domenica 29 aprile 2012

FEGIZ: IO ODIO I TALENT SHOW...

Mario Luzzatto Fegiz odia i talent show perchè hanno posto fine alla dittatura della (sua) critica. Parte da questa autoironica constatazione lo spettacolo “Io odio i talent show - Adesso canto io”, con cui il giornalista e critico triestino ha debuttato l’altra sera al Teatro Verdi di Milano (oggi pomeriggio ultima replica).
«Nello spettacolo - spiega Fegiz, nato a Trieste nel ’47 - interpreto me stesso, ovvero un critico musicale in pieno psicodramma. Un tempo temuto e rispettato, mi trovo a dovermi confrontare con una nuova realtà: quella dei social network, dei talent show, dei televoti, degli sms, di improbabili giudici dal retroterra culturale esile».
Ancora: «Abituato dagli anni Settanta a fare il bello e il cattivo tempo, oggi mi scopro esautorato da una contestazione che agisce in tempo reale, con i fan degli artisti pronti a cogliermi in fallo fra lazzi e insulti. Addestrato a operare con delle certezze planetarie come Elton John o i Beatles, o con personaggi italiani di grande caratura, scopro una sgradevole realtà: artisti che io detesto o ignoro hanno successo anche senza la mia benedizione».
Lo spettacolo - nel quale Fegiz è affiancato dal cantante e chitarrista Roberto Santoro e dal fisarmonicista russo Vladimir Denissenkov (già con Moni Ovadia), mentre la regia è affidata a Maurizio Colombi, che firma lo show con Fegiz e Giulio Nannini - fa affiorare fatti e misfatti, episodi e aneddoti e a volte misteri legati ai protagonisti della musica leggera italiana e internazionale. Da Luigi Tenco a Fabrizio De Andrè, da Lucio Dalla a Vasco Rossi, da Laura Pausini a Eros Ramazzotti, senza dimenticare “artisti da talent” come Giusy Ferreri, Marco Carta, Alessandra Amoroso, e con puntate all’estero per Elton John, Michael Jackson, Madonna.
Nel lungo monologo, un crescendo tragicomico, che via via assume le sembianze di una sorta di delirio-vendetta-sfogo, il critico si descrive così: «Di mestiere faccio quello che vi dice se vale la pena di spendere cinquanta euro per un concerto o quindici per un cd. Per misteriose ragioni da quarant’anni costringo pubblico e artisti a confrontarsi con la mia incompetenza. E ho visto cose che voi umani neanche potete immaginare...».
Ma com’è nato questo spettacolo, al di là della provocazione dichiarata già nel titolo? Lo storico critico del Corriere della sera, che è anche voce e volto popolare della radio e della televisione, da tempo teneva - una volta anche a Udine - dei “reading” teatrali su argomenti musicali ma non solo. Poi, dopo un recente passaggio al Folk Club di Torino, nel quale aveva posto le basi dello spettacolo con l’aiuto di Beppe Carletti dei Nomadi e dello stesso Denissenkov, la decisione di “passare dall’altra parte della barricata”. Scoprendosi doti di istrionico intrattenitore inaspettate solo per chi non conosce il nostro.
«Maria De Filippi - racconta ancora Fegiz - mi aveva chiamato per scrivere le note di copertina dell’album per i dieci anni di “Amici”, dove sono stato tante volte ospite. Le risposi che potevo solo scrivere che odio i talent show. A lei la cosa piacque, e il mio testo si trova sul sito della trasmissione».
Il resto è l’incontro con il regista Maurizio Colombi e con Claudio Trotta, che produce lo spettacolo per Barley Arts. Dopo il debutto milanese, da ottobre è in programma il tour nei teatri. E un libro, intitolato ovviamente “Io odio i talent show”.

mercoledì 25 aprile 2012

MARCO MENGONI rinviato concerto a Udine al 21-5

«Gli arrangiamenti di questo spettacolo sono nati in collegamento Skype fra Elisa e Andrea Rigonat che erano negli Stati Uniti, il tastierista Cristiano Norbedo da Trieste, e io che stavo a casa mia, a Ronciglione...».
Storie musicali ai tempi di internet, raccontate da Marco Mengoni, il cui tour doveva far tappa domani al palasport Carnera di Udine, ma è stato spostato al 21 maggio, al “Nuovo”, per non meglio identificati “problemi tecnici”.
Eravamo rimasti agli scambi di “file” audio da una parte all’altra del pianeta. Roba vecchia, superata. Ora il popolare “software” che permette di videotelefonarsi gratuitamente regala nuove suggestioni anche alle collaborazioni musicali.
«Ma tutto questo tour teatrale - prosegue il ventitreene cantante laziale, lanciato tre anni fa da “X Factor” -, partito il 19 aprile dagli Arcimboldi, a Milano, è in qualche modo legato al Friuli Venezia Giulia e a Elisa».
Come l’ha conosciuta?
«Mi aveva cercato lei quando vinsi “X Factor”. Ci eravamo parlati, persi di vista, le era appena nata la bambina... Poi ci siamo ritrovati, sono andato a trovare lei e il suo compagno Andrea Rigonat a casa loro, vicino Monfalcone. E parlando mi hanno spronato a tirar fuori le idee che avevo in testa. Mi hanno detto: fai quello che vuoi veramente».
Rigonat firma la direzione musicale.
«Sì, è lui che si è, per così dire, sporcato le mani sul campo. Mi ha fatto tornare alle mie origini musicali, al soul, persino a certe atmosfere western. E poi un giorno ci siamo ritrovati su Skype, a limare le ultime cose: loro negli States, Norbedo a Trieste, io a casa mia. Fra l’altro nella band che mi accompagna, oltre al tastierista triestino, ci sono i fiati udinedi di Federico Missio e Federico Mansutti».
Che show ne è scaturito?
«Uno spettacolo con i suoi movimenti scenici ma nel quale la cosa più importante è la musica. Io ho fatto l’istituto d’arte, dunque sono sensibile anche alla cornice, per me lo spettacolo è tutto l’insieme. Ma in questo caso abbiamo deciso di togliere il superfluo».
È tornato a vivere nel suo paese natale, in provincia di Viterbo?
«Sì, dopo un periodo passato a Roma. Preferisco fare il pendolare, sono più tranquillo. Dopo la vittoria a “X Factor” tutto è andato così velocemente che avevo bisogno di tornare alle cose che conosco da sempre».
Il successo stressa?
«Non è questo il punto. È chiaro che mi fa molto piacere poter fare la mia musica, essere apprezzato per questo. Ma mi sono subito reso conto che quello dello spettacolo è un mondo difficile, nel quale i rapporti umani sono complicati. Devi capire con chi lavori, che cosa vuole da te la gente che hai attorno».
In pochi mesi è passato dall’anonimato al palco di Sanremo, agli Mtv Music Awards.
«Non mi aspettavo di bruciare le tappe. Tutto è successo così in fretta, dal dicembre 2009 della vittoria a “X Factor”. Quello che posso dire è che sono rimasto assetato di conoscenza e di esperienze nuove».
Con Morgan si sente ancora?
«Gli sarò sempre grato per il supporto datomi nelle settimane del “talent”. Da parte mia c’è ancora un rapporto amichevole. Anche se ognuno fa le sue scelte, e a volte queste scelte allontanano le persone...».
Sù, tiri fuori il rospo.
«Va bene. Mi dispiace che lui abbia espresso dei giudizi poco lusinghieri su di me, quando è finita l’avventura di “X Factor”. Ma ripeto: io sono una persona riconoscente».
I “talent” hanno un futuro?
«Solo se si concentrano sulla musica. Devono pensare meno allo show e all’audience. E più alla sostanza».

lunedì 23 aprile 2012

TEHO TEARDO firma le musiche del film "DIAZ"

«Ho scritto la musica di “Diaz” dopo aver letto la sceneggiatura e immaginando come potesse prendere forma una realtà così cruda e spietata come quella descritta. Ho sentito la necessità di indagare il tempo prima e dopo i pestaggi, due momenti il cui intervallo mi pareva eterno...».
Parla Teho Teardo, che firma la colonna sonora di “Diaz”, il film ispirato ai tragici fatti del G8 di Genova del luglio 2001. Il quarantacinquenne musicista pordenonese si dedica da oltre dieci anni alle musiche per il cinema e la televisione. Il David di Donatello e il Premio Ennio Morricone per “Il divo” di Paolo Sorrentino, ottenuti nel 2009, assieme alle candidature allo stesso David e al Nastro d’argento per “L’amico di famiglia”, “La ragazza del lago” e “Lavorare con lentezza”, lo hanno imposto negli ultimi anni come uno dei migliori e più ricercati autori di colonne sonore della scena italiana.
Stavolta, per commentare con i suoni le drammatiche vicende del film di Daniele Vicari, ha scritto per il Balanescu Quartet e la violoncellista Martina Bertoni melodie e suoni assolutamente contemporanei: dagli archi graffiati e suonati con le unghie per sostituire le tradizionali parti ritmiche fino alle melodie capaci di riprodurre anche musicalmente la tensione dei fatti narrati, la colonna sonora è un crescendo di emozioni. Fra i titoli: “C’est la guerre”, “I’ll be so glad when the sun goes down”, “Fallen”, “The model policeman”, “A perfect agitator”...
In questi giorni, il musicista pordenonese è impegnato a Berlino con Blixa Bargheld, leader degli Einstürzende Neubauten, per incidere un album che uscirà probabilmente l’anno prossimo. Dopo i due dischi, attesi per quest’anno, che Teardo ha realizzato tra Roma e Londra con gli Wire, storico gruppo punk inglese. Con loro suonerà il 2 giugno a Roma, a Villa Medici. Mentre il 6 maggio si esibirà al Dome di Londra, al “Never say when”, una delle rassegne più importanti di band sperimentali storiche per celebrare i trent’anni dell’etichetta “Broken flag”.

martedì 17 aprile 2012

ARIELLA REGGIO: HO INVITATO WOODY ALLEN A TRIESTE

«Woody Allen? Si dice sempre che è un gran nevrotico, ma con me è stato molto educato e gentile, nelle riprese che abbiamo fatto l’estate scorsa. L’altra sera l’ho rivisto all’anteprima del film, a Roma. Alla cena c’erano duecento persone, ma sono riuscita a salutarlo e a scambiare due parole. Gli ho anche chiesto se conosce Trieste, e quando mi ha risposto di sì, mi sarei aspettata qualche riferimento alla Mitteleuropa o magari alla psicanalisi. Invece mi ha detto che conosce la città perchè ha sentito parlare di un ottimo circolo del jazz. Ho colto l’occasione per invitarlo qui a suonare il suo clarinetto...».
Ariella Reggio domani alle 17 riceve al Rossetti il Premio internazionale dell’operetta, giunto alla ventiquattresima edizione. Ma in questi giorni si parla di lei soprattutto perchè è nel cast del nuovo film di Woody Allen, “To Rome with love”, che esce venerdì nelle sale italiane.
«In realtà nel film ho un piccolo ruolo - si schermisce l’attrice triestina -, sono una “vecia teribile” dentro un gruppetto di quattro zii piuttosto arcigni, che vanno a trovare in albergo un nipote appena sposato e poi fanno un giro per Roma».
Ma una sua battuta è rilanciata persino nel trailer.
«Sì, in quella scena eravamo a Palazzo Farnese. Sono convinta che non è stata tagliata perchè ho uno scambio di battute con Penelope Cruz. Ammirando gli affreschi io dico: dev’essere duro lavorare tutto il tempo sdraiati sulla schiena, non lo posso immaginare. E lei, in minigonna rossa, ribatte allusiva: io sì...».
Com’è arrivata la chiamata di Woody Allen?
«Attraverso la fiction, soprattutto “Tutti pazzi per amore”, ormai conosco tutti i casting di Roma. Più di quelli di Trieste, dove infatti non lavoro mai. Il regista ha fatto centinaia di provini, mi dicono che li abbiamo visionati lui personalmente. E ha scelto».
Sul set com’è andata?
«Abbiamo girato l’estate scorsa. Lavoro tranquillo, senza stress. Dicono che Allen sia un nevrotico, a me non è sembrato. Qualche mia inquadratura è stata tagliata, mi dispiace, ma al cinema è così».
Ha mai rimpianto di non essere rimasta a Londra, negli anni Sessanta?
«Qualche volta sì, è il mio unico rimpianto. Conducevo un programma di lezioni in italiano alla Bbc, alla radio e poi alla tv. La gente mi riconosceva per la strada. Erano gli anni Sessanta, ero giovane, il mondo stava cambiando. Una volta ho anche incrociato i Beatles all’aeroporto. Poi sono tornata, la nostalgia, le insistenze dei miei genitori, erano altri tempi. Ma quell’esperienza mi ha dato una grande apertura mentale».
In Italia subito Strehler, il Piccolo di Milano.
«Era il ’70. Facevo uno spettacolo all’Auditorium, seppi che c’erano questi provini a Milano. Partii, fui scelta. Avevo una particina, restavo incantata a guardare le prove. Strehler era un artista fantastico, ma un uomo terribile. Comunque l’ho sempre ammirato: faceva un teatro colto e popolare».
La Contrada?
«Una pazzia, più che una scommessa. Allo Stabile eravamo coccolati, decidemmo di rischiare, con gioia e passione: andò bene. A volte mi sembra un sogno che esista ancora».
Trieste si può permettere tre Teatri stabili?
«Se li deve permettere. A costo di sacrifici, puntando sui giovani, perchè gli spettatori e i talenti ci sono. Bisogna andare avanti. E’ strano: ormai c’è più teatro su Youtube che nelle sale...».

domenica 15 aprile 2012

BIAGIO ANTONACCI presenta nuovo disco lunedì sera a Milano, in collegamento con 35 sale cinematografiche fra cui Trieste

Stasera (LUN) alle 21 Biagio Antonacci presenterà dal vivo il suo nuovo album “Sapessi dire no”, che esce domani, al Teatro Cinema Odeon di Milano. Ma contemporaneamente anche a Trieste, al Cinecity/The Space delle Torri d’Europa. E nelle sale dello stesso circuito di Pradamano (Udine), Silea (Treviso), Limena (Padova), Vicenza, Verona. E ancora a Torino, Bologna, Parma, Perugia, Firenze, Roma, Napoli, Lamezia Terme, Catania, Cagliari... In tutto 35 sale disseminate per lo stivale. Una copertura eccezionale, in una sera sola. Vien da chiedersi soltanto come mai nessuno ci avesse pensato prima.
Le ipertecnologiche sale dei multiplex, che mettono sempre più in difficoltà i vecchi cinema tradizionali, si propongono dunque come luoghi di spettacolo a trecentosessanta gradi. Per la musica, l’opera (nello stesso circuito, e dunque anche a Trieste, domani alle 19 va in scena “La traviata” in diretta dal Metropolitan di New York), il balletto (29 aprile dal Bolshoi di Mosca “The bright stream”, 15 maggio “Romeo e Giulietta” dall’Opéra di Parigi), ma anche per i grandi eventi sportivi.
«Vogliamo che cambi - dice Stefano Fantuz, direttore del multiplex triestino - il rapporto stesso del pubblico con la sala cinematografica. Una mutazione nelle nostre proposte, che si arricchiscono, con la conseguenza che cambiano anche le abitudini del pubblico».
Ma torniamo ad Antonacci. Stasera interpreterà alcuni brani del nuovo disco (copertina di Milo Manara) e racconterà la storia che sta dietro la sua realizzazione, ma risponderà anche alle domande del pubblico e dei giornalisti. Il videoclip del primo singolo dell’album, “Ti dedico tutto”, è già da qualche giorno in programmazione. Nel video, si legge nelle note della casa discografica, il cantautore lombardo è fermo al centro del suggestivo paesaggio desertico del parco naturale della Salina di Cervia, mentre attorno a lui scorrono situazioni che raccontano la vita: si alternano così oggetti e persone diverse, che rappresentano differenti condizioni e stati d’animo dell’uomo.
«Adesso inizia una nuova avventura - dice Antonacci -. Tutti si chiedono se il disco sarà rock o meno. Posso dire che di rock in questo album ce ne sarà tanto, vi meraviglierete perché ci saranno delle novità, ma voglio tenere ancora un po’ di mistero». L’anno scorso aveva detto: «Ho già quaranta, cinquanta canzoni pronte e quando scrivo penso a come renderle popolari, canticchiabili...».
Il musicista è reduce da un’ottima annata. Il precedente album “Inaspettata” ha venduto oltre 120mila copie, i concerti all’Arena di Verona, a Venezia in piazza San Marco e a Roma al Colosseo (immortalato nel cd/dvd “Colosseo”) sono stati degli autentici eventi, che hanno confermato il feeling fra Biagio e il suo pubblico.
L’evento di stasera sarà replicato nelle stesse sale il 2 e il 17 maggio. Il 5 maggio il tour del cantante partirà da Bari, per fare poi tappa domenica 20 maggio al Palaverde di Treviso, martedì 22 maggio al PalaTrieste e il giorno dopo a Trento.

giovedì 12 aprile 2012

DISCHI: PINO DANIELE e Janis Joplin

Ha mollato la multinazionale per cui incideva da tanto tempo perchè, dopo “Electric Jam” del 2009, voleva pubblicare anche “Acoustic Jam”, a mo’ di completamento del discorso. Ma i grandi cervelloni della nostra discografia non gliel’hanno permesso. Allora, forte di una storia musicale e discografica ultratrentennale che non ha bisogno di essere ricordata, l’ex scugnizzo dei vicoli napoletani ha preso e se n’è andato.
“La grande madre” esce dunque per la sua etichetta Blue Drag (nome ispirato a un brano di Django Reinhardt degli anni Trenta), e la scelta dell’indipendenza, alla sua età (è nato nel ’55) e in questi tempi internettiani, sembra essere definitiva.
«La strada indipendente è bella per chi se la può permettere - racconta l’artista - ed è un’alternativa valida per riuscire a confezionare dei prodotti artistici senza dover rendere conto ad addetti ai lavori che magari arrivano dal ramo commerciale. Volevo realizzare un prodotto che, da appassionato di blues e rock, non trovo più in giro».
Il disco parla infatti la lingua del Mediterraneo e di tutti i Sud del mondo, suoni risciacquati in buone dosi di blues e funky, rock e canzone, come nella miglior tradizione del nostro grande “nero a metà” (anche se il vero “nero a metà”, nella Napoli degli anni Settanta, era James Senese, madre napoletana e padre soldato americano di colore...).
Undici brani inediti, da “Melodramma” scelto per la promozione radiofonica alla delicata “Due scarpe”, da “Coffee time” alla strumentale “The lady of my heart”, fino a “Searching for the water of life”, dedicato all’associazione internazionale Save The Children e a sostegno della campagna “Every on” (testo di Kathleen Hagen).
“Wonderful tonight” è la godibile cover - anche in italiano - di un brano firmato in origine da Eric Clapton, ripreso dopo il concerto che i due hanno tenuto assieme l’estate scorsa a Cava dei Tirreni e prima del bis che hanno concesso più recentemente a Chicago. Ma fra gli ospiti ci sono anche Steve Gadd alla batteria, Chris Stainton al pianoforte, Mel Collins ai fiati...
“O frà” segna il ritorno alla cosiddetta “parlesia”, ovvero la versione riveduta e corretta della splendida lingua napoletana che Pino Daniele mischia da oltre trent’anni all’italiano e all’inglese.
Il tour, partito tre settimane fa da Cesena, porterà Pino Daniele in giro per l’Italia (tappa a noi più vicina: 21 aprile al Gran Teatro Geox di Padova) ma anche all’estero, con puntate all’Apollo Theatre di New York, a Boston e Washington nel mese di giugno. Con lui, sul palco, una superband internazionale formata da Omar Hakim (batteria), Rachel Z (piano), Gianluca Podio (tastiere) e Solomon Dorsey (basso).
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JANIS JOPLIN
    “THE PEARLS SESSIONS”
(2 cd, Sony)
 “Pearl” uscì tre mesi dopo la morte di Janis, il 4 ottobre 1970. E balzò subito in testa alle classifiche di vendita, contribuendo a renderne immortale il mito. Ora ritorna in una nuova e curatissima edizione in doppio cd, che permetterà anche ai più giovani di conoscere meglio una delle più grandi voci del rock. Riascoltiamo, anche in versione originale, autentiche perle come “Me and Bobby McGee” (primo singolo estratto dall’album, all’epoca), “Cry baby”, “Get it while you can”, “Mercedes Benz”, “Trust me e my baby”... Completano il pacchetto una manciata di inediti e frammenti audio dietro le quinte che rivelano una Janis “privata”, che scherza in studio con il produttore Paul Rothchild e i compagni della Full Tilt Boogie, oltre a lavorare su quello che sarebbe diventato una pietra miliare della sua carriera. Janis Joplin fu la prima rockstar donna. Che prima di morire disse in un’intervista: «Sono stanca e stufa del nome Janis: chiamatemi Pearl».
 

lunedì 9 aprile 2012

GUCCINI, SETTIMANA TRIESTINA

«Di Trieste ricordavo poco, con gli anni i ricordi si affievoliscono. E poi dal militare a Banne, e da quell’eskimo comprato in piazza Ponterosso (che ispirò l’omonima canzone - ndr) è passato mezzo secolo. Quando sono tornato per i concerti, non ho mai avuto tempo per fare il turista...».
Parla Francesco Guccini, storico cantautore (ma da tempo anche scrittore) che proprio a Banne, nel lontano ’63, prestò il servizio militare. E che, dopo un’intera settimana passata in città, con base in un hotel di via Ghega, oggi torna nella sua Pavana, appennino toscoemiliano.
«Alcuni amici mi hanno invitato - spiega l’artista, classe 1940 - e con mia moglie abbiamo colto l’occasione. Siamo stati molto bene, abbiamo conosciuto luoghi e persone nuove, amici che ci hanno letteralmente sollazzato. Ora che torno nel mio Appennino - scherza -, tireranno un sospiro di sollievo...».
Dietro le parole “alcuni amici” in realtà pare ci sia il nostro Paolo Rumiz, che ha ricambiato l’invito dopo essere stato tempo fa a Pavana. Con lui ha fatto gli onori di casa Marco Rodriguez, compagno di camminate del giornalista e scrittore, nonchè titolare di un caratteristico panificio/buen retiro in via Torino.
I due hanno organizzato per Guccini sette giorni a Trieste e dintorni. Dalle mura medioevali di Cittavecchia alle case operaie di San Giacomo, dalla casa del popolo di Ponziana alla Val Rosandra appena violata e alla Foiba di Basovizza, da un buffet in via Valdirivo (dove Guccini ha ritrovato la carne di maiale che ricordava dai suoi tempi triestini...) fino a una tipica trattoria in via Settefontane dove spesso c’è musica dal vivo.
Proprio lì, a due passi dagli spazi abbandonati della Fiera, una sera prima di Pasqua è stata allestita una tavolata “ben assortita”. Guccini e signora, gli ospiti triestini, il sindaco Roberto Cosolini e, fra gli altri, anche Alessia Rosolen - antica fan del cantautore - con Franco Bandelli, suo compagno (absit iniuria verbis) di politica e di vita. Con tanto di foto ricordo mentre alcuni sentenziavano: «Ecco il vero compromesso storico...».
«Sono stato invitato da Rumiz e Rodriguez - si schermisce Cosolini -, non conoscevo personalmente Guccini ma ovviamente è stato un grande piacere. A tavola si è discusso del più e del meno. No, nessun progetto di concerti a Trieste. Lui assessore alla cultura? Sarebbe perfetto. Se non abitasse a Pavana e non fosse già pieno di impegni...».
A Pasqua, per Guccini e signora escursione oltreconfine a San Daniele del Carso e in alcuni paesini della Valle del Vipacco che ancora conservano le vecchie case carsiche. Ieri sera, gran finale in un’osmizza di Sales. Oggi si torna a casa.

martedì 3 aprile 2012

GUCCINI, nuovo libro "dizionario delle cose perdute"

A pensarci, in fondo Francesco Guccini ha sempre cantato il passato. Quello della locomotiva anarchica e libertaria, quello delle osterie di fuori porta («ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta...»), quello del suo personale Sessantotto, quello dei suoi giovani e meno giovani amori. Quello di Auschwitz e di Bisanzio, di Venezia e di Amerigo, della primavera di Praga e della signora Bovary.
Da scrittore, in questi anni, non è stato da meno. Ma la vera celebrazione del passato arriva ora con questo “Dizionario delle cose perdute” (Libellule Mondadori, pagg. 142, euro 10). Volumetto agile, intriso di pacata nostalgia per le cose, le situazioni, gli usi e le usanze che c’erano - quando lui, classe 1940, era ragazzo - e da tempo non ci sono più.
Sotto allora con la pettinatura a forma di banana che veniva inflitta ai bambini, con il “caffè caffè” che negli stenti del dopoguerra si distingueva dai vari surrogati, con le sigarette che si potevano comprare sfuse dal tabaccaio e magari fumare al cinema quando i salutisti divieti non si erano ancora diffusi. E ancora le braghe corte anche d’inverno, i guardaroba che si cambiavano solo a ogni nuova stagione, i costumi da bagno in lana, i giochi per strada con i tappi e le biglie e le fionde e le cerbottane, il telefono in duplex (ovvero una linea telefonica divisa fra due appartamenti vicini)...
Oggetti, abitudini, espressioni che la fine scrittura gucciniana mette a confronto con i corrispondenti - quando esistono - del presente. Sempre con un velo di pacata nostalgia, come si diceva, ma anche con l’amabile ironia che i frequentatori dei concerti del lungagnone di Pavana, appennino toscoemiliano, conoscono da sempre.
È un libro di foto ingiallite, da leggere tutto d’un fiato per chi ha più di quaranta o meglio cinquant’anni, per tornare al mondo e all’Italia in bianco e nero che sono stati spazzati via dal progresso, dalla tecnologia che viaggiano sempre più veloci.
Per tutti gli altri, per i ragazzi di oggi, per i cosiddetti “nativi digitali”, l’occasione per conoscere un mondo che non esiste più. Le cose, gli usi e i costumi dei propri genitori, dei propri nonni, attraverso una penna abile e colta.
Ma non si pensi alla retorica dei “bei tempi andati”. Guccini scrive e si comporta da asettico cronista del passato. Quello stesso passato che ha raccontato in tante canzoni, e che ora ritorna in un racconto che si legge come un romanzo. Il romanzo di quello che eravamo, forse per capire anche che cosa siamo diventati.

domenica 1 aprile 2012

JETHRO TULL, esce martedì THICK AS A BRICK 2

Thick as a brick, ovvero: ottuso come un mattone. Era il titolo di un album pubblicato giusto quarant’anni fa, nel 1972, dai Jethro Tull. Ma la notizia è che il flautista e cantante della band, il mitico Ian Anderson, torna idealmente sul luogo del delitto pubblicando domani “Thick as a brick 2 - Whatever happened to Gerald Bostock?”. Una sorta di “sequel” che, assieme al tour che toccherà presto anche l’Italia (giovedì 31 maggio Torino, il primo giugno Milano e il 2 giugno Modena), celebra i quarant’anni dallo storico album.
In quel ’72 i Jethro Tull erano da poco entrati nell’olimpo del rock inglese. L’anno prima, “Aqualung” li aveva definitivamente consacrati, dopo tre album in tre anni (“This was”, ’68; “Stand up”, ’69; “Benefit”, ’70) che avevano assicurato loro un ottimo zoccolo duro di adepti, anche e forse soprattutto in Italia.
Ian Anderson e soci giocarono allora la carta del “concept album”: un’unica grande suite, separata solo dal necessario cambio di facciata del disco (e successivamente riunificata nell’edizione in cd), per raccontare la storia di un immaginario bambino prodigio, Gerald Bostock, poeta di otto anni, soprannominato Little Milton, spacciato come l’autore dei testi del disco - ricchi di sarcasmo e humour tipicamente british - e celebrato in copertina da un vero e proprio quotidiano, ripiegato e sfogliabile, il “St. Cleve Chronicle” (testata di fantasia) del 7 gennaio 1972.
Album progressive, pur mantenendo le connotazioni rock, blues e folk dei lavori precedenti. A posteriori, una delle cose migliori del gruppo. Rimasto in vita in tutti questi anni, ma mai tornato a quei livelli creativi.
Oggi, i Jethro Tull sono formati ancora da Ian Anderson - che però alterna l’attività musicale a quella di allevatore di salmoni - e dal chitarrista Martin Barre, affiancati da David Goodier al basso, John O’Hara alle tastiere, Florian Opale alla chitarra, Scott Hammond alla batteria. Nel ’72, con Anderson e Barre, c’erano invece Jeffrey Hammond al basso, Barriemore Barlow alla batteria, John Evan alle tastiere.
La domanda del nuovo titolo del disco, è: che fine ha fatto Gerald Blostock? E tema del “sequel” è proprio la disamina dei possibili diversi percorsi che il poeta in erba avrebbe potuto intraprendere nei quarant’anni trascorsi. «Nello sviluppo dell’opera - spiega Anderson, che firma da solo il nuovo disco - i bivi di cui le strade della vita sono costellate alla fine lasciano spazio a un’attrazione quasi gravitazionale che ci porta a convergere in un finale forse pre-ordinato, una sorta di destino. Quando noi, figli del baby-boom, riguardiamo le nostre vite, finiamo spesso per pensare a quella volta in cui “se fosse andata così”...».
Ancora il musicista: «Potremmo anche noi, come Gerald, essere diventati un prete, un soldato, uno sbandato, un negoziante o un magnate della finanza? E i più giovani, la generazione dei social media e di internet, potranno scegliere di valutare bene tra la miriade di possibilità che incroceranno in ogni momento...».
Insomma, Ian Anderson ha immaginato per Gerald - che oggi sarebbe un signore di 48 anni - tanti scenari, incontri, opportunità, svolte potenzialmente infinite, speranze, delusioni, scherzi del destino. Proprio come per ognuno di noi. Che quarant’anni fa restammo ammaliati dalle vicende musicali di quel ragazzino «ottuso come un mattone».
Nel concerto, “Thick as a brick” verrà eseguito nella sua interezza per la prima volta dal tour del ’72; nella seconda parte verranno eseguiti i brani di “Thick as a brick 2” e classici della band.