giovedì 29 luglio 2010

STEVE HACKETT
Al Trieste Summer Rock Festival quest’anno arriva la storia del rock. Quella vera. Quella che è già sui libri. Domenica, a conclusione della tre giorni, sarà infatti di scena Steve Hackett, che è stato il chitarrista solista degli anni d’oro dei Genesis. Al fianco dunque di signori come Peter Gabriel, Phil Collins, Tony Banks e Michael Rutherford.
Ora, in questo tour italiano cominciato ieri sera a Roma (stasera sarà a Savona, sabato a Todi, gran finale proprio domenica a Trieste), il sessantenne musicista inglese è accompagnato da Roger King alle tastiere, Gary O’Toole alla batteria e alle percussioni, Rob Townsend al sax e al flauto, Nick Beggs al basso, Amanda Lehmann alla chitarra e ai cori.
Per Hackett - che ha appena pubblicato l'album ”Out of the tunnel mouth” - si tratta della terza volta a Trieste. Della prima, forse, non si ricorda nemmeno lui. Era l’inverno del ’72, i Genesis avevano appena pubblicato ”Nursery Crime” e stranamente riscuotevano più successo in Italia che in patria. Capitarono anche a Trieste, al vecchio Dancing Paradiso, storica balera di via Flavia i cui gestori avevano fiutato l’aria e aperto le porte ai gruppi del pop/rock italiano e straniero. Vi suonarono infatti Premiata Forneria Marconi e Orme, Chicken Shack e Banco del Mutuo Soccorso, New Trolls e tanti altri.
Porte aperte per tutti, non per i Genesis. Il maledetto caso volle che, quando arrivarono a bordo di due macchinoni neri, le trovarono sbarrate perchè nei giorni precedenti vi era scomparsa una minorenne. Breve conciliabolo, colloquio con gli organizzatori, e poi dietrofront, sosta in una pizzeria delle vicinanze e via verso la prossima tappa del tour. Fra la delusione dei giovani fan triestini.
La seconda volta a Trieste, per Hackett, è molto più recente. Risale all’ottobre 2002, concerto alla Sala Tripcovich, accompagnato dal fratello John ai fiati e dal pianista Roger King. Performance di qualità, equamente divisa fra nuove cose da solista e classici dei tempi belli coi Genesis, mai archiviati del tutto. Come la classicheggiante, quasi bachiana ”Horizons”, che stava nell’album ”Foxtrot” e quella volta aprì la serata.
«Dentro me convivono due anime - disse quel giorno Hackett -, la prima predilige la chitarra elettrica, i computer e le altre diavolerie elettroniche. La seconda preferisce una dimensione concertistica, più intima. Quella che avete ascoltato stasera, e che a breve sarà protagonista di un nuovo lavoro con l’ausilio di un’orchestra». Che poi puntualmente arrivò: ”A midsummer night's dream”, album di musica neoclassica con l'accompagnamento della Royal Philharmonic Orchestra.
La passione per la classica è comunque sempre andata di pari passo con quella per il rock, in tutta la carriera di Stephen Richard Hackett (questo il suo vero nome). Comincia a suonare la chitarra da autodidatta a dodici anni, e il suo stile è influenzato dalla musica classica (soprattutto Bach) e operistica (Mario Lanza su tutti), ma anche dal blues di artisti britannici come Danny Kirwan, Peter Green e John Mayall.
Negli anni Sessanta si arrabatta nei complessini della nascente scena progressive londinese. Con i Quiet World nel ’70 pubblica anche un album, ma la sua vita cambia con un annuncio su Melody Maker. Si offre come ”musicista determinato ad andare oltre le forme musicali stagnanti". La frase piace a Peter Gabriel, che lo chiama nei neonati Genesis per sostituire certo Anthony Phillips che aveva avuto al bella idea di lasciare la compagnia pochi mesi prima del successo.
Il primo album di Hackett con il gruppo fu proprio il citato ”Nursery Crime”. Nel quale il ruolo della sua chitarra trovò subito il contesto ideale, rappresentando una sorta di marchio di fabbrica del loro suono. Anche dal vivo, la sua immagine - spesso seduto e chino sulla chitarra - secondo alcuni faceva da contraltare alla teatralità di Gabriel e soci.
Dopo l’uscita di Peter Gabriel dal gruppo, e la sua sostituzione alla voce con Phil Collins, Hackett nel ’75 fu il primo a pubblicare un album solista: ”Voyage of the Acolyte”, a cui parteciparono anche lo stesso Collins e Mike Rutherford. Forse fu il primo segnale. La ricerca e l’esigenza di una propria indipendenza al di fuori delle logiche di un gruppo nel frattempo diventato di fama mondiale. Fatto sta che, dopo due anni e altrettanti album (nel complesso con i Genesis ne fece otto), nel ’77 anche il nostro evade dalla gabbia dorata della band. Pare in seguito a divergenze di opinioni, soprattutto con Tony Banks, sul materiale da includere in ”Wind & wuthering”. E uno dei brani di Hackett non accettato dagli altri per il disco, ”Please don't touch”, fu poi recuperato dal suo autore nel secondo album solista.
Sono passati più di trent’anni. L’attività solistica di Steve Hackett, in studio e dal vivo, ha risentito tutto sommato abbastanza dello stile dei Genesis (tanto che nel ’95 ha pubblicato anche un album intitolato ”Genesis revisited”). Con i vecchi soci, ma anche con lo stesso Peter Gabriel, si è saltuariamente riunito in alcune occasioni dal vivo.
Negli anni Ottanta il musicista ha realizzato album per chitarra classica (”Bay of kings” e ”Momentum”), ma ha fondato anche il supergruppo Gtr assieme a Steve Howe (già chitarrista degli Yes): un’esperienza durata un paio d’anni, che ha prodotto un unico album, di buon successo sia in Europa che negli Stati Uniti. Successivamente, Hackett ha continuato a spaziare da grande virtuoso dello strumento a sei corde fra classica, progressive e world music.
Ma il popolo del rock continua ad amarlo soprattutto per quegli anni con i Genesis. Era - e per molti rimane - il chitarrista solista di una delle band più importanti e innovative della storia del rock, che ha venduto più di 150 milioni di dischi in tutto il mondo. Lasciando una discografia di tutto rispetto, con capitoli che mantengono un posto di rilievo in ogni raccolta degna di questo nome. C’è da giurare che domenica sera, a Trieste, potremo ascoltarne diversi.

mercoledì 21 luglio 2010

MASSIMO RANIERI
Di Sanremo non dice nulla. Non conferma né smentisce la notizia uscita ieri su una sua possibile conduzione del prossimo Festival assieme a Gianni Morandi e alla bellona Belen Rodriguez. Si cela dietro un cortese «no comment». Che fa capire che qualcosa in ballo c’è. E che dunque potrebbe essere proprio lui, Massimo Ranieri, sulla tolda di comando del Sanremo numero 61. Un ennesimo ritorno a casa, sul palcoscenico che lo vide debuttare nel 1968 con ”Da bambino” e trionfare vent’anni dopo, nel 1988, con ”Perdere l’amore”.
Ma intanto il cantante stasera sarà a Trieste. «Torno con grande piacere, per il secondo anno consecutivo, alla serata triestina dei ”Nostri Angeli” per il Premio giornalistico Luchetta. Stavolta mi sono anche organizzato in modo da riuscire a visitare la struttura della Fondazione, che aiuta i bambini vittime di tutte le guerre. Arrivo la mattina presto, proprio per questo impegno che ho preso e al quale tengo particolarmente».
Ranieri risponde al telefono dalla sua casa romana. Stasera alle 21.30 parteciperà al galà televisivo, condotto da Lamberto Sposini, che Raiuno manderà in onda sabato in seconda serata.
«Trovo che la Fondazione triestina - dice il cantante napoletano, classe 1951 - faccia davvero un lavoro meritorio. E fa bene la Rai a seguire la serata da tanti anni. Quello dei bambini vittime delle guerre è un tema al quale sono particolarmente sensibile. Ma del resto, dinanzi a drammi come questi, che poi sono i veri drammi della vita, chi può non sentirsi umanamente colpito...?»
E poi c’è Trieste. La ”sua” Trieste.
«È vero. Ogni volta che torno in piazza Unità, ogni volta che passo accanto al Teatro Verdi o al Rossetti, ogni volta che guardo il vostro mare, beh, mi sembra che gliel’ho già detto una volta: mi sembra di stare a casa, nella mia Napoli. Anche perchè in fondo le città di mare sono diverse ma si somigliano un po’ tutte».
A Venezia con Aznavour com’è andata?
«Benissimo e al tempo stesso molto male. Faceva un caldo terribile, c’era un’umidità altissima, ci sono stati dei problemi tecnici e a un certo punto l’impianto è saltato: Aznavour ha cantato a cappella, poi le cose sono state messe a posto, ma lui era molto adirato e dispiaciuto. Com’ero dispiaciuto anch’io, chiamato <CF101>(assieme a Franco Battiato e Patty Pravo, nel concerto in piazza San Marco di venerdì scorso - ndr)</CF> a duettare con lui: come italiano mi sentivo un po’ padrone di casa, e avrei voluto che tutto andasse bene davanti al grande artista straniero».
Che lei conosce da quarant’anni.
«Sì, e in tutto questo tempo l’ho visto tante volte a Roma e a Parigi. Anche nel febbraio scorso, quando ho cantato all’Olympia, lui è venuto a vedermi. È stato molto carino, perchè di solito non si muove mai per gli spettacoli dei colleghi. Poi l’ho visto due mesi fa, nella sua casa in Provenza. Ha scritto una canzone per me, che inciderò quanto prima. E poi ha detto che vuole tradurre in francese ”Perdere l’amore” e ”Rose rosse”. Ha 86 anni e una vitalità ancora incredibile».
È vero che riporta Eduardo in tivù?
«Sì, cominciamo le prove fra quindici giorni, con una compagnia di attori napoletani, negli stessi studi napoletani dove il grande Eduardo recitò negli anni Sessanta le commedia che il pubblico televisivo più anziano ancora ricorda».
Quali commedie ha scelto?
«Facciamo ”Filumena Marturano”, ”Questi fantasmi”, ”Sabato domenica e lunedì” e ovviamente ”Napoli milionaria”. Dovrebbero andare in onda quest’inverno, a cavallo fra la fine del 2010 e l’inizio dell’anno nuovo, in prima serata su Raiuno. È il grande ritorno del teatro in televisione: un progetto che mi riempie di emozione e di orgoglio».
Quindi con la musica adesso è fermo.
«Sì, questo progetto mi sta prendendo molto. Sono completamente concentrato sulla sua buona riuscita. Certo, continuo con le serate, soprattutto d’estate. Ma per un disco nuovo possiamo aspettare».
Cosa canta stasera a Trieste?
«Farò un omaggio al grande Lelio Luttazzi, che ci ha lasciato da poco. Lo ricordo ancora con emozione. Era un grande professionista e un grande signore dello spettacolo. Poi canterò ”Io che amo solo te”, per ricordare un altro grande artista di queste terre, Sergio Endrigo. E poi reciterò una poesia di Berlold Brecht, intitolata ”I bambini giocano”: parla della guerra, mi sembra in tema con la serata».
Mi sta dicendo che non fa ”Perdere l’amore”?
«Ah, non gliel’ho detta...? Certo, faccio anche quella. Del resto, ormai il pubblico non mi lascia andar via, se non la canto...».

lunedì 19 luglio 2010

PATTI SMITH
"Mi  hanno detto che Grado è una piccola isola ricca di sole e di storia. E che canterò vicino al mare. Ciò mi basta per essere felice di venirvi presto con il mio spettacolo. So anche che non è lontana dal paese dov’è nato Pasolini, e ciò per me è un elemento di fascino in più...».
Sono poche le donne che hanno scritto la storia del rock. Una di queste è senza dubbio Patti Smith, il cui tour acustico ”We shall live again” farà tappa il 3 agosto a Grado, alla Diga Nazario Sauro, nell’ambito della rassegna ”Ospiti d’autore” che comincia domani sera con il concerto del jazzista Stefano Bollani.
La voce di colei che fu chiamata ”la poetessa del rock” arriva al telefono dalla Spagna dove in questi giorni fa tappa il suo tour (stasera è in concerto a Madrid). È roca come te l’aspetti. Inconfondibile. E identica a come l’hai sentita mille volte in classici del calibro di ”Because the night” e ”People have the power”. Sufficiente da sola a emozionare chi ha la ventura di porle alcune domande.
«Adoro l’Europa, adoro l’Italia - dice l’artista statunitense, nata a Chicago nel ’46 e cresciuta nel New Jersey, dove da ragazza ha lavorato anche come operaia - e sono sempre contenta di venirvi a suonare. Anche se in tutti questi anni vi sono tornata tante volte, non potrò mai dimenticare i concerti del settembre ’79, a Bologna e a Firenze, con gli stadi pieni. Fu la prima volta che io e la mia band di allora ci sentimmo delle star. Ma non è solo questo. Amo la cultura italiana, l’arte, la cucina, il vostro cinema...».
A quei suoi concerti italiani del ’79 seguì un lungo silenzio.
«Avevo trent’anni e sentivo il bisogno di una pausa di riflessione per capire dove stavo andando. Poi la pausa è stata più lunga del previsto perchè avevo due figli da crescere. Ma in quegli anni non sono stata ferma. Ho continuato a studiare, ho cercato di migliorare. Poi, quand’è stato il momento, ho ripreso esattamente da dove avevo cominciato la prima volta: dalle mie poesie cantate davanti al pubblico accompagnandomi con una chitarra».
Diceva di Pasolini. Ricorda quando lo ha scoperto?
«Certo. In un piccolo cinema di Manhattan, all’inizio degli anni Settanta, prima che venisse ucciso. In una rassegna dedicata al cinema italiano vidi ”Il vangelo secondo Matteo” e ne rimasi colpita. Poi, con gli anni, ho visto altri suoi film e ho letto i suoi libri. Trovo che sia stato un grande artista e un grande intellettuale, che aveva capito molte cose dell’Italia e del nostro mondo».
A Venezia, il primo agosto, suonerà per Emergency.
"Trovo che sia un’organizzazione che fa un lavoro prezioso. Li ho conosciuti lo scorso anno proprio a Firenze e ho accettato di fare qualcosa con loro. Sono davvero delle persone splendide».
Le guerre, intanto, continuano.
«E la gente deve continuare a lottare perchè finiscano. Non esistono guerre giuste, la guerra è la peggior cosa che gli uomini possano fare. Da questo punto di vista, con l’Iraq e l’Afghanistan, negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno dato un pessimo esempio al mondo».
Obama è in difficoltà.
«Ma ce la farà. Spero che potrà portare a un futuro di pace. Il suo è comunque un lavoro molto duro. Deve lottare contro l’ostruzionismo repubblicano, contro le potenti lobby, contro il potere economico. Ma ce la farà, ce la faremo. Tutti dobbiamo fare del nostro meglio».
Com’è cambiata New York dopo l’11 settembre?
«Vivo a due passi da Ground Zero e ho visto con i miei occhi il crollo delle Twin Towers. È un’esperienza che mi ha sconvolto, come donna e come artista. La città all’inizio ha avuto una reazione di paura, è sembrata volersi richiudere in se stessa. Era normale. Ma ora, con il passare degli anni, assisto a una sua rinascita. New York, con il suo mix di razze, lingue, culture, rimane il posto migliore dove vivere per chi fa il mio mestiere».
Come negli anni Sessanta?
«Beh, quello è stato un periodo magico, forse irripetibile. Quand’io sono arrivata ero una ragazzina innamorata dell’arte e della musica. Ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare i poeti della Beat Generation, musicisti come Bob Dylan, Jimi Hendrix, Janis Joplin... Il Chelsea Hotel era un ritrovo di artisti che stavano facendo qualcosa di importante».
È la New York che lei racconta nel libro ”Just kids”.
«Già. Pochi giorni prima di morire, Robert Mapplethorpe (fotografo e amico dell’artista, morto di Aids nell’89 - ndr) mi chiese di raccontare la nostra storia. Sapeva che solo io potevo farlo. Eravamo cresciuti assieme, in quella New York. Assieme avevamo coltivato i nostri sogni. Glielo avevo promesso e l’ho fatto».
Come mai ha atteso tanto?
«In questi anni ho avuto molti lutti. Ma appena ho avuto la forza l’ho scritto. Il libro racconta la nostra vita ma anche la cultura e la musica degli anni Sessanta. E parla della lotta che ognuno di noi combatte per diventare se stesso».
Perchè ha intitolato il tour ”We shall live again”?
«Perchè lo so che viviamo un momento difficile. Il mondo è pieno di cose che non vanno bene. Ci sono le guerre, c’è la crisi economica che colpisce duro i lavoratori, i nostri governanti non sempre fanno le cose giuste. Anzi. Ma noi abbiamo l’obbligo di andare avanti, di lottare, di vivere ancora. Di nuovo».
Pensa che ”la gente abbia ancora il potere” di cambiare le cose?
«Da ragazzi ne eravamo convinti, che si potessero cambiare le cose e il mondo. Poi la vita ci ha fatto capire che non è facile, che non sempre le cose vanno per il verso giusto. Ma io credo che non bisogna mai abbandonare l’ottimismo, la speranza, la solidarietà, la voglia di combattere. Lo dico sempre: io mi sento più rivoluzionaria adesso che trent’anni fa».
Il rock una volta era roba per ragazzi, oggi star e pubblico hanno i capelli bianchi.
«Negli anni Settanta ero convinta che il rock stesse per morire. Ricordo che mia madre diceva che secondo lei Benny Goodman e lo swing sarebbero durati in eterno: non è stato così. Per il rock è diverso: ogni generazione che prende il testimone da quella precedente cambia e aggiunge qualcosa di nuovo. Il rock oggi non ha età, è un linguaggio universale, è per tutti».
È vero che sua figlia Jesse suona con lei?
«Sì, ma solo nelle date italiane di questo tour. Sto girando con una band quasi interamente acustica, e ciò mi permette di improvvisare molto ed essere più libera nella costruzione delle serate. Mia figlia suona il pianoforte e nel gruppo c’è anche il suo compagno Mike Campbell alle chitarre. Jesse ha ventitrè anni e anche lei, come me, ama molto l’Italia. L’occasione di questo tour ci permetterà di girare un po’ assieme. E ovviamente per me sarà un piacere in più...».

domenica 18 luglio 2010

ELISA / CLANNAD 
Mancava poco a mezzanotte, l’altra sera, quando Elisa ha concluso il suo concerto in una torrida piazza Unità. Grande spettacolo, come già riferito. E non è andata male nemmeno coi numeri: i quattromila paganti (nei quali bisogna sempre comprendere due/trecento ingressi gratuiti, fra inviti e accrediti) sono finora il miglior dato del tour estivo della popstar monfalconese. È andata peggio agli irlandesi Clannad: per assistere alla loro ”reunion”, al Rossetti, alla stessa ora, sono arrivati solo seicento appassionati.
L’abbiamo già scritto, e qualcuno l’ha pure presa male: è incredibile che in un’estate musicale come quella triestina, che non è certo la più ricca di attrazioni nemmeno a livello regionale, i due nomi di maggior spicco della stagione finiscano per essere programmati, pur da organizzatori diversi, nella stessa serata.
Qui non si accusa nessuno. Sappiamo che le risorse economiche sono poche, che il Comune di Trieste fa quello che può (per esempio la bella rassegna Trieste Loves Jazz, cominciata proprio ieri sera, di cui riferiamo qui sotto), che gli organizzatori preferiscono portare i loro spettacoli a Udine o in altre città più facilmente raggiungibili dal pubblico triveneto o dei paesi confinanti.
Ma un coordinamento degli eventi, almeno a livello provinciale, eviterebbe sovrapposizioni e sprechi di risorse. Il ruolo dell’ente pubblico - decidete voi quale, così nessuno si offende - è anche quello di coordinare, di attirare i privati, di creare delle compartecipazioni. Se non ha le risorse sufficienti per organizzare in prima persona un ricco cartellone.
Ci sarebbe anche un discorso di politica culturale, ma Trieste è forse l’unico capoluogo regionale in cui l’assessorato comunale alla cultura preferisce delegare ad altri tutto quel che riguarda la musica - e la cultura - giovanile.
Rimane il discorso di piazza Unità. L’altra sera, a fronte dei quattromila paganti, almeno altrettanti erano sistemati sulle Rive, sul Molo Audace e nei dintorni della piazza. Grazie al megaschermo, oltre che sentire, hanno potuto anche vedere abbastanza. Il pubblico triestino ormai lo sa. E in tempi di crisi ne approfitta. Ma il risultato non cambia: la nostra bella piazza sul mare non è adatta a ospitare spettacoli a pagamento.
ELISA IN PIAZZA UNITA'
Ventuno e trentacinque di una delle serate più calde di sempre. I quattromila di piazza Unità sudano neanche fossero in sauna, ma quando Elisa appare sul palco non si fanno pregare. ”This knot” apre le danze, ”Anche se non trovi le parole” è subito un coro. Le due canzoni dal nuovo album ”Heart” sembrano il segnale convenuto: la festa può cominciare.
Non era facile tornare in questa piazza pochi giorni dopo la bellezza e l’importanza del concerto di Muti davanti ai tre Presidenti e ai diecimila triestini che un giorno potranno dire «io c’ero...». Il caso ha voluto che questo compito toccasse alla trentatreenne cantautrice monfalconese (ma è nata al triestinissimo Burlo...) che, disco dopo disco e tournèe dopo tournèe, è stata capace di guadagnarsi in pochi anni un posto di prima fila fra i grandi della musica italiana.
E a guardarla ieri sera sul grande palco, cantare e suonare e muoversi ed emozionare il pubblico, veniva quasi da pensare che il caso ha spesso una sua logica. O perlomeno l’ha avuta in questa circostanza. Insomma: sarebbe stato imbarazzante, poche sere dopo Muti, assistere all’esibizione di qualche stanco reperto del passato, a qualche musicante di serie b, per non dire di qualche carrozzone televisivo in playback. Il caso, o chi per lui, ci ha invece regalato il ”ritorno a casa” della miglior artista pop espressa da queste terre da molti anni a questa parte.
La conferma si è avuta a metà concerto, quando Elisa ha dedicato ”Lisert” alla nonna seduta nelle prime file e ”a tutti quelli che come lei hanno vissuto le vicende di queste terre e dei paesi confinanti”. E prima della canzone il grande schermo ha rilanciato fino in fondo, fino ai tanti che tentavano di vedere e sentire qualcosa dalle Rive e dal Molo Audace, le brevi interviste ad anziani uomini e donne che raccontavano gli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra sul nostro martoriato confine orientale. Brava Elisa. Brava anche in questo.
Con lei, pantaloni di pelle nera e maglia grigia, sul palco c’è la band di sempre, quella con Max Gelsi al basso e Andrea Rigonat (padre felice della piccola Emma Cecile) alle chitarre, ma con un paio di nuovi innesti.
”Heart”, il disco presentato nel novembre scorso al Castello di Duino, con l’allora neonata figlia Emma Cecile a pochi metri di distanza, rimane il disco forse più rock della sua carriera. Ma per questo concerto triestino l’artista ha scelto di non proporlo integralmente, come aveva fatto nel tour invernale. Rispetto al quale sono spariti anche ballerini e coreografie.
Ecco allora anche canzoni meno recenti, come ”Stay” (del 2006, quella con il bel video girato a Los Angeles), oppure ”Heaven out of hell” (del 2001, stava nel terzo album ”Then comes the sun”), o ancora ”Eppure sentire (un senso di te)”.
Elisa appare a suo agio. Si muove, balla, esprime la propria felicità sincera di ”essere a casa”. Stupisce sempre per la sua capacità di ricamare trame melodiche sottili su tappeti armonici tutto sommato semplici. Con quella sbalorditiva facilità di partire dal basso e poi far volare la sua voce in alto, lassù, dalle parti del cielo e dell’anima. Ha una gran carca addosso. E la trasmette.
Ancora dal nuovo disco arrivano ”Ti vorrei sollevare”, splendida anche senza la voce di Giuliano Sangiorgi, ”Someone to love” e la citata ”Lisert”, atto d’amore per la propria terra. Una canzone scritta nel ’98, aveva rivelato nella presentazione del disco a Duino, ma inserita in un disco solo adesso. L’omaggio alle terre isontine è ovviamente completato da ”Luce (Tramonti a Nord Est)”, con cui la ragazza vinse a Sanremo nel 2001.
Ma siamo solo a metà del viaggio. Dal passato affiorano anche ”Dancing”, ”The waves”, ”Qualcosa che non c’è”. L’alternarsi fra idioma inglese e lingua madre funziona anche dal vivo. Lei ha cominciato a scrivere canzoni nel linguaggio internazionale del pop e del rock, ma con gli anni - proprio a partire da quella ”Luce” accesasi una sera a Sanremo - ha capito che scrivere e cantare nella lingua italiana non è assolutamente una diminutio. Anzi. E il pubblico di casa ricorda e forse ama maggiormente le canzoni in italiano.
Anche ”Heart”, giunto a cinque anni da ”Pearl days” e dopo la raccolta ”Soundtrack”, inizialmente doveva essere un disco in italiano. Poi le cose sono andate diversamente, forse per sottolineare con quel titolo, ”Cuore”, che stavolta la razionalità e il calcolo venivano messi da parte. Al centro di tutto il progetto, del disco ma anche del tour, le ragioni del cuore: per la musica, per la vita e per tutto il resto.
Il pubblico triestino sembra capirlo. Ed è in sintonia con la proposta musicale che scende dal palco. C’è ancora tempo per estrarre dal cilindro alcune perle (alcune proprio dall’album ”Pearls”, del 2005) del passato: ”Una poesia anche per te” e ”Broken”, ”Rock your soul” (ieri sera dedicata al padre, anche lui presente fra il pubblico) e ”Hallelujah”, ”Gli ostacoli del cuore” (quella del duetto con Ligabue, cantata in coro dal pubblico) e ”Together”...
A Trieste, in piazza Unità, quattromila spettatori sudati (più quelli - sudati pure loro - arrampicati ovunque, persino sulle terrazze della prefettura) hanno tributato alla popstar monfalconese il successo che da tempo merita.
Un coordinamento degli eventi (al Rossetti suonavano in contemporanea gli irlandesi Clannad, di cui riferiamo nell’altra pagina di spettacoli) avrebbe magari permesso che la festa di pubblico fosse più grande. Ma questo è già un discorso per domani. Stanotte godiamoci le emozioni e le belle canzoni della nostra piccola grande Elisa Toffoli da Monfalcone. Direzione: conquista del mondo.

venerdì 16 luglio 2010

CLANNAD
E siamo finalmente alla serata dell’abbondanza, della possibilità di scegliere fra almeno due proposte musicali di alto livello. Nella stessa città, nella stessa sera, a un paio di chilometri (scarsi?) di distanza l’una dall’altra. Non torniamo ovviamente sulle perplessità e i dubbi sollevati da questa infelice concomitanza, e tentiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno.
Per chi non ama le belle canzoni di Elisa (ne parliamo qui a sinistra) e preferisce invece la musica irlandese, stasera alle 21 al Rossetti, come appendice della decima edizione del festival di musica celtica Triskell, sono di scena i Clannad. Per quello che è presentato dagli organizzatori come «l’unico concerto a livello mondiale del 2010». Di più: la band si sarebbe riunita dopo dieci anni solo in occasione del decennale del festival triestino.
Originari di Gweedore, cittadina nel Donegal, contea irlandese, i Clannad nascono attorno al 1970 su ”base familiare”. I tre fratelli Maire, Ciaran e Pol Brennan cominciano a suonare con gli zii Padraig e Noel Duggan nella taverna che questi ultimi avevano acquistato assieme ai loro genitori. Il nome nasce dalla contrazione del gaelico ”an clann as Dobhar”, ossia “la famiglia originaria di Dore”. Solo successivamente si unirà al gruppo anche una quarta sorella, Eithne Brennan, che poi diventerà con il nome di Enya una solista di successo nota in mezzo mondo.
Gli inizi sono ovviamente folk, ma bastano per ottenere una certa notorietà in patria. Nel 1970 il gruppo si presenta al prestigioso festival folk di Letterkenny dove, con grande sorpresa soprattutto da parte loro, arrivano primi. Il premio del festival consisteva nella possibilità di incidere un disco e così, nel ’73, esce il loro primo album dal titolo “Clannad”.
Il folk delle origini viene poi contaminato dal pop, e ciò permette al gruppo di arrivare a un pubblico più vasto. Il loro album ”Magical ring”, dell’83, pur essendo cantato in gaelico, entra nelle classifiche di vendita e vi rimane per ben sei mesi. La svolta arriva quando la Bbc affida loro la colonna sonora per una serie di telefilm su Robin Hood, intitolata ”Robin of Sherwood” (il disco è ”Legend”, dell’84), ma soprattutto con la pubblicazione nell’85 dell’album ”Macalla”, che comprende il brano ”In a lifetime”, interpretato da Maire Brennan assieme a Bono. Del duetto, diventato con gli anni un classico, esiste anche un efficace videoclip. In questo disco i Clannad, pur non abbandonando l’impostazione folk, mischiano anche gli strumenti tradizionali a quelli della musica pop.
Dopo altri dischi e altre colonne sonore (in quella del film "L'ultimo dei mohicani", del ’92, è presente un loro canzone dal titolo "I will find you"), le strade delle famiglie Brennan e Duggan per un po’ si dividono. Enya è l’unica che diventa una star da solista, ma anche Pol Brennan incide degli album per la Real Words di Peter Gabriel e la stessa Maire Brennan realizza diversi dischi da sola.
Recentemente, dopo la pubblicazione nel 2005 del disco ”Live in concert”, i Clannad sembrano aver recuperato la voglia di suonare assieme, tornando nel contempo alle origini folk. Il concerto di stasera al Rossetti dovrebbe esserne una conferma.