mercoledì 30 aprile 2008

MORANDI


«Apro questo spettacolo con ”Volare”. Ricordo quando la cantavo a Monghidoro, nel bar dove c’era l’unica televisione del paese. Era il 1958, avevo tredici anni. Modugno sconvolse il mondo della canzone italiana ma anche quel ragazzino che ero. Fu un autentico spartiacque. Mentre la canto mi scorre davanti tutta la mia vita...». Che vita, quella di Gianni Morandi. Protagonista e testimone di mezzo secolo di storia italiana. Il cantante ritorna nel Friuli Venezia Giulia con lo spettacolo «Grazie a tutti» (teatro tenda nel piazzale Argentina, a Udine, martedì 6, mercoledì 7 e venerdì 9 maggio; in autunno potrebbe essere la volta di Trieste) e l’occasione è buona per chiedergli di raccontarsi ancora. Partendo magari da quel papà ciabattino, comunista e montanaro, che tornò a Monghidoro dal fronte albanese quattro mesi dopo la sua nascita...

«Mio padre mi ha insegnato il rigore, la disciplina, la voglia di lavorare, il rispetto per gli altri. Aveva un carattere duro e autoritario. Era esigente, con i piedi piantati per terra. Oggi riconosco che è stato molto importante nella formazione del mio carattere: la sua figura mi ha influenzato anche nell'educazione dei miei figli. Con i miei primi due sono stato più rigido, mentre con Pietro, che ora ha dieci anni, mi sono addolcito...».

Che Italia ricorda?

«Era un’altra Italia, in cui si giocava per strada con un pallone fatto di stracci. A sette anni, di pomeriggio, finiti i compiti, mio padre mi portava in bottega per imparare a lavorare. Un paio di giorni alla settimana vendevo caramelle e bruscolini nell’unico cinema del paese. Ma la cosa non mi pesava. Anzi, mi sentivo un privilegiato perchè potevo vedere tutti i film».

Era bravo a scuola?

«Sì, soprattutto in aritmetica. Ma dopo le elementari mio padre decise che non sarei più andato a scuola, che ci avrebbe pensato lui a darmi un’istruzione. La sera, dopo il lavoro in bottega e un paio d’ore di svago, avevo il compito di leggergli ad alta voce i testi sacri del comunismo: dal Capitale di Marx alle Lettere dal carcere di Gramsci».

La musica?

«Erano gli anni Cinquanta, anni di povertà ma c’era anche una gran voglia di cantare, di stare in compagnia. Nelle sere d’inverno ci si trovava nelle stalle, nelle case dei contadini, scaldati dai successi di Claudio Villa e Luciano Tajoli. In paese si sparse la voce che il figlio di Renato Morandi cantava bene. E la sera dell’ultimo dell’anno del 1956 toccò a me cantare ”Buon anno, buona fortuna” nel cinema, con gli altoparlanti Geloso fissati all’esterno della sala».

Il debutto?

«In una casa del popolo ad Alfonsine, vicino Ravenna, nel 1958. Giusto cinquant’anni fa. Ero un ragazzino, avevo quattordici anni, prendevo lezioni di canto dalla maestra Scaglioni e cantavo i successi dell’epoca. Quell’estate cominciarono a chiamarmi nei dancing della zona. Dove incontrai la persona che diede la svolta...».

Chi, l’arbitro di boxe?

«Sì, Paolo Lionetti, che faceva anche il gestore di juke-box. Riuscì a farmi avere un provino alla Rca, la multinazionale americana che nel dopoguerra aveva aperto una filiale a Roma. Tutte le case discografiche stavano a Milano, che era anche più vicina dalla nostra zona. Ma lui decise: andiamo a Roma».

Nel provino cosa cantò?

«Alcune canzoni melodiche dell’epoca, tipo ”Il cane di stoffa” e ”Non arrossire”, accompagnato al pianoforte da Lilli Greco. Il nastro finì fra le mani di Franco Migliacci, reduce dal successo mondiale di ”Volare”. Forse per questo motivo scelse uno pseudonimo per firmare quello che sarebbe stato il mio primo 45 giri: ”Andavo a cento all’ora”...».

Suo padre come reagì al successo?

«Era il ’62. Disse che erano due dischi in uno: il primo e l’ultimo. Aveva la certezza che il mio sogno non sarebbe durato a lungo. E che sarei tornato a lavorare nella sua bottega».

A Roma chi incontrò?

«Dopo Migliacci, Zambrini e due futuri premi Oscar come Bacalov e Morricone... Che fra l’altro ho rivisto due mesi fa, un incontro commovente all’Università di Tor Vergata. All’epoca registravamo su due piste, in un paio di giorni il disco era fatto. Allora i giovani venivano curati, non come adesso che se sbagli il primo disco sei finito...».

Diceva di «Volare»...

«Sì, a febbraio ho aperto Sanremo rendendo omaggio ai cinquant’anni della canzone di Modugno. E quando ho cominciato a pensare a questo mio nuovo spettacolo, mi sono reso conto che anche la mia storia era cominciata da lì, da quel brano, in quegli anni. Mia madre preferiva Villa, ma io nel bar di Monghidoro, a tredici anni cantavo ”Volare”...»

E questa storia che lei entra in scena «volando»...?

"L’idea è del regista dello spettacolo. All’inizio avevo un po’ paura, ma ora mi sono abituato e mi sembra facile. Scivolo al centro della scena appeso a un cavo, ben legato, e canto il brano sulle teste degli spettatori. Mi ha addestrato uno che di mestiere fa l’istruttore di sopravvivenza».

Perchè il teatro tenda?

«È una formula che avevo già adottato nel ’90, mi sembra di esser venuto anche a Trieste. Guardando indietro ai miei spettacoli, ho pensato fosse la migliore: io da solo, con la chitarra, giusto con qualche aggiunta musicale al computer, su un piccolo palco circolare. Uno spettacolo familiare, quasi da salotto, senza filtri. Anche se sotto un tendone da circo, con tremila persone attorno. A volte dal palco per tenermi concentrato conto mentalmente gli spettatori. E in genere sbaglio di cinquanta persone al massimo».

Da «Volare» a oggi: mezzo secolo di canzoni...

«Tranquilli, non le ricanto tutte. Mi dicono che ho inciso 413 canzoni e venduto 49 milioni di dischi. In questo spettacolo, in due ore e mezzo canto fra i quaranta e i cinquanta brani: alcuni per intero, altri solo accennati...».

Il preferito?

«Una volta dicevo ”C’era un ragazzo”. Era il ’66. Non volevano farmela cantare perchè era un brano di protesta, contro la guerra in Vietnam. E io avevo l’immagine romantica del bravo ragazzo che piaceva alle mamme e alle figlie. Divenne un classico, la cantò anche Joan Baez».

E ora?

«Ora ci metto vicino ”Uno su mille”. È la canzone in cui la gente si identifica di più. Un momento di difficoltà, di disperazione capita a tutti. Ma è sempre importante cercare di risalire, di rialzare la testa. Come è successo a me per primo, dopo la crisi degli anni Settanta».

Chi la aiutò, quella volta?

«Mogol, in qualche modo anche casualmente. Lui cercava gente per la sua nazionale cantanti, poi scrisse delle canzoni nuove per me, e la storia è ripartita. Ma anche Dalla mi ha aiutato molto».

Pupo invece l’ha aiutato lei...

«A quei soldi non ci pensavo davvero più. Ormai lo sapevano tutti, che tanti anni fa gli avevo prestato duecento milioni per aiutarlo in un momento di grossa difficoltà. Due settimane fa, all’ultimo dei concerti milanesi, si presenta sul palco - fra l’altro scortato dalle telecamere di ”Striscia” - e mi dà questo assegno... Davvero, non ne sapevo nulla».

Il tour sarà ancora lungo?

«No, dopo Udine facciamo solo Torino. Quest’estate porto mio figlio Pietro a vedere gli Europei di calcio e poi vado in Cina per le Olimpiadi. Farò anche una serata a Casa Italia. Il tour comunque lo riprendo in autunno, spero di venire anche a Trieste. Magari per presentare il secondo capitolo della raccolta ”Grazie a tutti”, che esce a ottobre...».

Comincia con «Volare» e con che cosa conclude?

«Con queste parole: ”Basta, sono cattivo e vecchio. E anche un po’ bastardo...”. Quello creato da Fiorello è un tormentone che ormai non mi molla più. Ma mi diverte...».



lunedì 28 aprile 2008

RENGA


Che cos’hanno in comune Elisa e Francesco Renga? Facile. Sono gli unici due vincitori, in 58 edizioni del Festival di Sanremo, a essere nati nel Friuli Venezia Giulia. Ma mentre la prima è a tutti gli effetti figlia della nostra regione, il secondo è nato a Udine (per la cronaca il 12 giugno ’68) praticamente per caso...

«Sì - spiega il cantautore, il cui tour ieri sera ha fatto tappa al Teatro Verdi di Pordenone e lunedì 5 maggio è a Trieste, al Politeama Rossetti - mio padre faceva il sottufficiale della Guardia di finanza, e la mia famiglia aveva, diciamo così, il trasloco facile. Quando siamo nati io e mia sorella gemella, lui lavorava a Pontebba. Poi per un periodo fu in servizio anche a Muggia. Ma nel ’71 eravamo già tutti a Brescia, che considero la mia città, e dove vivo tuttora».

Quindi niente legami né ricordi con la regione...

«Legami no, viste fra l’altro le origini sarde di mio padre e quelle siciliane di mia madre. E ricordi nemmeno: forse li ho recuperati, a livello inconscio, quando sono tornato per suonare, tanti anni dopo».

Sono passati dieci anni da quando ha lasciato i Timoria.

«Sì, avevo voglia di cercare nuove strade. Ci ho messo due anni per riordinare le idee, poi nel 2000 è uscito il mio primo album solista, che esprimeva proprio quel mio stato d’animo: prima facevo parte di un gruppo rock importante, poi per la prima volta mi sono ritrovato da solo, a riorganizzarmi il lavoro ma anche la vita».

Dal rock alla canzone d’autore.

«Non amo le etichette. Ma devo dire che anche quando stavo nei Timoria il mio interesse era rivolto soprattutto verso la vocalità, il mio apporto nel gruppo era essenzialmente melodico. Comunque a vent’anni ci sta anche l’energia rock, poi magari si diventa un po’ più riflessivi».

Tenere assieme un gruppo è difficile?

«Direi proprio di sì, è come una macchina dagli equilibri precari, difficile da tenere assieme. Una band non si costruisce a tavolino, nasce quando sei giovane, quando hai mille sogni, passioni, illusioni, voglia di spaccare il mondo. Poi tutto diventa più difficile».

Sanremo?

«Vincerlo nel 2005 è stata un’emozione particolare. Anche perchè io su quel palco c’ero già stato con i Timoria, nel ’91, fra le Nuove proposte. Ci dettero anche il premio della critica. Ecco, tornare e vincere il premio più importante è stato per me un po’ come chiudere un cerchio».

Assieme al suo ultimo album è uscito anche un suo libro...

«Sì, il disco ”Ferro e cartone” è arrivato nei negozi assieme al mio primo romanzo, ”Come mi viene. Vite di ferro e cartone”, edito da Feltrinelli. Anche qui a muovermi è stata la mia voglia di cercare nuove strade, di sperimentare nuovi linguaggi. È stato un lavoro impegnativo ma mi ha dato una grande soddisfazione».

Perchè «Ferro e cartone»?

«Il ferro è pesante, provoca ferite, dolore, ricorda cose cattive, e poi arrugginisce, infetta... Il cartone è invece un materiale vivo, più duttile, malleabile, è parente stretto della carta e degli alberi. Elementi apparentemente distanti, quasi come rock e melodia. Mi è piaciuto metterli assieme, anche nelle immagini del disco, con quelle due ali, una di ferro e una di cartone, entrambe importanti per volare, per andare avanti...».

Come si vive in una famiglia con due star?

«Con Ambra (Angiolini, moglie del cantautore - ndr) ci siamo organizzati bene. Viviamo a Brescia, abbiamo due figli, separiamo nettamente la vita privata e il lavoro. Ci sentiamo e siamo due persone normali, che hanno trovato il giusto equilibrio assieme».

E lei è appena stato ospite nel suo nuovo programma...

«Sì, Ambra ha da poco debuttato su Mtv con questo appuntamento settimanale. E io ho approfittato per realizzare un mio vecchio sogno. Cantare ”Impressioni di settembre” con la Pfm. Già nel mio primo album solista ne avevo fatto una versione con Flavio Premoli, componente originario della band, al pianoforte e al moog. Ora l’abbiamo rifatta tutti assieme. È un brano che amo molto, uscito nel ’72. Io avevo quattro anni...».

Il concerto?

«Direzione artistica di Corrado Rustici, che ha prodotto anche il disco. Prima parte dedicata al nuovo album, seconda ai miei dieci anni di solista. Con delle letture, a mo’ di inserto, che raccontano il mio percorso. C’è anche la voce registrata di Ambra...».

La tappa triestina è la penultima del tour. Con Renga, sul palco, Stefano Brandoni e Giorgio Secco (chitarre), Luca Visigalli (basso), Diego Corradin (batteria), Vincenzo Messina e Luca Chiaravalli (tastiere).

giovedì 24 aprile 2008

25 aprile



L'Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità,incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere

fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società



Pier Paolo Pasolini, 1962

martedì 15 aprile 2008




...abbiamo fatto tanto



per non morire democristiani



e ci toccherà morire



berlusconiani...



...che è pure peggio...



(elezioni politiche 13/14 apr 2008)

...il milan perde


 


berlusconi vince


 


CHE DISASTRO....


 


(elezioni politiche 13/14 aprile 2008)

...hanno voluto andare separati





l'operazione è riuscita



ma il paziente è morto...


 



(elezioni politiche 13/14 apr 2008)

domenica 13 aprile 2008


 


 


BERTE'


Lei è una «per cui la guerra non è mai finita». Una donna in lotta contro tutto e tutti, convinta che al mondo sia in atto una congiura ordita da qualcuno contro di lei. Lei che non è, né mai è stata una signora. Ma è stata - e forse in parte è ancora - la più importante voce e personalità rock al femminile di casa nostra. Loredana Bertè, classe 1950, nata a Bagnara Calabra, sorella della compianta Mia Martini, ha ormai alle spalle una carriera discografica ultratrentennale. Che merita di essere ricordata in questo cofanetto-monumento intitolato «Bertilation» (Edel). Due cd e altrettanti dvd che alternano capolavori assoluti ed episodi minori, ma la cui apertura non poteva non essere dedicata al brano portato fra mille polemiche all’ultimo Festival di Sanremo: «Musica e parole». Del Festival 2008, secondo molti, plagio o non plagio, Loredana è stata la vincitrice morale. Per la grinta, per la personalità, per la bellezza della canzone, per l’interpretazione superlativa, per il duetto da antologia con Spagna... E dire che l’avventura sanremese era cominciata male - con l’abbandono del direttore d’orchestra Stefano Balzan per «divergenze artistiche» - e finita peggio, col pasticcio del brano che in realtà era già stato inciso. E la conseguente squalifica per plagio (laddove sarebbe stato più giusto parlare di «remake»...), con la possibilità però di esibirsi ugualmente nelle serate successive.

In quell’occasione il pubblico ha avuto la riprova che oggi la cantante calabrese è soprattutto una donna sola, in crisi, depressa, cui le cose della vita hanno fatto pagare a caro prezzo il successo ottenuto. Un’artista che sperava nel Festival per risollevarsi, anche economicamente. E invece è incappata nella storia incredibile di una canzone che era già stata pubblicata vent’anni fa, con un testo diverso («L’ultimo segreto», 1988, Ornella Ventura).

Gli autori, l’ex chitarrista della Formula 3 Alberto Radius e Oscar Avogadro, se ne erano incredibilmente scordati ed ecco fatto il pasticcio. Rimane il fatto che la sua canzone e la sua interpretazione sono state le cose migliori del Sanremo 2008. E che la Bertè, sul palco dell’Ariston, ha saputo comunque regalare al pubblico emozioni vere.

Ora quella canzone apre «Bertilation», cofanetto a prezzo speciale contenente ventotto grandi successi della cantante calabrese. Nei dvd le immagini sono tratte da due esibizioni dal vivo datate 13 febbraio 1980 e 9 settembre 1984. Erano decisamente gli anni migliori della cantante, come testimoniato anche da questi documenti visivi e sonori che permettono all’ascoltatore di ripercorrere la carriera artistica di Loredana.

«Sei bellissima» e «Dedicato», «E la luna bussò» e «Savoir faire», «Il mare d’inverno» e «Per i tuoi occhi». E ancora «Ragazzo mio», «Una sera che piove», «Petala», «J’adore Venice», «Banda clandestina», «Quanto costa dottore», «Full circle»... Non manca «Strade di fuoco», tratta dal «Baby Bertè Live 2007», il tour che ha accompagnato lo scorso anno l'uscita dell'omonimo album. E tra gli extra spunta anche un'intervista che ci aiuta, dopo tanti anni, a conoscere un po’ meglio questa protagonista complicata ma di primissima grandezza della miglior musica italiana.

Una volta ha detto: «Fin da piccola ero contro qualcuno e contro qualcosa. Già quando avevo cinque anni volevo andarmene di casa. Quando se ne andò mio padre io dissi: "Speriamo che se ne vada anche mia madre". Invece mia madre non se ne andò e a dodici anni me ne andai io...». E da lì cominciò tutta la storia.


LIGABUE Ligabue torna alla carica. Dopo «Primo tempo», uscito nel novembre scorso, il 30 maggio arriva anche «Secondo tempo»: assieme, i due dischi costituiscono il suo primo «best» in vent’anni di carriera.

Stavolta tocca a canzoni del periodo fra il ’96 e il 2005. Inoltre ci saranno tre inediti e uno di questi sarà «Ho ancora la forza», di Francesco Guccini, già pubblicato e premiato come canzone dell’anno all’edizione 2000 del Club Tenco. Il rocker di Correggio ne ha fatto una sua versione per testo, arrangiamenti e produzione.

In attesa di suonare negli stadi italiani (partenza il 4 luglio dallo Stadio San Siro di Milano, data esaurita in prevendita, con replica il 5 luglio), Ligabue sta tenendo un giro di concerti in Europa (ha debuttato il 7 aprile ad Amsterdam), accompagnato da una band rinnovata in buona parte e con Corrado Rustici nella veste di produttore musicale. Rustici ha già firmato la produzione di «Niente Paura» e «Buonanotte all’Italia», i due inediti che, assieme ai classici del Liga, hanno decretato il successo di «Primo tempo».

Scrive Ligabue nel sito ligachannel.com: «”Secondo tempo” avrà una confezione che conterrà sia un cd con le canzoni del ”best”, sia un dvd con i videoclip relativi. Anche se è già stato pubblicato da Guccini, ”Ho ancora la forza” è un vero e proprio inedito perchè, oltre a essere totalmente un altro pezzo dal punto di vista degli arrangiamenti e della produzione, mi sono anche permesso di modificare il testo adattandolo a me. Non credo che sarà il primo singolo, ma mi è venuta voglia di dire quello che c'è nella canzone per gli stessi motivi per cui l'ha fatto Francesco all'epoca in cui l'ha inserita nel suo album».

«Per la prima volta da quando faccio concerti - conclude Ligabue - non sarò io il produttore musicale degli show: lo sarà Corrado Rustici, che ha avuto carta bianca nelle scelte e ha abbastanza rivoluzionato il gruppo di persone che suonerà con me».

Della vecchia band, ad accompagnare Ligabue ci saranno Fede Poggipollini e Niccolò Bossini cui si aggiungeranno quattro musicisti americani.


TROISI Massimo Troisi è scomparso nel giugno ’94. È stato attore, regista, sceneggiatore, ma anche poeta. È questo il lato artistico cui il suo amico di sempre Enzo Decaro ha voluto rendere omaggio con questa raccolta di dodici poesie scritte da Troisi e musicate da Decaro insieme ad altri amici musicisti jazz: Rita Marcotulli, James Senese, Paolo Fresu, Fabio Treves... «Nel cassetto - spiega l’attore - avevo alcuni suoi scritti e una piccola musicassetta, un'Agfa 30. Ho pensato di musicarli e ho chiesto ad alcuni amici di aiutarmi. Tutti mi hanno ringraziato per averli chiamati a partecipare al progetto». Sono quadretti dalla vena a tratti acerba ma genuina e profonda, che ci riportano un grande artista scomparso davvero troppo presto.


ST.CLAIR Particolare la storia di questo cantante di colore di origine americana, che comincia la carriera a San Francisco ma poi viene notato in una serata in un club romano. Da lì prende le mosse questa produzione italiana e internazionale al tempo stesso, di gran classe ed eleganza. Ottime le doti interpretative dell’artista, dotato di una voce calda e nera al punto giusto. Con lui torna il Philadelphia Sound degli anni Settanta, suoni neri da cui presero le mosse nel decennio successivo gran parte della musica dance. Dieci brani inediti, scritti ed eseguiti da St.Clair con il produttore Giacomo Bondi, e due cover: «Wake up everybody» e «Lady love» (anche su singolo).

GILLO DORFLES


Prima Boris Pahor, poi Lelio Luttazzi, ieri sera Gillo Dorfles. Della serie: i grandi vecchi triestini (se volete con l’aggiunta dell’ancor «giovane» Claudio Magris...) sono ormai di casa a «Che tempo che fa», l’appuntamento del fine settimana con Fabio Fazio, su Raitre, diventato anno dopo anno, edizione dopo edizione, un’oasi della televisione intelligente e di buon gusto.

In una serata quasi monopolizzata dal bel George Clooney, per il critico d’arte e docente di estetica triestino l’occasione della partecipazione è stata la pubblicazione del suo nuovo libro, «Horror pleni. La (in)civiltà del rumore». Fra l’altro nella giornata del suo compleanno numero novantotto: Gillo Dorfles è infatti nato il 12 aprile del 1910 a Trieste, anche se vive da molti anni a Milano.

Sollecitato da Fazio, il critico ha spiegato lo spunto da cui è partito, nel raccogliere una serie di suoi articoli pubblicati sul «Corriere della Sera» assieme a una decina di saggi inediti. «L’idea da cui sono partito - ha spiegato Dorfles - è che ormai non si capisce più niente per il troppo fracasso, non solo fisico ma anche morale. In giro ci sono troppi suoni, troppi rumori, troppe musiche. Anche quando vai al mare, le radioline ti impediscono di sentire il rumore delle onde...».

Insomma, l’«horror vacui» nei secoli scorsi stava a significare il senso di sgomento provocato dall’assenza di ogni segno e traccia umana. Ma oggi, attorno a noi, le nostre città sono schiantate da montagne di suoni, immagini, messaggi. Tutta roba che finisce per produrre un rumore costante, ma anche una cascata di emozioni e suggestioni. Da cui l’«horror pleni», speculare contrario dell’«horror vacui».

«Oggi si vuol velocizzare tutto - ha detto ancora il critico d’arte - manca quella distesa di silenzio, senza suoni e senza immagini, che non ti permette di meditare. Chissà, forse ciò è ancora possibile solo in qualche monastero della Grecia...».

Ancora Dorfles: «Ormai siamo all’opposto di quel che avveniva quando l’uomo ha cominciato a popolare la terra. I primi graffiti tracciati nelle grotte servivano a riempire il vuoto che circondava i primi uomini. Ma il risultato è che oggi abbiamo finito per cancellare noi stessi».

Certo, il desiderio dell’uomo di lasciare una traccia di se stesso è positivo, guai se l’essere umano non avesse il desiderio di esibirsi. «Ma quando è troppo, beh, andiamo proprio male...». Come liberarsi allora dal troppo? «Una volta bastava andare in cima all’Everest, o nei monasteri del Tibet, per trovare la pace, ora sappiamo che anche lì abbiamo gli scontri armati...».

Rimane la possibilità di rifugiarsi nell’opera d’arte, avere uno spazio libero, magari «in una stanza con un solo quadro di Mondrian...». Sì, perchè oggi tutto è pieno e pieno delle stesse cose: il guaio della globalizzazione. «Guai se scompaiono le differenze. Non bisogna rassegnarsi. Bisogna mantenere vive le caratteristiche culinarie, artistiche, culturali, di costume...».

Gillo Dorfles ammonisce: «Si può vivere anche senza velocità, senza troppi oggetti, senza troppi libri in casa. Sono ostile a qualunque tipo di tasto, tranne quelli del pianoforte. Anch’io ho comprato un computer, mi sono divertito a cercare la mia presenza su Google, ma a parte un piccolo compiacimento, è stata una fatica tremenda capire quali tasti schiacciare. Col risultato che un articolo scritto con tanta fatica d’un tratto è scomparso nel nulla».

Poi, sempre garbatamente imbeccato da Fazio, il grande vecchio triestino parla dell’«esibizionismo del proprio intimo che finisce per essere osceno»; della nostra lingua che ha perso il passato remoto e il futuro; del senso del ridicolo, proprio e altrui; della vecchia abitudine di fare una lista dei difetti delle persone incontrate («Allora sono rovinato», dice il conduttore)...

«Ho sempre cercato - ha concluso Gillo Dorfles - di essere snob, cioè sine nobilitate, ovvero senza quella vernice falsa che molti hanno addosso...».

mercoledì 9 aprile 2008

BIAGIO ANTONACCI


TRIESTE Trionfo quasi tutto al femminile, ieri sera al PalaTrieste, per il ritorno dopo tre anni e mezzo di assenza di Biagio Antonacci. Il cantautore più amato dalle donne è stato festeggiato da oltre quattromila persone nella seconda tappa regionale del Vicky Love Tour, che a novembre aveva fatto tappa a Pordenone e ora è arrivato anche nel capoluogo regionale. Palco ipertecnologico che sembra una piazza d’armi, o se preferite la pista di una discoteca. Il fondale è una parete gigantesca che nel corso della serata brillerà di luci e colori ma anche immagini. Uno striscione dalle prime file urla «Mi fai sognare» ed è forse proprio questo il segreto, la grande capacità del quarantacinquenne cantautore di Rozzano, periferia dormitorio milanese dalla quale uno scappa appena può. Il giovane Biagio, studi da geometra e militare fra i carabinieri, è scappato grazie alla musica. Ed è diventato un numero uno cantando con onestà l’amore, la semplicità dei sentimenti, la propria vita vissuta che poi diventa come d’incanto la vita di tutti.

All’inizio dello show il nostro cala subito un poker mica da ridere, capace di elettrizzare una platea che aspetta solo di essere conquistata. Attacca con «È soffocamento», il brano che apre anche il suo ultimo vendutissimo album, «Vicky Love», premio «Album Festivalbar 2007» nel settembre scorso all’Arena di Verona. Prosegue con «Sappi amore mio», che stava nel secondo capitolo di «Convivendo», uscito tre anni fa, e con «Quanto tempo ancora», da «Mi fai stare bene», disco del ’98. E quando il poker viene completato da «Non ci facciamo compagnia», la temperatura è già schizzata verso l’alto, a livelli per raggiungere i quali certi suoi colleghi devono sudare due ore e sette camicie...

Fra un brano e l’altro Biagio chiacchiera abbastanza. Qualsiasi cosa dica viene sommerso dagli applausi di un pubblico adorante. Sia che si tratti di garbate banalità del tipo «L’amore è un sentimento nobile che non va mai nascosto...» (presentando «La stanza rosa»), sia che si improvvisi tribuno dell’antipolitica montante: «Fra pochi giorni ci sono le elezioni, ci siamo rotti di votare il meno peggio, ci siamo stufati di questa politica che non sta dalla parte della gente che lavora. Molti non hanno le idee chiare, non sanno ancora per chi votare, e io stesso stavolta non so nemmeno se andrò a votare...». Poi arrivano i versi de «Il mucchio», che dava il titolo a un album del ’96 ed esprimeva disgusto per una situazione sociale e politica che in questi anni - dice - non è cambiata. Difficile dargli torto.

Un concerto intimista e al tempo stesso rock, dove i sentimenti e l'amore la fanno da padrone, ma che ha anche fatto ballare il pubblico sulle note quasi sudamericane di «Pazzo di lei», per poi incendiare gli animi quando il ritmo aumenta. Sì, perchè Antonacci - ben supportato dalla band - è capace anche di appassionate sgroppate rock, un po’ alla Vasco, come in «Non è mai stato subito». Sgroppate che si alternano agli episodi più d’atmosfera, come «Coccinella», quarto singolo tratto dall’ultimo disco, nel quale la dolcezza melodica del brano è esaltata da una ballerina che volteggia all'interno di un’enorme sfera di plastica trasparente.

Sul palco intanto volano fiori, lettere, regalini. E quando il ragazzone alto e magro scende per pochi istanti in platea si sfiora il delirio. Arriva il momento di un set acustico, con il pubblico che sceglie un paio di canzoni da eseguire, «eliminandone» altre due.

Ma il concerto triestino è stata soprattutto l’occasione per riascoltare grandi successi come «Se io, se lei» (forse il suo capolavoro, applaudito a scena aperta dai quattromila del PalaTrieste) e «Iris», «Angela» e «Convivendo», «Così presto no» e «Mi fai stare bene», «Ritorno ad amare» e «Se è vero che ci sei», nonchè le recenti «Lascia stare», «L’impossibile» e «Sognami» (quasi una fascinazione dagli accenti tzigani), tratte dall’ultimo album.

La forza di Antonacci si conferma la semplicità, la coerenza, la capacità di comunicare e condividere con il pubblico le proprie emozioni. E il suo marchio di fabbrica oggi più che mai è la ricerca di naturalezza, di essenzialità, di spontaneità, di pulizia, contrapposta all’artificialità imperante.

Sul palco, con Biagio, ci sono Saverio Lanza e Marcella Menozzi alle chitarre, Fabrizio Morganti alla batteria, Mattia Bigi al basso, Lorenzo Tommasini alle tastiere.

A Trieste, cori da stadio e grandissimo successo di pubblico. Stasera il cantautore milanese è al palazzetto di Jesolo. Il 19 aprile il Vicky Love Tour si conclude a Roma.



LUC ORIENT


TRIESTE Venticinque anni, cinque lustri, un quarto di secolo. Praticamente un’eternità, soprattutto se parliamo di cose musicali. Nella Trieste musicale del 1983 esordì un trio, si chiamavano Luc Orient, decisamente in anticipo rispetto alle mode e ai modi del tempo. Domani, dopo un lungo silenzio, ritornano con una serata alla Casa della Musica, che inizia alle 21.

<Allora erano tre ragazzi poco più che ventenni: il cantante Piero Pieri, Rrok Prennushi alla chitarra e alle tastiere Sandro Corda (già nei Revolver, già collaboratore dei Krisma di Maurizio Arcieri). Il cantautore Gino D’Eliso se li portò a Milano, capitale della discografia. Uscì un 45 giri intitolato «Gambe di Abebe», dedicato al maratoneta Abebe Bikila, che venne presentato nei programmi televisivi dell’epoca (roba tipo «Discoring»).

Il tempo di solleticare l’interesse di critica e pubblico, grazie a un originale mix fra elettronica e new wave, pop d’avanguardia e influenze etniche, e i Luc Orient vennero inghiottiti da un vortice fatto di non scelte, incomprensioni, baruffe fra produttori e case discografiche.

Dopo 25 anni i Luc Orient hanno perso un pezzo e sono diventati un duo, con Pieri e Prennushi. E propongono un repertorio quasi completamente inedito, fra brani di allora che non videro mai la luce del vinile e pezzi realmente nuovi. Mettendo assieme un set elettrico e acustico, con materiale elettronico in parte registrato.

«Qualche anno fa abbiamo voluto chiudere un cerchio - spiegano Pieri e Prennushi - un percorso che ci sembrava incompiuto. Abbiamo rimasterizzato i vecchi pezzi, raccogliendoli in un cd doppio da regalare a vecchi collaboratori e amici. Tutti sono rimasti colpiti dall’attualità delle cose che facevamo. Va ricordato che nei primi anni ’80 la cosa più avanzata in Italia, dal nostro punto di vista, erano i Righeira. Il resto per noi era musica retrograda. C'era anche una scena indipendente, ma non dimentichiamo che all'epoca fare un disco era un’impresa quasi proibitiva».

Come dire: fossero nati ai tempi di Myspace e Youtube, i Luc Orient non sarebbero morti praticamente in culla. «La nostra trafila? Entrammo nell'etichetta di Gino D'Eliso, che si chiamava Mitteleurock come una sua canzone. Firmammo un contratto con la Cgd, prodotti dallo stesso Gino e da Nanni Ricordi. Di quei mesi ricordiamo Caterina Caselli che ci controllava da lontano e Red Canzian dei Pooh che veniva a curiosare in sala di mixaggio mentre registravamo il nostro primo e unico singolo».

«Un brano che Sergio Cossu (Matia Bazar e tante altre cose - ndr) ha definito, bontà sua, il singolo italiano più importante degli anni ’80. Un brano scritto su un accordo solo, fortemente influenzato dalla visione africana dei Talking Heads e di Peter Gabriel. Sul retro c’era ”About the weather”, una sorta di brano techno ante litteram. Non avevamo i sequencer e dunque tutto veniva suonato dall'inizio alla fine...».

Poi la promozione radiofonica e televisiva, la Cgd che non distribuisce il singolo e neppure stampa il primo dei tre album previsti dal contratto, il ritorno a Trieste, le strade personali dei tre giovani musicisti che si separano...

E dopo tanti anni questo cd doppio che ha restituito almeno a due terzi dell’originario gruppo la voglia di suonare. «Abbiamo di nuovo voglia di scrivere delle canzoni - dicono i due - e allora perché non farlo? Le nostre sono semplicemente canzoni, svincolate da regole di mercato e dal metro delle radio di consumo».


(Un quarto di secolo fa i Luc Orient ascoltavano Talking Heads e Peter Gabriel, David Bowie e Kraftwerk, Prince e Brian Ferry, Xtc e David Sylvian, ma anche Blue Nile, Weather Report, Brian Eno, l’italiano Battiato...

«Quel che ci dà fiducia - concludono i Luc Orient - è che oggi molti artisti nuovi si rifanno esattamente ad alcuni degli artisti che noi amavamo allora. In fondo a noi sembra tutto un grande dejà vù...».)



venerdì 4 aprile 2008

TOUR ESTIVI FVG


TRIESTE Arrivano anche Pat Metheny, Antonello Venditti e Gianna Nannini. Gianni Morandi fa tris e Alex Britti sostituisce Francesco De Gregori... Insomma, l’estate musicale 2008 del Friuli Venezia Giulia non è ancora cominciata, ma già si annuncia perlomeno non inferiore a quella dell’anno scorso, passata agli annali per qualità e quantità. La novità più grossa - non ancora annunciata ufficialmente - è quella che porterà in regione Pat Metheny: il chitarrista statunitense sarà in concerto a Villa Manin martedì 15 luglio, in quartetto con Gary Burton al vibrafono, Steve Swallow al contrabbasso e Antonio Sanchez alla batteria. Un vero e proprio supergruppo, con quattro colossi della recente storia del jazz riuniti sullo stesso palco per un tour europeo.

Patrick Bruce detto Pat Metheny, classe ’54, è stato giovanissimo istruttore all'Università di Miami e al Boston's Berklee College of Music, proprio grazie a Gary Burton. Dal primo album del ’75 («Bright size life», con Jaco Pastorius) a oggi ha avuto un crescendo di consensi da parte di critica e pubblico, anche quando ha sviluppato nuove esperienze, spingendosi fino al free jazz con Ornette Coleman. La sua produzione si sviluppa su più filoni paralleli: il Pat Metheny Group (fondato nel ’76 col tastierista Lyle Mays), i lavori solisti, i duetti e altre partecipazioni. Attualmente è considerato dalla critica fra i numero uno - assieme a Bill Frisell e John Scofield - della chitarra jazz contemporanea.

Ma torniamo al calendario, approfittando dei nuovi annunci per riepilogare la situazione. Mercoledì 9 aprile fa tappa al PalaTrieste il tour di Biagio Antonacci, che la sera dopo è a Jesolo. Il 3 maggio al «Bavifestival», sul Molo IV triestino, concerto di Alex Britti (che sostituisce l’annunciato De Gregori). Il 5 maggio arriva al Rossetti Francesco Renga, l’ex cantante dei Timoria udinese di nascita e bresciano di adozione, nell’ambito del «Ferro e Cartone Tour» appena partito da Pescara. Da segnalare che Renga stasera sarà ospite del «Grand Bal», lo spettacolo organizzato da Youssou n’Dour a Parigi. Il 6, il 7 e il 9 maggio, a Udine, al teatro tenda di piazzale Argentina, tre concerti di Gianni Morandi (il terzo si è reso necessario per l’ottimo andamento delle prevendite). Il 17 maggio al palasport di Pordenone fa tappa il tour dei Afterhours. Siamo a giugno, che per ora propone i due appuntamenti a Villa Manin: l’8 giugno con Mark Knopfler, leggendario chitarrista dei Dire Straits; il 10 giugno altra chitarra da antologia, quella di Joe Satriani, mille collaborazioni in carriera fra cui quella con i Deep Purple.

Luglio. Pat Metheny il 15 luglio a Villa Manin, come si diceva. Una settimana dopo, il 22, al Castello di Udine, fa tappa il tour di Paul Simon. Altre quarantott’ore e va in scena quello che - almeno per ora - promette di essere l’evento dell’estate musicale 2008 nella nostra regione: i Rem a Villa Manin, sull’onda del successo toccato al nuovo album «Accelerate», con un supporter di lusso che risponde al nome di Editors. Sempre a Villa Manin, a fine luglio (data ancora da definire), concerto di Antonello Venditti. Mentre un’altra grande della musica italiana, Gianna Nannini, è attesa in regione nei primi giorni di settembre.