venerdì 26 giugno 2009

MICHAEL JACKSON


Michael come Elvis. E forse come John. Lutti e icone che si rincorrono. Elvis Presley il 16 agosto del ’77, morto a quarantadue anni, distrutto da cibo, farmaci, droghe, eccessi. John Lennon l’8 dicembre ’80, ucciso a quarant’anni dalla pistola del folle Mark David Chapman. E ora Michael Jackson, che in una graduatoria forse macabra ma utile per storicizzare la cronaca, diventa la terza morte più importante nella storia della musica popolare dell’ultimo mezzo secolo.

Perchè se Elvis è stato l’inventore e il re del rock, se Lennon con i Beatles ha cambiato musica e costume del Novecento, Jackson è stato il re del pop, il primo artista di colore a diventare una star mondiale, l’uomo dei primati, quello che ha venduto in tutto 750 milioni di dischi e 109 solo dell’album ”Thriller”, in assoluto il più venduto della storia del pop.

Ma ”Jacko” è stato anche il superbo e talentuoso esponente della razza afroamericana ad aver scelto di farsi bianco. Negli ultimi vent’anni si era quasi accanito contro le sembianze nere della sua razza. Un caso quasi da manuale della psicanalisi. Decine di operazioni di chirurgia plastica per diventare alla fine una sorta di zombie simile a come appariva nel leggendario video di ”Thriller” girato da John Landis: pelle bianca, capelli neri e lisci, nasino all’insù, zigomi pronunciati, fossetta sul mento.

Niente a che vedere col ragazzino paffutello e assolutamente afro che a dieci anni già cantava e ballava nella band di famiglia, i Jackson Five, suo primo trampolino verso il successo planetario. Con singoli targati Motown come ”I want you back”, ”Abc”, ”The love you save”, ”I’ll be there”, ”Got to be there”. Era di gran lunga il più dotato dei fratelli, il padre lo aveva capito subito, e pare lo costringesse a esercitarsi a forza di botte.

L’eterno Peter Pan, il genio bambino, l’uomo che appena i milioni glielo consentono si costruisce un lunapark nel ranch californiano di Neverland, e che gioca (chissà, forse all’inizio senza malizia) sul lettone con i giovani ospiti, probabilmente nasce proprio da lì, da quelle violenze familiari.

Che non gli impediscono di diventare il re del pop, l’uomo che prosegue il lavoro avviato da Elvis: abbattere definitivamente i confini fra la musica bianca e quella nera, mischiare arte nuova e genere commerciale, creare un pubblico autenticamente multirazziale.

Il primo disco di Michael adulto, nel ’79, è ”Off the wall”: dance venata di rock, prodotta da sua maestà Quincy Jones. Poi arrivano il ”Thriller” dei record (’82, sempre siglato Quincy, con dentro ”Billie Jean”), ma anche la collaborazione con Stevie Wonder e Paul McCartney. E la sintesi fra rock e musica nera macina record, viaggia a mille grazie anche alle coreografie, al famoso passo ”moon walk”. Immortalato nei suoi video che aprono una nuova era, quella della videomusica e della cosiddetta Mtv generation.

Prima degli album ”Bad” (’87) e ”Dangerous” (’91), l’inno ”We are the world”, scritto con Lionel Richie, e l’acquisto del catalogo con le canzoni dei Beatles, pagato oltre 47 milioni di dollari e rivelatosi un enorme affare, segnano nell’85 il momento forse più alto delle sue fortune. Il più basso: le infamanti accuse di pedofilia e il processo per molestie sessuali a minori all’alba del nuovo millennio.

Secondo la stampa Jackson avrebbe speso centinaia di migliaia di dollari per tacitare le sue presunte vittime ed evitare così testimonianze imbarazzanti nei processi dai quali esce comunque assolto, ma che ne segnano l’inizio della fine.

Nel 2001 - anno di ”Invincible”, ultimo album prima della riedizione nel venticinquennale di ”Thriller” - chiede e ottiene un prestito da duecento milioni di dollari dalla Bank of America, ma le vicende giudiziarie e le parcelle degli avvocati lo hanno ormai messo al tappeto. Pare spendesse ogni anno trenta milioni di dollari in più rispetto a quelli che incassava. Che erano sempre tanti soldi, ma molto meno dei tempi d’oro.

A questo si possono aggiungere le controverse vicende legate alla nascita in provetta dei suoi figli e ai disastrosi matrimoni prima con Lisa Marie Presley, guardacaso figlia di Elvis, e poi con la sua ex infermiera, costretta a firmare un accordo prematrimoniale in cui rinunciava alla maternità.

E ancora la camera iperbarica nella quale dorme inseguendo l’immortalità, la mascherina e i guanti che ergono una barriera fra lui e il mondo esterno, a tentare di preservarlo da malattie e contaminazioni.

L’ultima volta che Michael è apparso in pubblico è stato a marzo, quando ha annunciato - a dodici anni dall’ultimo tour - prima dieci e poi cinquanta concerti che avrebbe dovuto tenere a Londra a partire dal 13 luglio. Un milione di biglietti venduti nello spazio di pochi giorni, e che ora dovranno essere rimborsati, mettendo nei guai (in ballo 348 milioni di euro) la società americana che lo aveva convinto a tornare sulle scene. Lui aveva dovuto accettare per far fronte alla montagna di debiti che lo stava travolgendo. Ma pare che nelle settimane scorse avesse confidato i suoi timori: «Non so come farò a fare cinquanta spettacoli, sono molto stanco».

Michael Jackson, che il 29 agosto avrebbe compiuto cinquantuno anni, non ce l’ha fatta. E come sempre accade in questi casi, la sua scomparsa - con il necessario pizzico di mistero - lo consegna definitivamente alla sfera della leggenda. Del mito.

LAURA PAUSINI A VILLA MANIN


Domani sera riparte da Villa Manin di Passariano il World Tour 2009 di Laura Pausini. Che poche sere fa è stata fra le protagoniste del concerto Amiche per l’Abruzzo: cento voci femminili sul palco di San Siro, oltre 55 mila spettatori e un incasso di oltre un milione e mezzo di euro. Tutto girato alla nobile causa della ricostruzione dopo il terremoto.

Laura, l’idea del concerto è stata sua. Com’è nata?

«Anni fa avevo immaginato di unire tutte le mie colleghe italiane in un concerto. Mi è sembrato che questa potesse essere l’occasione giusta per tutte noi di riunirci e cantare per chi in questo momento ha bisogno di aiuto. La prima persona che ho chiamato è stata Fiorella Mannoia e quando ho sentito il suo entusiasmo ho contattato via via tutte le altre: Elisa, Giorgia, Gianna Nannini, Carmen Consoli, Irene Grandi...».

Recentemente è tornata all’Arena di Verona. Un luogo che lei ama.

«Sì, è stato per i Wind Music Awards. Avevo già cantato all’Arena anni fa e ci tornerò anche durante questo tour estivo. È uno di quei luoghi speciali che ha rappresentato e rappresenta tuttora una parte importantissima della nostra cultura italiana, pertanto tornarvi è sempre un piacere: ci si sente onorati a cantare in posti del genere».

Lei ha cantato in mezzo mondo. C’è un posto dove ancora non è andata e vorrebbe esibirsi?

«Oddio, in questo momento sono fortunata a doverci pensare perché ci sono stati tanti posti dove sono già stata, in città e su palchi che non avrei mai pensato di conoscere. Oggi come oggi, avendo avuto queste possibilità di tenere concerti in posti di grande capienza, forse il desiderio è quello di tornare nei posti più piccoli, nei club e nei teatri. Per vedere le persone negli occhi...».

”Primavera in anticipo” è a quota sei dischi di platino. Che posto ha nella sua discografia?

«Ogni mio album ha rappresentato una parte importante della mia vita personale, perché molti dei miei dischi sono nati dagli sfoghi che avevo bisogno di fare attraverso la musica. Oppure dai momenti di gioia o di riflessione che ho vissuto. Questo contiene a livello poetico e metaforico tutte e quattro le stagioni che rappresentano quattro stati emotivi diversi, quindi forse è un po’ più completo di altri. È quello che racconta me stessa più profondamente».

La preparazione è stata lunga.

«Sì, è stato scritto in quattro anni, quindi in vari momenti della mia vita, anche molto diversi tra loro. Per questo ho usato il riferimento alle stagioni, come per presentare quattro quadri differenti che raccontano il momento del dolore, della nostalgia, della felicità, della riflessione e della gioia. Ci sono davvero tante sensazioni in questo album».

Lei lavora spesso con autori giovani.

«Man mano che passano gli anni le canzoni diventano sempre più numerose, in giro per il mondo. Ed è sempre più difficile scrivere qualcosa di innovativo. Gli autori sono importanti, nella mia carriera lo sono stati quelli che avevano già un nome e quelli che non erano conosciuti e per esempio hanno scritto per me ”La solitudine”. Io sono sempre propensa ad ascoltare le cose che arrivano dai giovani, chiaramente quando scrivono canzoni che hanno un contenuto personale. A volte per timidezza ci si rinchiude con le persone del proprio team, perché è difficile aprirsi con tutti quanti, però oggi è importante dare spazio ai giovani autori».

Questo tour toccherà Stati Uniti, Canada, America Latina... Qual è il pubblico che preferisce?

«Il mio pubblico italiano è sempre il migliore. Sono ovviamente felice di poter cantare in paesi anche lontani, ma non dimentico che tutto è cominciato da qui. E che se non avessi avuto all’inizio della mia carriere l’appoggio e l’affetto degli italiani, tutta questa splendida storia non sarebbe mai cominciata. E oggi sarebbe molto difficile sentirmi a mio agio quando sono di fronte a un pubblico straniero».

Ma la ragazzina che nel ’93 ha conquistato tutti cantando ”La solitudine” a Sanremo Giovani dov’è finita?

«È sempre dentro di me. Sono passati tanti anni, sono cresciuta e oggi esistono varie Laura Pausini. Esiste una ragazzina che è diventata donna e certamente la mia anima è cresciuta come il mio fisico, i miei pensieri, i miei sogni. Hanno preso forme diverse, a volte mi hanno permesso di maturare scontrandomi con le mie paure».

E salire su un palco le fa mai paura?

«Non più. Ci sono salita per la prima volta a otto anni, quando cantavo con mio padre al pianobar. Ora salgo, e per i primi tre minuti ho seri problemi di tachicardia. Poi il cuore segue il ritmo della musica, e così mi lascio andare. Canto e mi lascio trascinare da ciò che verrà...».

Domani a Villa Manin lo spettacolo comincia alle 21.30. In programma le canzoni nuove e i successi di una carriera lunga ormai sedici anni. Con Laura Pausini una band di otto elementi.

sabato 20 giugno 2009

TRIESTE ROCK FESTIVAL


I Van der Graaf Generator di Peter Hammill, i Gong di Daevid Allen, Claudio Simonetti con i Daemonia. È questo il tris proposto dal Trieste Rock Festival per la sua sesta edizione, che si terrà dal 31 luglio al 2 agosto in piazza Unità e verrà presentata nei prossimi giorni. L’Associazione Musica Libera, che organizza la rassegna col Comune di Trieste, continua dunque a puntare sui grandi nomi, italiani e stranieri, che hanno scritto la storia del pop/rock degli anni Settanta.

Nelle passate edizioni il festival ha infatti portato in città i napoletani Osanna col sassofonista David Jackson (che con Hammill era una delle colonne proprio dei Van der Graaf), quel Glenn Hughes che era stato il cantante sia dei Deep Purple che dei Black Sabbath, Ray Wilson già presente in una formazione dei Genesis, i New Trolls (che a Trieste, due anni fa, tennero la prima del ”Nuovo Concerto Grosso”, documentata da un dvd che ha girato il mondo), il mitico Alan Parsons. Ma anche la Pfm di Franz Di Cioccio, il Banco di Francesco Di Giacomo, gli Animals, i Creedence Clearwater Revived (filiazione degli originali Creedence Clearwater Revival), Ian Paice, Carl Palmer...

E dopo il batterista dei leggendari Emerson Lake & Palmer, quest’anno era già tutto pronto per vedere a Trieste anche il tastierista Keith Emerson. Contratto già firmato, assicura il patron Davide Casali, ma all’ultimo momento l’intero tour mondiale è stato annullato per motivi di salute del musicista. I fan del rock d’annata si consoleranno comunque con un programma che regge il confronto con le edizioni precedenti, e conferma il piccolo ma importante festival triestino come un appuntamento di qualità nell’ambito dell’estate spettacolare cittadina.

La rassegna sarà aperta il 31 luglio da Claudio Simonetti, figlio di Enrico Simonetti e già leader dei Goblin, noti soprattutto per le colonne sonore dei film di Dario Argento. In particolare ”Profondo rosso”, del ’75. Nel 2001, dopo un lungo periodo di silenzio, i Goblin hanno ripreso a lavorare assieme, scrivendo una nuova colonna sonora per un film di Argento. Ma a Trieste Simonetti suonerà con il gruppo dei Daemonia, da lui formato nel ’99.

E siamo ai Gong, che suoneranno il primo agosto. Sono il gruppo formato nel ’67 dall’australiano Daevid Allen, già con i Soft Machine. In oltre quarant’anni, attorno all’eclettico e anticonformista musicista sono nati tanti gruppi satellite, denominati Gong Global Family. Attualmente, la formazione comprende ben cinque membri originari: Daevid Allen, voce e chitarra; Gilli Smyth, voce; Steve Hillage, voce e chitarra; Miquette Giraudy, voce e tastiere; Mike Howlett, basso. Con loro Chris Taylor alla batteria e Theo Travis ai fiati.

Chiusura in bellezza il 2 agosto con i Van der Graaf Generator, punta di diamante del ”progressive” sviluppatosi in Inghilterra a cavallo fra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta. Nascono nel ’67, all’università di Manchester, attorno al cantante Peter Hammill. ”The aerosol grey machine”, nel ’69, è il loro primo album. Ma dopo ”The Least We Can Do Is Wave To Each Other” e ”H to He, Who Am the Only One”, usciti nel ’70, è soprattutto con ”Pawn Hearts”, del ’71, che il gruppo decolla.

Curiosità: i Van der Graaf, come anche Genesis e King Crimson, all’inizio hanno più successo in Italia che nella loro Inghilterra. Oggi, dopo alterne vicende e l’uscita di Jackson, il gruppo è un trio: Peter Hammill (voce, chitarra, pianoforte), Hugh Banton (tastiere, basso, chitarra) e Guy Evans (batteria). Gli stessi di tanti anni fa.

venerdì 19 giugno 2009

NEK, VIDEO A TRIESTE


«Mi sono svegliato alle 4.30, ho dormito soltanto tre ore, ma ne valeva davvero la pena: avevamo una luce incredibile e in giro non c’era quasi nessuno. Tranne un paio di pescatori sul molo...». Parla Nek, che ieri ha girato a Trieste il video del brano ”Semplici emozioni”, dall’album ”Un’altra direzione”.

La convocazione per la troupe era fissata all’alba delle 4.45, al Molo Audace. Per l’artista, regista e produzione sono stati più comprensivi: convocazione un’ora dopo, alle 5.45. Via via che la città si svegliava, quanti si trovavano a passare nel corso della mattinata nella zona delle Rive alla radice del Molo Audace hanno notato una certa animazione. Causata dalla troupe, dal regista, dal cantante e dall’attrice israeliana Keren Rubin. Tutti al lavoro per le riprese del video.

«È il terzo video di questo album - spiega Filippo Neviani in arte Nek, nato a Sassuolo nel ’72 -, dopo ”La voglia che non vorrei” e ”Se non mi ami”. Racconta una storia d’amore che finisce, fra un ragazzo e una ragazza che vivono l’uno per l’altra, legati anche a distanza da un rapporto quasi simbiotico: giocando su alcune frasi della canzone, a entrambi accadono le stesse cose, vengono in mente gli stessi pensieri. Due cuori e due menti che sono tutt’uno».

«Con il regista - prosegue l’artista - abbiamo scelto di girarlo a Trieste perchè questa città a mio avviso offre molto. L’ho scoperta da poco, dopo avervi suonato alcune volte, al Rossetti, al palasport e recentemente agli Mtv Trl Music Awards in piazza Unità. E trovo che finora sia stata poco sfruttata per i videoclip, mentre invece offre scorci autenticamente europei, con il mare, le rive, i palazzi. Tutte prospettive davvero speciali».

E infatti le riprese del video (prodotto dalla Angelfilm), dopo la mattinata sul Molo Audace, ieri sono proseguite in altre zone della città. Sulla gradinata dell’Università, alla vecchia stazione di Campo Marzio, ovviamente sulle Rive e in piazza dell’Unità.

«Nek è un artista europeo - sottolinea il regista Marco Salom, che in passato ha realizzato video per Ligabue, Elisa, Skin - e siamo venuti a girare qui perchè Trieste è una delle città italiane più europee. Poi ci serviva una città di mare, che il direttore della fotografia Marco Bassano ha immortalato nella luce molto morbida dell’alba. Sì, davvero è andato tutto molto bene».

L’album ”Un’altra direzione” è uscito il 30 gennaio e ormai vicino al secondo disco di platino. Che sarebbe come dire quasi 140 mila copie vendute, visto che in questi tempi di crisi per la discografia il riconoscimento scatta a 70 mila copie. Niente male anche per uno come Nek, che fa parte di quel ristretto drappello di cantanti italiani - la Pausini, Ramazzotti, Tiziano Ferro, Zucchero, Paolo Conte, la Nannini, pochissimi altri - che cantano e hanno successo anche all’estero.

«Sì, l’album sta andando molto bene - dice ancora Nek - sia in Italia che all’estero, soprattutto in Spagna. Ma bisogna lavorarci ancora, in questi tempi di crisi. Per questo ora lanciamo il terzo singolo, con questo video girato a Trieste. Sarà nelle radio a fine giugno, mentre la clip andrà in rotazione nelle tivù a partire da metà luglio».

«Dal 4 luglio - conclude Nek prima di infilarsi in automobile per tornare a casa - parte anche il tour estivo. Prime date in Toscana e in Emilia Romagna. Ma torniamo anche da queste parti: il 27 agosto siamo al Perla di Nova Gorica, in Slovenia. E poi da settembre siamo in Spagna, mancano ancora alcuni dettagli tecnici con gli organizzatori. Non mi fermo mai? È vero, bisogna fare così, non bisogna mai accontentarsi dei risultati raggiunti. Soprattutto in questi tempi di crisi, generale e per la discografia in particolare».

martedì 16 giugno 2009

TRIESTE LOVES JAZZ


Apertura il 14 luglio in piazza Unità con il leggendario Carlos Santana, il cui concerto triestino era già stato anticipato a fine marzo su queste colonne, e ora si conferma il vero evento dell’estate musicale cittadina.

Poi star del jazz come il sassofonista Maceo Parker, le Swingle Sisters, la formazione Brazilian All Stars Play Jobim (con Eddie Gomez al basso), assieme a tanti altri musicisti italiani e internazionali, protagonisti grandi e piccoli del genere afroamericano.

E chiusura, di nuovo in piazza Unità, il 15 agosto con ”Trieste Loves... Lelio Luttazzi”, un concerto che è anche una festa di Ferragosto, ma soprattutto l’occasione che la città avrà per rendere l’omaggio più affettuoso, nel suo luogo simbolo, al grande artista che da poco ha scelto di tornare a vivere nella sua città. Stiamo parlando di Trieste Loves Jazz, la rassegna organizzata dal Comune di Trieste e dalla Casa della Musica, che quest’anno giunge alla terza edizione. Un’edizione che verrà presentata ufficialmente nei prossimi giorni ma già ora, per i nomi che girano, si propone come quella del possibile e probabile decollo, della definitiva affermazione.

Partita un po’ in sordina nell’estate 2007 (ma la piazza piena per Tuck & Patty fece capire agli organizzatori che il pubblico rispondeva...), confermatasi lo scorso anno (ricordiamo due concerti su tutti: il mitico Brian Auger e gli Yellow Jackets del chitarrista Mike Stern), la rassegna si adegua alla regola del non c’è due senza tre e per il 2009 mette in campo l’edizione per ora più ricca.

Trenta concerti in un mese, tutti a ingresso gratuito (tranne l’apertura con Santana), divisi fra piazza Unità e piazza Hortis (piazza Verdi, forse la location più riuscita delle prime due edizioni, non è disponibile per i lavori in corso). Insomma, una rassegna di qualità, che diventa di fatto il cuore della proposta spettacolare cittadina per l’estate che sta per cominciare.

Si diceva dei nomi. Su Santana abbiamo già scritto. L’inserimento nel cast di Trieste Loves Jazz non è assolutamente una forzatura, ma è figlio dell’antico legame del chitarrista messicano con il genere afroamericano. Maceo Parker - che ha già suonato a Trieste - è stato il sassofonista di James Brown, su cui ha avuto una notevole influenza. Suona in piazza Unità il 24 luglio.

Le Swingle Sisters sono da vent’anni una leggenda per la loro eccellente tecnica vocale, che mettono al servizio di un repertorio in grado di spaziare da Bach ai Beatles, da Mozart a Duke Ellington. È loro la sigla del programma televisivo ”Quark”. Saranno in piazza Unità il 28 luglio.

Lelio Luttazzi, che alla bella età di ottantasei anni è nel pieno di un’ennesima giovinezza artistica, coincisa con la scelta di tornare a vivere a Trieste (dal palco potrà vedere le finestre di casa sua, in piazza Unità...), si esibirà con il suo sestetto.

Ma il cast di Trieste Loves Jazz 2009 non brilla solo di questi nomi. Ci saranno anche i Gaia Cuatro (due giapponesi e due argentini al servizio della miglior improvvisazione), il Park Stickney Trio (formazione fra le più originali, che accanto a basso e batteria propone l’arpa), il gruppo della cantante Brenda Rattray (già sentita a Trieste, per l’occasione assieme al Trieste Gospel Choir), i Seven Steps con ospite il trombettista Fabrizio Bosso, il Mama Trio con ospite il batterista Gianni Cazzola, la BandOrkestra 55 di Marco Castelli.

E fra i triestini di valore, da segnalare il cantante Al Castellana con il suo Soul Combo, il pianista Roberto Magris con il trio formato da Max Sornig al contrabbasso e Drago Gajo alla batteria, il batterista Fabio Jegher in quartetto (con Doug Webb al sax ed Emilio Soana alla tromba), il sassofonista/architetto Donato Riccesi (in quartetto con il pianista Claudio Zanoner).

Il programma completo di Trieste Loves Jazz 2009, con date e altre informazioni, verrà presentato nei prossimi giorni.

lunedì 15 giugno 2009

ADDIO A HUGH HOPPER


È morto Hugh Hopper, già bassista dei Soft Machine, protagonista di primo piano del jazz progressive inglese. Aveva sessantaquattro anni. Da tempo soffriva di una forma di leucemia.

Recentemente, prima dell’apparire della malattia, aveva suonato per ben due volte nella nostra regione. Nel giugno 2006, a Udine, con i Soft Machine Legacy, raffinata formazione erede del gruppo britannico degli anni Sessanta e Settanta, con John Marshall e John Etheridge.

Nell’aprile 2008 era stato invece a Gorizia, con Daevid Allen e Chris Cutler, ovvero i Brainville 3.

Due mesi dopo, a giugno, gli era stata diagnosticata la leucemia. Hugh aveva smesso di suonare. A dicembre dell’anno scorso alcuni suoi colleghi ed estimatori organizzarono anche una serata a Londra, per raccogliere fondi che gli permettessero di affrontare le cure.

Nato il 29 aprile del 1945 nel Kent, Hugh Hopper entrò giovanissimo, nel ’63, nel Daevid Allen Trio con Robert Wyatt, per poi passare ai Wilde Flowers.

È l’anticamera dell’ingresso nei Soft Machine (dei quali era stato all’inizio il road manager), che avviene a partire dal secondo album, in sostituzione di Kevin Ayers.

Hopper mette subito in luce le sue straordinarie doti tecniche. E con i nuovi compagni d’avventura scrive pagine memorabili di jazz-rock, soprattuto con l’album "Third", che comprende la celebre "Moon in june".

Nel ’72 pubblica il suo primo album solista, nel ’73 si conclude la sua avventura con i Soft Machine. Che nel maggio ’75, senza di lui, tengono un leggendario concerto anche a Trieste, al Politeama Rossetti.

Ma la storia di Hopper va avanti. Collabora con Stomu Yamashta, con gli Isotope, con Carla Bley... E mantiene uno stretto rapporto con il sassofonista dei Soft Machine, Elton Dean, con cui suona spesso dal vivo e in sala d’incisione.

Ed è proprio con Dean, dopo vari anni segnati da lunghe pause artistiche e nuovi fermenti creativi, che Hopper nel 2002 tiene a battesimo l’esperienza, ”live” e discografica, denominata Soft Works. Con loro ci sono anche altri due musicisti che hanno incrociato nel corso delle varie formazioni l’epopea dei Soft Machine: John Marshall alla batteria e Allan Holdsworth alla chitarra.

Arriva anche un altro chitarrista della vecchia nidiata, John Etheridge, e il passo successivo s’intitola Soft Machine Legacy: rivisitazione di musiche dei tempi eroici ma anche nuove composizioni, come il pubblico regionale ebbe occasione di verificare tre anni fa a Udine. Un concerto che era arrivato pochi mesi dopo un altro lutto: nel febbraio 2006 era infatti morto Elton Dean.

L’ultimo progetto, oltre ad alcuni collaborazioni con musicisti giapponesi, era stato proprio nei Brainville 3 di cui si diceva all’inizio. Con Daevid Allen (che oltre ai Soft Machine ha legato il suo nome all’avventura chiamata Gong) e con Chris Cutler, il nostro aveva ripreso a mischiare jazz-rock, psichedelia, progressive.

Con l’urgenza mai spenta di sperimentare, di andare controcorrente, di non fermarsi mai alla soluzione più semplice. Fino alla malattia.

giovedì 11 giugno 2009

DEMETRIO STRATOS, TRENT'ANNI FA


Il  13 giugno di trent’anni fa moriva Demetrio Stratos, egiziano di nascita e milanese d’adozione, cantante e leader negli anni Sessanta dei Ribelli e nei Settanta degli Area, il più lucido e intrigante sperimentatore dell’umana vocalità. Quando morì a New York, dove si era recato nell’ultima speranza di guarigione dalla leucemia, Stratos aveva appena trentaquattro anni. Ma aveva già scritto a caratteri indelebili il proprio nome nella storia della musica italiana.

Nato nel ’45 ad Alessandria d’Egitto da genitori greci, Stratos giunge giovanissimo nella Milano degli anni Sessanta, dove con i Ribelli fa parte del Clan di Celentano. Fra tante cover di successi stranieri, «Pugni chiusi» è il maggior successo di una stagione breve, cui lui stesso pone fine dichiarandosi «stanco di vivere come uno zombie, scimmiottando Tom Jones».

Ma nell’Italia dei primi anni Settanta la musica è parte integrante della voglia di cambiamento che anima le giovani generazioni. In quell’Italia, in quella Milano nascono gli Area, punta di diamante di una ricerca musicale che rifugge gli schemi precostituiti mischiando rock, jazz, avanguardia, improvvisazione, musica etnica. Con un approccio alla vita e all’arte fortemente politicizzato, come dimostrano nel ’73 l’album d’esordio «Arbeit macht frei» (il lavoro rende liberi, scritta che campeggiava all’ingresso dei lager nazisti) e poi lavori sempre originali come «Caution Radiaton Area», «Crac!», «Are(a)zione» e «Maledetti», che è del ’77.

Gli Area vanno verso la musica totale, Demetrio intraprende la difficile strada del ricercatore solitario, che lo porta a esplorare i territori dell’avanguardia pura. Album solisti come «Metrodora», «Cantare la voce» e «Le milleuna» documentano un lavoro di sperimentazione vocale che sfiora i limiti dell’umano (la sua voce varca la soglia «impossibile» dei settemila hertz...).

Studiando e perfezionando una tecnica vocale originaria dei pastori mongoli, riesce a emettere le cosiddette diplofonie e triplofonie, cioè due o tre suoni vocali simultanei. Dopo la pubblicazione di «Anto/Logicamente», arriva «1978: Gli dei se ne vanno gli arrabbiati restano», ultimo, splendido capitolo della grande avventura degli Area con Stratos.

Che da parte sua, nel frattempo, sta lottando la battaglia più difficile: contro una rarissima forma di leucemia al midollo spinale che in pochi mesi ne spegne la forte fibra. In quella primavera del ’79, Demetrio era ancora convinto di potercela fare. Pochi giorni prima di partire per New York, parlava con gli amici di progetti, collaborazioni, scommesse giocate in un territorio sospeso fra musica e poesia. Ma anche a livello scientifico, considerata la collaborazione che aveva fatto in tempo ad avviare con l’Istituto di glottologia dell’Università di Padova.

Invece niente. Da quel viaggio Demetrio non fece ritorno. E all’indomani della sua scomparsa il mondo della musica italiana si ritrovò all’Arena Civica di Milano, davanti a sessantamila persone, in una serata organizzata per raccogliere i fondi necessari a pagare le costose cure ospedaliere, che si tramutò invece in un commosso ricordo.

Ricordarlo oggi, trent’anni dopo, significa rendere omaggio al personaggio forse più originale e intelligente della musica italiana degli anni Settanta, ma anche riconoscere l’importanza della sua lezione artistica per la scena musicale contemporanea. Il gusto per la contaminazione fra generi è sempre stato presente nel suo lavoro, sia con gli Area che come solista.

«La mia scommessa consiste nel mettere in comunicazione mondi che solo in apparenza sono lontani», ci aveva detto dopo un concerto con gli Area, nel ’77, a una Festa dell’Unità a Trieste. Dove aveva suonato altre volte. Anche il 12 giugno ’74, giusto venticinque anni fa, sempre con gli Area, nel parco del manicomio di San Giovanni. Nel pieno della rivoluzione basagliana che di lì a poco avrebbe portato alla sua chiusura.

La vicenda umana e artistica di Stratos viene oggi ricordata con varie iniziative. Segnaliamo ”Demetrio Stratos - Alla ricerca della voce-musica”, di Janete El Haouli (pagg.160, euro 23,50): libro ma anche cd di settanta minuti, che proponendo dieci brani tratti da otto album diversi ne documenta l’intero percorso artistico. Un percorso che rimane quanto mai vivo e vitale.

martedì 9 giugno 2009

MORGAN


Cinquanta minuti di ritardo, solito look mezzo dandy e mezzo vampiresco, sigaretta in bocca, Morgan arriva sul palco del Rossetti e comincia a trafficare con il computer appoggiato sul pianoforte nero, a mezzacoda, che sta al centro della scena.

Attacca con ”Canzone per te”, omaggio a Sergio Endrigo (”nato da queste parti...”), prima a Sanremo nel ’68. E ci mette poco per farsi perdonare la lunga attesa. Del resto, non si può pretendere: era partito da Milano alle sedici, e alle ventuno - ora prevista per l’inizio - era segnalato al casello dell’autostrada...

Potenza della televisione. Che trasforma vite, carriere, destini individuali e purtroppo anche collettivi.

Prendete l’eclettico musicista milanese (vero nome Marco Castoldi, classe 1972), già leader dei Bluvertigo e cantautore dalla vena sensibile nell’album ”Canzoni dell’appartamento” (suo primo album solista, uscito nel 2003). Fino a un paio d’anni fa era noto al grande pubblico forse più per essere stato il compagno di Asia Argento, da cui ha avuto una figlia, che per la sua pur brillante carriera artistica.

Poi è arrivata l’avventura di ”X Factor”, il talent show di Raidue nel quale il nostro, per due stagioni di fila, era caposquadra e giurato. E lì, settimana dopo settimana, litigata dopo litigata con le colleghe Simona Ventura e Mara Maionchi, l’eclettico musicista di nicchia si è trasformato in personaggio popolare. Ciliegina sulla torta: la relazione con un’ex velina, prontamente paparazzata sulle copertine dei periodici specializzati nel gossip.

Una conseguenza di siffatta mutazione televisiva è anche questo tour solista, ”Morgan piano solo”, che arriva a poche settimane di distanza dalla pubblicazione dell’album ”Italian Songbook vol.1”, nel quale il nostro si dedica a un’operazione meritoria: riarrangiare e rileggere una manciata di canzoni italiane di tanti anni fa, accomunate dal fatto di essere state cantate anche da artisti stranieri e di aver avuto successo anche all’estero.

Operazione di recupero, dunque, quasi pedagogica, che pesca fra Modugno e Paoli, Endrigo e Bindi... Rischiando solo di mettere fra parentesi (quel ”vol.1” promette o minaccia un seguito...) le doti compositive oltre che interpretative del nostro. Perchè quel suo ”Canzoni dell’appartamento”, ben più dei successivi ”Non al denaro, non all’amore, né al cielo” (rilettura del capolavoro di De Andrè) e ”Da A a A”, era in fondo un gran bel disco.

E infatti il primo applauso degno di questo nome a Trieste arriva per ”Altrove”, quella del verso ”ho deciso di perdermi nel mondo, anche se sprofondo...”, che stava in quel disco e che è forse la sua cosa migliore. Per l’occasione la intreccia con ”Nel blu dipinto di blu”, con effetto straniante.

”Ciao Trieste, gloriosa città di Umberto Saba...”. È una delle poche frasi di senso compiuto che pronuncia (il resto è cazzeggio...), in un concerto minimalista e intimista, quasi sperimentale, per voce, piano solo e basi. Alterna cose sue, dagli album citati, citazioni e cover di altri artisti. ”Prospettiva Nevski”, di Franco Battiato, è una delle riletture più originali e riuscite. Assieme a ”Vedrai vedrai”, che Luigi Tenco - ricorda Morgan - scrisse dedicandola alla madre, e non a una compagna di vita. In una selezione che spazia fra ”Balocchi e profumi” e ”Tutti frutti”, fra la sua ”L’assenzio” e digressioni di sperimentazione pianistica allo stato puro.

Il pubblico apprezza. Morgan, genio e sregolatezza, si conferma ottimo pianista e buon autore e interprete. Ma ha dovuto attendere la fama televisiva per riempire i teatri. A Trieste, Rossetti pieno (appunto...) e pubblico soddisfatto. Nonostante il ritardo.

domenica 7 giugno 2009

MOGOL  AUDIO 2


Giovanni Donzelli e Vincenzo Leomporro sono due musicisti napoletani, classe 1961, il cui nome forse non dice granchè al pubblico della musica leggera. Ma se aggiungiamo che assieme formano da quasi vent’anni gli Audio 2, beh, la musica cambia.

Qualcuno ricorderà allora che fu Mina, per prima, nel ’92, a cantare una loro canzone (”Neve”, brano di punta dell’album ”Sorelle Lumière”), prim’ancora del loro debutto, nel ’93, con l’album ”Audio 2”. Disco che creò curiosità perchè non c’erano foto degli artisti in copertina, e pure qualche polemica perchè sonorità e modo di cantare richiamava da vicino il marchio di fabbrica Mogol-Battisti. Qualcuno, nel sentirlo alla radio, pensò addirittura che si trattasse del nuovo lavoro del grande Lucio.

Passano gli anni. Battisti purtroppo non è più fra noi (anche se le canzoni che ci ha lasciato per fortuna vivranno per sempre...), gli Audio 2 vivacchiano fra altri dischi, qualche colonna sonora e un altro picco, legato ancora una volta a Mina: nell’album ”Mina Celentano”, campione di vendite nel ’98, firmano la splendida ”Acqua e sale”, di cui poi uscirà anche una versione in spagnolo con duetto fra Mina e Miguel Bosè.

Ma la musica, come la vita, a volte riserva sorprese che mai ti saresti aspettato. Per esempio una collaborazione fra quelli che erano dispregiativamente considerati ”i cloni di Battisti” e colui che con il cantante e autore di Poggio Bustone ha scritto alcune delle più belle canzoni della storia della musica leggera italiana: Giulio Rapetti Mogol (ormai il terzo non è più il nome d’arte, ma da qualche anno è stato aggiunto al nome vero anche all’anagrafe...).

L’album s’intitola ”MogolAudio2” (Carosello) è già l’aver voluto unire i due nomi nel titolo sta a dimostrare che alla base dell’operazione c’è qualcosa di più, di una semplice collaborazione fra un illustre autore di testi - il più grande e prolifico della musica leggera di casa nostra - e due cantanti e autori di musiche.

L’ha ammesso lo stesso Mogol, quando ha confessato di aver sentito per caso le musiche scritte dai due napoletani, che in passato aveva guardato con qualche sospetto (li aveva accusati «di aver costruito la propria carriera giocando sull’imitazione di Battisti»), restando invece affascinato dalla bellezza delle loro melodie.

Il risultato, va detto, è un grande disco di musica leggera. Dieci canzoni che parlano di affetti, di relazioni amicali, di rapporti fra un uomo e una donna. Mogol, prima e dopo Battisti, ha cucito spesso le sue liriche addosso alle musiche di altri autori, regalando grandi canzoni ai nostri migliori interpreti. Qui, da vecchi battistiani, possiamo chiudere gli occhi e far finta di credere al miracolo (apocrifo) di una manciata di nuove canzoni, figlie di quelle che la premiata coppia firmava trenta o quaranta anni fa. La poetica e le atmosfere sono quelle.

Fra i titoli: ”La voce di un amico” (omaggio a Celentano che però non viene citato esplicitamente, dopo che il Molleggiato si è sentito offeso e ha minacciato azioni legali: roba da matti...), ”Mister nessuno”, ”Questa sera l'universo”, ”Di notte Roma”, ”Il compromesso”...


FABRIZIO MORO


Ve lo ricordate Fabrizio Moro? È quel cantautore romano, di origini calabresi, che due anni fa vinse a Sanremo Giovani con la vibrante invettiva antimafia intitolata ”Pensa”. Ora torna a far parlare di sè con ”Barabba” (Warner), un disco di sole sei canzoni, fra le quali quella che dà il titolo al lavoro sembra ispirata dalle recenti vicende che hanno interessato Berlusconi e la diciottenne Noemi.

Sentite qua: ««Non si può avere le foto scandalistiche sui giornali, le tette di tua moglie al vento, proprio non si può portarsi a letto le ventenni quando hai settant’anni... Non si può, a meno che tu non sia il presidente del consiglio, o sua figlia o suo figlio, il ministro degli interni, o sua moglie e tutti i suoi fratelli, l'allenatore della nazionale o meglio ancora il cardinale Barabba...».

Una vera e propria invettiva contro un'Italia finita «nelle mani dei briganti», dove «i Barabba che ci governano stanno uccidendo la meritocrazia». Che sembra figlia della più recente attualità, ma che il cantautore giura di aver scritto cinque anni fa, dunque prim’ancora del suo successo sanremese.

«Berlusconi non c'entra, sarebbe come sparare sulla Croce Rossa», spiega Moro. «Il brano è rivolto alle figure istituzionali più importanti. Non l'abbiamo fatto uscire come singolo per evitare che mi accusassero di opportunismo. L'ho scritta cinque anni fa ma le cose sono sempre le stesse».

Sarà. Intanto ascoltiamo le sei canzoni del nuovo disco, prodotto assieme a Marco Falagiani, che descrive «una società dove devi essere raccomandato - dice Moro - anche per respirare. C'è solo una differenza, tra chi raccomandato ci nasce e chi la raccomandazione se la deve sudare».

Quella di Fabrizio Moro si conferma una voce contro, che ricorda un po’ quella di Rino Gaetano alla fine degli anni Settanta. «Esprimo disagi. Il sistema è sbagliato, ma la speranza non deve mai morire. Con ”Pensa” non pensavo di fermare la mafia. Sono un cantautore, non un politico, un salvatore. Il filo conduttore del disco è l'amore, che anche nel disagio sociale può darti serenità».


GIOVANNI BAGLIONI Essere figlio d’arte è compito facile e difficile al tempo stesso. Rapporti e opportunità su un piatto della bilancia, confronti e cognomi pesanti sull’altro. Immaginate poi se di cognome fai Baglioni e quando sei nato tuo padre ha scritto per te un classico come ”Avrai”...

Ma Giovanni Baglioni non canta, suona la chitarra. ”Anima meccanica” è il suo disco d'esordio e lo conferma come uno dei nomi più interessanti e originali nel panorama della chitarra acustica di casa nostra. L’album esce sulla scia del successo dal vivo. Propone dieci brani inediti dove il chitarrista dimostra una vena compositiva solida e personale, variegata nelle modalità e negli stili espressivi. Talento e tecnica sfociano in creazioni brillanti e dall'andamento sostenuto, mentre in altre occasioni l'ispirazione si fa meditativa o malinconica. «Get Up!» è il singolo di lancio. Gli altri brani sono «Pino», «Bloody Finger», «Sirena», «Anima Meccanica», «Rubik», «Quando cade una stella», «Bijoux», «L'Insonne» e «Dalla Cenere».


MOMO Nel Sanremo 2007 non c’era solo Fabrizio Moro, di cui parliamo qui a sinistra. Uno dei personaggi di quell’edizione fu senz’altro la stralunata Momo, nome d’arte della cantautrice romana Simona Cipollone. Fu lanciata dal Dopofestival di Piero Chiambretti con il brano ”Fondanela”. Ora torna con ”Stelle ai piedi”, libro e cd con perle come questa: «Quando si nasce, si nasce perfetti. È lungo la strada che cominciamo a perdere i pezzi». Oppure: «Io sono la bambina. La bambina che sorride sotto al cappello. Viviamo insieme. Lui di notte. Io di giorno. Se la giornata è fatta di ventiquattro ore, un senso ci sarà, no? Perché dovremmo sprecarne qualcuna? Le ore sono tutte uguali». O ancora: «Non è vero che il tempo passa, siamo noi che passiamo dentro di lui. E lo riempiamo di noi». Immaginifica, ironica e spesso irriverente, Momo propone tredici brani tra i quali c'è anche un piccolo omaggio a Francesco De Gregori: in ”A chi mi volle bene” ha infatti inserito una frase di un inedito del cantautore romano («sangue rosso di corallo come il giallo a maggio»). ”Autobiografia” è invece la sua prima canzone, scritta quando aveva sedici anni.

sabato 6 giugno 2009

SANTANA IL 14 LUGLIO A TRIESTE


«Trieste? Dov’è Trieste...?», chiede Carlos Santana al telefono dall’altra parte dell’oceano. E tu non trovi di meglio che cavartela col solito, banale ”...vicino Venezia».

Le istruzioni erano precise. Bisogna telefonare all’Hard Rock Hotel di Las Vegas, chiedere di tale ”Mr. Chad Wilson” alla tal stanza, e lui ti passerà nientepopodimeno che ”Mr. Santana” in persona.

Sì, il mito Santana che suona a Trieste, in piazza Unità, martedì 14 luglio. Una delle due date italiane (l’altra è il 15 luglio a Brescia) del suo tour mondiale partito nei giorni scorsi da Las Vegas, dove rimarrà fino al 14 giugno. Ogni sera un tutto esaurito, per questo ”Supernatural. A trip through the hits”.

«Trieste? No, non la conosco - ammette Santana dopo che la comunicazione è finalmente stabilita - e non so dove sia. Ma amo molto l’Italia e tutte le sue città: Roma, Milano, Venezia, Torino, Verona... Udine? No, non la conosco. Dice che ci ho suonato nell’estate 2006 allo stadio? Adesso forse ricordo. Sì, è un’altra città vicino Venezia...».

Non si può pretendere. La vita delle rockstar è così. Suoni in un posto, la sera dopo in un altro, e spesso non hai il tempo o la voglia di vedere qualcosa che non sia il luogo dove si svolge il concerto. Sempre così. Per anni, quando va bene per decenni.

E a Carlos Augusto Alves Santana è andata molto bene. Nell’estate di quarant’anni fa era solo un ragazzo di ventidue anni, emigrato negli Stati Uniti dal natio Messico, chitarrista di belle speranze ma pressocchè sconosciuto alla gran parte del mezzo milione di giovani che nel weekend di Ferragosto del ’69 se lo trovarono catapultato sul palco di Woodstock.

Fu uno di quelli ai quali la celebrata ”tre giorni di pace amore e musica” cambiò la vita. Aveva appena pubblicato ”Evil ways”, il suo album d’esordio, ma soprattutto con ”Abraxas”, uscito l’anno dopo, cominciò una carriera forte di ottanta milioni di dischi venduti, migliaia di concerti e tour in tutto il mondo, una fama che rasenta il mito.

«Di Woodstock - dice - ricordo soprattutto tanta gente giovane che sognava di cambiare il mondo, anche attraverso la musica. C’era la guerra nel Vietnam, e la protesta contro quella guerra si unì alla voglia di vivere la musica in una maniera diversa».

La sua carriera cominciò da lì.

«Ero un ragazzino, ma avevo già un contratto discografico ed era uscito il primo album. Anche se mi conoscevano in pochi. Fu il produttore Bill Graham che convinse gli organizzatori a farmi suonare. Con ”Soul sacrifice” conquistammo il pubblico. Sì, posso dire che tutto partì da lì».

Lei era emigrato dal Messico.

«La mia famiglia arrivò a San Francisco nel ’61. Io avevo quattordici anni. Suonavo già la chitarra. Eravamo una famiglia di musicisti. Mio padre era un violinista mariachi, anch’io cominciai da bambino con il violino, ma poi mi appassionai alla chitarra, al rock, alle nuove musiche che sentivo dalle stazioni radio americane».

Anche oggi tante persone, come allora la sua famiglia, cercano una vita migliore partendo...

«La storia dell’umanità è fatta di gente che parte alla ricerca di un luogo, di un lavoro, di una vita migliore. Ogni padre, ogni madre vogliono questo per i propri figli. E bisogna sempre rispettare la speranza che sta nel cuore di ogni persona, di ogni famiglia che parte alla ricerca di un futuro migliore».

Che spazio hanno la fede e la preghiera nella sua vita?

«Sono sempre state molto importanti. Anche da ragazzo ero molto molto religioso, molto attento alla spiritualità, ma è soprattutto con il passare degli anni che mi sono accorto che non può esserci felicità e pace senza fede e preghiera».

È vero che fra qualche anno vuole smettere di suonare e diventare sacerdote?

«Sì, l’ho detto. Ho detto che quando avrò sessantasette anni <CF101>(ora ne ha sessantadue - ndr)</CF> mi ritirerò dalla musica per dedicarmi completamente a Dio. Penso di poter comunicare anche senza la chitarra, penso di poter essere comunque utile alla gente anche senza la musica. Ma poi non lo so, se riuscirò davvero in questo intento».

Nel frattempo con la Fondazione Milagro lei è già utile a tanta gente...

«Sì, l’ho fondata anni fa per aiutare i bambini poveri di tutto il mondo. Ma anche gli indiani nativi, gli ex detenuti, i disadattati. E in ogni mio concerto, un dollaro di ogni biglietto venduto va a questa fondazione. So di essere una persona fortunata, e so che devo fare qualcosa per aiutare chi è meno fortunato».

Cosa pensa del presidente Obama?

«Penso che abbia cominciato benissimo il suo mandato. Gli Stati Uniti devono ripartire da zero dopo gli otto anni della presidenza Bush. Non è con le guerre che si risolvono i problemi del mondo. Il lavoro che aspetta Obama non è facile, ma anche nel recente viaggio in Medio Oriente ha detto cose che nessun presidente degli Stati Uniti non aveva mai detto. Sognare un mondo senza guerre è giusto. Dobbiamo immaginare un mondo, come cantava John Lennon, in cui tutti i popoli vivano in pace...».

Mister Santana, cosa suonerà a Trieste?

«Tutta la mia musica. Tutti i miei successi. Lo dice anche il titolo del tour: un viaggio attraverso i miei successi...».

Dopo le tante repliche al ”Joint” dell’Hard Rock Hotel & Casinò di Las Vegas, il tour di Carlos Santana riparte dall’Europa il 4 luglio: Bucarest, Istanbul, Atene, Skopje, Belgrado, il festival croato di Varazdin. Dopo Trieste - come si diceva il 14 luglio - e Brescia, tappe in Austria e in Germania.

Del gruppo di Santana fanno parte Chester Thompson (tastiere), Karl Perazzo (timbales), Benny Rietveld (basso), Dennis Chambers (batteria), Raul Rekow (conga), Andy Vargas e Tony Lindsay (voci), Tommy Anthony (chitarra ritmica), Jeff Cressman (trombone) e Bill Ortiz (tromba).