martedì 30 marzo 2004

VASCO! Un nuovo alb...

VASCO!
Un nuovo album, intitolato «Buoni o cattivi», che esce venerdì. Un nuovo megatour, che debutta il 5 giugno allo Stadio Olimpico di Roma, e che farà tappa il 17 giugno allo Stadio Friuli di Udine (e il 24 a quello di Verona). Vasco Rossi ritorna e lo fa alla sua maniera. Non le manda a dire. Non si tira indietro nella critica a «una società che guarda sempre di più all'apparire e meno alla sostanza e nella quale le libertà individuali e i diritti umani vengono schiacciati dagli imperativi categorici della ragion di stato».
Dodici canzoni nuove, in bilico fra espressione di forza e ammissione di fragilità. «Si può spegnere ogni tanto il pensiero - canta il rocker di Zocca nel brano che apre e dà il titolo al cd, che arriva a tre anni da ”Stupido Hotel” e a uno e mezzo dalla raccolta ”Tracks” - smettere almeno di crederci per davvero, e non essere più schiavi per lo meno di un'idea come di un'altra, di un mistero...».
Venticinque anni di carriera e venti di successo non hanno fiaccato la voglia di ribellione. «Come stai, ti distingui dal luogo comune - canta in ”Come stai” - ti piace vivere come sei e vuoi rispondere solo a te. Come stai, ti distingui dall'uomo comune, ti piace vivere come vuoi e rispondi solo a te. Tu non li capisci ma tutti lo sai hanno messo la testa a posto...».
Poche certezze, nella filosofia del Vasco, tanti dubbi e altrettante insofferenze: «Hai mai dei guai per quello che sei - canta in ”Hai mai” - hai mai dei guai per quello che fai. Tu non puoi distrarti solo quando vuoi tu. Io non mi accontento io voglio di più. E chi dice che è facile, guarda qui, un uomo è così. Se fosse così semplice non sarei ancora qui. Io non mi voglio arrendere...». Un altro brano, «Non basta niente»: «Ogni tanto guardo intorno a me, a quello che c'è, se poi davvero è proprio tutto così, se è tutto qui...».
Sopravvive il Vasco ironico. «Ho allacciato con te - canta in ”Dimenticarsi” - ho allacciato un discorso. Sono cambiato per te e ora sono diverso. Ho passato con te, ho passato un inferno...». Quello disilluso, quasi disperato: «Non ho tempo oramai per fare tutti quei discorsi - confessa in ”Cosa vuoi da me” - Sono talmente disperato che spero che il cielo tramonti...». Ma anche quello autoironico: «Ma sì che sono io, e l'anima la vedi, oggi mi sento un dio, domani non sto in piedi. Dammi una mano senorita e mettila qua...» («Senorita»).
Ma il manifesto è in «Un senso», appena sentito nella colonna sonora del film di Castellitto «Non ti muovere»: «Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l'ha. Voglio trovare un senso a questa condizione, anche se questa condizione un senso non ce l'ha. Voglio trovare un senso a tante cose, anche se tante cose un senso non ce l'ha...».
Fra gli altri brani, la ballata «Anymore» e l’energica «Rock’n’roll show». In un disco registrato tra Bologna e Los Angeles, presentato ieri al Gruppo Abele di Torino. Dove Don Ciotti lo ha definito «uomo dell’incontro». E dove lui ha detto: «Ho ascoltato i cantautori ma poi ho rotto con gli schemi tradizionali, mi sono creato uno stile mio. Parlo di rabbie, frustrazioni, trasmetto le emozioni che sento. Mi esprimo per sensazioni, mi piace svelare le bugie, le ipocrisie che abbiamo tutti».

mercoledì 24 marzo 2004

�Alla base del nostr...

«Alla base del nostro incontro c’è il desiderio di fare canzoni, di fare musica assieme. Sposando culture musicali diverse. E tanto ci basta...».
Peppe Servillo, cantante degli Avion Travel, parla così del suo incontro con gli italoargentini Javier Girotto e Natalio Mangalavite. Assieme hanno fatto un disco, intitolato «L’amico di Cordoba», uscito proprio in questi giorni, e un sacco di concerti: uno dei quali, domani alle 21, al Teatro Miela di Trieste.
«Tutto è cominciato - spiega l’artista casertano - alcuni anni fa, quando ogni tanto ero ospite del gruppo del jazzista Roberto Gatto. In quell’occasione ho conosciuto Girotto, argentino di origini pugliesi, gran suonatore di sax, clarinetto e flauti andini. Lui era tornato in Italia nei primi anni Novanta, collaborando con vari musicisti, e poi fondando il gruppo Aires Tango: sette dischi per coniugare le ragioni del tango con quelle del jazz e della musica etnica».
«La storia di Natalio Mangalavite - prosegue Servillo - è diversa ma ha alcuni tratti comuni. Anche lui come Girotto è nato a Cordoba, anche lui di origine italiana come tantissimi in Argentina: i suoi nonni erano siciliani. Lui vive in Europa da quasi vent’anni e da un po’ sta in Italia. Ha suonato con tantissimi nel campo del jazz e del pop, accompagnando per molti anni Ornella Vanoni».
«L’estate scorsa abbiamo cominciato a suonare noi tre: voce, pianoforte e fiati. Ed è così nato questo ”Progetto Gsm”, acronimo delle nostre iniziali, che ha già dato vita a un disco: l’abbiamo registrato a dicembre quasi in diretta, con pochi mezzi, come nella miglior tradizione del tango, e così siamo riusciti anche a metterlo in vendita a un prezzo assai contenuto».
«Il rapporto fra la nostra canzone e il loro tango? Beh, credo che la musica argentina - riflette il cantante - sia in qualche modo debitrice anche nei confronti della musica popolare italiana. Per Javier e Natalio è una sorta di viaggio di ritorno, che permette loro di mettere in luce elementi che si sono difesi dalla contaminazione culturale e musicale».
«E poi - conclude Servillo - mi piace l’assoluta semplicità della nostra proposta, che permette la giusta valorizzazione delle melodie e dei testi. A volta, quando suoniamo, non mi sembra di essere soltanto in tre sul palco. Perchè la nostra semplicità non va mai a scapito della ricchezza degli arrangiamenti, dell’orchestrazione...».
Insomma, radici italiane e argentine che si incontrano, Piazzolla ma anche Jobim, per un repertorio con «doppia cittadinanza»: latinoamericana ed europea.
Un ultimo dubbio. Servillo con questo nuovo trio, Mario Tronco con l’Orchestra di Piazza Vittorio: non è che gli Avion Travel si stanno perdendo per strada...? «No, assolutamente - rassicura Peppe Servillo - stiamo assieme da vent’anni, e ogni tanto c’è bisogno di nuove esperienze. Dipende sempre con che spirito si fanno le altre cose. E poi è appena uscito il disco degli Avion Travel in Francia. Il 6 e 7 aprile andiamo a Parigi a presentarlo...».

lunedì 22 marzo 2004

Claudio Baglioni tor...

Claudio Baglioni torna domani sera in regione, per un concerto al palasport di Pordenone, a quattro mesi di distanza dal trionfo del PalaTrieste. Il tour «Crescendo» è quello che, dopo i 320 mila spettatori in otto sere dell’estate scorsa - 120 metri di palco, sei musicisti e un'orchestra di 33 elementi, 34 ballerini e più di 300 performer - prometteva una dimensione «più raccolta, essenziale, intima».
I quattromila che a dicembre hanno assistito allo show triestino sanno però che il cantautore romano fa ancora una volta le cose in grande. Lo show propone infatti un palcoscenico-casa su quattro livelli, che corrispondono ad altrettante fasi. Per raccontare in tre ore trentacinque anni di carriera Baglioni ha immaginato gli spartani esordi in una cantina, poi il primo trasloco in un comodo appartamento, il secondo in una terrazza-tetto e infine l’«ascesa in cielo», o giù di lì, con i cavalli di battaglia.
A ogni livello scende dall’alto un palco: struttura semplice ma complessa. In un gran via vai di «addetti ai traslochi», tanti oggetti caratterizzano le varie fasi: un vecchio registratore che diventa proiettore, un baule da cui poi escono le bolle, un telescopio che diventa faro per illuminare il pubblico, e ancora il tavolo, la cucina, la scala, il camino...
Le canzoni delle varie fasi non sono coetanee dei diversi momenti storici: l’assemblaggio è tematico, avvicinando anche brani di anni lontani. Di solito attacca dal solo con «Yesterday», dei Beatles: musica classica del Novecento, che gli serve per ricordare i tempi degli esordi in cantina, negli anni Sessanta.
Poi mette in fila «Noi no» e «Dagli il via», «Quanto ti voglio» e «Fotografie» (con il quintetto d’archi, per quattro quinti femminile), «Ragazze dell’Est», «Bolero», «Tienimi con te». Ma anche, quasi a voler indicare un passaggio verso un futuro migliore e allora solo sognato, quella «Di là dal ponte» che sta nell’ultimo disco «Sono io, l’uomo della storia accanto».
Nella fase «comoda» dell’appartamento canta «Notte di note» e «Quante volte», «Serenata in sol» e «Mai più come te», «Domani mai» e «E adesso la pubblicità»... Finale sul tetto, in una terrazza che è una citazione beatlesiana, per cantare «Acqua dalla luna», «Avrai», «Ninna nanna nanna ninna», «Tutto in un abbraccio», «Grand’uomo», «E tu». Rimane il tempo per le stelle, con i classicissimi «Amore bello», «Strada facendo», ovviamente «Questo piccolo grande amore», «Cuore di aliante», il medley con «Poster», «Solo», «E tu come stai», «Io me ne andrei»...

domenica 21 marzo 2004

...legami le mani le...

...legami le mani legami con doppi nodi all'anima, porta la mia vita a correre da qualche parte, stancala... (mario venuti)

sabato 20 marzo 2004

Stasera a Reggio Emi...

Stasera a Reggio Emilia, domani a Milano, martedì al «Nuovo» di Udine. Il tour mondiale di David Byrne comincia dall’Italia, a conferma dell’amore del musicista scozzese (ma newyorkese d’adozione) per il nostro Paese. «Partirò il primo giorno di primavera - ha detto l’ex Talking Heads, classe 1952 - e a quella serata seguirà un lungo viaggio nel vostro Paese». Infatti, dopo la tappa nel Friuli Venezia Giulia, sono previsti concerti anche a Roma, Catania, Torino...
Musicista, ma anche regista («True stories»...) e fotografo (come i triestini ricordano bene, visto che ha tenuto delle mostre al Museo Revoltella e alla Galleria Lipanje Puntin...), Byrne ha appena pubblicato il disco «Grown Backwards». Saranno dunque i brani del nuovo disco a fare da fulcro alla scaletta dei concerti italiani. Ma conoscendolo, non mancheranno brani dei Talking Heads e della sua carriera solista, fra cui quelli del recente «Look Into The Eyeball».
La nuova produzione è parsa ad alcuni un ritorno al passato. Un’impressione confermata e per certi versi spiegata da questa dichiarazione dell’artista: «A volte si va avanti guardando indietro...».
Ma nel passato di Byrne, restando all’ambito musicale, ci sono moltissime cose. Con le sue «Teste Parlanti», a cavallo fra gli ultimi anni Settanta e l’alba degli Ottanta, ha coniugato con nevrotica intelligenza e indiscutibile genialità rock, funky e new wave (manifesto di quel periodo, l’insuperato «Remain in light»). Poi si è innamorato delle contaminazioni etniche e in particolare dei ritmi latinoamericani (soprattutto con un disco-capolavoro come «Rei Momo»). Successivamente ha vissuto anche lui il suo periodo votato all'elettronica (con l’album «Feelings»).
Ora, forte di una semplicità difficile a farsi, si fa strada una linea musicale limpida, attenta alla melodia più che alla ritmica, a tratti quasi beatlesiana. Quasi un «periodo romantico», come dimostrano i due omaggi nel disco alla lirica di Georges Bizet e Giuseppe Verdi, riguardo ai quali l'artista dice: «Sono convinto di una cosa: la canzone pop moderna deve molto all'opera, in termini di ruolo sociale e struttura. L'opera, ai tempi di quando veniva scritta, era come le canzoni oggi: veniva cantata per la strada, dalla gente».
Ancora Byrne: «Ogni canzone parla dell'amore tra un uomo e una donna e affronta altri argomenti del genere. È un disco romantico in quanto parla della necessità di gustarsi il mondo, di vivere la vita e trarne piacere. Questo è un lavoro molto diverso dal precedente: è passato un po' di tempo e credo che quest'album rappresenti esattamente il punto dove mi trovo ora».
Con David Byrne, ovviamente voce e chitarra, sul palco in questi concerti italiani (e al «Nuovo», martedì alle 20.45) ci saranno Paul Frazier al basso, Mauro Refosco alle percussioni, Graham Hawthorne alla batteria e il sestetto d'archi Tosca Strings Ensemble (tre violini, una viola, due violoncelli).

mercoledì 17 marzo 2004

Bambine di sette-ott...

Bambine di sette-otto anni al primo concerto della vita, felici ma anche un po’ intimorite, con l’emozione negli occhi per quell’idolo che almeno per una sera è così vicino. E canzoni intere cantate in coro, scritte vergate su artigianali cartelloni («6 grande...»), videotelefonini funzionanti a pieno regime, un’atmosfera da «festa di fine anno nella palestra della scuola».
Anche questo è il concerto di Nek, visto l’altra sera in un Politeama Rossetti affollatissimo soprattutto di bambini e giovanissimi. Sì, la presenza fra il pubblico di mini-fan in età da elementari (altro che cantante per teen-ager...) è quel che resta maggiormente impresso a fine serata. E ciò senza nulla togliere alla bravura della popstar di Sassuolo e della band che lo affianca. I cantanti amati dai giovanissimi sono sempre esistiti, ma una volta, non troppo tempo fa, la stagione del primo concerto fioriva verso i 14-15 anni. Ora arriva molto prima.
Lui, Filippo Neviani in arte Nek, bello quanto basta per far sognare mamme e figlie (sì, perchè ci sono anche certe madri, che meriterebbero un discorso a parte...), ci mette del suo per trasformare lo spettacolo in un’entusiasmante bolgia. Dopo appena tre canzoni («Dimmi cos’è», «Le cose da difendere» e «Sul treno»), butta lì con aria indifferente: «A me piacerebbe vedere il teatro tutto in piedi...».
È un attimo. Per la gioia soprattutto di chi ha sborsato una trentina abbondante di euro (comprensiva dei famigerati diritti di prevendita) pur di assicurarsi i posti migliori, la zona a ridosso del palcoscenico si trasforma in un bollente catino: tutti in piedi come ha chiesto «Lui», a cantare e ballare e battere le mani...
Le canzoni più applaudite sono «Almeno stavolta» (e ai bimbi poco importa che somigli un sacco a «Still waiting», dei canadesi Sum 41...), «Ci sei tu», «Parliamo al singolare», «Sei grande»... Un urlo particolare arriva con «Fatti amare», non tanto per la canzone, quanto perchè è lì che il «ragazzuòlo» si toglie il giubbino di pelle, rimane in t-shirt attillata con tatuaggi in bella mostra, e accenna pure qualche gesto allusivo.
Nella serata non può mancare il brano da cui tutta la storia di Nek è cominciata, a un Sanremo Giovani del ’93: «In te», quello delle «mani cucciole», al tempo criticata da molti perchè letta in chiave antiabortista. E nel finale ovviamente arriva anche il turno di «Laura non c’è», ovvero il brano che ha trasformato Nek da cantante di successo solo nazionale in popstar di livello internazionale. «Se io non avessi te», «L’anno zero» (che dà il titolo all’ultimo disco, raccolta di successi più inediti) e «Se una regola c’è» completano la scaletta, prima del rituale dei bis: «Tutto di te», «Sei solo tu», di nuovo «Almeno stavolta»...
Insomma, alla prova dal vivo la ricetta dimostra di funzionare ancora perfettamente. Melodie orecchiabili, pop-rock ben cantato e ben suonato, testi vicini alle corde dei giovanissimi. E senza dimenticare il retaggio di quella certa passionaccia - di Nek da ragazzo - per i Police e soprattutto per Sting.
A Trieste, come detto, successo trionfale. E poi presto, tutti a casa, che domattina c’è da andare a scuola...

domenica 7 marzo 2004

Si può vivere, anzi,...

Si può vivere, anzi, si deve vivere senza Sanremo. Sembrerà una banalità, un dato di fatto già acquisito per milioni e milioni di persone, ma a nostro
avviso è l’insegnamento che ci lascia la 54.a edizione del (da molti anni
sedicente) Festival della canzone italiana per l’appunto di Sanremo.
Che la miglior musica di casa nostra non facesse più tappa nella città dei
fiori (dove comunque, ogni tanto, qualche gran canzone c’è stata, anche di
recente...), lo si sapeva da un pezzo. Che nella settimana festivaliera si
celebrasse da anni il nulla, lo ripetevamo da tanto. Insomma, che Sanremo
fosse soltanto uno spettacolo televisivo con la scusa delle canzoni, era
sotto gli occhi di tutti quelli che lo volevano vedere.
Ora sappiamo che la vecchia «balena bianca» della canzone (che peraltro è
durata qualche anno più della Dc...) non esiste più, è morta, defunta, forse
proprio perchè quella di Sanremo è un’Italia che non c’è più. Ma non c’è da
rallegrarsi, se è vero com’è vero che è stata sostituita da un Paese se
possibile ancor peggiore, ben simboleggiato da quel «Grande fratello» che
giovedì sera ha operato lo storico sorpasso di ascolti. E alla stessa
maniera in cui, dopo averla per anni criticata, molti sono oggi costretti a
rimpiangere la Dc, potrebbe anche darsi che un giorno, e forse anche prima
del previsto, qualcuno si ritrovi a rimpiangere il Sanremo che fu...
Tony Renis - già amico di mafiosi, ma quel che è più importante amico di
Berlusconi, che come tutti i potenti, fra le prime cose che fa, sistema gli
amici - da novello direttore artistico aveva promesso mari e monti: vi porto
Mina e Celentano, e Ramazzotti, e poi mezza Hollywood, tanto io basta che
alzi il telefono... E poi, visto che quei cattivoni delle grandi case
discografiche mi boicottano, sapete che faccio, io metto al centro del
festival la qualità delle canzoni. Solo grandi canzoni nel mio festival.
Sarà un grandissimo festival. Si è visto poi com’è finita.
Celentano è stato recuperato in extremis. Delle star nemmeno l’ombra, da
Hollywood è arrivato solo Dustin Hoffman, e a momenti gli facevano leggere
anche il telegiornale... Il livello qualitativo delle canzoni è stato medio
basso, di certo inferiore a quello dell’anno scorso (Cammariere, Britti,
D’Angelo, Giuni Russo, la stessa vincitrice Alexia...). Dal piattume di un
festival più vicino a Castrocaro che a Sanremo, si sono salvati in pochi:
Neffa, Mario Venuti (premio della critica), e poi Bungaro, Pacifico, Omar
Pedrini, forse Mingardi. Stop.
Simona Ventura (che quando le cose non vanno bene sa anche essere
arrogantina...) e la sua banda, con il rinforzo della strepitosa Paola
Cortellesi, hanno fatto quello che sanno fare: cioè «Quelli che Sanremo». La
formula - fresca, spigliata, ironica e autoironica, grazie soprattutto a
Gnocchi e Crozza - funziona la domenica pomeriggio su Raidue. Quasi meglio
ora che con l’inventore Fazio. Ma una cosa è una volta per settimana per un
pubblico che cerca e vuole quello. Altro è sciropparla per cinque sere di
fila, dalle nove a mezzanotte. Meglio della liturgia baudiana, certo, ma
perchè nella vita bisogna sempre soffrire...
Sanremo ha perso il suo zoccolo duro di spettatori, formato da persone
adulte e soprattutto anziane (che non a caso sono tornate all’ovile venerdì,
nella serata del revival...). Ma non ha guadagnato i giovani, che non
guardano la televisione, o se la guardano preferiscono - purtroppo - i
cervelli all’ammasso dei «reality show»: grandi fratelli, isole dei famosi,
talpe, bisturi e pivetti e tivù spazzatura di quella risma. Insomma, un cast
e una formula troppo nuovi per i tradizionalisti, ma non abbastanza vicino
ai gusti dei giovanissimi.
Appena ha visto la mala parata, Mister Quando Quando Quando ha detto: se i
dischi venderanno, avremo vinto. Il trucco è già pronto. Per la prima volta
la compilation del festival è in vendita anche nelle edicole, col potente
traino di «Sorrisi e Canzoni» (a tredici euro e 90, mentre quella taroccata
a Napoli la spacciano già a tre euro...). Perchè Sanremo è Sanremo. O almeno
lo era.

Disintossicarsi da S...

Disintossicarsi da Sanremo e magari anche dalla televisione? Si può.
Magari andando a vedere un concerto di Gianni Morandi, come hanno fatto i
triestini (anzi, soprattutto le triestine...) che hanno gremito ieri sera il
Politeama Rossetti - si replica oggi - e gli udinesi (le udinesi...) che
l’altra sera affollavano il palasport friulano.
Erano tre anni che il Gianni nazionale non arrivava in tour da queste parti.
Nel frattempo ha fatto un disco nuovo, «L’amore ci cambia la vita», e uno
show televisivo del sabato sera. Per un po’ se n’è stato in disparte. Giusto
il tempo per farsi tornare la voglia di avere un pubblico davanti, in un
teatro.
Per l’ennesimo spettacolo, per l’ennesimo tour, stavolta si è inventato un
recital cantato e raccontato in maniera confidenziale, un concerto acustico
in cui, fra una canzone e l’altra, dialoga con una sorta di suo alter ego,
Gianluigi (lo sapevate che è questo il suo vero nome...?), su temi svariati:
dal successo che in una breve fase della sua quarantennale carriera non
c’era più (ed ecco che da quel periodo arriva la malinconica «Canzoni
stonate») all’amore, dagli acciacchi dell’età al mito americano, dal
rispetto per le persone «che vanno più lentamente» alla tivù spazzatura. Con
lui, su un palco arredato da una poltrona bianca e una lampada, Adriano
Martino alla chitarra acustica (figlio del grande Bruno Martino), Alessandro
Gwis al pianoforte e la cantante Federica Camba.
Morandi attacca con «L’amore ci cambia la vita» (con le basi preregistrate),
che poi chiuderà anche lo spettacolo come ultimo bis. E nel corso dei due
tempi infila diverse canzoni dell’ultimo disco: «L’amante» e «Abbracciami»,
«Una vita normale» e «Il mio amico» (dedicato a un ragazzo down), «Dimmi
adesso con chi sei» e «Questo grande pasticcio»...
Poi ci sono i successi, diciamo così, recenti ma non antichi: «Io sono un
treno» e «Grazie perchè», «Vita» e «Bella signora», «Fino alla fine del
mondo» e «In amore» (Sanremo ’95), «La storia mia con te», «Banane e
lampone», «Uno su mille ce la fa» (anno ’85, che chiude la scaletta prima
dei bis)...
Ma come sempre accade, la gente ha pagato il biglietto soprattutto per le
vecchie canzoni. E infatti, anche in questo spettacolo, come in tutti quelli
passati, gli applausi più forti e le strofe cantate in coro arrivano con «Se
perdo anche te» (anno 1967, versione italiana di «Solitary man», ballata di
Neil Diamond), con «Un mondo d’amore», con «Occhi di ragazza», con «Se non
avessi più te», con l’immancabile «C’era un ragazzo che come me amava i
Beatles e i Rolling Stones»...
Un’altra manciata di classici è in serbo per i bis: «La fisarmonica» e «Non
son degno di te», «In ginocchio da te» (che nel ’64 era destinata a fare il
«lato b»...) e «Scende la pioggia». Ma prima di infilare il gran finale,
nell’ennesimo dialogo autoironico fra Gianni e Gianluigi, spunta quello che
probabilmente è il pensiero fisso di Morandi da un po’ di tempo a questa
parte: «Ma quanto hai intenzione di andare ancora avanti?», chiede più o
meno l’alter ego al protagonista. Che non perde occasione per far
riferimento alla propria età...
Sì, a dicembre Morandi fa sessant’anni. Ma oltre alla strepitosa e
invidiabile forma fisica, sembra aver ancora voglia di fare e curiosità da
vendere. L’ennesimo trionfo triestino, ieri sera, ne è solo una della
conferme.

NEFFA. Quadretto swi...

NEFFA. Quadretto swing a tinte lievi. Garbato, elegante, lieve. Appena due
minuti ma di qualità. Che migliorano con gli ascolti. 7+


PAOLO MENEGUZZI. Sulla falsariga di Tiziano Ferro, ma meno ispirato.
Potenziale tormentone che piacerà ai giovanissimi. Ma è debole. 5


DB BOULEVARD. Pop-rock esilino, con richiami a certi gruppi inglesi di tendenza. Ma Bill Wyman è come se non ci fosse. 5/6


STEFANO PICCHI. Tema originale ma brano presentuoso e tutto sommato
sgradevole. 4


SIMONE. Ancora indeciso se seguire le orme di Vasco o quelle di Grignani.
Per ora si arrabatta senza troppa personalità. 5


OMAR PEDRINI. Rock malinconico, di buon spessore e di un certo fascino. Testo non banale. 7


LINDA. La miglior donna del Festival. Peccato siano solo due... Voce nera,
da risentire. Buona presenza. Canzone così così. 5/6


PACIFICO. Elegante ballad che si dipana su un intrigante tessuto elettronico. Avesse anche un po’ più di personalità sul palco... 7


PIOTTA. Hip hop de noantri. Ieri supercafone, oggi romantico. Continua a
lasciarci perplessi. 5


DANNY LOSITO. Spigliato, spiritoso, dotato di motivo orecchiabile. Ma non
sfrutta le Las Ketchup... 5/6


MORRIS ALBERT. Zuccheroso lui, zuccherosa Mietta, melenso il brano.
«Feeling» stava su un altro pianeta. Eppure piace ai televotanti... 4


MARCO MASINI. Anche se la canzone non è memorabile, merita un occhio di
riguardo per quello che gli hanno fatto passare con la storia del
portajella. 5/6


DANIELE GROFF. Melodico moderno, leggero, pulitino, quasi ascoltabile. 5/6


BUNGARO. Crepuscolare, sognante, nella tradizione della miglior canzone
melodica. 7


DJ FRANCESCO. Ricorda il Jovanotti delle origini, quasi irritante, ma
piacerà ai bambini. E ci martellerà i timpani per mesi. 4


VERUSKA. Avrà anche il testo di Mogol, ma non lascia traccia. 4


MARIO VENUTI. Elegante, avvolgente, con una melodia di ampio respiro. E un
inciso che rimane ben impresso. Il migliore assieme a Neffa. 7+


ANDREA MINGARDI. Trascinante, grazie anche ai Blues Brothers, non originale
ma divertente. 6/7


MARIO ROSINI. È un raffinato pianista jazz, ma qui sembra un
tradizionalissimo Gigi D’Alessio stanco. 5


ADRIANO PAPPALARDO. Fa un minishow televisivo. All’insegna dell’effetto,
dell’aggressività, dell’irruenza. 5


ANDRE’. Ballata sentimentale deboluccia, incerta, quasi retorica.
Giovanissimo ma assolutamente tradizionale. 5


MASSIMO MODUGNO. Con quel cognome dovrebbe presentarsi solo con brano e
interpretazione all’altezza. Non basta l’arrangiamento spagnoleggiante dei
Gipsy Kings. 5

Seconda serata del 5...

Seconda serata del 54° Festival di Sanremo nel segno di Dustin Hoffman.
Arriva pochi minuti dopo le ventidue, accolto da una standing ovation.
Insomma, dopo tanti forfait, finalmente una star. Di quelle vere. Anche se
quando Simona (anzi, chiamiamola anche noi «Mona», come fa Paola
Cortellesi...) Ventura lo annuncia, prima di vederlo in primo piano, hai il
dubbio se entra quello vero o Maurizio Crozza, che purtroppo ieri sera non
s’è visto.
«Mona» cerca disgrazie: «Prima di venire qui, conoscevi il Festival di
Sanremo?». Prima risposta: «No». Poi: «Sì, no, sì...». Una risata e un
applauso chiudono la questione. Poi, perfida: «Ma tu a Hollywood hai mai
conosciuto un certo Tony Renis?». La gag è ovviamente preparata, Dustin sta
al gioco, si fa fare lo spelling del nome, poi sentenzia: «No, non
esiste...». La scenataccia di gelosia messa in scena con una strepitosa
Paola Cortellesi nei panni dell’amante abbandonata («Dustin, dietro questa
bomba sexy c’è una donna... paga almeno il conto del motel...») è la
ciliegina sulla torta.
Prima dell’attore americano, che nel corso della serata fa una seconda
uscita in coppia con Gene Gnocchi, le cose sono andate nel solco tracciato
la sera prima. Ventura più rilassata, rinfrancata dai dati Auditel. Anche se
apre con una mezza gaffe quando legge la classifica provvisoria con Marco
Masini in testa: «Di solito il favorito porta sfortuna», dice, ritornando
così sulle voci che hanno quasi rovinato la carriera del cantante toscano.
I mini-filmati di Gene Gnocchi, con le star che annunciano i cantanti,
mostrano ormai la corda: al primo sorridi, al ventesimo la misura è colma
già da un pezzo... Del resto, la formula «Quelli che il calcio» applicata a
Sanremo è la costante di questa edizione, nel bene e nel male.
Ma vediamo i rimanenti undici cantanti in gara. Andrè con i suoi sedici anni
è il più giovane: «Il nostro amore» è una ballata sentimentale deboluccia,
incerta, quasi retorica nel testo. Forse piacerà alle ragazzine, ma solo
perchè è un bel ragazzo. Sorrisi per il filmato di Gnocchi dove si scopre
che in realtà Andrè è Mino Reitano con una maschera...
Tutt’altra musica con Adriano Pappalardo. Il grande vecchio spara «Nessun
consiglio», una canzone che è un inno alla vita, all’uomo che non deve
chiedere mai. Un minishow televisivo all’insegna dell’effetto,
dell’irruenza, dell’aggressività. Pessimo e perfetto al tempo stesso.
Atmosfera più rilassata con Mario Rosini. Ha fama di raffinato pianista
jazz, ma con «Sei la mia vita» sembra più un Gigi D’Alessio stanco. Che non
lascia traccia. Dopo l’esibizione dimentica il codice per il televoto che
tutti i cantanti, sollecitati da «Mona» Ventura, ricordano al popolo. Lo
soccorre Gene Gnocchi: «So che è a barre...».
È il turno di Massimo Modugno. Il supporto di due Gipsy Kings non basta a
trasformare la sua «Quando l’aria mi sfiora», dai toni spagnoleggianti, in
una canzone degna di nota. Discorso diverso ma analogo per Simone: ispirarsi
a Vasco Rossi (e averne sentito le canzoni quando la mamma lo accompagnava a
scuola...) non è sufficiente a far decollare «E’ stato molto tempo fa».
Meglio Omar Pedrini. L’ex cantante dei Timoria canta «Lavoro inutile», rock
malinconico, di buon spessore e di un certo fascino.
È il turno di Linda, l’altra donna del Festival di quest’anno. Pesca nella
musica nera, ha un bel vocione stile Anastacia (vabbè, non esageriamo...),
«Aria sole terra mare» le permette comunque di vincere il confronto con
l’inutile Veruska della sera prima. Le cose migliorano con Pacifico: «Solo
un sogno» è un’elegante ballad che si dipana su un intrigante tessuto
elettronico. Lui sembra timidino, emozionato, ma lascia il segno.
Hanno completato la serata - oltre agli ospiti: gli Aventura e la rumena
Haiduchi - il melodico Daniele Groff («Sei un miracolo»), l’ex supercafone e
modesto Piotta («Ladro di te»), il crepuscolare Bungaro («Guardastelle»).

Le note di �Quando q...

Le note di «Quando quando quando» rilette dalla grande orchestra,
scenografia e balletto in perfetto stile Las Vegas (o Nova Gorica, a seconda
dei gusti e dei riferimenti geografici...), luci ed effetti da pretenziosa
discoteca padana, ovviamente i fiori. E poi Simona Ventura, vestito
argentato fino ai piedi e crocefisso in bella vista sul generoso décolleté,
che sbuca leggermente emozionata fra i ballerini.


È cominciato così, ieri sera, solita diretta su Raiuno (per fortuna meno
chilometrica del solito...), il 54.o Festival di Sanremo. Quello di Tony
Renis, delle polemiche, dei giovani e dei nomi nuovi, del boicottaggio da
parte della maggior parte dell’industria discografica italiana, del
Dopofestival trasformato nell’ennesimo «Porta a porta» di cardinal Bruno
Vespa, di Berlusconi-viene-non-viene, telefona-non-telefona. Quello del
dopoBaudo.


Due parole di circostanza e la Ventura introduce Gene Gnocchi: subito
allusioni alle due punte amate da Berlusconi, ai litigi tra Renis e Simona.
«Avete sentito che io e Tony abbiamo avuto diverse vedute, ma ora è tutto a
posto», dice lei. Lui, nel ruolo di «garante di Renis», sibila che «è ora di
finirla con le dicerie su Tony Renis: non è vero che a Hollywood non conosce
nessuno, ho parlato con Will Coyote e mi ha detto che sabato verrà l'orso
Yoghi ma senza Bubu...».


Il buon umore finisce quando arrivano i cantanti. Apre Dj Francesco, figlio
di Robi Facchinetti dei Pooh, amato dai bambini e malsopportato da chi è
entrato nell’età della ragione (almeno musicale), protagonista del
tormentone estivo «La canzone del capitano». Ascoltando la sua «Era
bellissimo», vien da chiedersi: tutta qui la rivoluzione musicale di Renis?
Basta abbassare l’età dei concorrenti per trasformare il Festival in una
vetrina della buona musica? A giudicare da questa, e da altre canzoni
sentite ieri sera, ovviamente no.


Il tasso qualitativo è basso. Un giovanilismo esasperato, di maniera, sembra
aver sostituito lo stile sanremese che peraltro nessuno rimpiange. Dj
Francesco peggiora la situazione chiudendo con una citazione: «Che cosa c’è,
c’è che mi sono innamorato di te...». Roba che Gino Paoli potrebbe anche
ripensarci in extremis, e non presentarsi (come invece farà, in chiusura di
prima serata) a ritirare il premio alla carriera, prima di andare al
Controfestival di Mantova...


Siparietto con Raoul Bova (unico bello in assenza di George Clooney) nei
panni di Ultimo, l’eroe della lotta alla mafia. Parla in un siciliano
approssimativo, arrivano altre stilettate al picciotto Renis. Rincara la
dose Gnocchi con un filmato dei suoi. Ancora Sicilia con l’inutile cantante
Veruska. Canta «Un angelo legato a un palo» e si stenta a comprendere il
senso della sua presenza al Festival. Molto meglio Paola Cortellesi, che
regala la prima risata, dicendo alla Ventura: «Non scherzare e tira fuori
Pippo Baudo, non puoi presentare il Festival vestita così, mettiti una
cravatta, fatti un riporto...».


Ancora l’attrice: «Per presentare il Festival bisogna essere un uomo. Che
c’entrano Carrà e Loretta Goggi: quelle se l’erano guadagnato, prima avevano
fatto cose importanti, tu che hai fatto, l’Isola dei Famosi, con Pappalardo,
qui mica c’è Pappalardo...». Più avanti, travestita da Cotogna Cutugna,
chiederà a Simona: «Ti posso chiamare "mona"...?». Gag gradita nel Nordest,
e ripresa poi anche da Gnocchi.


Torna la musica con Andrea Mingardi. La sua «È la musica», con l’apporto di
quel che resta dei Blues Brothers, è un omaggio alla musica nera: brano
energico, divertente, malato di rhythm’n’blues. Il livello qualitativo
rimane buono col catanese Mario Venuti (ex Denovo): la sua «Crudele» è
elegante, ha una melodia avvolgente. Quasi un piccolo capolavoro, rispetto
agli apripista... Un doveroso ricordo di Sandro Ciotti che non c’è più (è il
primo Festival senza di lui, che ne aveva seguiti quarantatre...) e arriva
Neffa, indicato come un favorito della vigilia. Canta «Le ore piccole»,
quadretto swing a tinte lievi, garbato, dignitoso, che però non sembra
all’altezza dei suoi precedenti successi.


La situazione peggiora con Paolo Meneguzzi: «Guardami negli occhi» strizza
l’occhio a Tiziano Ferro, ma rimane a distanza di sicurezza dall’originale.
Idem per i DB Boulevard, nobilitati dall’ex bassista dei Rolling Stones,
Bill Wyman, che però non riesce a sollevare le sorti della loro «Ballerà»,
poprock esile assai.
Completano la serata l’incerto Stefano Picchi («Generale Kamikaze»), lo
spigliato Danny Losito con le tre Las Ketchup («Single»), il serioso Marco
Masini («L’uomo volante»), lo zuccheroso Morris Albert con Mietta («Cuore»).
Ma anche il collegamento coi soldati italiani a Sarajevo (con tanto di
fotomodella-soldatessa slovena), la compagnia teatrale francese Le Cirque du
Soleil, l’hip hop dei Black Eyed Peas. E uno strepitoso Elton John rifatto
da Maurizio Crozza, che saluta la Ventura con un «Hello Baudo»... Poi, dopo
Gino Paoli, passata mezzanotte, spazio a Vespa.

Piacerà a Berlusconi...

Piacerà a Berlusconi, questo 54.mo Festival di Sanremo che comincia stasera.
Non solo e non tanto perchè è affidato alle cure di Tony Renis, suo amicone
dai tempi in cui, nella Milano degli anni Sessanta, il presidente del
Consiglio era solo un cantante dilettante mentre l’attuale direttore
artistico del Festival era già un numero uno del mondo delle sette note. Gli
piacerà anche perchè somiglia un po’ al suo governo. Di più: alla sua
filosofia di vita, cresciuta a base di grandi sorrisi e pacche sulle spalle.
Si è sempre detto che Sanremo è un po’ lo specchio del Paese. Ciò valeva
negli anni Cinquanta, ma ha mantenuto una certa qual dose di verità sempre,
che in tolda ci fossero Ravera o Baudo, Fazio o la Carrà. L’assunto vale
anche oggi, nell’Italia berlusconiana, con un governo allegramente infarcito
di dilettanti allo sbaraglio (con risultati sotto gli occhi di tutti quelli
che abbian voglia di vederli...) e un palco dell’Ariston coraggiosamente
regalato a «mostri sacri della canzone» come Andrè, Stefano Picchi, Linda,
Mario Rosini, Veruska, Danny Losito, Simone...
L’accoppiata Tony Renis-Simona Ventura propone dal canto suo il confronto
fra due modi di intendere lo spettacolo televisivo: quello tradizionale,
altisonante, sopra le righe, quasi hollywoodiano del primo, e quello veloce,
moderno, fresco, autoironico della seconda e soprattutto della di lei banda.
A ben guardare, si tratta anche delle due anime della televisione
berlusconiana, pubblica o privata che sia. Anni e anni della quale hanno
mandato all’ammasso una parte dei cervelli del Paese.
Almeno su una cosa, Renis e la Ventura sono d’accordo: il 54.o Festival sarà
un «reality music show». Lo hanno ripetuto entrambi, separatamente, nelle
separate conferenze stampa che hanno tenuto prima di quella, necessariamente
congiunta, svoltasi ieri.
Un «reality show» applicato alla canzonetta, dunque. Nel senso che la grande
peste abbattutasi nelle ultime stagioni sulla televisione italiana - e non
solo italiana -, con il risultato di imbarbarirne ulteriormente i contenuti,
tenterà di applicare anche a Sanremo un altro vecchio assunto: piazza uno
sconosciuto davanti a una telecamera, e poi di nuovo, e poi di nuovo ancora,
e dopo un po’ di tempo quello che era uno sconosciuto è diventato una mezza
star.
È la speranza che anima Renis, chiacchieratissimo direttore artistico, che
ai soliti problemi dei suoi predecessori se n’è visto aggiunto un altro, non
da poco: il boicottaggio della Fimi, l’organismo che raggruppa le case
discografiche più importanti. La scelta di puntare sui giovani (con qualche
eccezione, come vedremo) e su nomi talmente nuovi, da risultare in certi
casi sconosciuti ai più, è dunque una scelta praticamente obbligata. Con la
speranza di pescare qualche canzone che non venga subito dimenticata.
Di suo, l’amico di Berlusconi (l’estate scorsa gli ha persino organizzato un
recital di Bocelli in una delle ville sarde del premier, in occasione della
visita di Putin), nonchè almeno buon conoscente di Joe Adonis e di tanti
altri personaggi della mafia italoamericana, ci ha messo due cose. Primo:
affidarsi all’esperienza di Mogol, che ha spalancato le porte del suo Centro
musicale umbro alle fasi preliminari del Festival. Secondo: visto che
comunque i grandi nomi italiani non li poteva avere, a quel punto ha detto
no anche a quei personaggi pur importanti di certa canzone italiana (da Al
Bano a Reitano, dai Matia Bazar ai vari Pupo...), che però odorano di
vecchio e hanno il tirto di spuntar fuori solo quando c’è il Festival.
Largo ai giovani, dunque, alcuni dei quali - come quelli citati - in altre
edizioni avrebbero potuto trovare al massimo posto fra le Nuove Proposte che
sono state abolite. E ad alcuni personaggi minori che comunque fanno
dignitosamente parte del sottobosco della nuova musica italiana: da Neffa a
Pacifico, da Omar Pedrini (già con i Timoria) a Mario Venuti, da Daniele
Groff a Bungaro... Aggiungi un grande vecchio come il nazionalpopolare
Adriano Pappalardo, che è dovuto andare sull’«Isola dei famosi» per
riguadagnarsi la luce dei riflettori. Un eterno (e onesto) outsider come
Andrea Mingardi. Un antico campione di vendite come Morris Albert. Un figlio
di papà - e che papà - come Massimo Modugno. Un italiano che impazza in
Sudamerica come Paolo Meneguzzi. Recenti e recentissimi idoli dei
giovanissimi, come Masini (reduce da odiosa emarginazione in quanto presunto
portajella...), Piotta e Dj Francesco. Gli immancabili campioni della dance,
stavolta i Db Boulevard. E il cast è fatto. Sperando nell’effetto «reality
show» di cui si diceva...
Per chi invece spera soltanto che la qualità dello spettacolo televisivo (da
anni di questo si tratta, altro che Festival della canzone italiana...) non
sia infima, bisogna puntare sulla signora Bettarini e sulla sua squadra,
rodata da un paio di oneste edizioni di «Quelli che il calcio». Ci saranno
infatti Gene Gnocchi e Maurizio Crozza, che però ha limitato le sue
presenze, forse quando si è reso conto che il suo Frankie Minchia (mafioso
italoamericano con fattezze e tic che richiamano da vicino il direttore
artistico...) non era molto gradito ai piani alti. E ci sarà anche la brava
Paola Cortellesi.
Tony e Simona, come si è visto nei giorni scorsi, si sopportano a fatica. Ma
devono fare buon viso e andare avanti fino a sabato notte. Il giorno dopo,
mai come quest’anno non ha nessuna importanza chi vince (il televoto, poi,
permette sorprese e manipolazioni a go-go...), si potrebbe scoprire che il
Festival di Sanremo del 2004 non è andato poi tanto male.
Primo, perchè attorno a questa edizione - dopo l’iniziale tiro al piccione
su «Renis amico dei mafiosi» - si è creata una certa qual benevola
curiosità. Secondo, perchè la controprogrammazione Mediaset, mai come in
questo caso, sarà soft, quasi di maniera. E l’impero mediatico del biscione
ha schierato persino l’ammiraglia Panorama a fianco del Festival targato
Renis: due copertine in un mese, salomonicamente divise fra la conduttrice e
il direttore artistico.
Last but not least, come si diceva all’inizio, perchè Sanremo quest’anno
piacerà a Berlusconi. Che forse una telefonatina all’eterno Vespa, cui è
stato affidato un Dopofestival formato «Porta a Porta», può anche darsi che
alla fin fine la faccia...