martedì 29 marzo 2011

ALEX LANGER


«Quante Cernobyl, quanti incendi nel Golfo, quante guerre, quanti attentati, quanta deforestazione, quanti studi e previsioni catastrofici ci occorreranno per prendere le nostre misure e digiunare?»

Parole di Alex Langer, scritte vent’anni fa, che tornano di bruciante attualità nei giorni dell’apocalisse giapponese e della guerra libica, ma anche del livello mai così basso a cui è scesa la nostra politica. Parole che ritroviamo nel volume “Il viaggiatore leggero, Scritti 1961-1995” (pagg. 410, euro 18), che Sellerio rimanda in libreria - a cura di Edi Rabini e Adriano Sofri, con un’introduzione di Goffredo Fofi - quindici anni dopo il suicidio dell’europarlamentare verde, padre dell’ambientalismo ma anche del movimento non violento italiano.

Quella frase iniziale, Langer la continuava così: «Nel digiuno si può ottimamente sintetizzare il cuore del messaggio anche della “conversione ecologica”: la corsa sfrenata al profitto, all’espansione, alla crescita economica, alla dissipazione energetica e alimentare, alla super-motorizzazione, alla montagna ormai ingestibile dei rifiuti. Un digiugno - una scelta di autolimitazione, del “vivere meglio con meno” - è oggi necessario e urgente. Anche a costo di apparire impopolari».

Langer era sudtorilese di lingua tedesca, nato nel ’46 a Vipiteno da padre ebreo (un medico viennese che si era trasferito a Bolzano da ragazzo) e madre cattolica. Vicino ai cattolici del dissenso, conosce don Milani nella Firenze degli anni Sessanta, dove studia giurisprudenza: una delle sue due lauree, quella in sociologia, la consegue poi a Trento.

L’insegnamento, a cui si era dedicato a Bolzano, Merano e a Roma, viene ben presto abbandonato dalla passione per il giornalismo e per la politica, che lo porta a essere prima consigliere regionale per la Nuova sinistra in Alto Adige e poi parlamentare europeo. Per i verdi, nell’89 e nel ’94, del cui movimento fu fondatore in Italia e fra i maggiori esponenti a livello continentale.

Un anno dopo la sua conferma al parlamento di Strasburgo si tolse la vita. Una vita troppo breve, dedicata a tre grandi filoni di militanza civile e politica: l’impegno per la convivenza interetnica e interculturale nel suo Sudtirolo, i movimenti ecologici verdi, le carovane per la pace nell’ex Jugoslavia, ai tempi della guerra dei primi anni Novanta.

Il volume comprende scritti e articoli che abbracciano quasi quattro decenni. Dalle prime cose realizzate da adolescente per riviste cattoliche di lingua tedesca fino agli articoli per Lotta Continua (del cui quotidiano fu l’ultimo direttore responsabile) e per il Manifesto, per giornali locali e riviste di varia natura, ma anche per fogli autofinanziati e a bassissima tiratura.

Un altro estratto, che a distanza di vent’anni risulta di bruciante attualità: «Gli immigrati che rappresentano la diretta sporgenza e ingerenza del sud (e dell’est) nel nostro mondo, sono oggi anche il primo banco di prova di tutti i nostri discorsi sulla cooperazione equa e solidale e sul risarcimento e possono diventare un importante “ponte” tra le nostre società e le loro comunità di provenienza».

Langer ci lascia frammenti e riflessioni di una lucidità sconvolgente, per questo nostro mondo che sembra viaggiare allegramente verso il naufragio. Il suo messaggio nella bottiglia, da splendido “viaggiatore leggero” qual era, rimane scritto con la forza di un comandamento: non smettere mai di ascoltare l’altro. Alex l’ha fatto finchè ne ha avuto la forza. Poi ha salutato la compagnia.

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«Se si dovesse chiudere in una formula ciò che Alex Langer ci ha insegnato - scrive Goffredo Fofi nell’introduzione -, essa non potrebbe che essere: piantare la carità nella politica. Proprio piantare, non inserire, trasferire, insediare. E cioè farle metter radici, farla crescere, difenderne la forza, la possibilità di ridare alla politica il valore della responsabilità di uno e di tutti verso “la cosa pubblica”, il “bene comune”, verso una solidarietà tra gli umani e tra loro e le altre creature secondo il progetto o sogno di chi “tutti in sé confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli ultimi perigli e nelle angosce/ della guerra comun”. Dico carità nel preciso senso evangelico, poiché Alex era un cristiano, dei non molti che cercavano di attenersi agli insegnamenti evangelici che era possibile conoscere in quegli anni nel “movimento” (e oggi sono ancora di meno) e non, come tanti di noi che gli fummo contemporanei e amici, di fragilissime convinzioni “marxiste”...». 



domenica 27 marzo 2011

GREASE al Piccadilly Theatre, Londra




di Carlo Muscatello

LONDRA “Grease”, ovvero la brillantina con cui i giovanotti degli anni Cinquanta si impomatavano le chiome. Oggi non esiste più, sostituita da mille varianti di gel, rigorosamente unisex. Ma sopravvive sulla scena, per esempio al Piccadilly Theatre, a due passi dal quotidiano caos di Piccadilly Circus, in una Londra in fibrillazione per le imminenti nozze reali fra William e Kate e per le inevitabili Olimpiadi.

Nello storico teatro vittoriano del west end, le repliche del musical - che nella versione originale firmata David Gilmore arriverà al Rossetti di Trieste dal 7 al 12 giugno - si inseguono da anni senza sosta. Niente male, per un testo scritto nel ’71 da Jim Jacobs e Warren Casey, che debuttò l’anno successivo a Broadway e nel ’78 ha ispirato l’omonimo film campione di incassi con John Travolta e Olivia Newton John, diretto da Randal Kleiser (vedi scheda a destra).

La storia è nota. Stati Uniti, estate 1959. Durante le vacanze, il fustacchione Danny (interpretato da Matthew Goodgame) conosce Sandy, biondina australiana tutta acqua e sapone. Lei è ingenua, lui fa il bulletto. E al rientro a scuola, se la ritrova iscritta nella sua stessa Rydell High School. Per farsi bello con gli amici non la calcola, lei si dispera.

Sandy (l’attrice è Lauren Samuels) rivela l’amoretto estivo alle compagne, una delle quali organizza un incontro “casuale” fra i due. Danny prima si mostra indifferente, poi ricuce la tela: lui ostacolato dalla sua banda, lei dalle compagne. Alla gara di ballo si presentano in coppia ma poi vengono separati, e lui vince la gara con una sua procace ex. Per farsi perdonare porta Sandy al “drive in”, le dona un anello, tenta di baciarla, lei scappa via.

Dopo una gara automobilistica tra bande, lei torna alla carica, adottando atteggiamento e abiti più aggressivi. Alla festa di fine anno si presenta molto grintosa a uno sbalordito Danny, che a sua volta ha imboccato un processo di trasformazione opposto, pur di riconquistarla. Happy end scontato, con i due piccioncini che partono a bordo di una scintillante decappottabile, festeggiati dagli amici sulle note di “You're the one that I want”. Che con “Summer nights” è il brano di maggior successo del musical.

Che dire? Atmosfera leggera, allegra, frizzante, decisamente edulcorata rispetto al testo originale, nel quale - con toni crudi e a tratti volgari - erano maggiormente presenti i temi delle bande giovanili, delle sottoculture, della violenza, delle prime esperienze sessuali, dell’emergere per la prima volta dei giovani quale categoria sociale.

Sì, perchè il periodo in cui è ambientata la vicenda è quello della nascita del rock’n’roll, dell’ascesa di Elvis Presley, dei giovani americani - giubbotto di pelle, jeans e ciuffo impomatato - che per la prima volta nella storia del continente a stelle e strisce rivendicavano un destino diverso da quello dei padri.

Purgato da tutto ciò, lo show sopravvive con l’eterno tema dell’amore adolescenziale, fra canzoni, balletti, risatine e gag più o meno sciocchine. Con la morale per la verità banalotta che due mondi apparentemente distanti possono sempre incontrarsi. E che l’amore alla fine trionfa. Buon allestimento per uno spettacolo godibile, indicato per anime semplici e danzerecce.

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Il film “Grease” uscì nel ’78. John Travolta era già famoso per il grande successo de “La febbre del sabato sera”, ma qui mise in luce il suo talento d'interprete ironico e si confermò gran ballerino. Anche la fama di Olivia Newton-John crebbe dopo la sua partecipazione al film, che ricevette cinque nomination al Golden Globe ’79. La colonna sonora di “Grease” rimase per settimane al primo posto delle classifiche in molti paesi. In Gran Bretagna i duetti “You're the one that I want” e “Summer nights” schizzarono ai primi posto delle classifiche e sono tuttora presenti nelle classifica dei singoli più venduti di sempre. La canzone “Hopelessly devoted to you” ha ricevuto una nomination al premio Oscar per la migliore canzone originale nel ’79. Anche il tema del film, scritto da Barry Gibb dei Bee Gees e interpretato da Frankie Valli, giunse ai vertici delle hit parade. Nell’82 fu prodotto un sequel (“Grease 2”, con un cast differente) di scarso successo. L’originale è stato riproposto nelle sale nel ’98, in occasione del ventesimo anniversario.  

lunedì 21 marzo 2011

ELISA AL ROSSETTI (1)





Comincia con "Lullaby", voce e organo, sola sul palco, in un lungo ed elegante abito chiaro. Poi entra la band, lei imbraccia la chitarra acustica, si concede un "ndemo vanti, dèi!" giusto perchè stasera si gioca in casa, poi parte "Nostalgia", e poi ancora "Una poesia anche per te", con strofe intere cantate da un pubblico adorante. 


Piccola grande Elisa. La sua più grande ispirazione è sempre stata la natura. Lo sapevamo. Ma dopo il concerto di ieri sera al Rossetti - teatro ovviamente tutto esaurito per la popstar di Monfalcone nata al triestinissimo Burlo -, la convinzione che avevamo maturato nell’ascolto di tante canzoni e tanti dischi, non ultimo il recente “Ivy” (edera in inglese, si pronuncia “aivi”), è diventata granitica certezza. Che forse spiega anche il motivo per cui la trentatreenne artista ha scelto di rimanere a vivere in queste terre, a ridosso di un confine che non c’è più, dove tante volte da ragazza ha visto la luce dei suoi tramonti a Nordest.

L’edera, spiega Elisa, non ha fiori ma è sempreverde, ben radicata a terra, combattiva e resistente, si spinge verso l’alto, abbraccia e fa proprio tutto ciò che tocca. E le canzoni del nuovo disco, fra cover altrui, riletture di propri successi e brani nuovi, «sono quelle che mi sono rimaste dentro, raccontano frammenti di vita reale, ricordi che vivono nella memoria ma la rileggono anche con nuova maturità e prospettiva, nella loro essenza e semplicità. La loro bellezza, la loro forza è simile alle emozioni che trovo nella natura».

Ecco, ci risiamo: la natura, che nel concerto è elemento molto presente, quasi palpabile. E non solo per le immagini proiettate sul fondale: foglie e alberi, fiumi e montagne, fra nordici paesaggi incontaminati. E’ la musica stessa, le canzoni a sembrare abitate dagli elementi della natura. A partire da quelli più importanti: l’acqua nello spettacolo visto ieri sera, nel primo teorico giorno di primavera, il fuoco nella seconda parte che al Rossetti arriverà esattamente fra un mese, il 22 aprile. Sì, perchè per questo tour Elisa ha scelto di portare in giro in ogni città due spettacoli diversi (altrove, come a Udine il 3 e 4 aprile, in due sere di fila...): prima l’acqua e il Nord e le canzoni di “Ivy”, poi il fuoco e il Mediterraneo e l’Africa e i brani dell’album ”Lotus”, uscito nel 2003.

Natura, ambiente, aria. «Aria fresca, una boccata d’aria da respirare. Prenditi una possibilità, culla un sogno. Un posto sicuro dove stare e contare su quello che hai trovato...», canta Elisa in “Fresh air”, che aveva scritto a vent’anni, quando «la musica finalmente non era un hobby per me, ma facevo fatica a capire dov’ero», e che ora ha riscoperto per questo nuovo “Ivy”, di cui è uno dei tre inediti. Con la citata “Nostalgia” e “Sometime ago”, anch'esso presente nella scaletta di ieri sera. Che vive anche di classici come “Dancing” e “Creature”, “Heaven out of hell” e “Fairy girl” (del 2001, stavano entrambe nel terzo album “Then comes the sun”), “Rainbow” e “Asile’s world”... Delle cover di “1979” degli Smashing Pumpinks e di “Cuore amore” degli Ustmamò. Dell’omaggio a Mia Martini con “Almeno tu nell’universo”. Ed Elisa è l’unica che può cantare questo brano senza far rimpiangere i brividi che sapeva regalare l’immensa Mimì. Alla stessa maniera in cui può interpretare “Ti vorrei sollevare” e “Gli ostacoli del cuore” da sola, senza che nessuno rimpianga i rispettivi duetti con Giuliano Sangiorgi dei Negramaro e Ligabue.

«La verità è che ho aspettato a lungo qualcosa che non c'è, invece di guardare il sole sorgere», canta all’inizio del secondo tempo, in “Qualcosa che non c’è”. E lo fa assieme al coro di voci bianche Artemia, di Torviscosa, che la affianca per buona parte del secondo tempo. In questo tour, in ogni città coinvolge - anche per motivi logistici - un coro diverso, della zona dove si svolge il concerto. Anche perchè l’idea del disco e dunque del tour sono nate proprio da un concerto fatto l’estate scorsa, con un coro di bambini poco più grandi della sua piccola Emma Cecile, che ha un anno e mezzo.

Sul palco, mamma Elisa appare a suo agio. Passa dalla chitarra al pianoforte, alle percussioni: si muove, balla, canta, ride, esprime la propria felicità sincera di “giocare in casa”. Stupisce sempre la sua capacità di ricamare trame melodiche sottili su tappeti armonici semplici. Parte dal basso e poi sale, la sua voce si arrampica su, in cielo, verso l’alto. Proprio come l’edera del titolo.

Al Rossetti, otto mesi dopo  i quattromila di piazza Unità, un altro successo trionfale. Davanti alla mamma e alla nonna accomodate in un palco a godersi "la picia". Un successo senza se e senza ma. Come la grandezza di Elisa Toffoli da Monfalcone.


domenica 20 marzo 2011

ELISA


Nel luglio scorso in piazza dell’Unità, stasera al Politeama Rossetti, dove è prevista una seconda data fra un mese esatto, il 22 aprile. In mezzo, fra le due date triestine di questa tournèe, Elisa fa tappa di nuovo nella sua regione il 3 e 4 aprile al Nuovo di Udine.

Tour particolare, questo “Ivy I e II”, partito trionfalmente il 4 marzo da Roma, dove la popstar monfalconese era stata festeggiata da due serate sold out con tanto di standing ovation. Situazioni che si sono ripetute nei giorni scorsi a Milano, al Teatro degli Arcimboldi: ben tre tutto esaurito, da giovedì a sabato.

Particolare perchè porta in giro nei teatri un doppio spettacolo, con due concerti diversi per scaletta, strumentazione e scenografia, nei quali Elisa propone al pubblico il proprio viaggio musicale. Un doppio spettacolo che ruota attorno agli elementi primari della natura cioè l’acqua e il fuoco, nel quale l’artista è accompagnata da arrangiamenti acustici e da un suggestivo coro di voci bianche, selezionato appositamente in ogni città in cui fa tappa il tour.

Il primo spettacolo, quello che vedremo a Trieste stasera, è caratterizzato da atmosfere nordiche e sognanti, con una radice “rock celtica” e una scaletta incentrata maggiormente sui brani di “Ivy”. Questo scenario lascerà il posto, nel concerto che arriva al Rossetti fra un mese, a suggestioni più calde e terrene, quasi soul, con una matrice che la stessa Elisa definisce “afro-tribale” e una scaletta per gran parte occupata dai brani di “Lotus”.

La base del doppio spettacolo è ovviamente “Ivy”, il disco pubblicato il 30 novembre: una sorta di concept-album quasi autobiografico nel quale ogni canzone racconta un frammento di vita reale. Un progetto completo che racchiude l’italiano, l’inglese e il francese, con cover che spaziano da “1979” degli Smashing Pumpkins a “Ho messo via” di Ligabue, da “I never came” dei Queens of the Stone Age a “Pour que l’amour me quitte” di Camille («la cantavo sempre alla mia piccola Emma Cecile per farla addormentare, e successivamente ho cominciato a cantarla anche ai concerti...»), fino a duetti con Fabri Fibra e Giorgia. Ma ci sono anche brani inediti della stessa Elisa e dieci rivisitazioni di suoi grandi successi, tra i quali “Lullaby”, “Ti vorrei sollevare”, “Una poesia anche per te”, “Rainbow”, “Gli ostacoli del cuore” e “Forgiveness”.

Al cd, che è ancora nelle classifiche dei dischi più venduti, è allegato anche un docu-film di cinquanta minuti nel quale l’artista parla della sua musica, delle canzoni, dello stesso album, delle emozioni che hanno caratterizzato il suo percorso artistico, in un viaggio che ripercorre le tappe di questa opera. La regia è affidata a Danni Karlsson, che ha inserito dei brevi set registrati in mezzo alla natura.

Ma com’è nata l’idea del doppio concerto? «Per avere nuove motivazioni e stimoli diversi - ha spiegato il mese scorso Elisa al “Piccolo” -, visto che la tournèe è molto lunga. Esibirsi con più canzoni è divertente per il pubblico ma anche per noi che possiamo offrire due spettacoli piacevoli, belli da sentire e vedere. Due serate perché è difficile contenere tutto in uno show. Cantare di più potrebbe essere pesante per il pubblico. Manchiamo dai teatri dal 2003 e siamo molto contenti di ritornare. Teatri e grandi club sono gli spazi ideali per questo spettacolo».

Con riferimento alla doppia anima dei due spettacoli, la cantautrice dice che «sono due influenze musicali, entrambe presenti nella mia musica. Vi assicuro però che non ci sarà una doppia Elisa».

mercoledì 16 marzo 2011

QUEEN / FREDDIE MERCURY


Torna domani al Rossetti il musical “We will rock you” mentre il calendario propone due anniversari tondi: quarant’anni dalla nascita dei Queen, venti dalla morte del loro leader Freddie Mercury, scomparso il 24 novembre 1991. Un gruppo e un artista che hanno segnato la storia del rock.

Siamo infatti nel ’71, quando Farrokh Bulsara incontra il chitarrista Brian May e il batterista Roger Taylor, reduci da un gruppo chiamato Smile. Il talentuoso cantante e pianista nato a Zanzibar esce invece dai Wreckage. Assieme, i tre identificano in John Deacon il bassista giusto.

Nascono allora i Queen, nome scelto da colui che nel frattempo è diventato Freddie Mercury. Per il primo album, “Queen I” bisogna aspettare il ’73, passa un anno e arriva “Queen II”. Nei tour, anche negli States, il pubblico comincia ad apprezzare lo stile immaginifico del gruppo, che contamina il pop con l’opera (passione di Mercury), il rock pesante con gli atteggiamenti glam, le melodie raffinate con i testi che attingono anche al genere fantasy.

“Sheer heart attack”, del ’74, comprende alcuni brani (“Brighton rock”, “Killer queen”, “Now I'm here”...) che lanciano il gruppo. Nel ’75 esce il singolo “Bohemian rhapsody”, forse il pezzo più noto della loro carriera, che preannuncia l’album “A night at the opera”, con in copertina il simbolo disegnato dallo stesso Mercury, composto dai segni zodiacali dei quattro.

“A day at the races” è del ’76, e comprende successi come “Somebody to love” e “Good old fashioned lover boy”. Ma un altro botto arriva nel ’77, con l’album “News of the world”, che schiera pezzi da novanta come “We are the champions” e quella “We will rock you” che dà il titolo al musical ora in tour in Italia.

E’ il periodo d’oro del gruppo. Si pensi che nei primi dieci anni di attività, dunque fino all’80, i Queen vendono la bellezza di 45 milioni di album e 25 milioni di singoli, all’interno di un totale attualmente stimato in 300 milioni di dischi. Numeri ai quali bisogna aggiungere quelli dei tour, con stadi riempiti per anni in mezzo mondo.

Arriva il tempo dei progetti solisti: prima Roger Taylor, poi gli altri. E anche della stagione influenzata dalla disco che delude molti fan. Ma dentro “Hot space”, uscito nell’82, c’è anche quella “Under pressure”, firmata con David Bowie, che entra fra le hit del gruppo.

Altri titoli di quegli anni sono “The works” dell’84 e “A kind of magic” dell’86, mentre ”Mr. bad guy” è il primo lavoro solista di Freddie, che nell’87 sforna il suo singolo di maggior successo, “The great pretender”, cui segue l’anno dopo l’album “Barcelona”, assieme alla cantante lirica Montserrat Caballè.

Ma l’artista è malato di Aids, le sue condizioni peggiorano rapidamente. Con i Queen realizza l’ultimo album, “Innuendo”, uscito nel ’91, dal quale traspare la situazione drammatica ormai vicina all’epilogo. Ed è un uomo ormai ridotto al lumicino quello che registra il suo ultimo video per la canzone “These are the days of our lives”: una sorta di commosso addio al suo pubblico.

Il 24 novembre, il giorno dopo l’annuncio ufficiale della malattia fino a quel momento mai ammessa, Freddie Mercury muore nella sua casa di Londra, circondato dall’affetto degli amici più stretti ma anche dall’amore incondizionato di milioni di fan.

Pochi giorni dopo, come da ultima volontà dell’artista, esce il singolo “Bohemian rhapsody” e “These are the days of our lives”: rimane a lungo in vetta alle classifiche di vendita, raccogliendo un milione di sterline per la ricerca sull’Aids.

La morte di Mercury suscita grande commozione in tutto il mondo, ma soprattutto in Inghilterra, dove in quel mese di dicembre ’91 i Queen hanno in classifica dieci album fra i primi cento.

Pochi mesi dopo, nell’estate ’92, allo stadio londinese di Wembley, il Freddie Mercury Tribute Concert vede la partecipazione sincera e commossa di artisti come Elton John, Liza Minnelli, George Michael, Annie Lennox, David Bowie, Metallica, Guns N’Roses, Robert Plant...

In questi dieci anni sono stati tanti gli album postumi di Mercury, tutti premiati dal pubblico. I Queen sono sopravvissuti nell’impossibile ricerca di un sostituto all’altezza di Freddie Mercury, impresa impossibile. Per questo, in un anno di anniversari, oggi è più onesto rivivere la magica epopea del gruppo, oltre che risentendo i dischi orginali (esce in questi giorni per la Universal l’opera omnia rimasterizzata), anche andando a teatro a vedere e rivedere questo “We will rock you”. In scena nei teatri di mezzo mondo dal 2002.

NILLA PIZZI +


«Per me “Vola colomba” era soprattutto una canzone d’amore: due persone che venivano separate da un confine, o da una guerra, e la colomba era naturalmente un simbolo di pace. In quel periodo c’era il Territorio Libero di Trieste diviso in due parti, e quindi la canzone fu caricata di tutta una serie di altri significati. Ma per me resta ancor oggi una canzone d’amore. E di pace».

Parole di Nilla Pizzi, nel maggio dell’82, in piazza dell’Unità, prima di un suo spettacolo. Erano passati giusto trent’anni dal suo secondo trionfo sanremese, quello che parlava di Trieste e di San Giusto e della colomba simbolo di pace. Adionilla Pizzi, detta Nilla, nata a Sant’Agata Bolognese il 16 aprile 1919, aveva vinto il primo Festival di Sanremo, quello del ’51, con “Grazie dei fior”. Ma l’anno dopo aveva fatto l’en plein: prima con ”Vola colomba”, seconda con “Papaveri e papere”, terza con “Una donna prega”. Allora era possibile: pochi cantanti interpretavano infatti tutte le canzoni.

Alla ribalta del Festival, la Pizzi era arrivata nel pieno di una carriera cominciata a soli vent’anni, quando nel ’39 vinse il concorso “5000 lire per un sorriso”, antesignano di “Miss Italia”. Durante la guerra si esibisce in spettacoli per le forze armate. Nel ’42 vince un concorso per voci nuove dell’Eiar (così si chiamava all’epoca la Rai), preferita ad altri diecimila concorrenti.

Debutta alla radio, canta con l’orchestra Zeme, poi passa a quella di Cinico Angelini. Nel ’44 incide i primi dischi, ma il regime fascista giudica la sua voce “troppo sensuale” e la allontana dalla radio. Lei si consola girando teatri e sale da ballo di mezza Italia, sempre con l’orchestra di quell’Angelini al quale nel frattempo si è legata anche sentimentalmente.

Nell’Italia liberata torna a cantare alla radio. E’ il ’46, per problemi di contratti discografici incide usando vari pseudonimi: Isa Marletti, Ilda Tulli, Conchita Velez, Carmen Isa. Solo nel ’49 può usare nuovamente il suo vero nome. Ormai è popolarissima, e quando nel ’51 si presenta al primo Sanremo, le mettono idealmente il tappeto rosso. E’ ancora tempo di 78 giri, “Grazie dei fior” vende 36 mila copie, un record per l’epoca. Quell’anno si piazza anche seconda con “La luna si veste d’argento”, cantata assieme ad Achille Togliani. Ma come si diceva, il vero trionfo arriva nel ’52, con l’occupazione dell’intero podio.

In quell’Italia in bianco e nero, Nilla Pizzi è l’indiscussa regina della canzone italiana. Nel ’58 torna al Festival e si piazza seconda e terza, rispettivamente con “L'edera” e “Amare un altro”. Nel ’59 vince Canzonissima (con “L’edera”), il Festival di Barcellona (in coppia con Claudio Villa con “Binario”) ed è terza al Festival di Napoli con “Vieneme ’nzuonno”, assieme a Sergio Bruni. Ma la cantante è anche protagonista indiscussa del costume. Film, trasmissioni radiofoniche, rotocalchi, chiacchierate love story (il cantante Gino Latilla tenta anche il suicidio per lei) la tengono sempre sotto i riflettori.

Negli anni Sessanta, con l’avvento prima dei cosiddetti urlatori e poi dei cantautori, la grande Nilla comincia pian piano a essere messa in disparte. Nel ’62 partecipa al primo Cantagiro, nel ’64 al primo Disco per l’estate, nel ’68 tiene una lunga tournèe americana con Frank Sinatra, Ella Fitzgerald e Perry Como. Ma il mondo cambia.

Tante serate in tutta Italia, tante tournèe soprattutto in Australia e in Canada. Poi nell’81 Gianni Ravera la chiama a condurre il Festival con Claudio Cecchetto, nell’86 forma Quelli di Sanremo con Carla Boni, Latilla e Giorgio Consolini, nel ’94 è ancora al Festival con Squadra Italia e “Una vecchia canzone italiana”.

Al “suo” Festival di Sanremo torna per l’ultima volta l’anno scorso, a ricevere un premio e una commossa standing ovation, dopo l’omaggio tributatole da Carmen Consoli con una versione straniata di “Grazie dei fior”.

Nilla Pizzi ha cantato fino all’ultimo. Anche l’estate scorsa, nella sua Bologna. Con lei se ne va un altro pezzetto di un’Italia in bianco e nero, un’Italia che non c’è più.

SAVIANO


Rileggendo i monologhi di “Vieni via con me” (Feltrinelli, pagg. 155, euro 13), si comprende la forza di Roberto Saviano. Quella forza che lo ha trasformato, da “Gomorra” in poi, in un personaggio-simbolo di un’Italia pulita, civile, legalitaria, diversa da quella dominante ma probabilmente ancora maggioranza nel Paese. E della quale lo scrittore napoletano sa essere voce lucida e appassionata.

Sere fa è tornato in tivù da Fabio Fazio. Dove, una parola tira l’altra, i due hanno annunciato che rifaranno il programma che è stato uno dei maggiori eventi della stagione televisiva in corso.

Nell’attesa, rileggiamo del valore troppo a lungo non condiviso dell’unità nazionale, dell’espansione della criminalità organizzata anche al nord, dell’infinita emergenza rifiuti a Napoli. Ma anche di rifiuti tossici, di tragedie tristemente annunciate, del terremoto dell’Aquila, del collaudato meccanismo della macchina del fango usato per attaccare i nemici politici.

Dice lo scrittore, classe ’79: «A fianco della grande macchina del racket delle estorsioni, che si fa sull’economia, c’è anche il racket del gossip, dell’informazione. C’è una differenza fra macchina del fango e inchiesta. Vogliono che siamo tutti la stessa schifezza, così nessuno si salva, nessuno deve criticare. Ma una cosa è l’errore, altro la corruzione. Una cosa è sbagliare, altro è creare un assolutismo mediatico attraverso cui chiunque è contro viene messo in cattiva luce».

Ma il volume propone anche il racconto commosso e partecipato di tante vite anonime, vissute con onestà, dignità e coraggio: la difesa della Costituzione di Piero Calamandrei, la lotta di Piergiorgio e Mina Welby per una vita degna di essere vissuta, la battaglia disarmata di un prete di campagna contro la ’ndrangheta calabrese.

Ecco la forza di Saviano, che da cinque anni vive sotto scorta: la parola al servizio della verità. Perchè «raccontare come stanno le cose significa non subirle».

A margine. La pubblicazione di questo testo per Feltrinelli potrebbe segnare un primo passo nel divorzio dello scrittore dalla Mondadori, dopo le ripetute polemiche con Marina Berlusconi. Rinvigorite dopo l’ospitata all’ultimo “Che tempo che fa”.

domenica 6 marzo 2011

NAZZARENO CARUSI


Esce domani “Petrolio”, il secondo album del pianista abruzzese Nazzareno Carusi, che è passato in poco tempo dal conservatorio triestino Tartini (dove è stato titolare di cattedra dal ’97 fino a tre anni fa) ai palcoscenici internazionali, passando per i programmi televisivi Mediaset e ai contratti discografici con importanti etichette.

Carusi ha infatti suonato alla Scala di Milano e alla Carnegie Hall di New York. Ma anche al Teatro Colón di Buenos Aires e alla Herbert Zipper Concert Hall di Los Angeles, alla Wenston Recital Hall e al Jane Mallet Theater di Toronto, all'Oscar Peterson Theater di Tokyo e alla Federation Hall di Melbourne. E ha partecipato a programmi tivù come “Zelig”, “Matrix”, “Mattino Cinque”. Portando ovunque la sua musica classica, ma non solo.

Anche in questo nuovo disco, infatti, alterna pagine di Skrjabin, Puccini, Scarlatti, Brahms, Liszt, Schönberg, Rachmaninoff, Beethoven e Chopin, a riletture di classici firmati Ennio Morricone (“La leggenda del pianista sull’oceano”) e Astor Piazzolla.

«”Petrolio” è un omaggio all’omonimo romanzo incompiuto di Pasolini – spiega il musicista – dove l’ingegner Carlo, il protagonista del romanzo, rappresenta lo spirito contradditorio della società, la dualità sottesa all’ordine delle cose, il gusto del paradosso. Ed è proprio lo “sdoppiamento scandaloso”, la voglia di accostare senza paura i capolavori classici ai brani considerati più leggeri (per farne sentire l’incredibile, intima vicinanza e il godimento che ne deriva all’ascolto) ad unire tutte le tracce dell’album».

Al disco, pubblicato da Isola degli Artisti/Carosello, hanno partecipato come ospiti grandi nomi della musica italiana: innanzitutto Lucio Dalla, nel “Nessun dorma” di Puccini, ma anche la cantante Simona Molinari, Fabrizio Bosso alla tromba, Francesco Di Rosa all’oboe, Fabrizio Meloni al clarinetto.

Nato a Celano, provincia dell’Aquila, nel ’68, Carusi è stato allievo di Alexis Weissenberg e Victor Merzhanov. Ha suonato fra gli altri con la Philharmonische Camerata Berlin (Orchestra d'Archi dei Berliner Philharmoniker), con il violoncellista Mischa Maisky, con i Solisti del Teatro alla Scala di Milano, con il Fine Arts Quartet. Dal 2001 al 2007 è stato “artist-in-residence” della Northeastern Illinois University di Chicago. Oltre che con il citato Lucio Dalla, ha collaborato anche con Sergio Cammariere.

Ma com’è nata questa sua frequentazione dei programmi televisivi leggeri? «Tutto è cominciato - spiega il musicista - da un incontro casuale con Mauro Crippa, direttore dell’informazione Mediaset. Era interessato al discorso della divulgazione musicale e abbiamo pensato di fare qualcosa assieme. Prima sono stato ospite di Claudio Bisio a ”Zelig”: una gag che è sfociata nella mia esecuzione al pianoforte di una sonata di Scarlatti. Poi mi è stata affidata la sigla finale di ”Lucignolo”: ho scelto il ”Chiaro di luna” di Beethoven. Poi, assieme a Claudio Brachino di Videonews, abbiamo ideato delle ”pillole” di musica classica da inserire nel programma ”Mattino 5”, su Canale 5...».

Poi è arrivato il contratto artistico di esclusiva con le reti Mediaset. Pare sia la prima volta che una tivù commerciale mette sotto contratto un pianista di musica classica. Insomma, il conservatorio può attendere...

sabato 5 marzo 2011

LACOSEGLIAZ


«Dopo il “Panduro”, con i riferimenti ai boiardi ungheresi del Settecento, stavolta mi sono dedicato a “Hypnos”, il dio del sonno. Con spunti mitologici ma anche molto attuali: ho infatti ripreso il detto “il sonno della ragione genera mostri”, cambiando solo l’ultima parola. Perchè guardando l’Italia di oggi sono convinto che il sonno della ragione genera anche “nostri”. La lunga notte che stiamo vivendo, causata anche dalla ridotta partecipazione popolare ai destini del Paese, genera mancanza di democrazia e nella peggiore delle ipotesi anche dittature...».

Grande Alfredo Lacosegliaz, acuto anticipatore delle tendenze multietniche della musica popolare ma anche attento e sagace osservatore dei temi sociali, storici e politici. Non a caso chiamato da Paolo Rumiz a collaborare al suo prossimo progetto editoriale, a metà strada fra scrittura e suoni.

A meno di un anno dalla pubblicazione del disco ”Panduro”, l’eclettico musicista triestino esce con un nuovo progetto: l’album “Hypnos”, dedicato appunto al dio del sonno, che verrà presentato dal vivo domani sera alle 20.30 alla Casa della Musica (via dei Capitelli 3).

«Si tratta di una raccolta di brani eterogenei, sia da un punto di vista musicale che per quanto riguarda i testi», spiega Lacosegliaz. «Non ho ovviamente abbandonato l’impronta multietnica che ha caratterizzato tutti i miei lavori, ma in questa circostanza ne ho accentuato una lettura sociale e politica: rimango infatti convinto che la musica è l’unico elemento che può cancellare i nazionalismi, e ciò facendo diventa portatrice di una cultura antimilitarista e di convivenza pacifica fra le genti. Il mio è un pacifismo che non vuol essere retorico, ma assai concreto, attento alle cose di tutti i giorni».

Le liriche, oltre che dell’autore, sono tratte da opere immortali di Carolus Cergoly, Srecko Kosovel e Rainer Maria Rilke. Per i recitati partecipano all’opera Omero Antonutti e Aleksi Pregarc.

Con Lacosegliaz, in questo disco e da anni dal vivo, suona il Patchwork Ensemble: la cantante Ornella Serafini, Cristina Verità al violino e alla viola, Daniele Furlan al clarinetto, Orietta Fossati al pianoforte, che saranno con lui domani sera alla Casa della Musica.

A loro, nel disco appena uscito, si aggiungono Gabriele Centis, Flavio Davanzo, Edy Meola, Francesca Altran, Davide Casali, Federico Magris, Alessandro Ipavec, Stefania Verità, Maurizio Veraldi, Orietta Fossati, Irene Peljhan.

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Alfredo Lacosegliaz è nato a Trieste del 1953. Ha quasi quarant’anni di onorata carriera sulle spalle: dai dischi con la Cooperativa L’Orchestra negli anni Settanta alla collaborazione musicale e teatrale con Moni Ovadia, dalle musiche per il cinema (”Senza pelle” di Alessandro D’Alatri, ”Facciamo Paradiso” di Mario Monicelli) alle sigle televisive per Michele Santoro, dalle frequentazioni con il teatro alle installazioni di teatro danza, Lacosegliaz è stato un precursore della musica etnica e ha sempre rivolto la propria attenzione verso Est, verso l’universo balcanico così prodigo di suggestioni musicali e culturali.





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giovedì 3 marzo 2011

DISCHI - TRICARICO + faithfull


Francesco Tricarico rappresenta un’oasi stralunata di tranquillità, buon gusto, benessere e naiveté nel mondo brutto e cattivo della musica leggera italiana. L’invettiva autobiografica di “Io sono Francesco”, con cui si fa conoscere nel 2000, fu il primo segnale che il ragazzo, nato a Milano l’ultimo giorno del ’71, diploma in flauto traverso al Conservatorio, era uno da tenere d’occhio.

“Vita tranquilla”, al Sanremo 2008, è stata una bella conferma (“voglio una vita tranquilla, perché è da quando son nato che son spericolato... voglio una vita serena, perché è da quando son nato che è disperata...”). Molto più di una risposta alla “Vita spericolata” di Vasco.

Della sua stoffa di autore si accorse nientemeno che Adriano Celentano, che cantò la sua “La situazione non è buona” trasformandola in un grande successo.

Due anni fa ancora Festival con “Il bosco delle fragole” ma anche la pubblicazione del primo libro, “Semplicemente ho dimenticato un elefante nel taschino”.

All’ultimo Sanremo Tricarico ha cantato “Tre colori”, commovente cantilena patriottica che Fausto Mesolella (Avion Travel) aveva pensato per lo Zecchino d’oro e invece è finita nel tritacarne del Festival: un gioiellino senza tempo e senza età prontamente eliminato dalle giurie e non ripescato dal televoto, settore nel quale va più forte gente come Al Bano o la Tatangelo.

Ora arriva “L’imbarazzo” (Sony Epic), quinto album in carriera con dieci canzoni nuove, fra cui ovviamente il brano sanremese, ma anche quella rilettura quasi jazzata de “L’italiano” di Toto Cutugno che l’artista ha portato al Festival nella serata dei duetti. E proprio come sul palcoscenico dell’Ariston, anche nell’album Cutugno canta una strofa del suo classico.

L’ascolto del disco è meglio di un massaggio rilassante. Parole sussurrate, atmosfera delicata, melodie garbate, emozioni vere. Insomma, trash e cattivo gusto qui non stanno di casa. La banalità non è pervenuta.

I titoli: ”Una selva oscura”, “E’ difficile”, “Leggerezza”, “L’imbarazzo”, “Guarda che bel colore che han le rose”, “La mia sposa”, “Da soli io e te”, “Interludio”, “Ninna nanna oh”, oltre ai due citati.

Canzoni che parlano di bellezza, rispetto, pudore, onestà, cortesia, fiducia. Valori forse desueti. Di sicuro roba che non va per la maggiore. Chiaro che poi a Sanremo eliminano il suo delicato cantore...

Per Francesco Tricarico qualcuno ha già parlato di “neo innocentismo”, chiedendosi se “ci è” o “ci fa”. A noi sembra solo un persona normale, semplice, che ama guardare il mondo e la gente e le cose della vita, facendone canzoni. Di certo è un artista di classe.



FAITHFULL

Cavalli e tacchi alti, per l’ultima musa del rock che non c’è più. Ricordate Maggie, la casalinga dimessa ma “a luci rosse” del film “Irina Palm”? Dimenticatela. Fuor di finzione cinematografica, Marianne Faithfull è oggi una fascinosa signora di sessantatre anni che mantiene intatti carisma, classe e grinta dei tempi belli. Di quando era musa e compagna di Mick Jagger, icona della swinging London degli anni Sessanta, fidanzata del rock, testimone e protagonista di un’epoca che ha cambiato il mondo. A due anni dai chiaroscuri decadenti di "Easy come easy go", la signora ritorna con un album che profuma di soul, blues, persino country. Più States che vecchia Inghilterra, insomma. Fra le cover spicca “Back in baby’s arms” (roba del ’75, firmata Allen Toussaint), ma ci sono anche tre brani scritti dalla stessa Marianne, che aprono il campo a una sorta di flashback autobiografico. Fra gli ospiti, nientemeno che Lou Reed. Che dire? Formidabili quegli anni.