Un musicista sul confine? Sicuramente Goran Bregovic. La scelta di chiamare l’artista nato nel 1950 a Sarajevo da madre serba e padre croato a suonare, domani alle 21, sulla piazza della Transalpina, nell’ambito dei festeggiamenti per l’allargamento a Est dell’Unione Europea, pare dunque quanto mai azzeccata. Forse nessuno meglio di lui e della sua Weddings and Funerals Band (l’orchestra nata per suonare ai matrimoni e ai funerali...) può rappresentare l’assurdità dei confini, degli steccati che tengono separate le genti, ma di certo non possono separare la musica, la cultura, un patrimonio di storia condiviso.
Lui, il multietnico Goran, con le sue origini miste e le sue radici nei Balcani, lo sa. Lo sapeva quando negli anni Settanta veniva a Trieste, come tutti i suoi coetanei, a inseguire il sogno dell’Occidente. E anche una chitarra elettrica odorava di libertà.
Figlio di una terra dove si incrociano varie culture, varie etnie, varie religioni, ha conosciuto il primo successo internazionale firmando le colonne sonore dei film di un suo illustre concittadino, Emir Kusturica. Film come «Underground» e «Il tempo dei gitani» hanno così risuonato di folk balcanico, di suoni tzigani, di fanfare macedoni, di rock risciacquato nel Mare Adriatico.
Anche se il giovane Goran nel suo paese era una star, oltre che studente di filofofia, già da giovanissimo, con i suoi White Button (Bijelo Dugme): tredici album e sei milioni di copie vendute. «Il rock - ha sempre detto Bregovic - aveva all'epoca un ruolo fondamentale nella nostra vita. Era l'unica possibilità per poter esprimere pubblicamente il nostro malcontento senza rischiare di finire in galera, o quasi».
Quando scoppia la guerra nell’ex Jugoslavia se ne va. Prima negli Stati Uniti, con Kusturica che doveva girare un suo film. Poi a Parigi, dove tuttora vive gran parte del suo tempo, quando non è a Belgrado o in tournèe. A incantare le platee occidentali con la sua macedonia sonora a base di jazz e suggestioni turche, Bela Bartok e vocalità bulgare, tanghi e ritmi folk slavi, polifonie sacre ortodosse e moderne sonorità pop.
Recentemente, l’artista ha esplorato territori nuovi. Ha infatti reinventato la «Carmen» - che nella sua versione, vista recentemente anche a Udine, è una «Karmen» - restituendola alla storia vera del suo popolo, i Gitani. E proprio confrontandosi con il dramma di Bizet, oltre che abilissimo contaminatore di generi, Bregovic si è dimostrato artista versatile e originalissimo, capace di esplorare - e rileggere - la tradizione classica senza timori reverenziali di sorta.
Dal vivo, e quindi anche a Gorizia, Bregovic ha quasi sempre al suo fianco l’Orchestra di Belgrado, le Voci Bulgare con i loro costumi folkloristici, il direttore-percussionista Ognjen Radivojevic e la Weddings and Funerals Band. Di cui dice «Loro suonano davvero ai matrimoni e ai funerali. È la tradizione ortodossa: dopo il rito funebre si mangia, si beve e per un po' il dolore lascia spazio alla musica...».
Stavolta, nella piazza che ieri divideva e da domani unirà Gorizia e Nova Gorica, le note di «Kalasnjikov», «Ederlezi», «Mesecina» festeggeranno la caduta dell’ultimo muro d’Europa.
...sogni e bisogni fra musica e spettacolo, cultura e politica, varie ed eventuali... (blog-archivio di articoli pubblicati + altre cose) (già su splinder da maggio 2003 a gennaio 2012, oltre 11mila visualizzazioni) (altre 86mila visualizzazioni a oggi su blogspot...) (twitter@carlomuscatello)
venerdì 30 aprile 2004
martedì 27 aprile 2004
�Ma-ia-hii, Ma-ia-hu...
«Ma-ia-hii, Ma-ia-huu, Ma-ia-hoo, Ma-ia-haa...». Ovvero: quando il tormentone esce dall’ambito canoro, per assurgere a fenomeno di costume. Sì, perchè a due mesi dal lancio sanremese, il temibile ritornello di «Dragostea din tei» (questo il titolo della canzone), della romena Haiducii, ormai impazza ovunque: alla radio, in tivù, nelle discoteche, per strada, persino fra i bambini.
Il salto di qualità - si fa per dire - è arrivato quando il refrain è stato inserito nella sigla di «Striscia la notizia». Prima, l’incomprensibile e intraducibile urlo era patrimonio soltanto degli appassionati di musica dance, che avevano mandato per la prima volta in vetta alle classifiche occidentali un brano in lingua romena. Poi, dopo l’adozione da parte della banda di Ricci, la diga è crollata...
Se l’onomatopeico refrain non significa nulla, il titolo «Dragostea din tei» vuol dire «Far l’amore sotto un tiglio». Il testo disegna surreali scenari di amori più o meno solitari e incompresi: «Pronto, ciao, sono io, un cavaliere, e ti prego, amore mio, ricevi la felicità. Pronto, pronto, sono io Picasso, ti ho fatto uno squillo e sono carino, ma sappi che non ti chiedo niente».
Non vi basta? Proseguiamo: «Vuoi andartene ma non mi prendi con te, il tuo viso e l’amore sotto il tiglio mi ricordano i tuoi occhi... Ti chiamo per dirti quello che sento adesso. Pronto, amore mio, sono io, la felicità. Pronto, pronto, sono di nuovo io, Picasso, ti ho fatto uno squillo e sono carino, ma sappi che non ti chiedo niente...». E poi sotto con un’altra urticante scarica di «ma-ia-hii, ma-ia-huu...».
Il brano è comunque una cover: l’aveva già inciso una boy band romena, gli O*Zone. Il successo è arrivato con la versione di Haiducii, nome d'arte della ventisettenne Paula Mitrache. Nata e cresciuta in Romania, vive da qualche tempo a Bari. Dice che ama la dance ma anche il jazz «e più in generale tutta la musica in grado di regalarmi emozioni e di farmi sognare».
La musica italiana lei l’ha sempre ascoltata: il Festival di Sanremo è sempre stato seguito in Romania, anche quando c’era il regime comunista. «Il Festival - dice la cantante - rappresenta un sogno per chi vive nel mio Paese. Da noi c'è una rassegna canora simile, chiamata Festival di Mamaia, a cui ho partecipato due volte, ma negli anni della dittatura non aveva lo stesso valore simbolico: in quel periodo Sanremo per noi era come un raggio di luce, uno spiraglio di libertà. Allora non avrei mai pensato di poter venire da protagonista in Italia...». E invece, grazie a ma-ia-hii...
Il salto di qualità - si fa per dire - è arrivato quando il refrain è stato inserito nella sigla di «Striscia la notizia». Prima, l’incomprensibile e intraducibile urlo era patrimonio soltanto degli appassionati di musica dance, che avevano mandato per la prima volta in vetta alle classifiche occidentali un brano in lingua romena. Poi, dopo l’adozione da parte della banda di Ricci, la diga è crollata...
Se l’onomatopeico refrain non significa nulla, il titolo «Dragostea din tei» vuol dire «Far l’amore sotto un tiglio». Il testo disegna surreali scenari di amori più o meno solitari e incompresi: «Pronto, ciao, sono io, un cavaliere, e ti prego, amore mio, ricevi la felicità. Pronto, pronto, sono io Picasso, ti ho fatto uno squillo e sono carino, ma sappi che non ti chiedo niente».
Non vi basta? Proseguiamo: «Vuoi andartene ma non mi prendi con te, il tuo viso e l’amore sotto il tiglio mi ricordano i tuoi occhi... Ti chiamo per dirti quello che sento adesso. Pronto, amore mio, sono io, la felicità. Pronto, pronto, sono di nuovo io, Picasso, ti ho fatto uno squillo e sono carino, ma sappi che non ti chiedo niente...». E poi sotto con un’altra urticante scarica di «ma-ia-hii, ma-ia-huu...».
Il brano è comunque una cover: l’aveva già inciso una boy band romena, gli O*Zone. Il successo è arrivato con la versione di Haiducii, nome d'arte della ventisettenne Paula Mitrache. Nata e cresciuta in Romania, vive da qualche tempo a Bari. Dice che ama la dance ma anche il jazz «e più in generale tutta la musica in grado di regalarmi emozioni e di farmi sognare».
La musica italiana lei l’ha sempre ascoltata: il Festival di Sanremo è sempre stato seguito in Romania, anche quando c’era il regime comunista. «Il Festival - dice la cantante - rappresenta un sogno per chi vive nel mio Paese. Da noi c'è una rassegna canora simile, chiamata Festival di Mamaia, a cui ho partecipato due volte, ma negli anni della dittatura non aveva lo stesso valore simbolico: in quel periodo Sanremo per noi era come un raggio di luce, uno spiraglio di libertà. Allora non avrei mai pensato di poter venire da protagonista in Italia...». E invece, grazie a ma-ia-hii...
martedì 20 aprile 2004
�Stavo sonnecchiando...
«Stavo sonnecchiando, ho sentito un gran botto, pensavo fosse scoppiata una ruota, poi mi sono reso conto che l'ala destra dell'aereo si era spezzata di netto, finendo contro un camion che si trovava incredibilmente sulla pista...».
Lucio Dalla arriva in ritardo ieri mattina in piazza dell’Unità, dov’era atteso per la conferenza stampa in Municipio del suo «Tosca: Amore disperato», e le prime domande riguardano ovviamente l’incidente di Ronchi.
«Stavo ancora pensando che cosa ci facesse un camion praticamente sulla pista - racconta l’artista - quando ci dicono che non c’è tempo da perdere: uscivano fiotti di carburante, la situazione era dunque pericolosa e bisognava abbandonare in gran fretta l’aereo».
Ancora Dalla: «Non c’è stato panico. Il personale è stato molto efficiente e cortese. Sono scattate le procedure di emergenza e ci hanno fatto uscire con gli scivoli. Io, sapendo che in questi casi l’impatto con il terreno è piuttosto violento, ho tentato di mettermi il porta-abiti sotto il sedere, ma una hostess alquanto efficiente me l’ha sottratto. Risultato: mi son preso una bella ’culattata’ sul selciato...».
Il cantautore bolognese dimostra anche in questa occasione di esser uomo di spirito. E sorride del pericolo scampato. «Delle due l’una: o è stata una disattenzione del camionista, oppure del pilota. O forse si è trattato della solita sfiga, che quando arriva va cavalcata a dovere, come abbiamo fatto stamattina all’aeroporto...».
Dalla dice comunque di non aver provato paura - sarà vero? - ma al massimo stupore. E mentre l’ascensore del Municipio lo porta al Salotto azzurro, dove giornalisti e addetti ai lavori lo aspettano da un bel po’, ricorda un precedente: «Qualcosa di simile mi era successa nel ’75, in Argentina. Ero in tournèe, dovevo andare da Buenos Aires a Rosario, il motore dell’aereo a un certo punto ci ha piantati in asso. Siamo quasi precipitati sulla pampa, ma nessuno si è fatto male. Ricordo che restammo quattro ore fermi, ad aspettare che ci venissero a prendere...».
Lucio Dalla arriva in ritardo ieri mattina in piazza dell’Unità, dov’era atteso per la conferenza stampa in Municipio del suo «Tosca: Amore disperato», e le prime domande riguardano ovviamente l’incidente di Ronchi.
«Stavo ancora pensando che cosa ci facesse un camion praticamente sulla pista - racconta l’artista - quando ci dicono che non c’è tempo da perdere: uscivano fiotti di carburante, la situazione era dunque pericolosa e bisognava abbandonare in gran fretta l’aereo».
Ancora Dalla: «Non c’è stato panico. Il personale è stato molto efficiente e cortese. Sono scattate le procedure di emergenza e ci hanno fatto uscire con gli scivoli. Io, sapendo che in questi casi l’impatto con il terreno è piuttosto violento, ho tentato di mettermi il porta-abiti sotto il sedere, ma una hostess alquanto efficiente me l’ha sottratto. Risultato: mi son preso una bella ’culattata’ sul selciato...».
Il cantautore bolognese dimostra anche in questa occasione di esser uomo di spirito. E sorride del pericolo scampato. «Delle due l’una: o è stata una disattenzione del camionista, oppure del pilota. O forse si è trattato della solita sfiga, che quando arriva va cavalcata a dovere, come abbiamo fatto stamattina all’aeroporto...».
Dalla dice comunque di non aver provato paura - sarà vero? - ma al massimo stupore. E mentre l’ascensore del Municipio lo porta al Salotto azzurro, dove giornalisti e addetti ai lavori lo aspettano da un bel po’, ricorda un precedente: «Qualcosa di simile mi era successa nel ’75, in Argentina. Ero in tournèe, dovevo andare da Buenos Aires a Rosario, il motore dell’aereo a un certo punto ci ha piantati in asso. Siamo quasi precipitati sulla pampa, ma nessuno si è fatto male. Ricordo che restammo quattro ore fermi, ad aspettare che ci venissero a prendere...».
�Quello di Scarpia a...
«Quello di Scarpia ai danni di Tosca? Il primo caso di mobbing della storia... In fondo è come l’avvocato che ci prova con la segretaria...».
Non perde la voglia di scherzare Lucio Dalla, ieri mattina, nel Salotto azzurro del Municipio, reduce dal ...mancato disastro aereo di Ronchi. Comune di Trieste e Stabile del Friuli Venezia Giulia lo hanno invitato per presentare le repliche, dal 20 al 23 maggio, al PalaTrieste, della sua «Tosca: Amore disperato», che ha debuttato nell’ottobre scorso a Roma. Nel pacchetto preparato dal produttore Daviz Zard - anche lui presente ieri nell’avventuroso blitz triestino - ci sono anche le ulteriori repliche, dal 13 al 16 maggio, sempre al PalaTrieste, di «Notre Dame de Paris».
«La Tosca - dice Lucio Dalla - è, a mio avviso, l’opera più bella di Puccini. Ma oggi non può essere capita, i giovani non vanno a teatro leggendo il libretto. Ne ho voluto allora fare una versione pop, apocrifa, cambiando le musiche e le parole, perchè volevo che tutti capissero che grande capolavoro è. Ha un solo limite: è troppo grande. E oggi, a cento anni di distanza, non può più essere capita e condivisa da tutti nella rappresentazione tradizionale».
Di quello che è stato definito un musical pop ma anche un’opera multimediale, metà concerto rock e metà varietà televisivo, l’artista bolognese ha scritto musiche, libretto, testi, curandone anche la regia.
«Sì, mi avevano chiesto di scrivere solo la musica - spiega Dalla - ma io ho preferito un impegno di scrittura complessivo, totale. Ciò per rispettare un mio impegno nei confronti della nostra storia e soprattutto perchè solo così pensavo di poter avvicinare per davvero questo capolavoro ai giovani. È stato un lavoro sulla connessione dei segni, per offrire a tutti, giovani e meno giovani, un’alternativa allo spettacolo televisivo e al concerto rock. Anche se poi, guardando il risultato finale, mi accorgo che dentro ci sono entrambi...».
Ancora Dalla: «Tosca parla di potere, di Dio, di libertà. Di grandi sentimenti come l’amore e l’odio. Per questo è sempre attuale. Nella forza della sua struttura narrativa, le riflessioni sul potere e sulla libertà valgono ovunque, in Italia e all’estero. Tosca in fondo è un archetipo: ci ricorda che chiunque detenga un qualche tipo di potere, alla fine diventa una persona diversa...».
C’è ancora tempo per qualche riflessione sull’opera e i suoi dintorni. «Cavaradossi - dice Dalla - non ha l’animo del rivoluzionario: oggi sarebbe uno tranquillo, di centrosinistra. Scarpia è un personaggio affabile e simpatico come affabili e simpatici sono i cattivi di oggi, che ti sorridono, ti danno una pacca sulle spalle ma poi si fottono. Tosca è una donna di oggi, un’eroina che difende il proprio diritto di amare chi vuole. Diciamo che è una con le palle. E il nostro è un omaggio alla forza della donna».
E i puristi? «No, non hanno arricciato il naso. Forse si erano rotti anche loro della tradizione immutabile nel tempo. La nostra è un’opera moderna, anche se poi ne faremo anche una versione tradizionale con l’orchestra...».
«I giovani e non solo loro hanno apprezzato e capito questo nostro modo nuovo di trattare una grande storia come quella di Tosca, del suo amore disperato per Cavaradossi, della perfidia di Scarpia. L'opera è uscita dalle nostre mani così, grazie soprattutto al produttore David Zard che ha creduto nell’operazione. Da un lato è un'opera piena di allegria, dall'altro è immersa in una grande intensità emotiva. È un'opera compiuta che si avvicina molto a quella di Puccini anche se la storia è molto attualizzata...».
Il doppio appuntamento, con «Tosca: Amore disperato» e con «Notre Dame de Paris», apre il pacchetto di spettacoli e manifestazioni che si terranno fra la primavera e l’estate per celebrare, a ottobre, il cinquantenario del ritorno di Trieste all’Italia, come hanno ricordato ieri mattina il sindaco Dipiazza e l’assessore alla cultura Lippi.
Sollecitato, Dalla ha speso qualche parola anche sull’appuntamento del primo maggio, dell’allargamento dell’Unione Europea a Est. «Gli steccati sono una forma arcaica e nefasta di divisione, anche culturale. Devono cadere. Tutti. Sono contento che la geopolitica dell’Europa sia in continua trasformazione. Potremo comunicare con più gente. E questo è sempre positivo. Nei confronti dell’altro, del vicino, c’è bisogno solo di curiosità...».
Non perde la voglia di scherzare Lucio Dalla, ieri mattina, nel Salotto azzurro del Municipio, reduce dal ...mancato disastro aereo di Ronchi. Comune di Trieste e Stabile del Friuli Venezia Giulia lo hanno invitato per presentare le repliche, dal 20 al 23 maggio, al PalaTrieste, della sua «Tosca: Amore disperato», che ha debuttato nell’ottobre scorso a Roma. Nel pacchetto preparato dal produttore Daviz Zard - anche lui presente ieri nell’avventuroso blitz triestino - ci sono anche le ulteriori repliche, dal 13 al 16 maggio, sempre al PalaTrieste, di «Notre Dame de Paris».
«La Tosca - dice Lucio Dalla - è, a mio avviso, l’opera più bella di Puccini. Ma oggi non può essere capita, i giovani non vanno a teatro leggendo il libretto. Ne ho voluto allora fare una versione pop, apocrifa, cambiando le musiche e le parole, perchè volevo che tutti capissero che grande capolavoro è. Ha un solo limite: è troppo grande. E oggi, a cento anni di distanza, non può più essere capita e condivisa da tutti nella rappresentazione tradizionale».
Di quello che è stato definito un musical pop ma anche un’opera multimediale, metà concerto rock e metà varietà televisivo, l’artista bolognese ha scritto musiche, libretto, testi, curandone anche la regia.
«Sì, mi avevano chiesto di scrivere solo la musica - spiega Dalla - ma io ho preferito un impegno di scrittura complessivo, totale. Ciò per rispettare un mio impegno nei confronti della nostra storia e soprattutto perchè solo così pensavo di poter avvicinare per davvero questo capolavoro ai giovani. È stato un lavoro sulla connessione dei segni, per offrire a tutti, giovani e meno giovani, un’alternativa allo spettacolo televisivo e al concerto rock. Anche se poi, guardando il risultato finale, mi accorgo che dentro ci sono entrambi...».
Ancora Dalla: «Tosca parla di potere, di Dio, di libertà. Di grandi sentimenti come l’amore e l’odio. Per questo è sempre attuale. Nella forza della sua struttura narrativa, le riflessioni sul potere e sulla libertà valgono ovunque, in Italia e all’estero. Tosca in fondo è un archetipo: ci ricorda che chiunque detenga un qualche tipo di potere, alla fine diventa una persona diversa...».
C’è ancora tempo per qualche riflessione sull’opera e i suoi dintorni. «Cavaradossi - dice Dalla - non ha l’animo del rivoluzionario: oggi sarebbe uno tranquillo, di centrosinistra. Scarpia è un personaggio affabile e simpatico come affabili e simpatici sono i cattivi di oggi, che ti sorridono, ti danno una pacca sulle spalle ma poi si fottono. Tosca è una donna di oggi, un’eroina che difende il proprio diritto di amare chi vuole. Diciamo che è una con le palle. E il nostro è un omaggio alla forza della donna».
E i puristi? «No, non hanno arricciato il naso. Forse si erano rotti anche loro della tradizione immutabile nel tempo. La nostra è un’opera moderna, anche se poi ne faremo anche una versione tradizionale con l’orchestra...».
«I giovani e non solo loro hanno apprezzato e capito questo nostro modo nuovo di trattare una grande storia come quella di Tosca, del suo amore disperato per Cavaradossi, della perfidia di Scarpia. L'opera è uscita dalle nostre mani così, grazie soprattutto al produttore David Zard che ha creduto nell’operazione. Da un lato è un'opera piena di allegria, dall'altro è immersa in una grande intensità emotiva. È un'opera compiuta che si avvicina molto a quella di Puccini anche se la storia è molto attualizzata...».
Il doppio appuntamento, con «Tosca: Amore disperato» e con «Notre Dame de Paris», apre il pacchetto di spettacoli e manifestazioni che si terranno fra la primavera e l’estate per celebrare, a ottobre, il cinquantenario del ritorno di Trieste all’Italia, come hanno ricordato ieri mattina il sindaco Dipiazza e l’assessore alla cultura Lippi.
Sollecitato, Dalla ha speso qualche parola anche sull’appuntamento del primo maggio, dell’allargamento dell’Unione Europea a Est. «Gli steccati sono una forma arcaica e nefasta di divisione, anche culturale. Devono cadere. Tutti. Sono contento che la geopolitica dell’Europa sia in continua trasformazione. Potremo comunicare con più gente. E questo è sempre positivo. Nei confronti dell’altro, del vicino, c’è bisogno solo di curiosità...».
mercoledì 14 aprile 2004
Le nuovi voci femmin...
Le nuovi voci femminili del pop, intanto, arrivano da luoghi che finora non avevano dato grandi contributi al panorama musicale internazionale. Magari, anzi, probabilmente, nelle varie periferie del mondo esistevano già piccole star seguite e amate dai giovani dei loro paesi, che però non uscivano mai dai rispettivi confini. La novità è che ora, in tempi di globalizzazione anche musicale, queste signore dai confini escono. E si fanno sentire «...in ogni dove».
Prendete Bic Runga, ventiseienne neozelandese, che si era fatta conoscere nel ’97 con l’album d’esordio «Drive», ma che ora è letteralmente esplosa in mezzo mondo - Italia compresa - con il suo «Beautiful collision», uscito in Nuova Zelanda due anni fa e quest’anno dappertutto. Bellezza esotica, cantautrice del genere chitarra a tracolla, cresciuta ascoltando Neil Young ma anche Ella Fitzgerald, questa ragazza che si chiama come una penna a sfera è oggi uno dei prodotti pop al femminili più gradevoli che ci siano in circolazione.
Un’altra rivelazione della stagione in corso è l’australiana Delta Goodrem. Come le sue connazionali Kylie Minogue, Holly Valance e Nathalie Imbruglia (quest’ultima di origini italiane), ha mosso i primi passi nelle tivù del suo paese. Con «Innocent eyes» si sta imponendo anche a livello internazionale. Anche se proprio ora che le cose stanno cominciando a girare per il verso giusto, la ragazza deve affrontare la partita più difficile, quella con una malattia che sta minando i suoi vent’anni.
Da una periferia più vicina a noi arriva invece la turca Sertab Erener. Che propone un percorso abbastanza insolito per le nuove reginette del pop: debutto con l’opera, successivo avvicinamento alla musica leggera, e poi l’affrancamento dall’anonimato con una personalissima versione di un classico di Bob Dylan, «One more cup of coffee», inserita nella colonna sonora del film «Masked and anonymous», con Penelope Cruz, Jessica Lange e lo stesso Mister Zimmerman.
Prendete Bic Runga, ventiseienne neozelandese, che si era fatta conoscere nel ’97 con l’album d’esordio «Drive», ma che ora è letteralmente esplosa in mezzo mondo - Italia compresa - con il suo «Beautiful collision», uscito in Nuova Zelanda due anni fa e quest’anno dappertutto. Bellezza esotica, cantautrice del genere chitarra a tracolla, cresciuta ascoltando Neil Young ma anche Ella Fitzgerald, questa ragazza che si chiama come una penna a sfera è oggi uno dei prodotti pop al femminili più gradevoli che ci siano in circolazione.
Un’altra rivelazione della stagione in corso è l’australiana Delta Goodrem. Come le sue connazionali Kylie Minogue, Holly Valance e Nathalie Imbruglia (quest’ultima di origini italiane), ha mosso i primi passi nelle tivù del suo paese. Con «Innocent eyes» si sta imponendo anche a livello internazionale. Anche se proprio ora che le cose stanno cominciando a girare per il verso giusto, la ragazza deve affrontare la partita più difficile, quella con una malattia che sta minando i suoi vent’anni.
Da una periferia più vicina a noi arriva invece la turca Sertab Erener. Che propone un percorso abbastanza insolito per le nuove reginette del pop: debutto con l’opera, successivo avvicinamento alla musica leggera, e poi l’affrancamento dall’anonimato con una personalissima versione di un classico di Bob Dylan, «One more cup of coffee», inserita nella colonna sonora del film «Masked and anonymous», con Penelope Cruz, Jessica Lange e lo stesso Mister Zimmerman.
Tutto va, tutto torn...
Tutto va, tutto torna. Almeno nel campo della musica. E mentre il mondo delle sette note festeggia i cinquant’anni del rock (12 aprile 1954, Bill Haley incide «Rock around the clock», anche se per un po’ di tempo non se ne accorge nessuno...), la discografia fa i conti con un fenomeno su cui pochi, fino a qualche tempo fa, avrebbero scommesso qualche dollaro.
La notizia? Eccola. A sei anni dalla morte, ritorna clamorosamente in auge Frank Sinatra. No, non solo grazie al successo di vendite che continua ad arridere al catalogo lasciato da «The Voice», né con le raccolte e i dvd che un’industria discografica a corto di idee continua a sfornare, ma proprio grazie a nuovi artisti, nuovi interpreti che, direttamente o indirettamente, si ispirano alla lezione lasciata dal grande Frank.
Un’avvisaglia c’era stata già tre anni fa con Robbie Williams, che nel disco «Swing when you’re winning» era andato a spolverare i classici di Sinatra ma anche di Dean Martin e Sammy Davis Jr. L’ex Take That si era fatto affiancare nell’impresa dalla London Session Orchestra e da alcuni ormai anziani musicisti che avevano suonato con l’uomo di «My way», come il pianista ultraottantenne Bill Miller.
Una mezza sorpresa è stata anche ascoltare un vecchio rocker buono per tutte le stagioni come Rod Stewart venirsene fuori con due album di standard evergreen, chiaramente ispirati all’epoca dei grandi crooner, come «It had to be you... The great american songbook» e, un paio di mesi fa, «As time goes by - The great american songbook volume II».
Ma negli ultimi mesi il fenomeno è andato via via ingrossandosi. Negli Stati Uniti spopola il ventitreenne californiano Josh Groban, specializzatosi in un genere a metà strada fra pop e opera, già ribattezzato senza troppa fantasia «popera», che a sentirlo cantare sembra il fratello minore di Andrea Bocelli o un nipotino del vecchio Frank. Sempre negli States va forte Harry Connick jr, nelle classifiche con un album intitolato «Only you» e dedicato a grandi classici degli anni Cinquanta e Sessanta.
Non è finita. Anzi. Della lista fa parte a pieno titolo il ventisettenne Michael Bublè (canadese di Vancouver, con genitori originari di Treviso), da molti già considerato come il vero «re dello swing revival». Basti pensare che nella colonna sonora del film «Down with love», quella gradevole commediola con Renée Zellweger e Ewan McGregor che strizza l’occhio ai Sessanta e in italiano è stata intitolata «Abbasso l’amore», ci sono ben tre suoi brani. Per non parlare del successo internazionale che sta premiando il suo album omonimo: oltre tre milioni di copie già piazzate.
E poi c’è l’inglese Jamie Cullum, ventiquattro anni, già ribattezzato «il Frank Sinatra in scarpe da tennis», di cui è appena uscito l’album «Twenty something» (che nelle classifiche internazionali sta dando del filo da torcere nientemeno che a Norah Jones) e il cui tour europeo fa tappa lunedì in Italia, per un concerto all’Auditorium di Roma.
Non vi basta ancora? Ecco Peter Cincotti, appena vent’anni, newyorkese, anche lui di chiare origini italiane. Cantante e pianista, già definito da «People» come «l’uomo più sexy del pianeta», potrebbe ripercorrere i fasti sinatriani sul doppio binario musica & cinema: mentre l’album d’esordio, prodotto da Phil Ramone, è in testa alle classifiche jazz, Hollywood ha già messo gli occhi addosso al bell’italoamericano. Il giovane Cincotti è infatti nel cast di «Spiderman 2» e di «Beyond the sea», il film sul cantante Bobby Darin diretto e interpretato da Kevin Spacey, che uscirà in autunno.
E le signore? In questa corsa, diretta o indiretta, a far rivivere il mitico Frank, un piccolo tassello lo mettono anche loro. Basti pensare che l’americana ventenne Amy Winehouse (in promozione nelle settimane scorse anche in Italia, dove ha fatto un passaggio da Simona Ventura a «Quelli che il calcio») ha pensato bene di intitolare il suo disco d’esordio «Frank». E basta sentirla cantare per non avere il minimo dubbio su quale Frank avesse in mente...
Insomma, niente di nuovo sotto il sole. Se anche i ragazzi di vent’anni, cresciuti a internet e hip hop, vanno a pescare dalle parti del ragazzaccio «blue eyes» nato a Hoboken, New Jersey, nel 1915. Forse ha ragione Jamie Cullum: «La musica ha un percorso ciclico. Il jazz e il pop hanno una storia molto lunga, hanno attraversato periodi in cui sembrava non avessero più nulla di nuovo da esprimere...». Salvo poi accorgersi che da certi giganti - Sinatra, Presley, Beatles... - non si può proprio prescindere.
La notizia? Eccola. A sei anni dalla morte, ritorna clamorosamente in auge Frank Sinatra. No, non solo grazie al successo di vendite che continua ad arridere al catalogo lasciato da «The Voice», né con le raccolte e i dvd che un’industria discografica a corto di idee continua a sfornare, ma proprio grazie a nuovi artisti, nuovi interpreti che, direttamente o indirettamente, si ispirano alla lezione lasciata dal grande Frank.
Un’avvisaglia c’era stata già tre anni fa con Robbie Williams, che nel disco «Swing when you’re winning» era andato a spolverare i classici di Sinatra ma anche di Dean Martin e Sammy Davis Jr. L’ex Take That si era fatto affiancare nell’impresa dalla London Session Orchestra e da alcuni ormai anziani musicisti che avevano suonato con l’uomo di «My way», come il pianista ultraottantenne Bill Miller.
Una mezza sorpresa è stata anche ascoltare un vecchio rocker buono per tutte le stagioni come Rod Stewart venirsene fuori con due album di standard evergreen, chiaramente ispirati all’epoca dei grandi crooner, come «It had to be you... The great american songbook» e, un paio di mesi fa, «As time goes by - The great american songbook volume II».
Ma negli ultimi mesi il fenomeno è andato via via ingrossandosi. Negli Stati Uniti spopola il ventitreenne californiano Josh Groban, specializzatosi in un genere a metà strada fra pop e opera, già ribattezzato senza troppa fantasia «popera», che a sentirlo cantare sembra il fratello minore di Andrea Bocelli o un nipotino del vecchio Frank. Sempre negli States va forte Harry Connick jr, nelle classifiche con un album intitolato «Only you» e dedicato a grandi classici degli anni Cinquanta e Sessanta.
Non è finita. Anzi. Della lista fa parte a pieno titolo il ventisettenne Michael Bublè (canadese di Vancouver, con genitori originari di Treviso), da molti già considerato come il vero «re dello swing revival». Basti pensare che nella colonna sonora del film «Down with love», quella gradevole commediola con Renée Zellweger e Ewan McGregor che strizza l’occhio ai Sessanta e in italiano è stata intitolata «Abbasso l’amore», ci sono ben tre suoi brani. Per non parlare del successo internazionale che sta premiando il suo album omonimo: oltre tre milioni di copie già piazzate.
E poi c’è l’inglese Jamie Cullum, ventiquattro anni, già ribattezzato «il Frank Sinatra in scarpe da tennis», di cui è appena uscito l’album «Twenty something» (che nelle classifiche internazionali sta dando del filo da torcere nientemeno che a Norah Jones) e il cui tour europeo fa tappa lunedì in Italia, per un concerto all’Auditorium di Roma.
Non vi basta ancora? Ecco Peter Cincotti, appena vent’anni, newyorkese, anche lui di chiare origini italiane. Cantante e pianista, già definito da «People» come «l’uomo più sexy del pianeta», potrebbe ripercorrere i fasti sinatriani sul doppio binario musica & cinema: mentre l’album d’esordio, prodotto da Phil Ramone, è in testa alle classifiche jazz, Hollywood ha già messo gli occhi addosso al bell’italoamericano. Il giovane Cincotti è infatti nel cast di «Spiderman 2» e di «Beyond the sea», il film sul cantante Bobby Darin diretto e interpretato da Kevin Spacey, che uscirà in autunno.
E le signore? In questa corsa, diretta o indiretta, a far rivivere il mitico Frank, un piccolo tassello lo mettono anche loro. Basti pensare che l’americana ventenne Amy Winehouse (in promozione nelle settimane scorse anche in Italia, dove ha fatto un passaggio da Simona Ventura a «Quelli che il calcio») ha pensato bene di intitolare il suo disco d’esordio «Frank». E basta sentirla cantare per non avere il minimo dubbio su quale Frank avesse in mente...
Insomma, niente di nuovo sotto il sole. Se anche i ragazzi di vent’anni, cresciuti a internet e hip hop, vanno a pescare dalle parti del ragazzaccio «blue eyes» nato a Hoboken, New Jersey, nel 1915. Forse ha ragione Jamie Cullum: «La musica ha un percorso ciclico. Il jazz e il pop hanno una storia molto lunga, hanno attraversato periodi in cui sembrava non avessero più nulla di nuovo da esprimere...». Salvo poi accorgersi che da certi giganti - Sinatra, Presley, Beatles... - non si può proprio prescindere.
martedì 6 aprile 2004
Pochi, fra i grandi ...
Pochi, fra i grandi cantautori, sono capaci di mettere a nudo i propri sentimenti - e di offrirli con sincerità e semplicità al pubblico - come Roberto Vecchioni. Nel suo nuovo spettacolo teatrale, seguito alla pubblicazione dell’album «Rotary Club of Malindi» e visto l’altra sera in un Politeama Rossetti non affollato come in suoi precedenti concerti, il sessantunenne cantautore milanese di origini napoletane - da poco in pensione come insegnante di lettere - conferma questa sua dote, alternando peraltro stati d’animo molto diversi fra loro.
Da un lato ride, scherza, regala battute su Berlusconi e sull’Inter, racconta una barzelletta, s’improvvisa persino (goffo) imitatore di Schifani e Biscardi... Dall’altro parla e canta spesso della morte, del distacco dalle cose terrene, dell’addio definitivo. Un tema che torna spesso nelle parole, dette e cantate, dello spettacolo. E che ha nelle metafore poetiche e struggenti di «Viola d’inverno» (da «Il lanciatore di coltelli», del 2002, l’altra sera in chiusura di primo tempo), in quelle solo apparentemente scanzonate di «Samarcanda» (classe 1977, album omonimo, l’altra sera in apertura di secondo tempo), nell’affresco toccante di «Dimentica una cosa al giorno» (dedicata alla madre che non c’è più, dal nuovo album), solo alcuni esempi. Fino a quel verso di «Pagando, s’intende», classico del ’75, proposto l’altra sera come primo bis: «Ho un patto con gli anni, cavalco, ho paura, mi tengo da sempre una mano sul petto, dovesse mai smettere, ascolta, di battermi il cuore...».
Accompagnato da una band di sette elementi (due le donne), apre lo spettacolo con «Le lettere d’amore», quelle dove «Fernando Pessoa chiese gli occhiali e si addormentò», brano che stava ne «Il cielo capovolto», disco del ’95, e che serve al nostro per la sua dichiarazione d’intenti: solo quelli che non hanno mai scritto una lettera d’amore fanno veramente ridere, e una lettera d’amore può essere anche uno sguardo, un gesto, una carezza. Subito dopo è tempo di «Nina Kuna?», dal nuovo album richiamato anche dalla scenografia dello spettacolo, con una grande struttura che dovrebbe rappresentare la fermata d’autobus immortalata nella copertina del disco, sovrastata dalla scritta che dà il titolo a quest’ultimo.
Vecchioni allude allo stress, alla depressione, malattie tipicamente occidentali. Lascia intendere che anche lui, bianco, borghese, democratico, è uscito da un periodo di crisi proprio grazie a questo viaggio in Africa, per l’esattezza in Kenya, dove ha riscoperto valori perduti e ritrovato anche nuova ispirazione. Un viaggio che diventa percorso interiore quasi terapeutico: un passaggio psicologico, una tappa per traghettare l’angoscia verso una ritrovata serenità.
Musicalmente, nel disco e nello spettacolo, di africano c’è ben poco: giusto qualche ritmo e qualche litania etnica nel brano citato e in quello che dà il titolo all’album, l’altra sera ultimo in scaletta prima dei bis. Sempre in bilico fra ironia e malinconia, sono altre le corde musicali che l’artista sa toccare in concerto. Il suo problema, semmai, è che i suoi veri capolavori sono quasi sempre vecchi di venti o trent’anni. E che non sempre, anzi, diciamo la verità, spesso le cose nuove non sono all’altezza dei classici. Lui, forte di una consolidata esperienza dal vivo (che da anni gli fa affidare a mani più sicure la chitarra che un tempo maltrattava...), si cava dall’impiccio alternando perle e episodi meno felici. E pescando a piene mani dal passato.
Il risultato finale è comunque gradevole e a tratti emozionante. Grazie soprattutto a «La mia ragazza», «Tommy», «Sogna ragazzo sogna», «L’uomo che si gioca il cielo a dadi» (roba del ’73, l’altra sera per chitarra e voce), «Ninni», «Stranamore»... Fra i bis, dopo la citata «Pagando, s’intende», è bello riscoprire «Figlia» e si sa che non può mai mancare «Luci a San Siro».
A Trieste, successo affettuoso. Stasera si replica al «Nuovo» di Udine.
Da un lato ride, scherza, regala battute su Berlusconi e sull’Inter, racconta una barzelletta, s’improvvisa persino (goffo) imitatore di Schifani e Biscardi... Dall’altro parla e canta spesso della morte, del distacco dalle cose terrene, dell’addio definitivo. Un tema che torna spesso nelle parole, dette e cantate, dello spettacolo. E che ha nelle metafore poetiche e struggenti di «Viola d’inverno» (da «Il lanciatore di coltelli», del 2002, l’altra sera in chiusura di primo tempo), in quelle solo apparentemente scanzonate di «Samarcanda» (classe 1977, album omonimo, l’altra sera in apertura di secondo tempo), nell’affresco toccante di «Dimentica una cosa al giorno» (dedicata alla madre che non c’è più, dal nuovo album), solo alcuni esempi. Fino a quel verso di «Pagando, s’intende», classico del ’75, proposto l’altra sera come primo bis: «Ho un patto con gli anni, cavalco, ho paura, mi tengo da sempre una mano sul petto, dovesse mai smettere, ascolta, di battermi il cuore...».
Accompagnato da una band di sette elementi (due le donne), apre lo spettacolo con «Le lettere d’amore», quelle dove «Fernando Pessoa chiese gli occhiali e si addormentò», brano che stava ne «Il cielo capovolto», disco del ’95, e che serve al nostro per la sua dichiarazione d’intenti: solo quelli che non hanno mai scritto una lettera d’amore fanno veramente ridere, e una lettera d’amore può essere anche uno sguardo, un gesto, una carezza. Subito dopo è tempo di «Nina Kuna?», dal nuovo album richiamato anche dalla scenografia dello spettacolo, con una grande struttura che dovrebbe rappresentare la fermata d’autobus immortalata nella copertina del disco, sovrastata dalla scritta che dà il titolo a quest’ultimo.
Vecchioni allude allo stress, alla depressione, malattie tipicamente occidentali. Lascia intendere che anche lui, bianco, borghese, democratico, è uscito da un periodo di crisi proprio grazie a questo viaggio in Africa, per l’esattezza in Kenya, dove ha riscoperto valori perduti e ritrovato anche nuova ispirazione. Un viaggio che diventa percorso interiore quasi terapeutico: un passaggio psicologico, una tappa per traghettare l’angoscia verso una ritrovata serenità.
Musicalmente, nel disco e nello spettacolo, di africano c’è ben poco: giusto qualche ritmo e qualche litania etnica nel brano citato e in quello che dà il titolo all’album, l’altra sera ultimo in scaletta prima dei bis. Sempre in bilico fra ironia e malinconia, sono altre le corde musicali che l’artista sa toccare in concerto. Il suo problema, semmai, è che i suoi veri capolavori sono quasi sempre vecchi di venti o trent’anni. E che non sempre, anzi, diciamo la verità, spesso le cose nuove non sono all’altezza dei classici. Lui, forte di una consolidata esperienza dal vivo (che da anni gli fa affidare a mani più sicure la chitarra che un tempo maltrattava...), si cava dall’impiccio alternando perle e episodi meno felici. E pescando a piene mani dal passato.
Il risultato finale è comunque gradevole e a tratti emozionante. Grazie soprattutto a «La mia ragazza», «Tommy», «Sogna ragazzo sogna», «L’uomo che si gioca il cielo a dadi» (roba del ’73, l’altra sera per chitarra e voce), «Ninni», «Stranamore»... Fra i bis, dopo la citata «Pagando, s’intende», è bello riscoprire «Figlia» e si sa che non può mai mancare «Luci a San Siro».
A Trieste, successo affettuoso. Stasera si replica al «Nuovo» di Udine.
sabato 3 aprile 2004
�No, �Marika� non la...
«No, ”Marika” non la canto. Dopo i fatti dell’11 marzo in Spagna ho capito che non era il caso. Anche se, ripeto, non si tratta di una canzone politica, ma solo del dramma di una giovane donna, con i suoi ricordi, le sue sensazioni, la sua anima...».
Roberto Vecchioni è da qualche settimana in tour (domani alle 21 al Rossetti di Trieste, mercoledì al Nuovo di Udine), e quella contestata canzone, sulla storia di una terrorista palestinese, compresa nel nuovo disco «Rotary Club of Malindi», ha fatto in tempo a presentarla in concerto solo un paio di volte («è stata accolta anche abbastanza bene...»). Poi a Milano c’è stata anche la contestazione della comunità ebraica, e il professore ha capito che era meglio riporla nel cassetto.
«Sapevo che era difficile - spiega il cantautore milanese - proporre una canzone di disperazione terroristica in un momento come questo. Ma mi sembrava fosse chiaro che con quei versi io non parteggio per nessuno, tantomeno per chi compie un atto terroristico. È solo la storia di questa donna, della sua disperazione, divisa com’è fra la voglia di vivere e l’amore per la sua terra, rappresentato dai suoi compagni che la incitano a quel gesto terribile. Ma forse è vero: mentre certi fatti accadono, l’unica scelta possibile è quella del silenzio».
Il concerto?
«Acustico, emotivo, spero emozionante. È uno spettacolo sul valore della parola, in cui come al solito parlo molto. Le canzoni del nuovo disco le faccio quasi tutte, poi ci sono i classici che non possono mancare, e una serie di brani che ho riscoperto da un po’ di tempo: ”Tommy”, ”Gli anni”, ”L’uomo che si gioca il cielo a dadi”...».
Il disco?
«Il titolo nasce dall’immagine che ho fatto riprodurre in copertina: un’incredibile fermata d’autobus che ho visto in Kenya, con quella scritta faceva a pugni con la realtà fatiscente che vi stava attorno, con la povera gente del luogo che aspettava l’autobus, con il degrado della zona...».
Continui.
«La forbice fra il ricco mondo occidentale e la povertà del terzo mondo si è purtroppo allargata negli ultimi anni. L’Occidente sta vivendo una sorta di deflagrazione interna: abbiamo perso il senso dei valori, dell’amicizia, delle parole, dell’amore vero, che è innanzitutto l’amore verso gli altri.
E in Africa?
«La prima volta che ci sono andato mi sono sentito una piccola banalità di questo Occidente senza più anima. Vivendo per dei periodi laggiù, viaggiando, parlando con le persone, mi sono accorto di nuovo dell’importanza delle cose che contano. Ho riso delle mie paturnie occidentali di uomo senza più voglie né stimoli. Diciamo che ho quasi rifatto amicizia con il mio mondo e il mio tempo».
Trieste?
«Ci torno sempre volentieri. Davvero. Ha quel fascino particolare delle capitali, e capitale Trieste lo è sempre stata anche senza esserlo, a metà strada fra Oriente e Occidente. E poi il mare, le donne, l’intelligenza, l’umorismo...».
Vecchioni domani dovrebbe partire con «Le lettere d’amore». Con lui, sul palco, Maurizio Porto (basso), Iarin Munari (batteria), Massimo Germini e Fabio Moretti (chitarre), Ilaria Biagini (tastiere e cori), Vincenzo Murè (piano) e Zita Petho (violino).
Roberto Vecchioni è da qualche settimana in tour (domani alle 21 al Rossetti di Trieste, mercoledì al Nuovo di Udine), e quella contestata canzone, sulla storia di una terrorista palestinese, compresa nel nuovo disco «Rotary Club of Malindi», ha fatto in tempo a presentarla in concerto solo un paio di volte («è stata accolta anche abbastanza bene...»). Poi a Milano c’è stata anche la contestazione della comunità ebraica, e il professore ha capito che era meglio riporla nel cassetto.
«Sapevo che era difficile - spiega il cantautore milanese - proporre una canzone di disperazione terroristica in un momento come questo. Ma mi sembrava fosse chiaro che con quei versi io non parteggio per nessuno, tantomeno per chi compie un atto terroristico. È solo la storia di questa donna, della sua disperazione, divisa com’è fra la voglia di vivere e l’amore per la sua terra, rappresentato dai suoi compagni che la incitano a quel gesto terribile. Ma forse è vero: mentre certi fatti accadono, l’unica scelta possibile è quella del silenzio».
Il concerto?
«Acustico, emotivo, spero emozionante. È uno spettacolo sul valore della parola, in cui come al solito parlo molto. Le canzoni del nuovo disco le faccio quasi tutte, poi ci sono i classici che non possono mancare, e una serie di brani che ho riscoperto da un po’ di tempo: ”Tommy”, ”Gli anni”, ”L’uomo che si gioca il cielo a dadi”...».
Il disco?
«Il titolo nasce dall’immagine che ho fatto riprodurre in copertina: un’incredibile fermata d’autobus che ho visto in Kenya, con quella scritta faceva a pugni con la realtà fatiscente che vi stava attorno, con la povera gente del luogo che aspettava l’autobus, con il degrado della zona...».
Continui.
«La forbice fra il ricco mondo occidentale e la povertà del terzo mondo si è purtroppo allargata negli ultimi anni. L’Occidente sta vivendo una sorta di deflagrazione interna: abbiamo perso il senso dei valori, dell’amicizia, delle parole, dell’amore vero, che è innanzitutto l’amore verso gli altri.
E in Africa?
«La prima volta che ci sono andato mi sono sentito una piccola banalità di questo Occidente senza più anima. Vivendo per dei periodi laggiù, viaggiando, parlando con le persone, mi sono accorto di nuovo dell’importanza delle cose che contano. Ho riso delle mie paturnie occidentali di uomo senza più voglie né stimoli. Diciamo che ho quasi rifatto amicizia con il mio mondo e il mio tempo».
Trieste?
«Ci torno sempre volentieri. Davvero. Ha quel fascino particolare delle capitali, e capitale Trieste lo è sempre stata anche senza esserlo, a metà strada fra Oriente e Occidente. E poi il mare, le donne, l’intelligenza, l’umorismo...».
Vecchioni domani dovrebbe partire con «Le lettere d’amore». Con lui, sul palco, Maurizio Porto (basso), Iarin Munari (batteria), Massimo Germini e Fabio Moretti (chitarre), Ilaria Biagini (tastiere e cori), Vincenzo Murè (piano) e Zita Petho (violino).
giovedì 1 aprile 2004
Ve la ricordate �La ...
Ve la ricordate «La descrizione di un attimo», dei Tiromancino? Grande canzone, che qualche anno fa regalò la luce dei riflettori al gruppo romano. Ebbene, come gli appassionati già sanno, quel brano era opera di Riccardo Sinigallia, che con la band del cantante Federico Zampaglione condivise anche un secondo posto a Sanremo Giovani del 2000.
«Tutta questa storia nasce nel ’99 - ricorda Sinigallia, il cui tour fa tappa domani sera alle 21 al Teatro Miela di Trieste -, io stavo già lavorando a un disco mio, quando Francesco Zampaglione, fratello di Federico, mi persuade ad aiutare il progetto Tiromancino che era praticamente in via di estinzione. Nasce così "La descrizione di un attimo", arriva il successo, dopo il quale il gruppo però nel 2001 si spacca».
Ma allora è vero che tenere assieme un gruppo è sempre più difficile...
«Forse, anche se tanti gruppi ci sono, lavorano e a volte resistono. Nel nostro caso c’erano delle divergenze profonde negli intenti e la spaccatura fu insanabile».
Una spaccatura anche familiare...
«Sì, Laura Arzilli e Francesco Zampaglione hanno continuato a lavorare con me, in questo disco intitolato col mio nome e cognome e con questo tour che ora arriva anche a Trieste, dove suono per la prima volta».
Di lei hanno detto che è uno dei «nuovi cantautori»...
«Mah, la cosa mi fa piacere. Le nuove leve ci sono, anche se è sempre più difficile emergere. A Roma, per esempio, c’è un grande fermento sulla canzone e sulla scena elettronica. È chiaro che bisogna cercare in nuove direzioni, non bisogna cercare sempre il nuovo De Gregori. Anche perchè De Gregori c’è già stato, c’è già, e ha un ruolo importante nella scena musicale italiana».
La nuova canzone deve fare i conti con l’elettronica, con l’hip hop...
«Certo, sono fenomeni da cui non si può prescindere. Le macchine hanno cambiato le nostre abitudini, abitudini meccaniche ma anche intellettuali. Le nuove generazioni sono cresciute col computer: se ne parla male, ma non va dimenticato che dà enormi possibilità anche a chi fa musica».
In questi anni c’è stato però un abuso...
«Certo, ma le macchine non sono buone o cattive: dipende da come si usano. Io mi sforzo di coniugare le indubbie potenzialità che offrono con la nostra tradizione acustica, ma anche con quella elettrica del rock».
Lei con che musica è cresciuto?
«Vengo fuori da un ambiente un po’ particolare. Sono nato a Roma nel ’70, mio padre era chitarrista al Piper ed è lui che mi ha insegnato i primi giri di accordi alla chitarra, mia madre era discografica alla Durium e questo suo lavoro mi ha permesso di vedere da vicino, o almeno intravedere, artisti come D.D. Jackson, Village People, Donna Summer, Roberta Kelly, Boney'M...».
Tutta roba internazionale...
«Sì, da ragazzino a me piacevano Ac/Dc e Police, ma alla radio sentivo Tozzi e tutti i cantautori: mi piacevano Vasco, Battiato, De Gregori, De Andrè... Ho cominciato a scrivere canzoni a dodici anni, a suonare in giro a diciassette, e poi fra l’87 e l’89 ero fra il pubblico di ”Doc”, il mitico programma di Arbore...».
Poi, il salto da quasi professionista...
«Sì, i primi gruppetti (dove conobbi Francesco Zampaglione) e poi il lavoro da produttore per Niccolò Fabi, Max Gazzè, Marina Rei; alla Virgin come direttore artistico; la collaborazione con Frankie Hi Nrg...»
Fino a quella chiamata dei Tiromancino...
«Sì, ma ora mi sembra che si riparta nella direzione giusta...»
«Tutta questa storia nasce nel ’99 - ricorda Sinigallia, il cui tour fa tappa domani sera alle 21 al Teatro Miela di Trieste -, io stavo già lavorando a un disco mio, quando Francesco Zampaglione, fratello di Federico, mi persuade ad aiutare il progetto Tiromancino che era praticamente in via di estinzione. Nasce così "La descrizione di un attimo", arriva il successo, dopo il quale il gruppo però nel 2001 si spacca».
Ma allora è vero che tenere assieme un gruppo è sempre più difficile...
«Forse, anche se tanti gruppi ci sono, lavorano e a volte resistono. Nel nostro caso c’erano delle divergenze profonde negli intenti e la spaccatura fu insanabile».
Una spaccatura anche familiare...
«Sì, Laura Arzilli e Francesco Zampaglione hanno continuato a lavorare con me, in questo disco intitolato col mio nome e cognome e con questo tour che ora arriva anche a Trieste, dove suono per la prima volta».
Di lei hanno detto che è uno dei «nuovi cantautori»...
«Mah, la cosa mi fa piacere. Le nuove leve ci sono, anche se è sempre più difficile emergere. A Roma, per esempio, c’è un grande fermento sulla canzone e sulla scena elettronica. È chiaro che bisogna cercare in nuove direzioni, non bisogna cercare sempre il nuovo De Gregori. Anche perchè De Gregori c’è già stato, c’è già, e ha un ruolo importante nella scena musicale italiana».
La nuova canzone deve fare i conti con l’elettronica, con l’hip hop...
«Certo, sono fenomeni da cui non si può prescindere. Le macchine hanno cambiato le nostre abitudini, abitudini meccaniche ma anche intellettuali. Le nuove generazioni sono cresciute col computer: se ne parla male, ma non va dimenticato che dà enormi possibilità anche a chi fa musica».
In questi anni c’è stato però un abuso...
«Certo, ma le macchine non sono buone o cattive: dipende da come si usano. Io mi sforzo di coniugare le indubbie potenzialità che offrono con la nostra tradizione acustica, ma anche con quella elettrica del rock».
Lei con che musica è cresciuto?
«Vengo fuori da un ambiente un po’ particolare. Sono nato a Roma nel ’70, mio padre era chitarrista al Piper ed è lui che mi ha insegnato i primi giri di accordi alla chitarra, mia madre era discografica alla Durium e questo suo lavoro mi ha permesso di vedere da vicino, o almeno intravedere, artisti come D.D. Jackson, Village People, Donna Summer, Roberta Kelly, Boney'M...».
Tutta roba internazionale...
«Sì, da ragazzino a me piacevano Ac/Dc e Police, ma alla radio sentivo Tozzi e tutti i cantautori: mi piacevano Vasco, Battiato, De Gregori, De Andrè... Ho cominciato a scrivere canzoni a dodici anni, a suonare in giro a diciassette, e poi fra l’87 e l’89 ero fra il pubblico di ”Doc”, il mitico programma di Arbore...».
Poi, il salto da quasi professionista...
«Sì, i primi gruppetti (dove conobbi Francesco Zampaglione) e poi il lavoro da produttore per Niccolò Fabi, Max Gazzè, Marina Rei; alla Virgin come direttore artistico; la collaborazione con Frankie Hi Nrg...»
Fino a quella chiamata dei Tiromancino...
«Sì, ma ora mi sembra che si riparta nella direzione giusta...»
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