sabato 30 agosto 2003

...un bel partito unico dell'ulivo è un'ottima idea, così uno non va a votare senza neanche provare quel piccolo ma fastidioso senso di colpa... (jena-manifesto)
...nulla si crea, tutto si ricicla...

venerdì 29 agosto 2003

...ditele che l'ho perduta quando l'ho capita, ditele che la perdono per averla tradita... (fdegregori)
...rubatele pure i soldi, rubatele pure i ricordi, ma lasciatele per sempre la sua dolce curiosità... (fdegregori)
...e così pensava l'uomo di passaggio mentre volava alto nel cielo di napoli... (fdegregori)
...io la conobbi un giorno e imparai il suo nome, ma mi portò lontano il vizio dell'amore... (fdegregori)

BRITTI AL TEATRO ROMANO

TRIESTE Il successo somiglia al potere: spesso rovina le persone, le trasforma, rendendole peggiori di com’erano «prima». Alex Britti - il cui tour ha fatto tappa l’altra sera a Trieste, al Teatro Romano - per ora ha evitato questo destino. Sarà che il successo, nel suo caso, non si è ancora presentato in dosi letali: un paio di affermazioni a Sanremo (primo fra i giovani nel ’99, secondo quest’anno fra i big), qualche disco in classifica, tre o quattro canzoni di quelle che la gente ricorda.
O sarà forse che il cantautore e bluesman romano è giunto al sospirato appuntamento dopo aver passato i trent’anni (ne ha compiuti trentacinque la settimana scorsa), dunque sufficientemente rodato da anni di gavetta. Trascorsi suonando la chitarra - da par suo - all’ombra di mostri sacri come Buddy Miles e Billy Preston, Ray Charles e Joe Cocker... Fatto sta che a vederlo e sentirlo, anche quando si perde un po’ presentando i brani, odora ancora di genuinità e onestà, doti sempre più rare fra i suoi colleghi. E la scelta di girare quest’estate in tour da solo, «Voce kitarra e piede», come recita il titolo dei concerti, accentua quest’impressione.
L’altra sera, nella «bomboniera» del Teatro Romano, Britti ha attaccato puntualissimo, viste le nuvole che non promettevano nulla di buono. E l’ha fatto con «Gelido», che nel ’98 apriva «It.Pop», l’album del debutto. La pedaliera schierata dinanzi allo sgabello dimostra subito di essere protagonista dello show, assieme alla voce e alla chitarra del nostro: gli permette infatti di tirar fuori dalle corde della fidata acustica urli elettrici degni della miglior Fender. Un po’ più tardi (dopo «Come chiedi scusa» ancora dal primo disco, «La vita sognata» e «Sei la fine del mondo», dal recente «3»), il nostro darà anche una piccola dimostrazione delle meraviglie che si possono ottenere, anche dal vivo, con quel campionatore che sta al centro della pedaliera: per esempio registrare un breve tema ritmico con le corde basse della chitarra, poi lasciarlo proseguire, e su quel tappeto sonoro continuare a suonare...
Eccola, la differenza fra presente e passato, per un uomo solo sul palco. Ai tempi di Edoardo Bennato (idolo di Britti quand’era bambino), «one man band» significava una chitarra, un tamburello azionato col piede e un’armonica. Oggi, anche senza ricorrere a basi preregistrate, un abile strumentista - quale il riccioluto romano senz’altro è - può trasformare una chitarra in un’orchestra. Proprio come sognava «Da piccolo», altro brano della serata triestina.
Serata, come si diceva, fatta di afa («non sapevo facesse così caldo, qui al Sud...») ma anche di nuvole. E infatti dopo qualche ballata («Lo zingaro felice», «Una su 1.000.000», «Mi piaci»...) e la strumentale «3 kitarre», arriva nel momento meno opportuno lo scroscio di pioggia atteso tutta l’estate. Smette-non smette? Riprende-non riprende? Il tiraemolla e l’attesa durano mezz’oretta, poi il nostro si fa coraggio, torna in campo e - cambiata la maglietta «fracica» - cala gli ultimi, immancabili assi: «Oggi sono io» e «7000 caffè», «La vasca» e «Solo una volta». Poi ringrazia e saluta. Lasciandosi alle spalle quell’impressione positiva di cui si diceva all’inizio.

giovedì 28 agosto 2003

...lui adesso vive nel terzo raggio, dove ha imparato a non fare più domande del tipo: conoscete per caso una ragazza di roma, la cui faccia ricorda il crollo di una diga... (fdegregori)
...quando le dice tu sei quella con cui vivere, gli si forma una ruga sulla guancia sinistra... (fdegregori)
...lui adesso vive in california da sette anni, sotto una veranda ad aspettare le nuvole, è diventato un grosso suonatore di chitarra, e stravede per una donna chiamata lisa... (fdegregori)
...nasconde sotto il letto un barattolo di birra disperata, e a volte ritiene di essere un eroe... (fdegregori)

martedì 26 agosto 2003

...lui adesso vive ad atlantide, con un cappello pieno di ricordi, ha la faccia di uno che ha capito, e anche un principio di tristezza in fondo all'anima... (fdegregori)

INTERVISTA ALEX BRITTI

Prendi un bluesman cresciuto a pane e chitarra, fallo passare per
quel mattatoio che è il Festival di Sanremo, e poi consegnalo (innocente)
alle attenzioni della miglior stampa scandalistica di casa nostra. Attirata
come il miele dal fatto che lui, per l’anagrafe Alex Britti, trentacinque
anni, romano, da un po’ di tempo «si frequenta» con quel fiorellino di Luisa
Corna, presentatrice televisiva ma anche cantante lei stessa.
«Io non amo la mondanità - si sfoga Britti, il cui tour fa tappa giovedì 28
agosto a Trieste, al Teatro Romano - evito anche i locali alla moda, però mi
trovo questa gente sotto casa, si appostano a tutte le ore. È una cosa
impossibile. Non ce l’ho con i paparazzi, mi rendo conto che lo fanno per
guadagnare, perchè è il loro lavoro. Mi dà più fastidio chi legge questi
”servizi”, chi si fa sempre gli affari degli altri...».
È il prezzo della popolarità...
«Forse. Mi rendo conto che tutto è relativo, e che a Baghdad stanno
decisamente peggio. Certo, anche questo fa parte del gioco. Ma è una
situazione triste, che mi fa pena, frutto a mio avviso di sottocultura».
Parliamo di musica?
«Meglio. Questo tour sta andando benissimo. E contrariamente a quel che si
può pensare è meno faticoso di uno ”normale”, con la band e tutto il resto.
Il fatto di esibirmi da solo, ”Kitarra, voce e piede”, come da titolo dello
spettacolo, mi aiuta molto. È più facile anche tecnicamente...».
Già in fuga dal carrozzone pop?
«Beh sì, anche il palco, quando sei da solo, è più facile da gestire.
Eventuali modifiche alle scalette dei brani possono essere fatte con più
facilità. E il rapporto col pubblico che hai davanti è più diretto...».
Retaggi dei trascorsi blues?
«Forse. Il blues è una grande scuola musicale, che si fa da ragazzini, poi
si deve crescere...».
...con le canzoni?
«Io le canzoni le ho sempre scritte. Anche quando suonavo in giro per
l’Italia e per l’Europa con piccoli gruppi e accompagnando i grandi del
blues. Il fatto è che con il blues riuscivo a pagare le bollette, con le mie
canzoni no. Quello del blues è un grande mercato commerciale, fatto di
locali, rassegne, festival, dove è possibile suonare. In giro è pieno di
cover band».
Poi, a un certo punto, le bollette non sono state più un problema. Ma grazie
alle canzoni...
«La svolta è stato trovare un discografico che mi ha dato fiducia, e
scoprire che al pubblico queste mie canzoni piacevano. E per fortuna: a
diciotto anni va bene suonare la musica altrui, a trenta molto meno...».
Blues e canzoni: come convivono queste due anime?
«Il blues rimane la mia grande passione. e poi non è vero che sono due
anime. È un’anima sola: il mio cuore, il mio gusto. Quando da ragazzo
ascoltavo i grandi del blues e quelli della canzone d’autore non facevo
differenza. Anzi, facevo differenza solo fra quel che mi piaceva e quel che
non mi piaceva».
La chitarra è stato il collante fra queste due passioni...
«Sì, avevo otto anni quando ho cominciato a suonicchiarla. Io non sono mai
andato a scuola di musica, non ho mai preso lezioni in senso tradizionale, e
infatti tuttora non scrivo e non leggo la musica».
Il classico autodidatta...
«Già. Grazie a un disco: ”Burattino senza fili”, di Edoardo Bennato. Era il
’77, io ero un bambino, la storia del gatto e la volpe, tutto il resto...
Insomma, ne rimasi affascinato. E cominciai a strimpellare quelle
canzoni...».
Anche Bennato un tempo suonava in versione «one man band»...
«Sì, questo mio tour da solo può essere letto come un piccolo omaggio al
mito dei miei nove anni. Gliel’ho detto, quando l’ho conosciuto. È una bella
persona, in privato anche migliore di come appare in pubblico».
Torniamo alle origini.
«Abitavo nel quartiere di Monteverde vecchio, a Roma. I miei mi avevano
regalato una piccola chitarra Eko, quelle per bambini. I primi accordi me li
insegnò un prete. Poi mi arrangiai da solo. I pomeriggi li passavo sulle
gradinate della chiesa, con altri ragazzini, a suonare Bennato, ma anche De
Gregori, Guccini, Ivan Graziani... La chitarra è uno strumento
socializzante, ma ti accompagna anche nella solitudine. Anche adesso, certe
volte mi piace andare di sera, vicino al mare, a suonare da solo...».
Domanda d’obbligo: il chitarrista preferito?
«Paco De Lucia, perchè l’ho visto suonare dal vivo e trasmette un’ondata di
emozioni. Ma forse solo perchè non ho fatto in tempo a vedere dal vivo Jimi
Hendrix...».
Sanremo?
«Soltanto televisione. Quando esce un disco devi fare promozione, dunque
devi andare in tivù, cosa che io non amo particolarmente. Ma fa parte del
lavoro. Certo, mia madre è contenta quando mi vede lì, ma Sanremo non fa
parte della mia cultura: io mi sono cresciuto piuttosto con Montreaux, o con
il Pistoia Blues Festival...».
Insomma, torniamo sempre al blues...
«L’ho detto: è la mia passione. Il blues non è solo tre accordi, ma è
trasmettere qualcosa di allegro e trascinante. Anche parlando di cose
serie».

martedì 19 agosto 2003

...nanni moretti ha compiuto cinquant'anni, shel shapiro e gianni rivera ne hanno fatti sessanta... e neanch'io mi sento tanto bene...

LEONARD COHEN

Ora Leonard Cohen ha ripreso a vivere «a Babilonia», cioè a Los Angeles. Villetta bifamiliare, vicino ai suoi figli. Lo studio di registrazione è dall'altra parte del giardino. Per arrivarci, il mostro sacro attraversa un sentiero costeggiato da fiori e piante di pompelmo. Ci va la mattina presto, non disturba nessuno, è tutto così perfettamente insonorizzato...
Di nuovo in mezzo alla gente. Ma per sei anni, dal ’93 al ’99, Cohen si era ritirato in meditazione al monastero zen di Mount Baldy, sulle colline di Los Angeles. Sei anni a meditare ma anche a prendersi cura dell'anziano maestro Roshi. Poi ha deciso di tornare, pubblicando due anni fa anche un disco, «Ten new songs», un altro di quei suoi titoli semplici che hanno punteggiato quasi quarant’anni di carriera, di vita. Una vita contrassegnata da una costante inquietudine e irrequietezza.
Sì, perchè la carriera di Leonard Cohen è la sua vita. Oggi che il mondo della musica (e della letteratura) pullula di personaggi finti, costruiti a tavolino, inventati da qualche creativo in cerca del colpo grosso, non si può non riguardare al grande ebreo canadese con un misto di ammirazione e nostalgia. Quasi con struggimento.
Nato a Montreal, Canada, nel ’34, a nove anni Leonard rimane orfano di padre. Una perdita che lo segna profondamente. Dopo la laurea va a vivere a New York, attirato da un ambiente culturale più vivace. Pubblica le prime raccolte di poesie e un romanzo, «The Favourite Game» (’63), (auto)ritratto di un giovane ebreo di Montreal con ambizioni artistiche, che lo impongono all'attenzione della critica.
Poi vive per sette anni a Hydra, isola greca, dove nel ’66 scrive «Beautiful losers», opera epica dagli accenti religiosi. Continua a girare il mondo, ma torna sempre a New York. Nel libro di poesie «The Parasites of Heaven» appaiono alcuni testi (tra cui la celebre «Suzanne», ripresa anche da Fabrizio De Andrè) che successivamente diventeranno canzoni.
A questo punto, incoraggiato dall’amica cantautrice Judy Collins, si riavvicina al mondo della musica. Sì, perchè ai tempi dell’università il nostro già suonava in un trio country’n’western, The Buckskin Boys. Stavolta è diverso. Nel ’67, già trentatreenne, Cohen debutta dal vivo al Newport Folk Festival. Nel ’68 esce «Songs of Leonard Cohen». Toni malinconici, sommessi, portati a spasso da quella voce profonda, morbida e al tempo stesso tagliente. Il disco ottiene un immediato e notevole successo, tanto da convincere la casa discografica e il suo stesso autore (che forse pensava a una mera parentesi nell’attività letteraria) a dargli subito un seguito.
L’anno dopo arriva infatti «Songs from a room», che con «Songs of love and hate» (del ’71) confermano Cohen fine cantore del dolore e della solitudine. Nel ’73 esce «Live songs», con quella «Please don't pass me by» che sorprende qualche fan per la lunga improvvisazione blues. Alcuni dicono che la prima parte della carriera di Cohen finisce qui. L’uomo entra infatti in un periodo di crisi personale, dal quale esce con la pubblicazione nel ’74 di «New Skin for the Old Ceremony». Un titolo che fa pensare a una svolta, che forse avviene ma senza che cambi lo stile. «Death of a ladies’ man» (’77), titolo anche di una raccolta di poesie, sorprende per gli arrangiamenti qualche fan affezionato alle ambientazioni spartane «chitarra e voce». Esce anche un «Greatest Hits» con i classici dei primi quattro dischi, premiato da un grande successo di vendite.
«Recent songs», del ’79, si propone come un disco più complesso. Cohen mette da parte i travagliati amori di coppia e comincia a riflettere - anche in forma di canzone - sulle sue lunghe esplorazioni religiose, che lo portano anche a far parte di Scientology, prima di approdare al buddismo.
«Various Position», dell’85, è un ulteriore approfondimento della riflessione religiosa, che partorisce salmi talmente gradevoli da poter essere scambiati per canzoni d'amore. «I’m your man» (’88) riporta Cohen al successo dopo un periodo grigio. L’apocalittico «The future» (’92) è l’ultimo disco prima della scelta di ritirarsi nel monastero buddista californiano di cui si diceva all’inizio.
La meditazione religiosa e filosofica dell’uomo, prim’ancora che dell’artista, è così profonda da isolare Cohen, che sceglie di vivere solo, lontano dalle scene ma anche dal mondo, quasi in esilio, in un silenzio assoluto. Nove anni di silenzio discografico, che la casa discografica rompe con un’antologia e un paio di live, fra cui «Field Commander Cohen», con materiale che risale al tour del ’79. Gli arrangiamenti particolarmente ricchi, quasi rock, donano nuova luce a classici come «Lover, Lover, Lover», «Hey That’s No Way To Say Goodbye», «The Stranger Song», «Memories», «So Long, Marianne»...
Antipasto dell’ennesimo ritorno. Capace di sorprendere e sorprendersi ancora. Nel segno della poesia. Alla vigilia dei settant’anni. «Credo che l’unica vera esperienza dell’essere umano sia la sconfitta», ha detto una volta.

martedì 5 agosto 2003

RINO GAETANO

È l’estate musicale delle sorprese, oltre che dell’afa. Non bastava il tormentone intelligente dei brasiliani Tribalistas, la cui gradevole e insinuante «Jà sei namorar» ha quasi oscurato i soliti insostenibili motivetti che comunque stanno funestando anche la caldissima stagione estiva 2003. Ora ci si mette anche l’insperato e inaspettato successo di «Sotto i cieli di Rino», compilation doppia dedicata ai grandi successi di Rino Gaetano, ormai da un paio di settimane ai vertici delle classifiche di vendita. A ridosso di un campione internazionale di vendite come Eros Ramazzotti, e davanti a mostri sacri come Claudio Baglioni, Nomadi, Simply Red...
La straordinarietà di questo evento, forse favorito ma non certo determinato dal prezzo contenuto del doppio cd, sta nel fatto che il cantautore calabrese è morto da oltre vent’anni e che i ventisei brani della raccolta sono tutti già editi: il meglio di una carriera lampo, durata discograficamente appena sei anni (e sei album), dal 1974 del primo ellepì «Ingresso libero» all’80 di «E io ci sto», ultimo lavoro prima di quel maledetto 2 giugno 1981, quando l’artista morì in un incidente stradale a Roma. La sua Volvo schiacciata contro un camion, all’alba. Più o meno come Fred Buscaglione, vent’anni prima...
Gaetano era nato a Crotone nel 1950. A dieci anni la famiglia si trasferisce a Roma, per il ragazzo studi in seminario, poi le incertezze fra un futuro da geometra e uno da ragioniere vengono risolte dalla passione per lo spettacolo. Prima qualche timida frequentazione teatrale, poi la canzone, ovviamente in quel Folkstudio che alla fine degli anni Sessanta è la culla di una generazione di giovani musicisti impazienti di raccontare. L’amicizia con Venditti e De Gregori, le prime esibizioni in pubblico, l’approdo alla Rca.
Il debutto discografico, nel ’74, fa intuire che quel ragazzo è diverso dalle decine e decine di cantautori che in quegli anni battagliano per un posto al sole (o almeno a una Festa dell’Unità...). In tempi di seriosità, di impegno vero o presunto, di pugni chiusi alzati sul palco, lui gioca sul paradosso, sul nonsense, sullo sberleffo, sulle zingarate, sul gusto di prendere in giro il prossimo. E infatti non a tutti piace.
Il 45 «Ma il cielo è sempre più blu», uscito nel ’75, e l’album «Mio fratello è figlio unico» (con «Berta filava», del ’76, fanno comunque dell’artista calabrese un nome e un volto noto nell’Italia musicale dell’epoca. Seguono, fra il ’77 e l’80, uno all’anno, i dischi «Aida», «Nuntereggaepiù», «Resta vile maschio, dove vai?» e «E io ci sto».
Prima di quell’ultima, maledetta notte, Rino Gaetano nel ’78 andò anche a Sanremo. Frac, cilindro (pare gliel’avesse regalato Renato Zero), maglietta a righe, jeans e scarpe di ginnastica: così bardato cantò «Gianna», quella che «aveva un coccodrillo e un dottore» e «difendeva il suo salario dall’inflazione», rimediando un più che dignitoso terzo posto, dietro i Matia Bazar e Anna Oxa. E il primo posto nella classifica dei 45 giri.
Sì, perchè i tempi stavano cambiando. E il pubblico cominciava a entrare in sintonia con l’ironia intelligente, con le provocazioni colte di quel ragazzo magro che non aveva mai dimenticato l’infanzia povera nella sua Calabria.
Oggi, venti e più anni dopo, fra musica di plastica e personaggi impresentabili, evidentemente - e per fortuna - c’è ancora spazio per le filastrocche surreali di quel ragazzo che aveva studiato Pitagora, e forse dai filosofi della sua Magna Grecia aveva imparato a non prendersi mai troppo sul serio.
I casi della vita. Questo 2003 del clamoroso ritorno in classifica di Rino Gaetano è anche quello dell’affermazione, dopo tanti anni di dignitosa gavetta, di suo cugino Sergio Cammariere. Che ieri ha detto al Corriere: «La notizia (di Rino Gaetano in classifica - ndr) non mi sorprende. Alla fine le belle canzoni di Rino, quasi di stampo battistiano, funzionano. Non solo perchè ci ricordano l’atmosfera di fine anni Settanta, ma anche perchè le ovvietà musicali proposte oggi le rendono ancor di più un modello...».

lunedì 4 agosto 2003

domenica 3 agosto 2003

...italia, paese tropicale, per la temperatura ma non solo per quella...

sabato 2 agosto 2003

...due agosto millenovecentottanta, tornando dall'incubo di la spezia, una bomba alla stazione di bologna, è stata una strage, mio padre è venuto a prendermi...
...due agosto duemila, l'ultimo saluto (p.m.)...
...oggi, due agosto duemilatre, quanto tempo è passato...

venerdì 1 agosto 2003

...svincolarsi dalle convinzioni, dalle pose, dalle posizioni... (morgan)
...che senso ha avuto bombardare l'afghanistan e l'iraq, per ritrovarsi ancora con "un altissimo rischio di attentati terroristici in prossimità dell'11 settembre"...?