venerdì 28 ottobre 2011

DISCHI / COLDPLAY + G Testa


D’accordo, manca un brano come “Viva la vida”. Ma a parte ciò, anche questo “Mylo Xyloto” (Emi) è un ottimo disco pop di quello che può essere considerato uno dei migliori, forse il miglior gruppo pop dell’ultimo decennio.

Arrivati al quinto album in studio, Chris Martin (che ha definito l’ultimo nato come un “concept album”, fatto di brani collegati tra loro) e compagni dimostrano di non aver esaurito la loro vena creativa, il loro tocco magico in grado di trasformare un testo, un riff, una melodia nella prossima “next big thing” della scena musicale planetaria. Magari se ne può parlar male, magari fa molto avanguardia trattarli con sufficienza, ma non si può per davvero far finta di non ascoltarli, di non riconoscerne il marchio di fabbrica dopo pochi accordi.

La ricetta? Grandi melodie e ritmi incalzanti, ma anche ballate lente e malinconiche. Due anime che in questa nuova raccolta sono presenti entrambe, anche perchè squadra che vince non si cambia. Ascoltiamo allora “Hurts like heaven”, “Charlie Brown”, “Every teardrop is a waterfall”, e poi momenti più intimisti come “Us against the world”.

Fra gli altri titoli: “Paradise” (che è stato il singolo apripista), “Major minus”, “Up in flames”, “A hopeful transmission”, “Don’t let it break your heart”, “Up with the birds”. Non si sa a quale anima ascrivere il duetto con Rihanna (molto criticato dai fan della prima ora...) in “Princess of China”: probabilmente all’anima del business, ma questo è il mondo della musica, e possiamo farci davvero poco.

Qualcuno ha anche criticato il titolo dell’album, ma qui siamo meno d’accordo: se togliamo a un artista anche la libertà di giocare con le parole, di divertirsi con un nonsense, beh, allora invece di andare avanti torniamo tristemente indietro.

Disco comunque più semplice e meno sperimentale di “Viva la vida” (pare che Brian Eno stavolta ci abbia messo meno del suo), ma non per questo meno fruibile. Anzi. Previsione facile facile: da qui a Natale, e forse oltre, sarà in testa alle classifiche di vendita. Del resto, sono i Coldplay, mica un gruppetto qualsiasi.

Da ultimo, una voce. Secondo alcuni, questo potrebbe essere l’ultimo disco di Chris Martin, Jonny Buckland, Will Champion e Guy Berryman. Lo ha fatto intendere proprio il leader, affermando che un gruppo non dovrebbe andare avanti oltre i trentatre anni (lui è del ’77).

“Abbiamo messa così tanta energia e tempo in questo disco - ha detto il bel Chris a Mail on Sunday - che non riesco a immaginarne un altro. Questo effettivamente potrebbe essere il nostro ultimo disco. Mylo Xiloto ha richiesto tre anni di lavoro e al momento attuale non abbiamo in programma altri dischi per i prossimi anni”. I fan più fedeli hanno fatto due più due. E sono caduti in depressione.



DISCHI / G. TESTA

“Vitamia”

(Egea Records)

Vive lo strano destino di continuare ad essere più amato in Francia, così vicina al suo Piemonte, che in patria. Lui se ne fa letteralmente un baffo e prosegue per la sua strada. Una strada fatta di classe e eleganza, artigianato musicale e belle canzoni.

Una strada che continua a percorrere in questo suo nuovo album, anticipato alla radio dal singolo “Nuovo” e ricco di altre perle preziose, undici, che vanno ad aggiungersi a una collana ormai lunga.

A cinque anni di distanza dal precedente “Da questa parte del mare”, disco vincitore della Targa Tenco 2007, il nuovo album - suonato tutto in diretta, in una settimana in studio - somiglia a una riflessione personale e sociale, musicalmente molto ricca, lunga mezzo secolo.

Fra i titoli: “Lasciami andare”, “Lele” (con la sorpresa di suoni armeni al violoncello), “Dimestichezze d’amor”, “Cordiali saluti”, “18 mila giorni”...

WEST SIDE STORY 50


“West Side Story” usciva nell’ottobre di cinquant’anni fa nelle sale cinematografiche, prima negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo. Arrivava come un passaggio quasi obbligato, dopo quattro anni di enorme successo dell’omonimo musical, debuttato a Broadway nel 1957. E la risposta del pubblico fu pari e forse superiore alle attese.

Trama ormai nota. Una sorta di “Romeo e Giulietta” americano, ambientato negli anni Cinquanta a New York. Si racconta dell'amore contrastato fra due ragazzi appartenenti a mondi diversi: lei è la sorella del capo di una banda di portoricani, lui ovviamente è un ex componente dell’americanissima banda rivale. S’incontrano durante un ballo, s’innamorano, vogliono fuggire assieme e sposarsi. Ma le due bande rivali...

Tutti gli esterni del film furono girati a New York, dove i registi Robert Wise e Jerome Robbins scelsero gli scorci più decadenti e trascurati, per creare lo sfondo perfetto alle lotte tra immigrati portoricani e ragazzi americani di umili origini.

Memorabili le prime scene del film, nelle quali si vede New York dall'alto, con la macchina da presa che scende su un gruppo di giovani americani intenti a far nulla in un cortile. La noia viene spezzata dall’incontro con un gruppo di coetanei portoricani, basta una scintilla per innescare la rissa, fino all’arrivo della macchina della polizia... Sei minuti d’azione, scanditi dalla grande musica di Leonard Bernstein.

Sì, perchè a teatro come al cinema, la musica ebbe un ruolo importante nell’enorme successo dell’opera. Brani come “America” (il cui testo originale venne cambiato, perchè considerato in certi passaggi razzista nei confronti dei portoricani), “Maria” e “Somewhere” - opera del genio di Bernstein e Stephen Sondheim - sono infatti rimasti nella storia della musica del Novecento.

Una curiosità. Inizialmente, il musical teatrale doveva proporre una differenza etnica ma anche religiosa fra i due ragazzi (lui cattolico, lei ebrea). E il titolo doveva essere “East Side Story”. Ma erano anni di immigrati portoricani, che fra gli anni Quaranta e Cinquanta stavano ridisegnando il volto di New York. E si decise per un impianto - e un titolo - diverso.

Scelta evidentemente azzeccata. Visto lo straordinario successo del film, premiato nel 1962 da dieci Oscar, grazie a una miscela irresistibile: la storia, la fotografia, ma soprattutto le coreografie e la grande, intramontabile musica.

BIG MAMA / MARCO TIRIEMMI


ROMA C’è un pezzetto di Trieste che vive e lotta assieme a noi in un vicolo di Trastevere. Dove? Al Big Mama, locale musicale storico della capitale, fondato e gestito da Marco Tiriemmi, un romano “triestino a metà”, che ha passato gli anni dell’adolescenza nel capoluogo giuliano, dove ha ancora molti amici e torna quando può.

«Abbiamo aperto il 30 marzo 1984 - ricorda Tiriemmi, 51 anni -. L’idea era quella di un locale che a Roma non c’era, di respiro internazionale. Gli anni di piombo erano finiti, le star tornavano in Italia. Ma qui mancava un luogo per i tanti artisti blues e jazz che giravano i club europei».

Perchè questo nome?

«Big Mama è un’espressione che contiene un po’ tutto: la cultura afroamericana, il rapporto conflittuale con la maggioranza bianca, l’autoironia con cui i neri si affibbiano soprannomi. E poi mamma è un’espressione rassicurante, protettiva, in linea con cultura e tradizioni nostrane. Insomma, “suona” blues e al tempo stesso familiare».

I primi artisti che hanno suonato da voi?

«Le prime stagioni sono state ricchissime di personaggi di livello, alcuni dei quali ormai scomparsi. Fra i jazzisti Elvin Jones, Betty Carter, Lee Konitz, Chet Baker, Joe Zawinul, Dewey Redman, Bill Frisell, Trilok Gurtu, Dee Dee Bridgewater. Nel blues e dintorni Jimmy Smith, Jorma Kaukonen, John Hammond, Jimmy Whiterspoon, Luther Allison, Dr. Feelgoog, Nine Below Zero, Brian Auger. E Louisiana Red, che da oltre vent’anni suona qui per Capodanno».

I nomi più importanti?

«Gli italiani Pino Daniele, Teresa De Sio, Edoardo Bennato. E abbiamo lanciato Alex Britti, Giorgia, Federico Zampaglione dei Tiromancino, Niccolò Fabi, Max Gazzé, Lillo e Greg».

Stranieri?

«Elvis Costello, Brian May, Peter Frampton, Dan Aykroyd, Jeff Healey, Arlo Guthrie, Noel Redding, Buddy Miles, Mike Stern & Bob Berg, la Soul General Band (cioè l’orchestra di James Brown) con Maceo Parker».

A chi è rimasto più legato?

«Tutti ci hanno lasciato qualcosa. Noel Redding un gran senso di umanità, Bob Berg un’incredibile energia vitale, Dewey Redman una cultura musicale straordinaria. Tutti il rispetto per arte e cultura, due elementi di cui l’uomo non può fare a meno, a meno di non voler regredire».

L’artista che avrebbe voluto ospitare?

«Tanti, troppi per elencarli. Avrei voluto conoscere da vicino alcuni di quelli che sono scomparsi, Jimi Hendrix e Miles Davis su tutti».

Qualche guaio?

«Con Chet Baker. La sera prima del concerto, arriva a Fiumicino e viene fermato dalla polizia. Quando all’alba del giorno dopo arrivo con l’avvocato, Chet è già stato rilasciato: non aveva fatto nulla, ma aveva precedenti per i noti problemi di droga. Quella sera suonò alla grande, con un pianista italiano poi scomparso, Luca Flores. L’episodio generò un forte legame con il jazzista, con cui restammo in contatto fino alla sua scomparsa nell’89 ad Amsterdam».

E lo scherzo di Mina?

«Roberto Gatto e Massimo Moriconi erano diventati la sua sezione ritmica preferita alla fine degli anni Ottanta. Quando Moriconi partì per Lugano, per registrare “Ti conosco mascherina”, gli chiedemmo di portarle i nostri saluti e un piccolo regalo, un portacenere di ceramica realizzato dai detenuti di un carcere minorile, con cui eravamo in contatto tramite alcuni educatori. Era un modo per renderle omaggio e stabilire un contatto. Lei apprezzò e per un intero pomeriggio provò a contattarci al telefono, per presentarsi come “una giovane cantante che vuole suonare nel vostro club. A chi devo mandare un nastro per propormi?” Ma la linea era sempre occupata, e non erano ancora tempi di cellulari o e-mail. Ci rimane una foto, con la firma e due baci stampati sopra, che la grande Mina ci ha voluto inviare».

Com'è cambiata la scena musicale in questi anni?

«La musica, i suoi linguaggi, i suoi strumenti sono in continua evoluzione, quindi i cambiamenti sono tanti. Non sono cambiate le emozioni che la musica dal vivo genera in chi la ascolta. Resta un momento unico, irripetibile e proprio per questo speciale anche per chi si approccia alla musica per la prima volta».

Trieste?

«E’ sempre nel mio cuore. Ci ho passato anni importanti, quelli della formazione. La mia passione per la musica nasce in un negozietto di dischi che stava in via Udine, con gli scambi di 45 giri alla scuola media Brunner di Roiano, al liceo Dante. Quando posso ci torno sempre volentieri. Magari d’estate, per poi proseguire verso qualche sperduta isoletta della Dalmazia».

lunedì 24 ottobre 2011

LA CANZONE DEL SOLE / 40


Un giro d’accordi semplicissimo, ripetuto all’infinito: La-Mi-Re-Mi. Sul quale il genio musicale di Lucio Battisti seppe costruire una melodia che oggi possiamo definire immortale. Per uno di quei testi che solo la minimalista arte poetica di Mogol sapeva partorire: “Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi, le tue calzette rosse...”.

“La canzone del sole” ha quarant’anni. Era infatti la fine di ottobre del ’71, quando venne pubblicata come lato A di un 45 giri (all’epoca c’era ovviamente e solo il vinile), che sul retro proponeva quello che sarebbe diventato un altro classico del canzoniere mogolbattistiano, “Anche per te”. Due canzoni senza un album, come spesso allora accadeva.

“La canzone del sole” ha quarant’anni ma la conoscono perfettamente anche gli adolescenti di oggi, come tutti quelli che si sono succeduti da quell’alba degli anni Settanta fino a oggi.

Tutti affascinati dalla storia di due ragazzini che s’incontrano, “le biciclette abbandonate sopra il prato e poi”. I primi approcci amorosi, “e la cantina buia dove noi respiravamo piano, e le tue corse, l'eco dei tuoi no, oh no, mi stai facendo paura”. Il tema dell’ambiente per quei tempi ancora raro, “ma ti ricordi l'acqua verde e noi, le rocce, bianco il fondo, di che colore sono gli occhi tuoi, se me lo chiedi non rispondo”.

Affascinati anche da quell’evoluzione finale, sempre sugli stessi accordi, ma con una libertà nuova per una canzonetta italiana: “il sole quando sorge, sorge piano e poi, la luce si diffonde tutto intorno a noi, le ombre ed i fantasmi della notte sono alberi e cespugli ancora in fiore, sono gli occhi di una donna ancora piena d'amore”.

Mancava la struttura classica strofa-ritornello-strofa. Mancavano gli elementi del tormentone. Ma quella canzone parlava la lingua del Nuovo ed ebbe un successo immediato, enorme, senza se e senza ma. Che l’ha fatta entrare nella storia della canzone italiana del Novecento.

domenica 16 ottobre 2011

JESUS CHRIST SUPERSTAR 40


Nell’ottobre del ’71, Papa Ratzinger aveva 44 anni ed era da poco diventato professore ordinario di teologia dogmatica e storia dei dogmi all'Università di Ratisbona. Fu molto colpito da una notizia che arrivava da New York.

In un teatro di Broadway era infatti andata in scena la prima di “Jesus Christ Superstar”, un musical rock composto da Andrew Lloyd Webber e scritto da Tim Rice sull’ultima settimana di vita di Gesù raccontata dal punto di vista di Giuda Iscariota.

Approccio al tema assai laico. Lo spettacolo comincia con l’arrivo di Gesù a Gerusalemme e si conclude con la sua crocifissione. Indagando sulla sua figura non come essere divino ma come essere umano. I dubbi di Giuda sono in primo piano. Ben espressi dalla frase: «You really do believe this talk of God is true?» (qualcosa come: credi veramente che queste voci su Dio siano vere?).

A Broadway il musical rimane in cartellone per diciotto mesi, nel ’72 debutta a Londra, dove le repliche durano per otto anni (rimane il quinto spettacolo teatrale più longevo nel Regno Unito). Nel frattempo “Jesus Christ Superstar” è diventato anche un film e ovviamente un disco, un album doppio con tutte le musiche e le canzoni riadattate per l’occasione.

Le riprese del film, pensato inizialmente per incentivare la diffusione dello spettacolo nei teatri stranieri, vennero effettuate nei dintorni di Betlemme e dirette dal regista Norman Jewison, con Ted Neeley nel ruolo di Gesù, Carl Anderson a interpretare Giuda e Yvonne Elliman - la stessa attrice e cantante del musical teatrale - nel ruolo di Maria Maddalena.

All’uscita nelle sale, nel ’73, il successo è enorme. E il film diventa una sorta di manifesto generazionale per i giovani contestatori del dopo Sessantotto. Secondo alcuni, anche una sorta di addio alla stagione degli hippies e del “flower power” californiano.

Ma non tutti sanno che Lloyd Webber (accusato da alcuni musicisti di aver tratto atmosfere e riferimenti in maniera evidente da opere di artisti classici, come nel brano “Gethsemane, I only want to say”, la cui struttura si rifà a quella del “Lamento della ninfa” di Claudio Monteverdi) e Rice avevano in mano il progetto già da qualche anno. L’azione scenica del teatro assieme all’energia esplosiva del rock, applicate a un tema universale come quello della figura del Cristo, analizzata da un punto di vista non spirituale ma umano. Roba forte, insomma.

Ma nonostante il rock e gli hippies e tutto il resto, nel ’69 i due autori hanno già incassato diversi “no grazie” da vari impresari teatrali. Quando il loro manager riesce a ottenere una rappresentazione a Broadway, quasi non ci credono. E non si lasciano abbattere dalle prime critiche poco favorevoli, che dopo poche rappresentazioni lasciano il campo a un successo poi andato al di là delle più ottimistiche previsioni.

Forte di questi primi consensi, Rice si fa sotto con l’industria cinematografica, sempre più convinto della forza del progetto. I produttori della Universal Picture all’inizio mostrano lo stesso scetticismo suscitato negli impresari teatrali qualche anno prima. Ma le musiche piacciono, eccome se piacciono. Convincendo i cervelloni della major - e soprattutto i loro finanziatori - che quel “Jesus Christ formato rockstar” potrebbe diventare, absit iniuria verbis, una vera gallina dalle uova d’oro, per un’industria discografica che aveva messo nel mirino i giovani come potenziali acquirenti.

Il progetto viene dunque sviluppato su due piani paralleli. Prima il disco, affidato al manager Brian Brolly della Mca Records, poi il film. A una condizione: che l’album fosse stato in grado di replicare il successo del musical. Cosa che puntualmente avvenne, dopo che la premiata ditta Lloyd Webber e Rice riuscì a trasformare il musical in una vera e propria “rock opera”.

Orchestra diretta da Andre Previn, formazione rock guidata dalle tastiere di John Lord (dei Deep Purple), coro e interpreti principali. Risultato: un “progressive rock” di buona fattura, pronto per entrare nelle case dei ragazzi di mezzo mondo.

Ma torniamo a quell’ottobre di quarant’anni fa. Il successo planetario di un’opera dall’approccio così laico suscitò molte polemiche. Disturbavano soprattutto i dubbi che venivano insinuati sulla divinità del Cristo, metteva a disagio l’eccessiva attenzione alla figura e al pensiero di Giuda. Tentò di spiegare Tim Rice: «Il fatto è che noi non vediamo Cristo come Dio ma semplicemente come l’uomo giusto, al momento giusto e nel posto giusto». Non fu sufficiente. In Sudafrica l’opera fu bandita perchè considerata antireligiosa. In Lituania, il giorno di Natale del 1971, le autorità sovietiche intervennero a bloccare il musical.

Alcune chiese cristiane parlarono apertamente di opera blasfema (anche per la figura di Maria Maddalena, palesemente innamorata di Gesù nel brano “I don't know how to love him”, non so come amarlo), mentre la comunità ebraica giudicò antisemita la rappresentazione del ruolo del loro popolo nella crocifissione, con la folla che incita all’uccisione di Gesù. Attacchi giunsero anche dalla politica, dai partiti più tradizionalisti. Mentre, quasi a sorpresa, la chiesa cattolica diede il suo appoggio all’opera.

martedì 11 ottobre 2011

IMAGINE, 40 ANNI FA


«Imagine there's no heaven, it's easy if you try, no hell below us, above us only sky. Imagine all the people, living for today...». Quante volte l’avete sentita, quante volte l’avete canticchiata. Forse non sapete che sono passati quarant’anni.

Era l’ottobre del ’71. I Beatles si erano sciolti ufficialmente un anno e mezzo prima, nell’aprile del ’70. Agli inizi dell’anno John Lennon aveva pubblicato il singolo “Power to the people”, brano duro e corale che sarebbe diventato un inno della sinistra americana e dei manifestanti pacifisti contro la guerra del Vietnam.

Poi, l’11 ottobre del ’71, prodotta da Phil Spector, “Imagine” uscì - come singolo e in apertura dell’omonimo album - prima negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo. E la sensazione fu quella di trovarsi dinanzi a una di quelle canzoni in grado di segnare un’epoca, se non di cambiare il mondo, impresa decisamente troppo ardua per una composizione di parole e musica.

Quel testo che diceva: «Immagina non ci sia il paradiso, prova, è facile. Nessun inferno sotto i piedi, sopra di noi solo il cielo. Immagina che la gente viva al presente. Immagina non ci siano paesi, non è difficile. Niente per cui uccidere e morire. E nessuna religione. Immagina che tutti vivano la loro vita in pace...».

Ritornello: «Puoi dire che sono un sognatore, ma non sono il solo. Spero che ti unirai anche tu un giorno e che il mondo diventi uno». Seconda strofa: «Immagina un mondo senza possessi, mi chiedo se ci riesci. Senza necessità di avidità o fame. La fratellanza tra gli uomini. Immagina tutta le gente condividere il mondo intero...». E poi di nuovo il ritornello, nella classica struttura della forma canzone.

Lennon l’aveva scritta dopo la separazione dagli altri tre Beatles, dimostrando che la sua miglior stagione creativa non si era conclusa con il divorzio da Paul McCartney. E con quel brano-capolavoro, l’artista agguantò per la seconda volta l’immortalità in vita. La prima, quand’era stato - con l’alter ego creativo McCartney, ma anche con George Harrison e Ringo Starr - l'eccezionale protagonista di quell'avventura chiamata Beatles, che in soli otto anni di produzione discografica, dal '62 di “Love me do” al '70 di “Let it be”, avrebbe mutato radicalmente musica, costume e se vogliamo anche cultura della seconda metà del Novecento.

Il passo decisivo sull'ardua via dell'immortalità, quasi paradossalmente, pochi anni dopo fu incontrare sulla propria strada il folle Mark David Chapman, i cui colpi di pistola lo colpirono dinanzi al Dakota Palace, la sua abitazione newyorkese affacciata su Central Park, la sera dell'8 dicembre del 1980. Aveva appena compiuto quarant'anni. Divenne “forever young”, per sempre giovane. Quasi immortale, appunto.

Dei quattro, Lennon era forse il più creativo e il più geniale, di certo il più carismatico e trasgressivo e anche politico, in anni in cui il mondo sembrava dovesse cambiare radicalmente di lì a poco. Parlava spesso di rivoluzione. Forse senza sapere che l'unica rivoluzione possibile nella storia recente del nostro mondo - di nuovo: nella musica, nel costume, nella cultura - aveva fortemente contribuito a farla proprio lui. Con i dischi dei Beatles ma anche con quella canzone, “Imagine”, che fa parte della ristretta schiera di quelle che in qualche modo riscrivono la storia della musica e del mondo. Versi che tutti conoscono, che tutti hanno canticchiato almeno una volta.

Lennon li scrisse mentre gli Stati Uniti e il mondo erano scossi dalla protesta contro la guerra in Vietnam. Nel marzo del ’69, con Yoko Ono, aveva organizzato un “bed-in” all’Hilton Hotel di Amsterdam. Una protesta pacifista, la coppia che rimase a letto per una settimana, ricevendo giornalisti e fotografi, che si trovarono dinanzi i due in pigiama, che rilasciavano interviste e dichiarazioni sulla pace nel mondo e contro le spese militari.

«Marciare - disse quella volta Lennon - andava bene per gli anni Trenta. Oggi bisogna usare metodi diversi. Tutto ruota intorno a una sola cosa: vendere, vendere, vendere. Se vuoi promuovere la pace, devi venderla come se fosse sapone. I media ci sbattono continuamente la guerra in faccia: non soltanto nelle notizie ma anche nei vecchi film di John Wayne e in qualsiasi altro dannato film; sempre e continuamente guerra, guerra, guerra, uccidere, uccidere, uccidere. Così ci siamo detti: Mettiamo in prima pagina un po’ di pace, pace, pace, tanto per cambiare... Per ragioni note soltanto a loro, i media riportano quello che dico. E ora sto dicendo “Pace”...».

“Imagine” fu figlia di quella stagione, di quell’impegno. Struttura musicale semplice (la semplicità difficile a farsi...), l’intro al pianoforte, la voce suadente di John. E poi quel testo, quelle parole che sembrarono un ideale manifesto del pensiero del futuro, una sorta di sogno pochi anni dopo quello di Martin Luther King.

Immaginare un mondo senza guerre, senza uccisioni, con la gente che vive in pace. Immaginare un mondo senza religioni e senza bandiere, ma anche senza possessi, dove ognuno può avere quel che gli serve, dove tutti condividono tutto. Lo stesso Lennon ammise che il testo era più vicino al Manifesto del partito comunista che a un inno alla pace. «Il brano - disse una volta - è antireligioso, antinazionalista, anticonvenzionale e anticapitalista, e viene accettato solo perché è coperto di zucchero».

La rivista Rolling Stone lo ha piazzato al terzo posto fra i brani migliori di sempre (dopo “Like a rolling stone” di Bob Dylan e “Satisfaction” dei Rolling Stones). Ma una dozzina d’anni fa, quando nell'eccitazione di fine millennio a qualcuno venne in testa di decretare tramite sondaggio “la canzone del secolo”, non ci furono dubbi: vinse “Imagine”.

Parole e musica che sono entrate nella vita di milioni di persone. E dunque nella storia. La storia di tutti noi.

domenica 2 ottobre 2011

FOSSATI: E' L'ULTIMO DISCO


Ivano Fossati l’ha detto con estrema calma, quasi con nonchalance. «Con questo disco intendo lasciare e non farò altri concerti», ha spiegato il cantautore e musicista genovese ieri sera a “Che tempo che fa”, su Raitre. «È la fine della tua carriera?», gli ha chiesto Fabio Fazio. «Sì», ha risposto il nostro. «Ho pensato, non in questi due giorni, ma in due o tre anni, che dopo “Decadancing”, non farò altri dischi, altri concerti. Sarà l’ultimo tour, è una decisione serena di quelle che si prendono in tanto tempo. Ho compiuto sessant’anni qualche giorno fa e ho sempre saputo che, raggiunta questa età, avrei voluto cambiare, fare altro».

E ancora, giusto per chiarire il concetto: «Mi sono sempre chiesto se al prossimo disco avrei potuto garantire la stessa passione che mi ha portato fino a qui. Non credo che potrei ancora fare qualcosa che aggiunga altro rispetto a quello, nel bene e nel male, ho già messo nei dischi finora».

Che dire? Nulla. Solo giù il cappello, perchè sappiamo che alle parole seguiranno i fatti. Ivano Fossati è persona, prim’ancora che artista, troppo seria per cercare di raccattare scampoli di attenzione e promozione discografica supplementare annunciando un ritiro poi “dimenticato”, come tanti protagonisti della musica popolare hanno fatto in questi anni.

Fossati no, è di altra pasta. Dagli esordi giovanissimo con i Delirium (l’album “Dolce acqua” nel ’71, “Jesahel” a Sanremo ’72...) all’apprezzata attività come autore (per Mia Martini, Mina, Patty Pravo, Vanoni, Berté, Mannoia, Anna Oxa...), dalla collaborazione con De Andrè (negli album degli anni Novanta “Le nuvole” e “Anime salve”) alla lunga discografia come solista: “La mia banda suona il rock” e “Panama e dintorni”, “Le città di frontiera” e “Ventilazione”, “700 giorni” e ”La pianta del tè”, “Discanto” e “Lindbergh”. E ancora “Macramè”, “Time and silence”, “La disciplina della terra”, fino ai recenti “L'arcangelo” e “Musica moderna”.

Pensavamo che “Decadancing”, atteso nei negozi da domani, fosse un altro capitolo (con annesso tour teatrale, debutto il 9 novembre a Milano, agli Arcimboldi) di questa entusiasmante carriera, che ci ha regalato grande musica e canzoni a volte memorabili (“La costruzione di un amore”, “Mio fratello che guardi il mondo”, “Una notte in Italia”...) e comunque mai banali.

Il disco rappresenterà invece la parola fine. Quella che gli artisti, arrivati in cima, quasi mai sanno pronunciare. Proprio come i grandi politici di casa nostra.

PAROLE SANTE ...

PAROLE SANTE / 3

Per avere un'idea del livello della cultura italiana in questi ultimi anni basta, con telecomando in mano, guardare i molti telegiornali. Sì sono molti, ma sono uguali, sovrapponibili, come scritti dalla stessa redazione. Tranne che per disastri, come quello giapponese o i famosi attacchi alle Torri Gemelle, la gerarchia è la stessa. I primi 20 minuti ci sono i soliti capi dei vari partiti che abbaiano ferocemente contro i capi dei partiti rivali. Non parlano in italiano corrente, ma in "politichese", una lingua completamente nuova che gli italiani non capiscono. Poi finalmente il linguaggio diventa un italiano nazional popolare e gli argomenti preferiti, quelli più ghiotti, non per le massaie, ma anche per avvocatoni, grandi medici, grandi ladri e prostitute, sono i delitti: più efferati sono, più fanno morbosamente ascolto. Le cronache di questi orrori sono raccontate con cura maniacale. Le storie son sempre le stesse: delitto efferato, intervengono quelli con camici bianchi, che sono la polizia scientifica o i carabinieri scientifici e qui, l'indagine può durare anche 20 anni, di nuovi testi, lettere anonime, esami del Dna dell'intera popolazione di qualche paesino, colpi di scena. Insomma, un letamaio di orrori che fa ascolto in maniera indecente. La verità non si saprà mai.

Paolo Villaggio, Il benpensante, Manifesto



PAROLE SANTE / 2

Lo spettacolo indecente ed irresponsabile che molti di voi stanno dando non è più tollerabile da gran parte degli italiani e questo riguarda una buona parte degli appartenenti a tutti gli schieramenti politici. Il vostro agire attento solo ai piccoli o grandi interessi personali o di partito, trascurando gli interessi del paese, ci sta portando il disastro e sta danneggiando irrimediabilmente la reputazione dell’Italia nel mondo. Rendetevi conto che tanti italiani non hanno più nessuna stima e nessuna fiducia in molti di Voi e non hanno più nessuna intenzione di farsi rappresentare da una classe politica che, salvo alcune eccezioni, si è totalmente allontanata dalla realtà delle cose e dai bisogni reali dei cittadini. La grave crisi che ha colpito le economie mondiali, Italia compresa, impone serietà, competenza, buona reputazione, senso dello Stato ed amore per il proprio Paese, per uscire da questo momento molto preoccupante. Invece, purtroppo, bisogna prendere atto che solo una piccola parte dell’attuale classe politica possiede queste caratteristiche, mentre il resto è composto da persone incompetenti e non preparate che non hanno nessuna percezione dei problemi del Paese, della gravità del momento e tanto meno una visione mondiale degli scenari futuri che ci aspettano. Anche una parte del mondo economico del Paese (intendo quella che non vive di mercato e di concorrenza) ha le sue gravi responsabilità della condizione in cui ci troviamo ora: per troppo tempo ha infatti ha avuto rapporti con tutta la politica (in base alle opportunità e alle loro convenienze del momento) sostenendola in tanti modi, senza mai richiamarli al senso del dovere e nell’interesse dell’Italia. Ora la gravità della situazione impone che le componenti della società civile più serie e responsabili, che hanno veramente a cuore le sorti del paese (politici mondo delle imprese nel mondo del lavoro) si parlino tra di loro e si adoperino e lavorino per affrontare con la competenza e la serietà necessarie questo difficile momento. Bisogna dare prospettive positive per il futuro dei giovani, creare e proteggere posti di lavoro e garantire a tutti una vita dignitosa, soprattutto a chi ha più bisogno. Alla parte migliore della politica e della società civile che si impegnerà a lavorare seriamente in questa direzione, credo che saremo in molti a dire grazie. A quei politici, di qualunque colore essi siano, che si sono invece contraddistinti per la totale mancanza di competenza, di dignità e di amor proprio per le sorti del Paese, saremo sicuramente in molti a volergli dire di vergognarsi.

Diego Della Valle







PAROLE SANTE / 1

PAROLE SANTE / 1

La Padania? Non esiste. Per il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in Italia non c'è spazio per la secessione, mentre è possibile un'evoluzione in senso federale. Queste idee il Capo dello Stato le ha espresse ieri in un discorso fatto alla facoltà di Giurisprudenza di Napoli, rispondendo alle domande degli studenti e dei docenti dell'Università Federico II. "Nell'ambito della Costituzione e delle leggi non c'è spazio per una via democratica alla secessione", ha detto Napolitano, asserendo che la parola secessione al massimo si può strillare in un prato, con un chiaro riferimento ai raduni leghisti . "Se si guarda al mondo d'oggi appare grottesco semplicemente il proporsi di creare che cosa? - ha argomentato il Presidente - Uno Stato Lombardo-Veneto? Che quindi calchi la scena mondiale competendo poi con la Cina, con l'India, con il Brasile, con gli Stati Uniti, con la Russia? Mi pare che il livello di grottesco sia tale che dovrebbe bastare questo richiamo a far capire" che non si si può "cambiare il corso della storia". Sul federalismo, invece il Capo dello Stato ha detto che "rappresenta una corrente di pensiero da cui sono nati stati autenticamente federali". Per Napolitano, il "federalismo fiscale dovrebbe essere la conseguenza di uno spicchio di evoluzione in senso federale dello stato italiano".