domenica 28 aprile 2013

CROSSFIRE HURRICANE, ROLLING STONES al cinema

“I was born in a crossfire hurricane” (qualcosa tipo “Sono nato nell’occhio di un uragano”...) è il primo verso di “Jumpin’ Jack Flash”. E “Crossfire Hurricane” è il film sulla storia dei Rolling Stones che verrà proiettato domani e martedì in trecento sale italiane (da noi a “The Space” delle Torri, a Trieste, e di Pradamano, in Friuli). Diretto da Brett Morgen e co-prodotto dallo stesso Mick Jagger, il docufilm è stato presentato a ottobre al London Film Festival, nel cinquantenario del gruppo. Due ore e mezzo di adrenalina pura, fra immagini esclusive di concerti, video, retroscena del palco, spezzoni di interviste (ce n’è anche una al compianto Brian Jones), per raccontare una vicenda unica nella storia del rock. Si parla della loro dipendenza dagli stupefacenti, della scelta di indossare i panni di “bad boys” a dispetto dei perbenisti e amati Beatles, della volontà di stupire sempre, fra eccessi, “party selvaggi”, pettegolezzi e arresti. Ma il film, dagli inizi al Marquee di Londra a oggi, è anche la storia di un gruppo di ragazzi dei primi anni Sessanta che amano il rock blues e riescono a scalare i gradini del successo fino a diventare delle rockstar planetarie. Mick Jagger e Keith Richards, con Charlie Watts e Ronnie Wood, ma anche Bill Wyman e Mick Taylor (che non fanno più parte della band), raccontano mezzo secolo di carriera senza tralasciare né dimenticare nulla: sono proprio le loro parole a fare da trama al racconto, fra materiale d’archivio, interviste d’epoca, performance dal vivo e immagini inedite. Richards, sopravvissuto a se stesso, ai suoi eccessi e alle sue dipendenze, descrive così la vicenda del gruppo: «Di solito, nei film, alla fine della storia il cattivo muore muore. Stavolta no». Già, perchè in occasione dei cinquant’anni dalla nascita del gruppo, la loro straordinaria macchina di musica e business viaggia di nuovo a pieno ritmo. Fra maggio e giugno gli Stones faranno una serie di concerti negli Stati Uniti. Quest’estate saranno gli “headliner” del festival di Glastonbury. E il 6 luglio torneranno a suonare ad Hyde Park, a Londra, proprio nel luogo dove il 5 luglio 1969 tennero uno storico concerto davanti a 500mila persone, due giorni dopo la morte di Brian Jones. Per il cinquantenario è uscito anche il cofanetto antologico “Grrr...”. E la cosa più incredibile è che anche i ragazzi di oggi, passati gli innamoramenti dei gruppi usa e getta, poi vanno a finire sempre lì. Ai classici della premiata ditta Jagger e Richards.

venerdì 26 aprile 2013

Bennato, Ayane, Stadio, Leali...

L’estate musicale scalda i motori. E in attesa delle star italiane e soprattutto straniere che illumineranno la stagione - citiamo giusto per gradire Green Day (25 maggio a Trieste, in piazza Unità) e Muse, Depeche Mode e Bruce Springsteen (31 maggio allo stadio di Padova), Robbie Williams e Roger Waters, Kiss (17 giugno a Villa Manin, Codroipo) e Bon Jovi, Vasco Rossi e Jovanotti... -, ci sono giornate come quella odierna che lasciano all’appassionato delle sette note che gravita nelle nostre terre solo l’imbarazzo della scelta. Edoardo Bennato nell’area dell’ex Cantiere Alto Adriatico di Muggia, nell’ambito della “Mujalonga sul mar”. Gli Stadio al “Perla” di Nova Gorica. Fausto Leali al “Korona” di Kraniska Gora. Malika Ayane al Gran Teatro Goex di Padova. Tutti stasera. Il cantautore napoletano, classe 1946, è dai primi anni Settanta una delle figure più importanti della canzone rock di casa nostra. Figlio di un impiegato dell’Italsider, recentemente ha commentato così la decisione della magistratura di sequestrare le aree dell’ex Italsider e dell’ex Eternit di Bagnoli, alla periferia di Napoli, ipotizzando il reato di disastro ambientale: «Doveva diventare il simbolo della rinascita, ora appare solo l’emblema della disfatta ambientale. È una nuova tegola su questa città. Ma il discorso è più complicato, l’analisi più articolata e gli addebiti più diversificati. Ho detto e denunciato sempre, da 40 anni, tutto quello che su Bagnoli c’era da dire e denunciare e ho scritto canzoni sul luogo dove sono nato, come “Vendo Bagnoli”: ormai sono stanco di dire sempre le stesse cose. Bagnoli è un tema su cui molto mi sono impegnato e ora non riesco nemmeno ad ascoltare la mia voce che ne parla». Un mese fa, nel quarantesimo anniversario della pubblicazione del suo primo album, Bennato ha tenuto dei concerti al Teatro Trianon, nel cuore del popolarissimo rione di Forcella. Un anniversario importante e uno scopo civile, visto che i concerti sono stati organizzati per contribuire alla ricostruzione della Città della scienza e alla rinascita di Bagnoli e dei Campi Flegrei. A proposito di anniversari. Anche gli Stadio di Gaetano Curreri (che a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta erano il gruppo di Lucio Dalla) ne hanno appena festeggiato uno, importante e bello rotondo. E l’hanno fatto regalando - a se stessi e al proprio pubblico - un album dal vivo, il terzo della loro carriera: “30, I nostri anni”. Il disco, pubblicato pochi mesi fa, comprende tre canzoni inedite registrate in studio e dieci canzoni suonate dal vivo con il supporto della Sanremo Festival Orchestra. E siamo a Fausto Leali. Classe 1944, è su piazza almeno dal ’67, quando azzecca il suo primo successo con “A chi” (versione italiana di “Hurt”, che Roy Hamilton aveva cantato nel ’54 e Timi Yuro nel ’60). Ha partecipato a vari Sanremo, vincendo nell’89 con “Ti lascerò”, assieme ad Anna Oxa. Al Festival manca dal 2009, quando ha cantato “Una piccola parte di te”. Malika Ayane è invece fresca di partecipazione alla nostra massima rassegna canora. Milanese, classe ’84, madre italiana e padre marocchino, la fascinosa vocalist ha debuttato fra le Voci bianche della Scala e con alcuni spot pubblicitari. Primo album nel 2008, primo Sanremo nel 2009 con “Come foglie”, poi va tutto di bene in meglio. Quest’anno è andata al Festival con “E se poi” e “Niente”, scritte per lei da Giuliano Sangiorgi dei Negramaro. Il suo ultimo album s’intitola “Ricreazione”. Ha detto Paolo Conte della sua voce: «Il colore di questa voce è un arancione scuro che sa di spezia amara e rara».

domenica 21 aprile 2013

AL FOSTER, incisione e concerto a TS

Capita spesso di non essere profeti in patria. Succede innanzitutto alle persone, tante volte apprezzate solo lontano da casa. Ma la cosa bizzarra è quando il fenomeno capita a una struttura. Come l’Urban Recording Studio, la piccola ma efficientissima sala di registrazione ubicata all’ultimo piano della Casa della musica di Trieste. Da anni apprezzato “buen retiro” di musicisti europei e statunitensi. Che vengono sempre più spesso fin qui a incidere, sapendo di trovare - oltre alla bellezza e alla particolare atmosfera di una città ancora a dimensione umana - professionalità, efficienza e ...puntualità austroungarica. In questi giorni, per esempio, è tornato a registrare il batterista Al Foster, americano di Richmond, classe 1943, già collaboratore a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta del grande Miles Davis. Lunedì alle 20.30, a chiusura delle sessioni di registrazione, il jazzista terrà anche un concerto nell’auditorium della Casa della musica assieme al suo nuovo quartetto: Eric Alexander al sax, Adam Birnbaum alle tastiere e Douglas Weiss al basso. «In questi anni - spiega Gabriele Centis, musicista e direttore della Casa della musica, struttura comunale affidata in gestione sin dalla sua apertura alla Scuola di musica 55 - hanno registrato con noi Stef Burns, chitarrista di Vasco Rossi; Omar Hakim, batterista di Sting, Madonna, David Bowie. E poi Airto Moreira, Richard Galliano, Lenny White, Snoop Dog, Philip Catherine, Rachel Z, Markus Stockhausen, Roberto Fabriciani, recentemente Greg Burk con il suo “Expanding Trio”. Da noi sono state registrate anche le musiche di un film di Giuseppe Tornatore, in collegamento con Ennio Morricone da Roma». Ancora Centis: «Grazie al passaparola, col tempo siamo diventati un punto di riferimento per produzioni internazionali. E naturalmente tutto questo non sarebbe stato possibile senza la bravura e la professionalità di Fulvio Zafret, sound engineer (un tempo si diceva “ingegnere del suono” - ndr) del nostro studio». La cui fama internazionale si è diffusa anche grazie alla partnership con la rassegna estiva TriesteLovesJazz, curata da anni proprio dalla Casa della musica. «Sì - conferma Centis -, con un costante lavoro abbiamo sviluppato nel corso degli anni una rete di collaborazioni e contatti, incrociando le atticità didattiche della nostra scuola con le produzioni discografiche, le rassegne musicali, in primis TriesteLovesJazz, le nostre varie iniziative, stimolando l’interesse di numerosi artisti e dell’ambiente musicale internazionale». Ancora Centis: «Nei mesi scorsi si è concretizzata un’altra importante collaborazione/cooproduzione con Il Parco della Musica di Roma/Fondazione Musica per Roma, la famosa struttura firmata da Renzo Piano. Nelle prossime settimane infatti esce il cd di Pietro Tonolo “Dajaloo”, un progetto musicale che coniuga jazz con la tradizione musicale africana, registrato qui a Trieste, alla Casa della Musica, e missato ed editato a Roma». Ma non ci sono soltanto i progetti importanti, le collaborazioni con i musicisti europei e americani. In questi anni la struttura triestina ospita con una certa continuità anche progetti discografici e musicali provenienti dall’Austria, dalla Slovenia e dalla Croazia. Con artisti, giovani e meno giovani, che hanno ormai nella Casa della musica un riferimento costante per le loro produzioni. «Purtroppo - conclude Centis - va sottolineato che la qualità delle produzioni artistiche e l’impegnativo lavoro nei settori culturali sono penalizzati dalla grave crisi economica, da pesanti tagli sui finanziamenti pubblici e da una burocrazia e da normative inadeguate che ormai da anni sembra impossibile riformare». Per quanto riguarda l’ospite di questi giorni, Al Foster, si diceva della collaborazione con Miles Davis. Il nome più illustre ma certamente non il solo che appare nella sua corposa biografia. Dalla quale apprendiamo che il batterista - ma suona anche sassofono, pianoforte e basso - cominciò giovanissimo a suonare a New York nei gruppi del trombettista Blue Mitchell e di Hugh Masekela. Poi “incrociò le bacchette” con Joe Henderson, Herbie Hancock e Sonny Rollins, collaborando anche con Horace Silver e Freddie Hubbard, McCoy Tyner e Wayne Shorter, Bobby Hutcherson e John Scofield, Pat Metheny e Charlie Haden, Randy e Michael Brecker, Bill Evans e George Benson, Kenny Drew e Carmen McRae, Stan Getz e Toots Thielemans, Dexter Gordon e Chick Corea. E ancora con Thelonious Monk, Dave Holland, Buster Williams, Benny Golson, Branford Marsalis, Sting, John McLaughlin, Michel Petrucciani, Dexter Gordon, Sonny Rollins e McCoy Tyner. C’è (quasi) tutta la storia del jazz, nella carriera di Al Foster.

venerdì 19 aprile 2013

RODOTA' PRESIDENTE, prima che sia troppo tardi

Quello a cui stiamo assistendo nel paese è una spettacolo indecente, se non fosse drammatico per gli scenari possibili. Il Partito Democratico e il suo alleato Sinistra Ecologia e Libertà hanno la possibità di votare una persona seria, preparata, onesta e aperta come Stefano Rodotà. Vedi l'appello di Carlo Petrini, Remo Bodei, Salvatore Settis, Michele Serra e Barbara Spinelli: http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-momento-e-ora-votiamo-rodota-appello-di-spinelli-serra-settis-bodei-e-montanari/. Noi lo abbiamo conosciuto, anche per la battaglia sui beni comuni e il referendum sull'acqua pubblica, e non capiamo perché il Pd tergiversa. Ci sarebbero già i voti da due giorni, ma logiche di partito e purtroppo anche accordi con Berlusconi, bloccano questa strada. Chi se ne importa se lo ha proposto per primo il Movimento 5Stelle? Questi giochi da bambini piccoli - altro che tattica dalemiana! - ha già affossato la credibilità del centro-sinistra, ma soprattutto coinvolge un paese ormai allo stremo: la guerra tra bande all'interno del Pd prima della disoccupazione, della cassa integrazione, degli esodati, prima dei problemi reali e drammatici del paese. Scriviamo ai grandi elettori di Pd e Sel, perché sono bolliti, hanno perso la bussola. Manifestiamo davanti alle sedi di Pd e Sel, occupiamole, chiamiamoli se abbiamo il loro numero di telefono.

Libro SAVIANO su cocaina

Dice Roberto Saviano che la coca la sta usando chi è seduto accanto a te ora in treno: l’ha presa per svegliarsi stamattina. Idem l’autista al volante dell’autobus che ti porta a casa, perché vuole fare gli straordinari senza sentire i crampi alla cervicale. Sostiene Saviano che fa uso di coca chi ti è più vicino. Se non è tuo padre o tua madre, se non è tuo fratello, allora è tuo figlio. Altrimenti è il tuo capoufficio, o la sua segretaria che tira solo il sabato sera per divertirsi. O sua moglie che lo fa “per lasciarsi andare”. O la sua amante, a cui la regala lui al posto degli orecchini e meglio dei diamanti. L’attacco di “ZeroZeroZero” (Narratori Feltrinelli, pagg. 445, euro 18), il nuovo libro di Saviano, è un pugno alla stomaco capace di toglierti molte certezze. La sfilza dei potenziali consumatori di neve (gli “addicted”) è lunga, si insinua nei meandri della tua quotidianità, fa traballare certezze perbeniste. Camionisti che non riuscirebbero a reggere tutte quelle ore di autostrada, infermiere impegnate nel turno di notte, imbianchini e poliziotti, chirurghi e avvocati, cassiere e giudici, elettricisti e cantautori, professoresse e giornalisti... E prima di calarsi nella sua perlustrazione, sferra al lettore questo diretto: «Ma se, pensandoci bene, ritieni che nessuna di queste persone possa tirare cocaina, o sei incapace di vedere o stai mentendo. Oppure, semplicemente, la persona che ne fai uso sei tu». Il libro, dedicato ai carabinieri della sua scorta («Alle 38mila ore trascorse insieme. E a quelle ancora da trascorrere. Ovunque»), riprende la formula del celebre “Gomorra”. Stralci di cronaca che ripercorrono la storia dei cartelli mafiosi colombiani e messicani, stile in bilico fra verbale di polizia e reportage giornalistico. Pagine e pagine che ricostruiscono le guerre che hanno portato al controllo della polvere in America Latina, negli Stati Uniti, in Russia, in Calabria. Dice lo scrittore napoletano: «Dopo “Gomorra” mi sono detto: devo uscire da questa ossessione malata di raccontare queste storie, di rotolarmi nelle fogne. Ma per me è impossibile allontanarmi da questo. Il lettore voglio che ad ogni pagina dica: no, ma non è possibile, e che vada a cercare se queste cose sono vere». Ancora Saviano: «Il problema è che sono ossessionato dalle merci. E la merce se decidi di raccontarla ti rimanda a una serie di storie infinite. In questo caso a una droga drammatica, performativa: sei connesso a tutti, non sei mai stanco, non hai limiti. È la merce sibillina che permette un turbo capitalismo senza precedenti. In Italia abbiamo la cultura anti-mafiosa più forte del mondo e abbiamo organizzazioni potentissime». Perchè la cocaina, spiega ancora Saviano, è l’investimento più remunerativo del mondo contemporaneo. Mille euro “investiti” in polvere bianca dopo un anno diventano la bellezza di 186mila euro. «Ecco il perché della ferocia nell’eliminare i rivali di fronte a un arricchimento così gigantesco. Sono 70mila i morti soltanto in Messico dal 2006 a oggi» rivela lo scrittore. Che vive sotto scorta dall’ottobre 2006, in seguito alle minacce dei clan che ha denunciato in “Gomorra”, bestseller internazionale tradotto in più di cinquanta lingue. Questa sua vita da braccato si avverte anche nelle pagine del nuovo libro, che è stato pubblicato in diciotto paesi. La denuncia civile e giornalistica dei traffici e del business che sta dietro alla polvere bianca - denuncia precisa, puntuale e documentatissima - a volte sembrano lasciar posto all’angoscia di un uomo solo, cui stata rubata la libertà, che probabilmente sogna uno straccio di vita privata. Da sei anni e mezzo. «Scrivere di cocaina - dice Saviano - è come farne uso. Vuoi sempre più notizie, più informazioni, e quelle che trovi sono succulente, non ne puoi più fare a meno. Sei addicted. Anche quando sono riconducibili a uno schema generale che hai già capito, queste storie affascinano per i loro particolari. E ti si ficcano in testa, finché un’altra – incredibile, ma vera – prende il posto della precedente. Davanti vedi l’asticella dell’assuefazione che non fa che abbassarsi e preghi di non andare mai in crisi di astinenza. Per questo continuo a raccoglierne fino alla nausea, più di quanto sarebbe necessario, senza riuscire a fermarmi. Sono botte di adrenalina che mi sparo direttamente in vena. Fiammate che divampano accecanti. Assordanti pugni nello stomaco. Ma perché questo rumore lo sento solo io?». “ZeroZeroZero” è un romanzo reportage di un uomo solo. In fuga. Braccato dalla criminalità. Forse disperato.

giovedì 18 aprile 2013

ARISA domani ven a nova gorica

Ma chi è veramente Arisa? Il personaggio tv delle piazzate a “X Factor” (storica quella con Simona Ventura) o l’interprete ispirata di canzoni come “La notte”, prodotta da Mauro Pagani, seconda a Sanremo 2012? Forse lo scoprirà il pubblico che andrà ad assistere alla sua esibizione di domani sera al Park di Nova Gorica. Di certo Rosalba Pippa, classe ’82, lucana ma genovese di nascita, è uno dei personaggi che si sono imposti negli ultimi anni nella musica leggera e nello spettacolo di casa nostra. Debutta a Sanremo nel 2009 con “Sincerità”, accompagnata al piano dal nostro grande Lelio Luttazzi. Vince fra le “Nuove proposte” e colpisce il pubblico, oltre che per la voce, anche per quell’immagine un po’ retrò: occhialoni grandi, aria timida, movenze impacciate. “Malamorenò” è la canzone con cui torna al Festival l’anno successivo, stavolta fra i big. Il successo è inferiore a quello del debutto. A questo punto accade qualcosa: Arisa (acronimo delle iniziali dei nomi dei genitori e delle sorelle) è presenza fissa del programma di La7 “Victor Victoria”, fa qualche parte al cinema, diventa giudice del citato talent show. Dove non tira fuori la sua parte migliore di sè. Ora questo “Amami tour”, dal titolo dell’ultimo album, che sta girando l’Italia e fa tappa anche nella nostra zona. Con lei, sul palco, Giuseppe Barbera al pianoforte, Sandro Raffe Rosati al basso, Andrea Pistilli alle chitarre, Giulio Proietti alla batteria e Salvatore Mufale alle tastiere.

lunedì 15 aprile 2013

NILS LOFGREN: IO E SPRINGSTEEN

«Se ricordo il concerto di Trieste? Sì, sono tanti anni che veniamo a suonare in Italia ma per noi è sempre una grande festa, un evento speciale. I nonni materni di Bruce sono italiani, mia nonna era di Nicosia, in Sicilia, quindi almeno per noi due suonare da voi ha davvero un significato particolare...». Nils Lofgren è da quasi trent’anni il chitarrista di Bruce Springsteen. Entrò nell’84, quando Little Steven lasciò la E Street Band per la carriera solista. E anche quando nel ’95 il collega tornò all’ovile, il Boss volle tenerli entrambi nella band. Anzi, nella grande famiglia. Domani la Sony pubblica l’album “Collection: 1973-2012”, il nuovo album di Springsteen. Fra qualche settimana il “Wrecking Ball Tour” - che l’estate scorsa ha fatto tappa anche allo Stadio Rocco di Trieste - torna dalle nostre parti: 23 maggio a Napoli, 31 a Padova, 3 giugno a Milano, 11 luglio a Roma. La caccia al biglietto è già da tempo partita. E per l’occasione, Lofgren risponde ad alcune domande dalla sua casa in Arizona, dove riposa in una pausa del lungo tour mondiale. «Con Bruce ci conosciamo dagli anni Settanta - ricorda il chitarrista, classe 1951, nato a Chicago -, quando io suonavo con i Grin, il gruppo con il quale ho debuttato. Quando mi chiamò fu per me una grande soddisfazione. Sono passati quasi trent’anni, ancora non mi sembra vero». Cosa significa suonare con Springsteen? «Significa far parte della più grande rock’n’roll band di sempre. Ormai non siamo neanche una band, ma una famiglia. Fra noi c’è un rapporto che supera anche l’amicizia, siamo come fratelli, uniti dalla musica. E penso che il pubblico lo avverta». Che differenza c’è fra il tour di quest’anno e quello dell’anno scorso? «Bruce cambia scaletta quasi ogni sera, dunque ogni concerto fa storia a sè. Diciamo che c’è più confidenza, più familiarità con i brani del nuovo disco. Alcuni arrangiamenti sono cambiati, c’è più spazio per l’improvvisazione». In Australia com’è andata? «Davvero bene. La macchina ormai è ben rodata. C’è grande entusiasmo, l’eccitazione sul palco è palpabile, si va a memoria. E in Italia sarà ancora meglio». Com’è il Boss sul palco? «Sa gestire la situazione alla perfezione, non gli sfugge alcun particolare. Ma al tempo stesso lascia grande libertà a tutti noi. Insomma è il Boss ma non fa il boss, fra noi c’è stima reciproca, e lui ha anche un notevole senso dell’umorismo». Lei ha suonato con star come Neil Young, Ringo Starr, Mark Knopfler. Una parola su ognuno. «Con Neil ho praticamente cominciato la mia carriera. Ero giovanissimo quando ho suonato con lui in “After the gold rush” e poi in “Tonight’s the night”. Recentemente gli ho dedicato un disco-tributo, “The loner - Nils sings Neil”, con dentro le sue canzoni che preferisco». Ringo Starr? «Viene considerato il meno importante dei Beatles, oscurato com’era da una coppia come Lennon e McCartney. Ma è un grande artista. E fra i quattro ha fatto la sua parte. Per me è stata una grande esperienza lavorare con lui». Mark Knopfler? «Un grande chitarrista e un ottimo professionista. Abbiamo lavorato assieme negli anni Ottanta. E da uno come lui si impara sempre qualcosa». Lei ha cominciato con il pianoforte. «Da bambino suonavo la fisarmonica, poi il pianoforte, che ho studiato seriamente per dieci anni. Poi tramite mio fratello ho scoperto il blues, il rock e la chitarra. Che non ho più abbandonato». Quali artisti l’hanno più influenzata? «Da ragazzo ho assistito all’esplosione del rock, dei suoni nuovi, dei Beatles e dei Rolling Stones che arrivavano dall’Inghilterra. Ma una sera, dopo aver visto suonare gli Who e poi Jimi Hendrix, capii quanta potenza poteva nascere dal rock’n’roll». So che insegna chitarra su internet. «È vero, mi piace trasmettere qualcosa ai giovani. Restituire una parte di quello che ho ricevuto dal pubblico in tanti anni. E internet è una cosa eccezionale. Con una videocamera e un computer ho registrato le mie lezioni, e chiunque può scaricarle...».

martedì 9 aprile 2013

DJÈ DJÈ domani MERC a casa musica Trieste

«In Costa d’Avorio abbiamo un detto popolare: l’uomo magro è quello che non ha niente in testa, ma proprio perchè non ha niente in testa è un uomo libero, aperto, capace di percepire quanto arriva dall’ambiente esterno. Ho adottato questa formula, dell’uomo magro, appunto, per indicare la mia apertura a tutte le diverse culture che popolano il mondo...». Parla Jacques Honoré Djé Djé, musicista originario della Costa d’Avorio, che vive da una decina d’anni a Trieste. Dove domani, con inizio alle 20, all’auditorium della Casa della musica (via Capitelli 3), presenta in anteprima nazionale il suo nuovo spettacolo che si intitola, guarda caso, “L’uomo magro”. «La mia infanzia e la mia giovinezza - spiega l’artista, quarantuno anni, una gran massa di dreadlocks che gli incorniciano il volto - le ho passate fra il mio paese d’origine e la Francia, dove ho cominciato a lavorare nel campo della musica. Ed è proprio in Francia che ho conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie, triestina, con la quale ho due figli. Con lei sono arrivato in Italia, prima e Milano e subito dopo a Trieste, dove abbiamo scelto di vivere...». Jaques Honoré Djé Djé definisce il concerto un monologo in musica per piano, chitarra basso e batteria, dove ogni strumento è attore della rappresentazione del momento. La sua voce, dal tono profondo e al tempo stesso vellutato, interpreta canti e poesie di ispirazione sacra, attinti sia dal mondo spirituale africano che da quello occidentale. Come si diceva, il titolo dello spettacolo si riferisce a un modo di dire della lingua bété del popolo Krou: “O ni bè wli kè”, che nella traduzione letterale significa “colui che non ha niente in testa”. Sottintendendo, quasi metaforicamente, “colui che può percepire perché ha la testa vuota”. «Lo spettacolo - prosegue il musicista, che si alterna in scena fra chitarra e pianoforte, basso e batteria e molti altri strumenti - mette in evidenza questa metafora, ovvero la bellezza di una mente e di uno spirito incontaminati, come in un bambino, dove possono trovare spazio le più grandi armonie, le più grandi curiosità, le più grandi contraddizioni». In Francia Jacques ha collaborato con molti artisti, spaziando fra la bossa nova e il blues, fra il jazz e il grande repertorio delle sonorità caraibiche. L’orizzonte della sua ispirazione artistica è vasto e si è formato nel tempo, con gli studi e le ricerche sviluppate nella passione e nella volontà di recuperare e salvare il patrimonio popolare della sua terra d’origine. «Sono affascinato - dice - delle arti in via di estinzione, dai codici espressivi che caratterizzano le tradizioni trasmesse oralmente nelle varie aree etniche e culturali africane. Tutti linguaggi che affondano le radici in tempi remoti, ma attualmente minacciati dalla dominante evoluzione tecnologica». In venticinque anni di carriera, Djé Djè ha suonato e insegnato, ha organizzato vari festival musicali in Costa d’Avorio, ha condotto programmi radiofonici, ha partecipato come collaboratore in diversi progetti mirati alla socializzazione, all’integrazione, alla cooperazione, sempre facendo “parlare” le percussioni. La sua musica “senza frontiere” - si legge in una nota di produzione - fonde tradizione e modernità con marcati accenti jazzistici e sperimentali nell’incontro fra culture diverse e diverse influenze ritmiche ed armoniche. Con il suo gruppo Nah Jay Jay, ha partecipato nel 2009 anche al festival Trieste Loves Jazz. Alla Casa della musica, dove ha insegnato percussioni, sta lavorando al suo nuovo album. «Quando esce? Non si sa...». E di Trieste che dice? «Amo molto questa città. La trovo straordinaria e musicalmente molto sensibile e attiva. Anche se l’ambiente non è molto incoraggiante dal punto di vista delle iniziative di proposta al pubblico. Insomma, Trieste dovrebbe darsi una mossa». Ma va...?

sabato 6 aprile 2013

CANCELLATI TRE FESTIVAL ROCK

Tre dei maggiori festival rock italiani cancellati dal calendario dell’estate 2013. Fosse stato solo uno, saremmo in presenza di un mero indizio. Fossero stati due, avremmo avuto più che un sospetto. Ma una triplice botta vuol dire una cosa sola: l’onda lunga della drammatica crisi economica che investe il Paese sommerge anche le rassegne dedicate alla musica più amata dai ragazzi di ieri e di oggi. Ma andiamo per ordine. L’Heineken Jammin’ Festival, forse la più prestigiosa rassegna italiana, funestata in passato da nubifragi e incidenti, quest’anno non si terrà. «Non c’è cancellazione, semplicemente quest’anno il festival non si terrà per la mancanza di “headliner” (nomi di punta - ndr), in quanto molti hanno scelto di lavorare negli stadi e altri, per varie ragioni, hanno posticipato le loro tournèe», sottolinea Roberto De Luca, manager di LiveNation che negli anni passati ha firmato l’evento, che dal ’98 al 2012 (saltando il 2009) ha portato in Italia alcuni dei più grandi nomi della storia del rock. Probabilmente non va lontano dal vero chi, fra gli addetti ai lavori, parla anche di motivi di natura economica che avrebbero impedito di presentare un cast all’altezza. E problemi di natura logistica, visto che l’Arena Concerti della Fiera di Rho a Milano, scelta per l’edizione dello scorso anno, non aveva soddisfatto né pubblico né gli stessi organizzatori. Che più volte avevano parlato dell’esigenza di una “location più bucolica”, rispetto alla Fiera di Rho. A proposito della quale va segnalata la cancellazione - e siamo al secondo stop - anche del festival Rock in IdRho. A sentire la Hub Music Factory che organizza l’evento, la location sarebbe «inadatta e problematica da gestire e allestire: prevedere diversi palchi senza incidere sulla buona riuscita qualitativa e senza incidere sugli ospiti musicali, a quanto pare, risulterebbe un problema insormontabile». Difficile prevedere, dicono gli organizzatori, più palchi in contemporanea senza che gli artisti in concerto perdessero di valore. Ma c’è anche un altro motivo. «Abbiamo deciso di saltare un anno - dice Alex Fabbro, della Hub Music Factory - principalmente per mancanza di un “headliner” in linea con il festival disponibile durante il nostro periodo. E poi perché stiamo cercando di dare un nuovo format al festival introducendo varie novità e abbiamo bisogno di maggiore tempo per organizzare il tutto». E siamo alla terza cancellazione, quella del festival Gods of metal, annunciata peraltro già qualche mese fa. «Quest’anno abbiamo fatto la scelta - spiega Andrea Pieroni di LiveNation, che firmava anche questa rassegna - di fermarci un’estate per privilegiare il grande evento che organizziamo l’8 giugno a Milano, il Sonisphere Festival 2013 con gli Iron Maiden, per il quale abbiamo già venduto 40mila biglietti». Prosegue Pieroni: «È una scelta legata non direttamente alla crisi quanto al sovraffollamento di appuntamenti, fra i quali comunque il pubblico poi deve scegliere. È vero però che il pubblico italiano, a differenza di quello europeo, non sembra pronto culturalmente alla proposta dei festival. Preferisce il singolo concerto del singolo artista, rispetto alla proposta dei “tre giorni” nei quali puoi vedere, a un prezzo fra l’altro vantaggioso, più concerti uno dietro l’altro». Insomma crisi, strutture, sovraffollamento di date. Riflette Luigi Vignando, per tanti anni all’Azalea Promotion: «Più che di cancellazione penso si possa parlare di sospensione di questi festival che magari torneranno già il prossimo anno. Considerando i numerosi grandi concerti in programma durante l’estate (dai Muse ai Depeche Mode, da Bruce Springsteen a Robbie Williams, da Vasco Rossi a Jovanotti, da Roger Waters a Bon Jovi...), ritengo che la pausa sia dovuta principalmente alla difficoltà nell’assemblare un cast di primordine, che in Italia più che in altri paesi europei è una componente veramente imprescindibile, perché non siamo ancora riusciti a posizionare il prodotto festival dandogli il valore anche culturale che ha nel resto d’Europa».

venerdì 5 aprile 2013

BORIS PAHOR: esco dal pen club sloveno perchè...

«Esco dal Pen Club sloveno per protesta contro la loro decisione di estromettere l’ex premier Janez Janša. Si tratta del riflesso culturale dell’attacco al suo governo. Ma il club, che fa parte del Pen international, è nato per difendere la libertà di espressione, scritta e parlata. La politica non c’entra e non deve c’entrare...». Lo scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor spiega così, dalla sua casa sopra Barcola, la decisione di dimettersi dal Pen Club della vicina repubblica. Un gesto non isolato, visto che è stato adottato, con le stesse motivazioni, anche dallo scrittore Drago Jancar, dal console generale a Trieste Dimitrij Rupel e da Andrej Capuder, ex ambasciatore a Roma nonchè traduttore in sloveno della “Divina commedia”. «Janša - prosegue Pahor, che ad agosto compirà cent’anni - ha la sola colpa di essersi opposto alle manifestazioni create ad arte per buttar giù il suo governo. Lui ha risposto in maniera civile ed educata alla violenza, non solo verbale, di una sinistra che si dimostra fascistoide, con questi modi di fare». Ancora lo scrittore: «Tutta l’operazione di eliminazione del suo governo è stata ben costruita. E una parte della cultura slovena, quella contro Janša, è scesa nella lotta. Quei signori sono tutti membri del Pen, e ora gliel’hanno fatta pagare». «Ho letto - conclude Boris Pahor - che adesso stanno tentando una mezza marcia indietro, ma è troppo tardi. Mi dispiace, perchè ero iscritto da oltre trent’anni. Da quando sono nato, o almeno da quando a sette anni ho assistito all’incendio fascista del Balkan, ho a che fare con la lotta per la libertà. Non finirò certo adesso...». Jansa divenne membro del Pen Club 25 anni fa perchè noto pubblicista perseguitato dal regime jugoslavo. La direzione del sodalizio l’ha espulso alcuni giorni fa a causa di sue dichiarazioni che sarebbero contrarie alla Carta del Pen.

mercoledì 3 aprile 2013

Esce 16-4 nuova raccolta SPRINGSTEEN

Esce il 16 aprile la nuova raccolta di Bruce Springsteen, che tornerà in Italia a maggio per quattro date: il 23 maggio a Napoli, il 31 a Padova, il 3 giugno a Milano e l’11 luglio a Roma. “Collection: 1973-2012” contiene le versioni rimasterizzate nel 2010 di “Badlands” e “The promised land” e canzoni del calibro di “Atlantic City”, pubblicata nel 1982, “Brilliant disguise”, tratta dal’album del 1987 “Tunnel of love”, “Human touch” e “Streets Of Philadelphia”, che nel 1994 vinse l’Oscar come miglior canzone. E ancora: “The ghost of Tom Joad”, tratta dall’omonimo album del 1995; “Working on a dream”, eseguita da Bruce per la prima volta a Cleveland per la campagna presidenziale di Obama. “We take care of our own” e “Wrecking ball” chiudono il cd, due canzoni tratte dall’ultimo album “Wrecking ball”, l’album pubblicato nel febbraio dell’anno scorso, protagonista del tour dell’estate 2012, che ha fatto tappa anche allo Stadio Rocco di Trieste.

DISCHI: LESLIE CLIO

Per il New York Times ricorda le compiante Amy Winehouse e Nina Simone. Nel vecchio continente c’è già invece chi la paragona ad Adele, l’inglese da record di vendite, capace di piazzare il suo “21” al vertice delle classifiche per due anni di fila. Se avrà altrettanta gloria ce lo diranno gli anni a venire. Quel che è certo già oggi, nell’aprile del 2013, è che Leslie Clio, tedesca ventiseienne proveniente da Amburgo, con un solo album ha già attirato su di sè l’attenzione di critica e pubblico. Entrambi sempre alla ricerca di novità degne di nota, in questi anni così ricchi di quantità ma non altrettanto di qualità. L’album in questione, che segna questo importante debutto, s’intitola “Gladys” (Universal). Un sapiente mix di pop e soul, di swing e suoni vintage, che in certi tratti rimanda dritto dritto alle atmosfere dei dischi Motown di quaranta o anche cinquant’anni fa. Come nel brano “Told you so”, molto trasmesso dalle radio di mezza Europa, al pari dell’altro singolo apripista: “I could’nt care less”, che in terra teutonica sta viaggiando alla grande anche grazie al fatto che è inserito nella colonna sonora del film tedesco “Schlussmacher”. Ma l’intero album - prodotto dal bassista dei Tomte, nota band indie rock tedesca - ha un livello medio più che dignitoso. Ascoltare per credere due brani come “Let go” e “Sister sun brother moon”. Di suo, Leslie Clio ci mette una voce che è un piacere ascoltare, e che rimanda alle superstar citate all’inizio. Magari si tratta di paragoni ingombranti oltre che importanti, ma è un dato di fatto che, dopo averla ascoltata nei brani dell’album, non si può rimanere indifferenti. All’inizio il disco ha cominciato, comprensibilmente, a scalare le classifiche tedesche (va segnalato fra l’altro che la scena musicale nel paese governato dalla Merkel da un po’ di tempo offre proposte di un certo rilievo...) e austriache. Poi si è allargato all’Inghilterra e agli altri paesi europei. Quasi subito la fama della ragazza ha passato l’oceano e ora l’album è stato pubblicato anche nel nostro paese. A chi l’ha chiamata la “Adele tedesca”, Leslie con eleganza ha ribattuto che «l’essere umano tende a semplificare, riducendo tutto in categorie, perché così è più semplice e non ci si deve impegnare troppo mentalmente». Touchè. Fra l’altro la talentuosa interprete amburghese (che da alcuni mesi si è trasferita a Berlino, vera capitale anche musicale europea) è all’esordio come solista, ma ha già alle spalle già attività che l’avevano fatta conoscere perlomeno dagli addetti ai lavori. Ha accompagnato dal vivo, come corista, Marlon Roudette (ex Mattafix) e i Keane. E a suggello di questa sua ascesa, ora è in tour con Joss Stone, di cui apre i concerti con un successo di pubblico crescente.

martedì 2 aprile 2013

TIZIAN: la ndrangheta ha ucciso mio padre, non la speranza...

Quando aveva sette anni, nell’89, a Bovalino, in Calabria, la ’ndrangheta gli ha ammazzato il padre. Da giornalista ha scritto di mafie e malavita organizzata anche al Nord, dove la sua famiglia si era trasferita, a Modena, «nel tentativo di rimuovere, di dimenticare il passato, di trovare una normalità». Dopo gli articoli ha ricevuto minacce tali («gli spareremo in bocca...») da dover vivere da un anno e mezzo sotto scorta. Giovanni Tizian, giornalista trentaduenne dell’Espresso dopo anni di precariato in Emilia Romagna, racconta la sua storia nel libro “La nostra guerra non è mai finita”, edito da Mondadori. È la storia del nostro Paese che non riesce ad affrancarsi dal dominio della criminalità. Non soltanto al Sud. Tizian, a chi si rivolge il libro? «Si rivolge al Paese, agli italiani, alle vecchie e alle nuove generazioni. Non a caso la dedica è a mia sorella, adolescente, che davanti a sé ha un futuro incerto, che spetta proprio alle nuove generazioni rendere migliore. Magari senza mafie e corruzione. E a mia nonna, che ha tramandato i suoi ricordi, dolorosi e felici, al nipote perché li potesse un giorno raccontare. Tramandare di generazione in generazione è un valore umano che oggi si è un po’ perso, ma che rimane fondamentale. Da tramandare appunto». Quando ha capito di essere “in guerra”? «Come cittadino da quando ho preso coscienza del male procuratomi dalla ‘ndrangheta, da quando ho capito che il dolore provocato dall’uccisione di mio padre non era solo una questione individuale, ma un tassello di una storia più ampia: quella dei dimenticati, delle vittime della ‘ndrangheta, delle mafie. Come cittadino ho sentito la responsabilità di ricordare le loro storie, le nostre storie». E come giornalista? «Come giornalista non sono mai stato in guerra, la professione richiede il rispetto di regole precise e non possiamo permetterci di farci trascinare dalle emozioni. Ci tengo a precisarlo, perché sono due percorsi che porto avanti in parallelo. Certo, a volte si incrociano, quando per esempio mi capita di raccontare le storie delle vittime o degli imprenditori che resistono. Ma per il resto cerco sempre di tenere ben distinte il mestiere che faccio e l’impegno civile». Ci ricorda perchè la sua famiglia ha dovuto lasciare la Calabria? «Dopo l’incendio che distrusse la fabbrica di mio nonno, il mobilificio di famiglia che dava lavoro a venti persone, in un paese sulla costa jonica, Bovalino, di ottomila abitanti. E soprattutto dopo l’omicidio di mio padre, un caso rimasto irrisolto. Anzi, un omicidio “senza colpevoli”, nelle campagne della Locride, il 23 ottobre 1989. Due fatti che ci hanno allontanato dalla Calabria». Suo padre che persona era? «Ho pochi ricordi, quando lo hanno ucciso avevo solo sette anni. Gli investigatori lo definiscono persona integerrima, io lo ricordo pieno di vita, curioso, sempre pronto a farmi provare il brivido della novità. Dalla piccola barca a vela, dove ci stavamo io e lui e nessun’altro, ai giri dell’isolato con la sua moto Guzzi. Era la spalla di mio nonno e il suo avversario di scacchi. Quei pochi ricordi che ho sono di un papà. Niente più. Un papà normale che mi hanno negato per sempre». Al Nord quando ha incontrato per la prima volta la malavita organizzata? «Negli anni Duemila, durante l’università, leggevo molto. Poi me ne sono occupato da giornalista i primi anni in cui scrivevo per la Gazzetta di Modena. La mia prima inchiesta fu sugli incendi dolosi in provincia. Raccogliemmo un numero impressionante di fatti. Ma l’aria era cambiata da tempo, molto tempo prima che arrivassimo noi a Modena. Dove la malavita organizzata era presente sin dagli anni Settanta. Oggi è cambiata, è più ordinata e discreta, ma tiene comunque in mano pezzi di economia». Al giornale dove collaborava ha mai avuto problemi nel pubblicare i suoi articoli? «No, mai. Anzi, massima disponibilità e continui stimoli a proseguire». Le prime minacce? «Nel 2011, telefonate e telefonate in cui progettavano di bloccarmi. Fortunatamente gli investigatori stavano ascoltando». Da quanto tempo vive sotto scorta? Cosa le pesa di più di questa situazione? «Da un anno e mezzo. Più passa il tempo e più vorrei tornare libero di uscire solo e indipendente. Non è vero che ci si abitua, almeno per me non è così». In che cosa è diversa, se è diversa, la malavita al Nord e al Sud? «È diversa nell’approccio al territorio. Un esempio: al Nord evitano il più possibile di imporsi con la violenza, tentano in tutti i modi di comprare, di corrompere». Che ricordi ha di Bovalino? «Bovalino è il mio paese, lì ci sono le mie radici. Un luogo dove ho sofferto ma dove ho imparato a resistere. E come tutti gli amori lacera, le sue contraddizioni non riesco a condannarle, dobbiamo imparare a capirle, a spiegarle, per cambiarle. Ma vale per la Calabria, e vale per l’intero Paese». Qual è la sua speranza? «Che la politica e il prossimo governo metta al primo posto la lotta economica e culturale alle mafie e alla corruzione, due facce della stessa medaglia. Che ai giovani venga data l’opportunità di uscire dal ricatto della precarietà, che diventa strumento delle cosche e della mala politica per assoggettarli alle loro promesse». “La nostra guerra non è mai finita”, pubblicato da Mondadori nella collana “Strade blu”, la stessa di “Gomorra” di Roberto Saviano, è il secondo libro di Giovanni Tizian. Il primo, pubblicato nel 2011 da un piccolo editore, s’intitolava “Gotica. 'Ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea”. «Se ho mai pensato di smettere di scrivere di 'ndrangheta? No - conclude il giornalista -, mi hanno già tolto la vita una volta, non permetterò a nessuno di togliermela un’altra volta...».

Vive a trieste la figlia di FRANCO CALIFANO, oggi i funerali

Vive da tanti anni a Trieste l’unica figlia di Franco Califano, il cantante romano morto la vigilia di Pasqua. Silvia Califano, madre di una ragazza che oggi ha quattordici anni, è una ballerina classica che, dopo le stagioni dell’operetta al Teatro Verdi, ora è fra i titolari di una scuola di danza triestina. «Non è stato un padre molto presente - dice la donna, classe 1959 -, non ne era capace. Mi dispiace non aver vissuto delle cose. Io ora sono mamma e penso che ha perso un po’ più lui. Però è andata così, gli volevo molto bene». Ancora Silvia: «Non mi sono resa conto di quanta gente amasse mio papà, forse più di me, ci siamo voluti bene però ci siamo persi un pezzo di vita insieme. Io sono figlia, ma anche madre di Francesca e penso che mio padre non era tagliato per fare il padre». La donna racconta «di non aver mai vissuto» con il padre Franco. «Ci siamo frequentati per un periodo - aggiunge - ma il fatto di non vivere a Roma bensì a Trieste non ci ha aiutato. Ho perso un po’ di lui, papà era quello che era, era un artista, un grande poeta, ma non era proprio capace di fare il padre. Non ha mai conosciuto mia figlia, ho tentato di portarla a conoscere il nonno un periodo, ma lei si vergognava. Di sicuro ha perso più lui di me». Silvia Califano si è raccontata a Tgcom24 dopo la morte del padre: «Ero molto scettica a parlare, sono molto riservata, forse qualcuno pensava perfino che mio padre non avesse figli. Era una persona molto generosa e disponibile, un burberone, ma era un grande artista e una bella persona. Confermo che sulla sua lapide si scriverà “Non si esclude il ritorno”. Voglio invitare tutti a fare attenzione a quel che si dice in giro sul suo conto, perchè non sempre quello che si dice è vero. Voglio che mio padre venga ricordato». E affida a Facebook il suo ultimo «Ciao papà...». La figlia del cantante romano, anche lei nata nella capitale, dove fu cresciuta dalla madre, arrivò a Trieste a metà degli anni Ottanta. Giovane ballerina, voleva partecipare alle selezioni di Gino Landi per la compagnia delle operette. Venne ingaggiata, poi decise di rimanere qui. «Era il momento d’oro del festival dell’operetta - ricorda un vecchio amico della donna -, ai tempi di Sandro Massimini e altre star. Silvia ha vissuto tutto quel periodo, selezione dopo selezione, graduatoria dopo graduatoria. D’estate le operette, d’inverno la stagione dei balletti». Nel ’90, assieme ad alcuni colleghi, fonda la scuola di danza Arteffetto, dove tuttora lavora. Silvia Califano oggi è a Roma, dove alla Chiesa degli Artisti si svolgeranno i funerali del padre. Ieri, alla camera ardente in Campidoglio, lunga fila di amici, colleghi, gente comune. Tra i primi ad arrivare Fiorello, che con una sua azzeccata imitazione, qualche anno fa, aveva regalato al Califfo una nuova stagione di popolarità e successo. «Insieme - ricorda commosso lo showman - abbiamo ritrovato la grinta. Quando io ho iniziato ad imitarlo eravamo entrambi in crisi e poi abbiamo superato questo momento». La sepoltura avverrà ad Ardea, vicino Roma. Sulla lapide, seguendo le volontà del cantante, ci sarà scritto “Non escludo il ritorno”, titolo della canzone scritta con Federico Zampaglione, che cantò a Sanremo nel 2005.