, la mamma anaffettiva professoressa di greco e latino, il padre viceprefetto che lo controllava alle prime manifestazioni studentesche, la nonna che lo portava sempre a messa... E poi, fra un brano e l'altro, la seconda e la terza e la quarta puntata della sua vita. Ma al cantautore romano si perdona tutto, perché ha scritto tante bellissime canzoni. E dopo oltre quarant’anni di onorata carriera, dopo decine di classici già consegnati alla storia della canzone italiana, è normale che la sua “grande bellezza” si declini soprattutto al passato. Bene ha fatto, dunque, a dedicare il nuovo tour - che ha riempito il Rossetti di entusiasmo e ricordi - proprio ai classici degli anni Settanta e Ottanta. Del resto, che il sessantacinquenne cantautore (compleanno l’8 marzo, con festa-concerto al PalaEur) faccia parte della “grande bellezza” della capitale lo ha capito anche Paolo Sorrentino, che nel film in corsa per l’Oscar lo fa comparire in un breve ma significativo cameo nel quale interpreta se stesso. E che sta a significare proprio questo: fra i simboli romani, quelli fra i quali si dipana l’esistenza di Jep Gambardella (Toni Servillo) c’è anche lui, Antonello nostro. Ma torniamo al concerto. Prima parte pianoforte e voce, proprio come ai vecchi tempi, quelli degli esordi. Comincia con “Sora Rosa”, la sua prima canzone in assoluto, scritta in una domenica del ’63, casa borghese ai Parioli, Corso Trieste, quando nella sua cameretta il quattordicenne e grasso Antonello al pianoforte se ne viene fuori con quella melodia e quei versi crepuscolari. Prosegue con “Mio padre ha un buco in gola” e “Roma capoccia", "Campo de’ fiori” e "Le cose della vita”, ovviamente “Compagno di scuola": un salto nel passato di quarant’anni. Sembra di tornare ai tempi del Folkstudio, alba degli anni Settanta, album di debutto a quattro mani con Francesco De Gregori, s’intitolava “Theorius campus”, sembra ieri ed era il ’72. E proprio come avveniva nei concerti degli anni Settanta (a Trieste a una Festa dell'Unità, al Teatro Cristallo, a San Giusto...), a un certo punto entra la band. E anche una ventina di giovani spettatori invitati sul palco. “Penna a sfera", "Le tue mani su di me” e poi una sfilata di nomi di donna: “Marta”, “Lilly” (“quattro buchi nella pelle...”), “Giulia”, “Sara”... C’è tutto un canzoniere che scorre come il film delle nostre vite. Sono le 23, il concerto è a metà. Secondo la scaletta arriveranno ancora "Sotto il segno dei pesci”, “Modena”, “Notte prima degli esami”, “Ci vorrebbe un amico”, "In questo mondo di ladri”... Pare che alla fine scenda anche Paolo Rossi, che alla Sala Bartoli - cioè al piano di sopra - ha appena debuttato con "La coscienza di Zeno spiegata al popolo". Dopo mezzanotte dovrebbero cantare assieme "Ricordati di me". Se Paolo si ricorda le parole...

BOMBINO mart 11-2 a trieste, teatro miela

«Della mia infanzia ad Agadez, nel Niger, ricordo la povertà. Mi ha allevato mia nonna. Avevamo davvero poco. Vivevamo con la paura del governo, la situazione per noi tuareg era molto difficile. Ma ricordo che allora Agadez era un posto florido per il turismo e per la nostra culura. Ho ricordi felici di quand’ero bambino e tentavo di guadagnare qualcosa con i turisti». Parla Bombino, vero nome Omara Moctar, soprannominato il “Jimi Hendrix del deserto”, che domani alle 21 suona a Trieste al Teatro Miela, nell’ambito del “Nomad tour” già passato da Milano, Lecce e Firenze, e che toccherà giovedì Bologna, venerdì Siena e sabato Torino. Bombino è un berbero originario del Niger, persino Keith Richards è rimasto impressionato dalle sue doti chitarristiche. «La prima musica che ho ascoltato - dice l’artista - è quella tradizionale, che la gente suonava al mio paese. Ho scoperto il rock verso i dieci o undici anni». A quali usanze è legato? «Indossare il turbante mi mantiene in contatto con le mie radici. Lo tendo sempre al collo, sia in scena che nella vita di tutti i giorni». Il primo strumento? «Un piccolo piano ricevuto in dono da mio zio. Già allora volevo suonare la chitarra, ma ero timido e non avevo il coraggio di dirlo. Finchè un mio amico non me ne ha data una». Quando ha capito che la musica sarebbe stata la sua strada? «Sapevo da sempre di avere un destino da musicista. Avrei anche potuto guidare un tir o fare lo chef o qualcos’altro. Ma nulla sarebbe stato importante per me e per la mia identità come la musica». L’incontro più importante? «Ron Wyman (il regista che lo ha scoperto mentre girava un documentario - ndr), perchè tramite lui ho poi incontrato le altre persone importanti per la mia vita e la mia carriera. Lui è il mio “papà americano”. Gli devo buona parte del mio successo». I chitarristi che l’hanno più influenzata? «Ovviamente Jimi Hendrix, il re». Con Keith Richards com’è andata? «Quando l’ho incontrato e ho suonato con lui non sapevo nemmeno chi fosse. Ed è stato un bene, perchè sarei stato emozionato e nervoso, se avessi saputo che era uno dei Rolling Stones». Cosa l’ha colpita di più dell’Europa e degli Stati Uniti? «Mi sembra ancora incredibile che la gente abbia delle mentalità, degli stili di vita così diversi nelle varie parti del mondo. Non capisco come la gente viva nei freddi inverni, perchè mandi gli anziani a vivere da soli da qualche parte, come faccia a camminare lasciando per strada la gente che ha fame. Dell’Occidente non capisco molte cose come queste». Dove vive adesso? «A Niamey, capitale del Niger. Ma viaggio molto». Cosa suona in questo tour? «Soprattutto le canzoni del mio nuovo album, ma anche miei brani precedenti e adattamenti di musiche tradizionali tuareg». Conosce Trieste? «No, ma mi hanno detto che è una bella città sul mare. E sono curioso di visitarla». Bombino, astro nascente del “Tuareg blues” o “Desert blues”, è nato nel 1980 ad Agadez, Niger, nord dell’Africa. È un discendente dei Tuareg Ifoghas, tribù che lotta da secoli contro il colonialismo e l’imposizione dell’Islam più severo. Allievo di Haia Bebe, celebre chitarrista tuareg, ben presto entra a far parte della sua band. È lì che gli danno il soprannome di Bombino, semplice storpiatura dell’italiano “bambino”. “Group Bombino - Guitars from Agadez”, “Agadez” e “Nomad” sono i titoli dei suoi album.

sabato 8 febbraio 2014

100 ANNI CAFFÈ SAN MARCO, TRIESTE, UN LIBRO

È il 3 gennaio 1914, giusto un secolo fa, quando viene inaugurato il Caffè San Marco. I locali sono quelli di oggi, in via Battisti 18 (detta allora Corsia Stadion, l’intitolazione a Cesare Battisti è del 1918), edificio di proprietà delle Generali costruito appena due anni prima, intestatario dell’avventura tale Marco Lovrinovich, originario di Fontane di Orsera, due passi da Parenzo. Il caffè diventa subito ritrovo di studenti e intellettuali, ma anche rifugio di giovani irredentisti, dove vengono persino prodotti passaporti falsi per permettere la fuga in Italia (non dimentichiamo che un secolo fa Trieste era territorio austriaco) di patrioti antiaustriaci. È per questi motivi che dopo poco più di un anno, per la precisione il 23 maggio 1915, soldati austroungarici entrano nel locale e lo devastano, decretandone “la chiusura permanente”. La storia ha deciso diversamente. Un secolo e mille storie dopo, il Caffè San Marco - fresco reduce dall’ennesimo cambio di gestione, nell’edificio sempre di proprietà delle Generali - è uno degli ultimi caffè letterari europei: accoglie ancora clienti abituali, gente di passaggio, turisti e curiosi nei locali che hanno mantenuto quasi intatte le caratteristiche e l’atmosfera di cent’anni fa. E proprio lì, dove nel corso dei decenni hanno bevuto il caffè, letto i giornali e fatto “quatro ciacole” fra gli altri Italo Svevo e Umberto Saba, James Joyce e Giani Stuparich, Virgilio Giotti e Giorgio Voghera, da Fulvio Tomizza fino a Claudio Magris, che ancor oggi riceve al “suo” tavolo studenti e inviati dei giornali nazionali, proprio lì oggi alle 18 Stelio Vinci presenta il suo libro “Caffè San Marco. Un secolo di storia e cultura a Trieste. 1914-2014” (Comunicarte Edizioni e Libreria Antiquaria Umberto Saba). Sono centocinquanta pagine ricche di documenti, immagini in gran parte inedite, dettagli delle caratteristiche decorazioni pittoriche, testimonianze e ricordi di Stelio Mattioni, Piero Kern, Giorgio Voghera, Manlio Cecovini... E dello stesso Magris, che nella quarta di copertina ricorda: «Quando mi chiedono dove mi sento in Europa, me la cavo - fingendo di scherzare ma in realtà parlando sul serio - dicendo che, per esempio, mi sento in Europa quando sono al Caffè San Marco». Merito dell’atmosfera che resiste al tempo, dell’arredamento e delle decorazioni stile Secessione Viennese, ancora in voga negli anni della fondazione del caffè. Con le decorazioni sui soffitti e sulle pareti attribuite ad artisti come il pittore secessionista Vito Timmel, anch’egli frequentatore del caffè. Con l’autore e curatore Stelio Vinci, alla presentazione di stasera saranno presenti Renata Da Nova Ernè, autrice di un saggio sulle decorazioni pittoriche del caffè, il giornalista e fotografo Claudio Ernè, che ha curato l’apparato iconografico del volume, l’assessore alla cultura della Comunità ebraica triestina Mauro Tabor e l’editore Massimiliano Schiozzi.

venerdì 7 febbraio 2014

PAOLO ROSSI con Pupkin Kabarett: LA COSCIENZA DI ZENO SPIEGATA AL POPOLO

«Come faremo a spiegare “La coscienza di Zeno” al popolo? Facile. Ogni sera estrarremo a sorte un capitolo e poi vediamo cosa succede. Il nostro sarà uno spettacolo allucinato e visionario. Ma non ci occuperemo soltanto dell’opera di Svevo. Parleremo anche dei suoi “compagni di avventura”: Saba, Joyce, Giotti, persino Kafka e Freud...». Paolo Rossi è impegnato da qualche giorno a Trieste nelle prove de “La coscienza di Zeno spiegata al popolo”. Con lui quelli del Pupkin Kabarett (Stefano Dongetti, Alessandro Mizzi, Laura Bussani...), antichi sodali di tante sue avventure teatral musicali. «Fra l’altro - dice l’attore e musicista, classe 1953, nato a Monfalcone ma milanese di adozione - ho scoperto dai manifesti per le strade che negli stessi giorni in cui siamo in scena alla Sala Bartoli del Rossetti (debuttano martedì - ndr), sotto, al Politeama, c’è “La coscienza di Zeno” nell’adattamento di Tullio Kezich e con l’allestimento di Scaparro». È stato fatto apposta? «Questo non lo so. So che sarà un bel casino: magari gli spettatori prima vanno da loro, poi vengono da noi, poi ritornano da loro... Sempre senza capire nulla. Anche perchè la cosa migliore è comunque leggere il libro». Diceva dei manifesti per le strade. «Sì, hanno attaccato i nostri a fianco di quelli dello spettacolo con Giuseppe Pambieri. L’effetto è divertente. O almeno a me ha fatto ridere. Anche quei manifesti sono la rappresentazione simbolica dei due spettacoli: tradizionale l’uno, psichedelico l’altro». Voi da dove siete partiti? «Dalla constatazione che Trieste, agli inizi del Novecento, fu davvero una città importante per la nostra letteratura. L’opera di Svevo è in fondo una sorta di vademecum delle nevrosi moderne. Non a caso la città è stata importante anche nella storia della psicanalisi e tanti anni dopo della psichiatria». Ma non vi fermate a Svevo. «Assolutamente no. Spazieremo anche fra le pagine “scandalose” di Joyce, fra le poesie e l’umorismo di Umberto Saba, toccando alla nostra maniera anche le opere di altri scrittori e poeti triestini». Lei quando li ha letti? «Quando ho cominciato ad avvicinarmi a questi autori ero già lontano da Monfalcone. Ma io leggo alla mia maniera, sono un lettore assolutamente particolare. Concordo con il grande Pennac quando rivendica il diritto del lettore di mollare lì un libro, senza terminarlo, tutte le volte che ne ha voglia, che non è convinto». Classici da lei “mollati”? «Innanzitutto l’“Ulisse” di Joyce. Sono arrivato a pagina 67, poi non ce l’ho più fatta a riprenderlo. Con alcuni amici e conoscenti è in atto anche una piccola gara, fra chi è arrivato più avanti nella lettura...». Ha visto che bruciano i libri? «L’episodio del libro di Corrado Augias bruciato dopo le sue critiche a Grillo e al M5S è una cosa brutta, barbara, terribile. I libri non vanno bruciati mai. Io non brucerei nemmeno il “Mein Kampf” di Hitler, perchè tutti hanno diritto di leggere qualsiasi cosa, qualsiasi idea, qualsiasi libro». Lei è stato censurato? «Più volte, innanzitutto alla Rai. Ma la censura peggiore è quella che fanno ai giovani. Se censurano me, un palco o un microfono o una telecamera li trovo sempre. Ma la censura preventiva ai giovani, a chi non ha potere è la cosa peggiore». Libri bruciati a parte, dei recenti episodi alla Camera cosa pensa? «Penso che i grillini hanno fatto un autogol. Tutti hanno parlato delle violenze, della Boldrini e di Augias, e la protesta sull’Imu e la Banca d’Italia nello stesso decreto legge è passata in secondo piano. Anzi, diciamo pure che nessuno ne ha parlato più. Davvero, hanno fatto un grosso errore». Lei segue la politica? «Devo dire la verità: ormai faccio fatica. E mi dispiace. Io come artista non sono di nessuno, non appartengo a nessuno. Faccio le mie cose, dico le mie cose. Consapevole di vivere in un Paese che negli ultimi venticinque anni ha subito una pesante controrivoluzione culturale. Siamo messi male, insomma». Grillo? «L’ho già detto: un tempo scherzavo sul fatto che Berlusconi mi rubava il mestiere, mentre Beppe ha ormai deciso di rubare il mestiere a Berlusconi. Non credo sia più possibile che lui torni a fare il comico. Come è assolutamente impossibile che io fondi un partito: non ho il “physique du role” dell’eroe». Sanremo? «A momenti stavo per tornarci anche quest’anno, dopo le mie precedenti “incursioni”. Ma ho rinunciato. Lì c’è qualcosa che non ho mai capito. Io che ho fatto non tutto ma di tutto, dal night al teatro greco, non capisco come al Festival si crei tanta tensione, tanta emozione per quella che in fondo in fondo, scusate, è una cazzata...». Ma lei ci è andato e tornato. «Certo. Quella volta con Enzo Jannacci mi sono anche divertito. Fino a due minuti prima di entrare in scena, perchè poi riescono a trasmetterti una tensione davvero incredibile. E non ti diverti più». Approfondiamo. «Essere a Sanremo significa partecipare a una settimana di autentico delirio, penso anche per voi giornalisti. In quei giorni un cantante qualsiasi, anche debuttante, è letteralmente preso d’assalto ventiquattr’ore su ventiquattro. E quasi sempre il lunedì non se lo considera più nessuno. Io ci rido, per un ragazzo agli inizi può essere dura». Il Pupkin Kabarett? «Sono bravissimi, fanno il cabaret come lo intendo io: un luogo che, più che una trovata seriale di tre minuti con battute-tormentone, è una palestra di originalità e di follia dal gusto mitteleuropeo». Possono funzionare anche fuori Trieste? «Assolutamente sì. Sandro e Laura sono ottimi attori, Dongetti è un genio cabarettistico, per non parlare di Massimo Sangermano: fantastico. Hanno solo un problema: temono che il dialetto triestino non si capisca lontano da qui». E invece? «Invece il teatro è dialettale, non esiste il teatro “in lingua”. Goldoni in veneziano, Eduardo in napoletano, Govi in genovese, lo stesso Dario Fo nel suo grammelot lombardo. Il vero teatro o è in cadenza o è in dialetto». In Cina com’è andata? «Appunto. Abbiamo fatto un’opera buffa del napoletano Cimarosa, con sottotitoli, regia e costumi miei. Un vero trionfo. A dimostrazione dell’internazionalità del nostro teatro». Guardando indietro cosa non rifarebbe? «Se si riferisce ai film con Vanzina, nulla. Con quei film, con i soldi di De Laurentis, negli anni Ottanta finanziavo i miei spettacoli teatrali. Anche se i veri soldi, quella volta, li vinsi al casinò di Montecarlo. Dove si girava uno di quei film». Quando mette sù casa a Trieste? «Sono sempre un girovago. Vado e vengo da Milano. Ma prima o poi, l’ho già detto, prendo casa a Trieste. Ritorno vicino alle mie origini monfalconesi. Per ora, quando vengo qui, abito in un ottimo residence in Cavana. A due passi da piazza Unità e dal mare. Che cosa c’è di meglio...?».

giovedì 6 febbraio 2014

STASERA STEF BURNS A TRIESTE, ai Macaki

«Con Vasco ho suonato per la prima volta nel ’93, in studio, a Los Angeles. Era venuto per registrare “Gli spari sopra”. Mi aveva sentito in un disco con Alice Cooper. Ci siamo intesi al volo. Poi mi ha chiamato per una tournèe, poi per un’altra, poi per un’altra ancora. Risultato: da vent’anni facciamo coppia fissa sul palco...». Il chitarrista Stef Burns presenta stasera alle 21, a Trieste, al Macaki di viale XX Settembre, il suo nuovo album solista “Roots and wings”. Disco in parte registrato proprio a Trieste, negli studi della Casa della musica. Dove è arrivato grazie al pianista triestino Fabio Valdemarin, con cui collabora da anni e che fa parte della Stef Burns League, il suo gruppo con cui suona stasera nella prima tappa del tour di presentazione del disco. «Sono molto grato a Fabio - dice Stef Burns, vero nome Stephan Birnbaum, nato a Oakland nel 1959 - perchè mi ha fatto scoprire Trieste e gli studi della Casa della musica, dove ho trovato grande professionalità. Abbiamo lavorato davvero bene. Non è facile trovare una struttura di questo livello, situata peraltro nel pieno centro di una bellissima città». A Trieste era venuto anche con Vasco. «Certo, allo stadio, qualche anno fa. Ma in quelle occasioni delle città non vedi molto, anzi, possiamo dire che quasi sempre non vedi proprio nulla. Quando ho registrato il disco, invece, mi sono fermato diversi giorni, ho avuto modo di conoscere la città. Alla Casa della musica ho tenuto un paio di seminari di chitarra. E sono andato anche al mare, a Barcola...». Ricorda il primo concerto con Vasco? «Come dimenticarlo. Stadio di San Siro, estate ’95, il tour era quello di “Rock sotto l’assedio”. Sapevo che Vasco in Italia era una potenza, ma non potevo immaginare lo spettacolo di quello stadio pieno, l’affetto della gente che cantava in coro le sue canzoni...». Eppure lei aveva suonato con delle superstar. Come Alice Cooper. «Sì, era l’inizio degli anni Novanta. Un giorno mi chiama Alice Cooper che stava cercando un chitarrista. Il mio nome gli era stato segnalato nientemeno che da Joe Satriani. Suonai con lui negli album “Hey stoopid” e “The last temptation”. Con tour in mezzo mondo». Come con Sheila E. «Con lei ho suonato verso metà degli anni Ottanta. Fra l’altro fu proprio in un tour con Sheila E che venni per la prima volta in Italia. Più recentemente ho suonato anche con Huey Lewis & The News, un’altra splendida esperienza. E prima con Narada Michael Walden...». Ma non ha mai trascurato l’attività solista. «È stata sempre la mia valvola di sfogo. Quando non sono in tour, con Vasco o con qualcun altro, mi piace coltivare qualcosa di interamente mio. Un progetto da mettere da parte, e magari da tirare fuori più avanti. Com’è successo questa volta, con questo album». Un album molto rock. «Sì, abbastanza. Diciamo che ci sono delle canzoni rock, ma anche dei momenti di jazz fusion, mi piace mischiare i generi, le idee, le cose. Diciamo che i riferimenti spaziano fra Beatles e Led Zeppelin, Queen e Jimi Hendrix: gli artisti che amo di più». Come si è avvicinato alla musica? «Tramite mio padre. A casa mia si sentiva tanta buona musica. Woody Guthrie, Bob Dylan, i Beatles. Folk ma anche rock». La prima chitarra? «A sei anni. E a undici cominciai a prendere lezioni da un maestro, seriamente. Poi a scuola, i primi gruppi, le prime esibizioni alle feste. Solita trafila, insomma...». Il suo primo gruppo? «Gli Omega. Avevamo vent’anni ed eravamo pieni di sogni e speranze». Quali sono gli artisti italiani conosciuti negli States? «Oltre a Pavarotti e Bocelli, direi Pausini e Ramazzotti. Ma anche Zucchero ha avuto una sua visibilità, con i tanti duetti e proprio con Pavarotti and friends». Perchè Vasco non sfonda all’estero? «Lui è un genio con le parole, con i testi, che sono parte integrante della sua musica. E se non capisci l’italiano... Non a caso Eros e Laura Pausini, molto amati dal pubblico latino, cantano anche in spagnolo». I suoi italiani preferiti? «Elio e le storie tese, assolutamente, un gradino sopra agli altri. Ma mi piacciono anche Negrita e Jovanotti». Dove vive adesso? «Sono un pendolare fra San Francisco e Milano (il musicista è sposato con l’ex velina Maddalena Corvaglia, assieme hanno avuto la piccola Jamie - ndr). Scherzi a parte, di solito tentiamo di stare l’estate in Italia, anche perchè devo lavorare, e d’inverno in California». Bella vita...? «Beh, non mi lamento...». “Roots and wings” è stato anticipato dal singolo “What doesn’t kill us”, brano scritto da Burns proprio con Maddalena Corvaglia. Stasera ai Macaki con lui suonano Juan van Emmeloot, il triestino Fabio Valdemarin e Roberto Tiranti. Il concerto è organizzato dall’associazione Trieste is rock, che nelle prossime settimane propone anche Tim Reynolds, chitarrista della Dave Matthews Band (7 marzo, Teatro Miela), Ian Siegal con la Mike Sponza Band (18 marzo ai Macaki) e gli americani House Of Lords (5 aprile ancora ai Macaki). Informazioni e prevendite dei biglietti su www.triesteisrock.it

mercoledì 5 febbraio 2014

FILM E GUAI x JUSTIN BIEBER

Arriva oggi e domani nelle sale (a Trieste al Nazionale e alle Torri, a Udine al multiplex di Pradamano, entrambi del circuito The Space) “Justin Bieber’s believe”, il film del giovanissimo idolo di milioni di ragazzine. Diciannove anni, quindici milioni di dischi venduti, quaranta milioni di follower su Twitter, quasi sessanta milioni di seguaci su Facebook, Justin Bieber è considerato la terza celebrità al mondo secondo la rivista Forbes. Un padio d’anni fa ha già sbancato al cinema con “Never say never”, documentario-concerto firmato da Jon Chu, 73 milioni di dollari di incassi soltanto negli Stati Uniti (più di Michael Jackson e One Direction, per intenderci). Ora il ragazzo - origini canadesi - raddoppia con questo film evento che farà rivivere nelle sale cinematografiche gli episodi più importanti di una carriera giovane ma fulminante. Fra immagini dei backstage dei suoi concerti, brani eseguiti dal vivo, interviste a lui stesso ma anche ai suoi amici e collaboratori, curiosità raccolte dalle telecamere frugando nella sua vita, il film racconta non solo il lato artistico ma anche quello umano del giovanissimo talento della musica pop. A differenza del primo film, stavolta Bieber ha voluto collaborare in prima persona alla stesura del film sin dal principio. Infatti nell’ottobre scorso aveva lanciato su Twitter l’hashtag #MusicMondays: regalando ai fan, ogni lunedì, per dieci settimane, un suo brano inedito. Dieci canzoni per dieci settimane in attesa dell’uscita del film, che arriva adesso, e del prossimo imminente album. Ma non è tutto oro quel che luccica. A soli diciannove anni Justin Bieber è sì una popstar di fama mondiale, che però incappa spesso nei guai. Dopo il recente arresto in Florida per guida in stato di ubriachezza, ha appena dovuto fronteggiare l’accusa di aggressione nei confronti di un autista di limousine a Toronto, su cui un giudice canadese si pronuncerà il 10 marzo. E visto che piove sempre sul bagnato, un’altra batosta è arrivata con i risultati dei test sui campioni di urine presi dopo l’arresto a Miami. Bieber è risultato positivo alla marijuana e allo Xanax, un calmante contro l’ansia. Centomila americani hanno firmato una petizione nella quale si chiede la sua cacciata dagli Stati Uniti. Insomma, se continua così, da più parti che il ragazzo rischia di bruciarsi presto.

lunedì 3 febbraio 2014

VELEMIR DUGINA, il ricordo di MONI OVADIA

di MONI OVADIA* Velemir Dugina aveva la cavata dei violinisti russi. Ho sempre amato il violino, nei miei spettacoli gli ho sempre riservato un ruolo importante. E nel corso degli anni ho conosciuto tanti bravi violinisti. Ma quando sentii per la prima volta quel ragazzo, rimasi veramente colpito. Era la fine degli anni Settanta. Me lo fece conoscere un altro triestino, Alfredo Lacosegliaz. Il mio Gruppo folk internazionale si stava allora trasformando nell’Ensemble Havadià. Stavamo preparando il disco e lo spettacolo “Specchi”. Velemir venne a Milano, abitò per un periodo anche nella mia vecchia casa di piazza Napoli. Ammiravo molto il suo modo di suonare. Ero incantato dalla sua grazia naturale, non costruita, non coltivata. Aveva negli occhi anche quella malinconia poetica tipica dei meticci, delle persone cresciute nelle terre di mezzo, fra le culture di confine. Ricordo che in quelle settimane di preparazione dello spettacolo studiava con grande meticolosità dal manuale per violino di Jakob Dont. Studiava le mezze posizioni, ci metteva davvero l’anima, come tutti i grandi musicisti che non si fermano finchè non raggiungono il risultato desiderato. Velemir mi ha portato il sogno della musica dell’Est Europa come animus e come suono. Oltre alla lezione russa, conosceva la dimensione magica del violino irlandese, i gig, i reel della musica popolare. Quando seppi, fu un grande dolore. Un talento così limpido, una vita così giovane. Poi mi tornò alla mente quel suo sguardo malinconico. E capii che questo mondo greve e volgare non era adatto a un’anima speciale come la sua. (*Moni Ovadia ha concluso ieri al Teatro Miela le repliche de “Il registro dei peccati”; testo raccolto da Carlo Muscatello)

VELEMIR DUGINA. Mostra a trieste

Anche il ricordo delle persone s’inventa a volte strani percorsi. Prendete Velemir Dugina, il violinista triestino che il 16 gennaio 1987 decise di spegnere la luce della propria vita e della propria arte. Aveva appena ventotto anni e davanti una carriera probabilmente luminosa nel campo della musica. Ebbene, il percorso della memoria, del ricordo di Velemir passa dalla Germania. Mentre in tutti questi anni a Trieste veniva ricordato e rimpianto - oltre che dai familiari - soltanto da amici e colleghi musicisti, pochi mesi fa in Germania è uscito un libro su di lui: “Velemir Dugina - Eine spurensuche, Una ricerca di tracce”, del docente universitario e musicologo di Dresda Mathias Bäumel. Ne abbiamo scritto su queste colonne. Ora anche la sua città (anche se in realtà era nato a Melbourne, in Australia, il primo luglio 1958, da madre anglo-irlandese e padre fiumano: a Trieste era arrivato nel ’68, dopo alcuni anni anche a Fiume) gli rende finalmente omaggio, tanti anni dopo le sue precoci gesta nel campo della musica e della cultura cittadina, ma non solo cittadina, degli anni Settanta e Ottanta. Venerdì a Palazzo Costanzi viene infatti inaugurata la mostra “Magrit Dittmann-Soldicic. Sulle tracce dell’anima del violinista Velemir Dugina”. È organizzata dal Comune di Trieste (grazie all’impegno di Adriano Dugulin, direttore del Servizio cultura e sport) assieme alla Casa della musica, con il supporto fondamentale del suo coordinatore Gabriele Centis. Ma anche in questo ricordo dell’artista c’entra la Germania. È infatti la fotografa tedesca Magrit Dittmann-Soldicic che attraverso trenta scatti originali rievoca la figura di violinista Velemir. Il resto sono fotografie d’epoca, manifesti, oggetti messi a disposizione da Joanne e Vieko Dugina, sorella e fratello di Velemir: che contribuiscono a «delineare - si legge nella nota della mostra, che rimarrà aperta al pubblico fino al 9 marzo - la personalità e la produzione artistica del musicista, di formazione classica ma fortemente orientato verso la musica folk e popolare. Ancora dalle note degli organizzatori: «Postazioni di ascolto permettono così al visitatore di fare un tuffo nella Trieste tra gli anni Settanta e Ottanta, gustando vere “chicche” come l’album “Trieste contro” del canzoniere popolare Giorni Cantati, a cui Dugina ha collaborato, oltre alla musica dei suoi “Veema” e dei “Whisky Trail”. Sarà inoltre possibile vedere rari filmati d’epoca con spezzoni di trasmissioni televisive, concerti e documentari che hanno visto la partecipazione o la collaborazione del violinista, in parte concessi dalla Rai del Friuli Venezia Giulia”. «La mia storia su Velemir Dugina - ricorda Magrit Dittmann-Soldicic, tedesca di Itzehoe, classe 1950 - è nata per caso. Mi ha colpito la fotografia sulla lapide della sua tomba. Il suo sguardo era così aperto che mi è sembrato di poter guardare nella sua anima. Ho saputo che aveva finito la sua giovane vita suicidandosi. Nella lettera d’addio ha chiesto di essere sepolto a Stivan, un villaggio dell’isola di Cherso, in Croazia». Ancora la fotografa: «È stato l’inizio di un’intensa ricerca. Ho ricavato molte informazioni, impressioni ed esperienze viaggiando e incontrando i musicisti che avevano suonato con Velemir, gli amici, i parenti. Ho premuto il pulsante della mia macchina fotografica quando un luogo mi faceva sentire in contatto con Velemir. Empatia per una persona significa anche intrecciare con essa la propria storia, le proprie esperienze e sentimenti». Velemir aveva cominciato a suonare il violino da bambino, prima a Fiume e poi a Trieste. Aveva sempre alternato musica classica, suonando nell’orchestra del Teatro Verdi di Trieste ma anche dell’Arena di Verona, e popolare. Con il gruppo folk sloveno Stu Ledi, con i triestini Giorni cantati, fondando i gruppi Humus e Veema, collaborando con i fiorentini Whisky Trail e con gli allora sconosciuti Litfiba, con Eugenio Bennato, con l’Ensemble Havadià di un Moni Ovadia non ancora famoso (che lo ricorda qui sopra) e del triestino Alfredo Lacosegliaz, che con Velemir aveva già lavorato. In questi casi si dice: meglio tardi che mai. Ebbene, tentiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno di questa mostra importante anche se tardiva che Trieste dedica a uno dei suoi figli migliori. Il fatto che libro e mostra arrivino attraverso l’arte e la sensibilità di un musicologo e una fotografa tedeschi, entrambi incuriositi da quella lapide a Cherso, dopo averne letto in “Microcosmi” di Claudio Magris, è poi un ulteriore omaggio all’internazionalità di una figura come quella di Velemir Dugina. Che per molti di noi che lo avevamo conosciuto e apprezzato, rimarrà sempre quel ragazzo dai capelli rossi, sorridente ma malinconico, con il violino sempre appresso, scappato via davvero troppo presto.

domenica 2 febbraio 2014

DANA FUCHS 7-5 A TRIESTE

Se avete amato “Across the universe”, il film di Julie Taymor con la colonna sonora composta dai classici dei Beatles, segnatevi la data del 7 maggio. Sì, perchè Dana Fuchs, splendida protagonista della pellicola, sarà quella sera a Trieste, per un concerto ai Macaki di viale XX settembre, organizzato dall’associazione Trieste is rock. Nel film, uscito nel 2007, che ha lo stesso titolo di un immortale brano dei Fab Four, Dana Fuchs interpreta il ruolo dell’aspirante rockstar Sadie e canta lei stessa canzoni come “Helter Skelter”, “Oh! Darling” e “Why don’t we do it in the road?”. Interpretazioni assolutamente da antologia, in bilico fra blues e hard rock, che hanno permesso a milioni di persone di scoprire la bravura di questa interprete. Nata nel ’76 nel New Jersey, ma cresciuta in un piccolo centro della Florida, Dana ha sempre alternato l’attività di interprete e cantautrice a quella di attrice, dopo un’adolescenza tutta nel segno della musica. A dodici anni entra nel First Baptist Gospel Choir, a sedici in una band locale, a diciannove parte per New York «per cantare il blues». Lo fa nei club e nei localini della Grande mela, dove incontra Jon Diamond (già con Joan Osborne e Debbie Davies), con cui forma la Dana Fuchs Band. Il gruppo cresce di notorietà, suona nei locali più importanti, divide il palco con gente del calibro di Taj Mahal, John Popper e James Cotton. Poi la ragazza sceglie la strada solista, cantando anche con Etta James (fra le interpreti che l’hanno ispirata, con Otis Redding e Aretha Franklin) e Marianne Faithfull. “Lonely for a lifetime” è il suo primo album, pubblicato nel 2003. In anni più recenti sono usciti anche “Love to beg” (2011) e “Bliss Avenue” (2013). In mezzo, il film che le ha regalato una grande popolarità fra gli amanti del blues e del pop/rock. A quel film, l’artista americana è arrivata dopo il successo personale ottenuto nel musical “Love, Janis”, dedicato ovviamente alla grande Janis Joplin, da lei fatta rivivere sulle scene di Broadway con grande maestria e passione. Dopo averla vista dal vivo in quel musical, la regista Julie Taymor (quella del film ”Frida”) l’ha scelta per il ruolo di Sadie in “Across the Universe”. Ora Dana Fuchs torna a Trieste - dov’era già stata nell’estate 2011 in piazza Unità - nell’ambito di un tour europeo che fa seguito a quello negli Stati Uniti, premiato a livello di critica e di pubblico. Come si diceva, il concerto è organizzato dall’associazione Trieste is rock, che nelle prossime settimane propone anche i concerti di Stef Burns, chitarrista di Vasco Rossi (6 febbraio ai Macaki), di Tim Reynolds, chitarrista della Dave Matthews Band (7 marzo, Teatro Miela), di Ian Siegal con la Mike Sponza Band (18 marzo ai Macaki) e degli americani House Of Lords (5 aprile ancora ai Macaki). Informazioni e prevendite dei biglietti su www.triesteisrock.it

PEARL JAM, 25000 BIGLIETTI VENDUTI x CONCERTO TRIESTE 22-6; NUOVO SINGOLO (pubblicato 31-1)

Venticinquemila biglietti già venduti, rimangono soltanto i cinquemila posti a sedere per esaurire le 30mila presenze della capienza massima concessa. È questo l’ultimo dato sulle prevendite per l’attesissimo concerto dei Pearl Jam il 22 giugno a Trieste, allo Stadio Rocco, già virtualmente “sold out”. Mentre prosegue la marcia di avvicinamento al tour europeo della band di Seattle, il 16 giugno ad Amsterdam. E mentre esce proprio oggi il nuovo singolo “Getaway”, tratto dall’album “Lightning Bolt”. Ma andiamo per ordine. Per quanto riguarda il tour, confermate le due sole tappe in Italia: il 20 giugno a Milano, stadio di San Siro, e il 22 giugno a Trieste. E poi, per Eddie Vedder e compagni, ancora due presenze in altrettanti festival rock europei: il 3 luglio all’Open’er Festival in Polonia e il 5 al Rock Werchter Festival in Belgio. Prima del gran finale dell’11 luglio al National Bowl di Milton Keynes, in Inghilterra. L’album del ritorno continua a vendere in quantità industriali. Ha conquistato i vertici delle classifiche di mezzo mondo, Italia compresa, piazzandosi al primo posto assoluto della Billboard Top 200 statunitense e anche delle hit in Canada, Australia, Irlanda e Portogallo. L’album comprende dodici brani, arriva a quattro anni dal precedente “Backspacer” ed è il decimo lavoro in studio della band americana, formatasi nel ’90, che in oltre vent’anni di carriera hanno venduto più di sessanta milioni di copie, di cui la metà negli Stati Uniti. Influenzati dal rock classico degli anni Settanta, a loro volta continuano a influenzare molti gruppi rock contemporanei. Prima del nuovo albu, nel 2011 i Pearl Jam hanno celebrato il loro ventesimo anniversario con un “destination weekend” ad Alpine Valley, e un tour in Canada, Sud America, America Centrale, e Messico. Per festeggiare il compleanno hanno inoltre pubblicato il film “Pearl Jam Twenty”, con tanto di libro e colonna sonora. (prevendite e info su http://pearljam.com/ - www.ticketone.it - www.azalea.it)