martedì 31 gennaio 2006

S’intitola «Novo Mesto», proprio come la città slovena dov’è stato registrato a ottobre, il nuovo album di Niccolò Fabi. Il trentasettenne cantautore romano di «Dica» e «Capelli» (giusto per citare le sue due canzoni di maggior successo, uscite rispettivamente nel ’96 e nel ’97) ha scelto infatti la Slovenia per realizzare il suo nuovo disco, che esce venerdì.


«Le cose inusuali, un po’ strane, sono sempre quelle più stimolanti - spiega l’artista, che fra l’altro è figlio di quel Claudio Fabi che fra gli anni Settanta e Ottanta è stato produttore di artisti come Lucio Battisti, Gianna Nannini, Paolo Conte, la Pfm... -, quindi all’inizio c’era solo l’idea di non registrare a Roma. La comodità è la tomba della creatività...».
Perchè in Slovenia?
«All’inizio si pensava di andare in uno studio in Provenza, fra l’altro lo stesso in cui i Pink Floyd hanno fatto ”The wall”, ma in ballo c’erano anche l’Inghilterra, gli Stati Uniti... Poi, tramite la flautista slovena Tinkara Kovac, conosciuta da un musicista del mio gruppo, ci è arrivata la segnalazione di questo studio sloveno. Che oltre a proporre prezzi concorrenziali rispetto alle altre opzioni, mi permetteva di uscire dai soliti circuiti...».
Come si è trovato?
«Molto bene. Innanzitutto abbiamo trovato uno studio all’altezza della situazione, per ricreare la grande sala prove di cui avevamo bisogno. E poi la città e i suoi dintorni montagnosi ci hanno subito affascinato. Personalmente ho scoperto la Slovenia in quelle tre settimane di lavoro. Anche Lubiana è magnifica...».
Le canzoni sono nate a Novo Mesto?
«Alcune sì, come ”Rapporti”, e penso si senta l’influenza dei luoghi. Altre le avevo già scritte, ma si sono comunque trasformate...».
Un brano s’intitola «Oriente»...
«Sì, il tema del viaggio, di cui è permeato tutto il disco, qui ha un'accezione politica evidente nel contrasto fra civiltà e diversità. Girando il mondo ci si rende conto che cambiano le priorità e i valori, infatti lo stesso avvenimento viene vissuto con animo contrapposto a seconda del luogo in cui ci si trova o da dove si proviene..."».
Un inno alla cultura orientale?
«Non necessariamente: io sono convinto che le nostre categorie mentali siano legate alla nostra condizione di vita. Questa canzone, nel suo piccolo, vuole contribuire alla ricerca di una planetaria coesistenza di punti di vista differenti. Anche i suoni, fra fisarmonica, fanfara, clarino, banjo..., sono una babele sonora».
Fabi, ma come si sta da «eterno emergente»?
«Non è un mio problema. Io faccio e propongo le mie canzoni. Anche se un linguaggio non aggressivo come il mio incontra difficoltà, in un mondo in cui fai notizia solo se hai una fidanzata illustre o insulti qualcuno...».

domenica 29 gennaio 2006

Arriva a poco meno di un anno dal precedente, che era intitolato «Pezzi». E già questa è una piccola novità, visto che nella sua ultratrentennale carriera discografica il nostro ha quasi sempre centellinato le pubblicazioni (o almeno così ha fatto negli anni più recenti...). Fatto sta che il nuovo disco di Francesco De Gregori è pronto, si intitola «Calypsos» e uscirà a metà febbraio. Inutile dire che, stante il seguito di cui gode il cinquantacinquenne cantautore romano, si tratta di uno dei dischi italiani più attesi di questa prima parte del 2006. Un disco di quelli che una parte del pubblico aspetta, spesso acquista a scatola chiusa, per verificare dove va, oggi, l’ispirazione poetica ma anche la tensione civile di uno dei massimi protagonisti della canzone d’autore di casa nostra.


«L’ho scritto in un mese - ha detto Francesco De Gregori a Michele Serra, su ”Repubblica” -, registrato e mixato in venti giorni, per giunta mentre avevo ancora nelle orecchie il disco precedente. Sono meravigliato io stesso, ma si vede che ne avevo bisogno, l’arte è una medicina contro i mali della vita. Mi sto scoprendo una tenerezza tardiva per i ferri del mestiere, addirittura un amore senile per la sala di registrazione...». Nel disco nove canzoni nuove, sonorità più intime e acustiche rispetto al recente passato un po’ rockettaro. Si parla dei conti non risolti con l’amore, dei rapimenti d’amore. Il titolo fa riferimento alla ninfa che fece innamorare e tenne prigioniero Ulisse, ma c’è anche un brano che ha a che fare col ballo quasi omonimo. Un’altra canzone s’intitola «Cardiologia» e parla appunto della «scienza del cuore»: è il singolo apripista, nelle radio dal 3 febbraio.
Un altro cantautore romano che una ventina abbondante di anni fa andava anche a Sanremo («Nina», «Sette fili di canapa»...) è Mario Castelnuovo. Dopo un periodo di silenzio torna con un album intitolato «Com’erano venute buone le ciliegie della primavera del ’42» (Edel - RaiTrade), in cui sembra riprendere con naturalezza un discorso mai interrotto, all’insegna dell’eleganza minimalista, del gusto per i particolari, della poesia che si fa canzone. Il titolo è una sorta di omaggio ai film di Lina Wertmuller, che ha ricambiato cantando e recitando nella canzone che dà il titolo al disco. Ma c’è anche Athina Cenci voce recitante in «Montaperti», brano che rievoca un episodio del Trecento fra Guelfi e Ghibellini. «Piccolo giudice» è la storia di un magistrato del nord mandato in Sicilia a combattere la mafia. «Novena del porto» racconta con partecipazione commossa la lotta per la sopravvivenza di una prostituta africana.
Cambio di scena. Per parlare di «Truly Madly Completely - The Best Of Savage Garden» (Sony Bmg), disco che celebra il duo australiano formato da Darren Hayes e Daniel Jones, a quattro anni di distanza dalla decisione di separarsi. Forti di oltre ventitre milioni di dischi venduti, i Savage Garden hanno avuto una vita breve ma intensa, dal ’97 del debutto discografico al 2001 del commiato. Pop dolce, romantico, orecchiabile, ottimo come colonna sonora, da far andare mentre si fanno altre cose. Il disco è una carrellata dei loro maggiori successi, fra i quali non possono mancare «I want you», «To the moon & back» e «Truly madly deeply» (all’epoca nove settimane in vetta alla classifica di Billboard). Propone anche due tracce inedite, scritte e interpretate dal solo Darren Hayes (che sta per uscire col terzo album solista): «So beautiful» e «California».


Secondo i discografici italiani saranno i telefonini a salvare Sanremo. Quest’anno, infatti, le canzoni del Festival potranno essere ascoltate prima dell’inizio della rassegna (cosa vietatissima fino all’anno scorso) proprio sui cellulari ormai tuttofare. Connubio difficile da accettare - quello fra musica e telefonini - per le generazioni cresciute col vinile e poi passate ai cd, ma ormai cosa fatta per ragazzi cresciuti a pane e iPod.
È un fatto comunque che - mentre calano ancora le vendite dei cd - la musica digitale, scaricata legalmente, sta vivendo un autentico boom. Le vendite via Internet e telefonia mobile (suonerie, singoli brani...) hanno superato nel 2005, a livello globale, il miliardo di euro (390 milioni nel 2004). Lo scorso anno sono stati venduti 419 milioni di canzoni (156 milioni nel 2004). Per un mercato della musica digitale che oggi rappresenta il sei per cento del totale. Due anni fa tale segmento di mercato praticamente non esisteva.
L’anno appena cominciato promette dunque ulteriori aumenti. Ed è chiaro che anche le major, dopo aver tentato inutilmente di contrastare il fenomeno, da tempo hanno deciso di cavalcarlo. Dalla collaborazione fra Sony Bmg Ricordi e i videofonini 3 è nata infatti l’etichetta «H2O Music», che già nel nome richiama il fatto che ormai la musica «diventa ”liquida”: si espande, si diversifica, si adatta alle nuove esigenze di mercato - si legge in una nota - conservando il proprio valore artistico ma assumendo una nuova ”corporeità”, digitale, che le permette di essere prodotta, comunicata e consumata in modo più immediato e coinvolgente».
Questa etichetta produrrà dunque artisti la cui musica avrà un supporto non più fisico ma digitale: non più cd ma file musicali digitali che verranno commercializzati attraverso negozi digitali. Le prime pubblicazioni (un brano o al massimo due/tre per volta) sono previste entro il primo trimestre di quest’anno. A info@H2omusic.it si possono già chiedere informazioni e anche inviare materiale da proporre all'etichetta.


 


«Voce e controcanto femminile di una canzone d’autore storicamente declinata al maschile, è oggi considerata la più importante interprete italiana». Così si legge - e non si può che essere d’accordo - nelle note di questo cofanetto che comprende il libro «Biografia di una voce» (lunga intervista di Nicola Fano e una sorta di diario in rete sugli argomenti più disparati...) e il dvd del concerto tenutosi a Roma, al Teatro Brancaccio, nel marzo 2005. Con i classici del repertorio della Mannoia: da «I treni a vapore» a «Buontempo» (entrambe Fossati), da «Il cielo d’Irlanda» (Bubola) a «Quello che le donne non dicono» (Ruggeri), fino a «Sally» (Vasco). Accelerata di ritmo con «Is this love», di Bob Marley...


Un libro, con i testi di Nicola Piovani sul suo lavoro di compositore per il cinema e per il teatro, e le testimonianze di Benigni, Morricone, Moretti, Kezich... Un dvd di ben 160 minuti, con lo spettacolo «Concerto fotogramma», in cui il musicista (Premio Oscar per le musiche di «La vita è bella», di Benigni) ripercorre la grande musica del cinema italiano, e un’intervista. Nella quale confessa: «Comporre musica per il cinema e il teatro significa misurarsi con un limite, un perimetro tracciato...». Suggestiva la scelta di associare alcuni temi musicali molto popolari alle immagini cinematografiche per le quali sono nati (da «Ginger e Fred» di Fellini a «Good Morning Babilonia» dei fratelli Taviani, a «Pinocchio» d Benigni).
 

PERCOTO Evel Aztarbe De Petrini si asciuga una lacrima con gesto discreto, mentre Claudio Magris, lassù sul palco accanto a lei, nell’enorme distilleria, spiega perchè il Premio Nonino 2006 «A un maestro del nostro tempo» va a lei e alle altre Madri di Plaza de Mayo.


Ma dieci minuti dopo, quando la donna avrà finito il suo breve ringraziamento, sono tantissimi gli occhi lucidi ed è palpabile la commozione autentica fra quanti la applaudono e si alzano in piedi per rendere omaggio a questa donna piccola, col suo fazzoletto bianco in testa. Una donna sola ma forte, simbolo della lotta contro l’arroganza e la protervia di ogni potere. Non soltanto quello sanguinario dei militari che dopo il golpe del ’76, in Argentina, fecero sparire (i tristemente noti «desaparecidos») oltre trentamila veri o presunti oppositori alla dittatura.
L’aveva detto, Magris, membro della giuria presieduta da Ermanno Olmi: il riconoscimento alle Madri argentine è un po’ il culmine di tante edizioni del Premio Nonino. Con loro vengono idealmente premiati tutti coloro che si battono contro le ingiustizie. Con loro il dolore per la perdita di un figlio non è una battaglia personale, diventa battaglia per tutti.
Quando arriva il suo turno, lei prende il microfono in mano e attacca a parlare nella sua lingua, senza bisogno di traduzioni, perchè la sua è la voce del cuore, è la voce di tutti gli oppressi che stamattina sono idealmente qui, nella campagna friulana, mentre fuori fa freddo, vicino agli alambicchi che fumano, davanti a una platea incredibilmente eterogenea (il vero mistero ma anche il miracolo del Premio Nonino...).
Evel Aztarbe De Petrini ha l’oratoria di un leader. E il suo idioma rende ancor più appassionate le sue parole. Ringrazia a nome di quei figli che non sono morti, per loro non ci sono tombe né monumenti, la loro vita non può essere barattata con un risarcimento economico. Per loro, per quei figli, la morte non esiste. Nel loro nome siamo ancora tutti uniti, nella speranza di un mondo migliore. Parole retoriche? Può darsi, ma scaldano il cuore molto più e molto meglio della grappa che qui si produce e si commercia.
Ma si diceva del mistero/miracolo del Premio Nonino, che ogni anno, nell’ultimo sabato di gennaio, riesce a portare in questa fredda e grigia e bagnata campagna friulana, fra filari di alberi spogli e colori dimessi dell’inverno, uno strano mix di scrittori, scienziati, artisti, Premi Nobel passati o futuri, uomini di fede, politici, industriali, editori, giornalisti... Chi viene premiato, chi è in giuria, chi viene invitato, fatto sta che sembra essere diventato ormai da tempo un appuntamento a cui non si può mancare.
Anche ieri, nel tendone eretto per la bisogna e nel salone della grande distilleria, durante le premiazioni seguite dal pranzo, volti noti come piovesse (e in effetti fuori piovigginava). All’entrata accoglienza a base di banda, stuzzichini e prosecchini. Il premiato Gavino Ledda intabarrato in un montone stile anni Settanta abbraccia l’indigeno Mauro Corona in bandana e maglietta maniche corte d’ordinanza. E più in là c’è Omero Antonutti, che fu l’indimenticabile «Padre padrone» nel film dei fratelli Taviani.
Gad Lerner risponde al telefonino, Missoni rilascia l’ennesima intervista «in triestìn», Pino Roveredo gira scortato dalla direttrice editoriale Bompiani, Elisabetta Sgarbi, nota «sorella di». Il rettore di Udine Furio Honsell si gode la recente fama mediatica originata dalle comparsate da Fazio (inteso come Fabio). Ma ci sono anche Cesare Romiti, Inge Feltrinelli, Natalia Aspesi, Carmen Lasorella, Tullio Avoledo, la solita manciata di politici e industrialotti e sedicenti vip locali... Strano mix, davvero.
Che applaude come un sol uomo quando sale sul palco Gavino Ledda, Premio Nonino Risit d’Aur 2006, introdotto dall’esuberanza sempre un po’ sopra le righe («benvenutiiiii....!») di Giannola Nonino. Da millenni siamo agricoltori e pastori, dice lui, il cibo è una cosa troppo importante per non lasciarlo fare alla natura. E poi: «La mia scrittura nasce dalla terra, trent’anni fa ”Padre padrone” l’ho scritto con le unghie...».
Tocca alla scrittrice Harumi Setouchi, Premio Internazionale Nonino 2006, «una leggenda in Giappone - come spiega il Nobel V.S.Naipaul, componente della giuria - ma ancora una rivelazione per il lettore occidentale». Lei si presenta con la freschezza buddista dei suoi ottantatre anni a cranio rasato e in costume tradizionale. «Ho cominciato a scrivere dopo i trent’anni, sono diventata monaca a cinquantuno, ho scritto trecento opere, ma nessuna che mi soddisfi...». Segue un piccolo bignamino del buddismo, a suon di serenità, amore assoluto, compassione, ricerca della gioia per gli altri più che della felicità personale.
Ora manca solo un riconoscimento, il Premio Nonino 2006, quello che la prestigiosa giuria ha assegnato a Giovanna Marini. Doveva premiarla Peter Brook, trattenuto a Londra, che ha mandato comunque il suo messaggio. Lo legge il presidente della giuria Olmi: oggi c’è tanta musica, dice più o meno, quella che si rivolge alla mente e quella che fa muovere il corpo, ma la vera musica è quella che parla al cuore. Come quella che frequenta da sempre colei che ha dedicato la vita alla musica e alle tradizioni popolari.
Giovanna Marini imbraccia l’inseparabile chitarra e, arpeggiando arpeggiando, comincia a ringraziare per il premio, in questa «isola felice» che è stata creata da una «famiglia felice». Poi racconta di Giovanna Daffini, sua maestra, di tutto quello che ha imparato da lei, di quella volta, nel ’66, che «decisi di portarla alla Rai, per farla cantare in televisione, perchè tutti dovevano accorgersi di quant’era brava, e invece...».
Ricorda anche i suoi funerali, sull’argine del fiume, vicino a Reggio Emilia. E poi canta, in italiano e in friulano, da sola e con un coro. E poi è solo tempo di brindisi, di danze, di cibo che è tradizione e cultura contadina. Almeno qui a Percoto, ogni ultimo sabato di gennaio.

mercoledì 25 gennaio 2006

Grillo, qui fa un freddo cane e noi siamo alla canna del gas, che peraltro i russi ci stanno razionando... «Sì - risponde Beppe Grillo, il cui tour fa tappa domani al PalaTrieste, dopo esser stato ieri sera a Pordenone e prima di toccare Udine sabato e domenica - loro ci tolgono il gas, il governo ci chiede di risparmiare, ma intanto per le Olimpiadi invernali abbiamo fatto una torre di sessanta metri, con una fiamma alta quattro, che consuma duemila metri cubi di metano all’ora. Dico: all’ora! Ma noi siamo superiori, non badiamo a queste cose: siamo in controtendenza sul mondo...».
Quello dell’energia alternativa era un suo cavallo di battaglia...
«Basta, ora ho cambiato idea. Sono per il nucleare, il carbone e magari anche la fusione semifredda... Tutto, pur di andare alla deriva più velocemente, ma con ottimismo. A questo punto è molto meglio la catastrofe...».
E poi?
«Poi possiamo almeno sperare in un cambiamento di vita, di rotta, di pensiero... È il pensiero che mi fa paura maggiormente».
Ci spieghi.
«Viviamo di incantesimi. L’incantesimo della finanza, quello dell’economia, che spostando i numeri pensa di raddoppiare la ricchezza».
Ma i «furbetti del quartierino» l’estate scorsa l’hanno appassionata...
«No, non mi appassiono più. Questo capitalismo senza capitali, ma pieno di debiti, è ormai alla deriva. Ricucci, Coppola, Gnutti...: gente che non sa far nulla. Gente che se gli scoppia una gomma in autostrada sta lì ferma per due giorni. Il discorso vale anche per Tronchetti, eh, per il cosiddetto salotto buono. Quel che comprano lo rovinano, lo riempiono di debiti. Ma ormai funziona così...».
In politica?
«Viviamo l’incantesimo anche lì, con questi signori che pensano di essere proprietari di quello che fanno e invece sono solo dei nostri dipendenti, da mandare a casa quando non si comportano bene. Viviamo l’incantesimo di questo omino impaurito che pensa di risolvere le cose andando in tivù, a dire delle cose cui non crede più nessuno. Berlusconi ha bisogno di aiuto...».
Intanto sta sempre in tivù...
«Bisogna lasciarlo fare, incoraggiarlo, più parla meglio è, questo vecchietto portatore nano di par condicio. Ormai non è più credibile. Come non è credibile Rutelli. Bisogna togliersi dalla televisione: oggi il segreto per apparire è non esserci».
Prodi è credibile?
«Non so, ma non dobbiamo pensare solo alla credibilità. Non dobbiamo pensare alla politica come bisogno di un leader. Io farei due regole. Uno: due legislature al massimo, poi a casa. Due: prima il programma, poi il candidato. I cittadini devono decidere sui vari temi con delle primarie in rete, con dei forum. Quando si fissa un programma, allora si sceglie una persona adatta a portarlo avanti...».
A proposito di persone: lei vuole Dario Fo sindaco di Milano.
«Sì, perchè rappresenta il cambiamento, quasi un miracolo a Milano. In Bolivia hanno eletto un ex coltivatore di coca, in Perù un indio, in Liberia una donna straordinaria, in Venezuela un ex guerrigliero, in Brasile un ex sindacalista, in Cile una donna cui i militari avevano ucciso il padre... Il mondo sta cambiando, Milano ha bisogno di un sogno, di un respiro più grande...».
L’Unipol, intanto...?
«Non capisco questi amministratori delegati che sembrano i proprietari. I proprietari lì sono le Coop, che dovevano capire, prenderli e licenziarli. Certe scelte vanno fatte ascoltando i piccoli azionisti, consultando i cittadini. Invece la gente diventa invisibile. Il pensionato è invisibile, il cittadino è invisibile, l’azionista è invisibile...».
Fassino e D’Alema?
«Il primo ha fatto un grosso errore e doveva andarsene. Il secondo doveva andarsene già anni fa. Dovrebbero dire alla loro base: abbiamo sbagliato, diteci voi cosa dobbiamo fare...».
Ma la base li ha applauditi...
«Perchè abbiamo sempre bisogno dei leader. Una concezione vecchia della politica. Io vorrei appassionarmi su un progetto, non su Prodi o Berlusconi. Un progetto per il futuro, per i nostri figli, e invece...»
Invece?
«La politica prima era in ostaggio dell’economia, ora si è trasformata e ne fa parte. In parlamento oggi ci sono ventiquattro persone condannate in via definitiva, con sentenza passata in giudicato. Mi hanno scritto dall’India: nel parlamento di Nuova Delhi ce n’erano undici, di condannati. L<USnuogra></IP><IP0>i hanno espulsi...»
Noi invece li ricandidiamo...
«Certo. Negli Stati Uniti, se hai preso una multa, non ti fanno fare neanche le primarie. Noi abbiamo questi signori che rimangono in parlamento e votano leggi che stanno distruggendo la nostra civiltà giuridica».
Il suo blog ha appena compiuto un anno...
«...sì, e i ragazzi di Trieste sono formidabili. Hanno fatto firmare la lettera di intenti ai due candidati sindaco. Sono ragazzi indipendenti, fanno delle belle battaglie. Fra l’altro ho visto che sul ”Piccolo” li avete chiamati ”Grillo Boys”: parola terribile, ho parlato con il mio avvocato, stavo pensando di chiedervi i danni...».
Dicevamo del blog: come informazione e democrazia di base può cambiare la politica?
«La sta già cambiando. Cambia la politica, l’economia, l’informazione, l’intermediazione. Cambierà noi stessi. Prendiamo l’informazione: oggi si basa su una selezione. I media oggi acquisiscono una serie di informazioni, le selezionano in base agli interessi degli editori, e alla fine del processo una notizia viene o non viene pubblicata. Qui il concetto è capovolto: prima tutto viene pubblicato in rete, poi avviene la selezione...».
Come?
«Direttamente. Automaticamente. Se uno scrive una sciocchezza, viene subito smentito e redarguito da chi se ne accorge... E qualcuno se ne accorge sempre».
Ne è sicuro?
«Sì. La cosa meravigliosa è che sopra non c’è un direttore, un editore, un imprenditore che possa decidere cosa pubblicare. La rete si autoregola, è strepitosa, è in evoluzione continua. Sta cambiando l’informazione, la telefonia, cambierà il diritto d’autore, il copyright che frena il progresso, progresso che è fatto sempre di piccole esperienze. Uno fa una cosa, l’altro la migliora, il terzo la migliora ancora... Così sono nate le grandi scoperte, così si è evoluta l’umanità».
Grillo, lei da tempo sembra tutto fuorchè un uomo di spettacolo. Non è che fra un po’ ce la ritroviamo candidato...?
«No, assolutamente. Non so come sarà il mio futuro, né voglio pensarci...».
Anche Bertinotti, lodandola, dice che ormai lei fa politica...
«No, io faccio controinformazione. Anzi, faccio informazione, quella - detto per inciso - che dovreste fare voi. E per la verità non la faccio nemmeno io, la fanno le migliaia di persone che mi scrivono e dalle quali traggo informazioni straordinarie...».
Insomma, ci vuol far credere che lei si sente ancora uomo di spettacolo...
«Sì, sono un comicastro. Chi fa il mio lavoro deve essere un po’ utile alle persone. Mi basta che mi si riconosca questo...».
Le basta davvero?
«A sessant’anni, con cinque figli... Che cosa vuole che faccia...?»

venerdì 20 gennaio 2006

In Italia lo ricordiamo soprattutto per quelle due leggendarie apparizioni a Sanremo. Nel ’68 in coppia con Fausto Leali (quando «in coppia» significava una canzone proposta due volte, nella versione dell’uno e dell’altro...), a cantare «Deborah, mia Deborah...». E l’anno dopo nientemeno che con Lucio Battisti e la sua «Un’avventura».
Ma Wilson Pickett, morto d’infarto all'età di 64 anni (in un ospedale vicino alla sua casa in Virginia), era anche altro. Molto altro. In estrema sintesi: una leggenda della musica soul, sullo stesso piano di gente come Otis Redding, James Brown, Aretha Franklin. Grazie a successi come «In the midnight hour», «Mustang Sally», «Funky Broadway», «Land of the 1.000 dances», «After midnight»... La sua «Everybody needs somebody» fu rilanciata nel 1980 da John Belushi e Dan Aykrod nel mitico «Blues Brothers», di John Landis (con Belushi che alla fine dell’esibizione, dopo l’ennesima capriola, ringrazia «anche da parte di Wilson Pickett»...).
Lui era nato in Alabama nel 1941 ma era cresciuto a Detroit. Come tanti comincia con il gospel. Agli inizi degli anni Sessanta canta con i Falcons. Con loro azzecca nel ’62 il primo successo, «I found a love». Nel ’65 l’etichetta Atlantic lo mette sotto contratto come solista. E arriva il botto, dentro e fuori gli States. Una manciata d’anni, brevi ma intensi. All’inizio dei ’70 incide anche una versione della beatlesiana «Hey Jude». E di quel periodo è il suo ultimo vero successo, «Fire and water», del ’72.
La sua grandezza - assieme agli altri campioni del soul e del rhythm’n’blues dell’epoca - fu trasformare quella che era la musica dei neri d’America in un genere accettato e amato da tutti. Sul finire degli anni Sessanta, col declino del beat, i giovani di mezzo mondo cominciarono ad ascoltare e ballare la musica che fino a quel momento non era uscita dai ghetti statunitensi.
Ma dicevamo delle sue comparsate sanremesi, che lo fecero conoscere dal grande pubblico italiano. La sua «Deborah», con Leali, si piazzò al quarto posto nell'edizione vinta da Sergio Endrigo e Roberto Carlos con «Canzone per e». Nel ’69 «Un'avventura», con un memorabile Battisti in versione rhythm’n’blues, si piazzò nona, mentre la vittoria premiò «Zingara», di Bobby Solo e Iva Zanicchi.
Dopo quella volta, Wilson Pickett tornò tante volte nel nostro Paese. Partecipando anche in anni recenti a festival e rassegne dedicate alla musica nera, come per esempio il Porretta Soul Festival. Nel ’91 era entrato a far parte della Hall of fame del rock and roll. E la rivista Rolling Stone aveva inserito due suoi brani tra le 500 canzoni più famose di tutti i tempi.
Raschiare il fondo del barile evidentemente conviene. Se è vero com’è vero che il mercato della musica rock dal vivo ha segnato nel 2005 un incremento del cinque per cento, in controtendenza con la situazione negli altri paesi del mondo, dove si tende a battere un po’ la fiacca. Il settore dunque non conosce crisi, anche se il caro biglietti è un problema grosso come una casa contro il quale sbattono molti giovani dalle ristrette disponibilità economiche. E anche se il grosso degli affari lo mettono in saccoccia artisti - italiani e stranieri - sulla scena da due o tre (e a volte quattro...) decenni. Molti dei quali trasformati in piccole aziende che danno lavoro a un sacco di gente e non possono permettersi di veder diminuire il fatturato.
Ma veniamo a quanto ci riserva, sul fronte «live», questo 2006 appena cominciato. A febbraio tornano gli Oasis. Dopo i concerti di ottobre a Milano e Treviso, la band dei fratelli Gallagher sarà il 6 a Firenze e il 7 a Roma. Sempre a febbraio arrivano anche i Depeche Mode. I padri del pop elettronico inglese, rilanciati dall’album «Playing the angel», saranno il 18 e 19 febbraio a Milano, al Forum di Assago. Un mesetto dopo, il 22 marzo, il loro tour europeo li porta anche al palasport di Zagabria.
A fine febbraio tornano per quattro date in Italia i Colosseum, storica band del jazz-rock inglese degli anni Settanta. Fra febbraio e marzo attraversa l’Italia con un lungo tour Lou Reed. Il suo «Winter tour 2006» parte il 24 febbraio da Firenze e si conclude il 12 marzo al Teatro Verdi di Pordenone (dopo che è tramontata la possibilità di avere l’ex Velvet Underground al Rossetti di Trieste: un traguardo al quale si era a lungo lavorato nei mesi scorsi, purtroppo senza successo, allo Stabile del Friuli Venezia Giulia...). E a marzo arrivano anche i Simple Minds, con tappa in regione, il 22 marzo al palasport di Pordenone.
Tappe italiane anche per David Gilmour (senza Pink Floyd), il 24 e 25 a Milano e il 26 marzo a Roma. Maggio sarà il mese degli Eagles, con concerti il 27 a Roma e il 29 all’Arena di verona. Ma anche di Carlos Santana, atteso il 30 maggio a Milano, solito Forum di Assago.
Il 22 giugno lo stadio di San Siro, a Milano, ospita l’ennesima tappa del «never ending tour» dei dinosauri del rock, i Rolling Stones. Un mese dopo, il 22 luglio, nello stesso stadio arriva il campione del pop inglese contemporaneo: l’ex Take That Robbie Williams.
L’estate dovrebbe poi riportare fra gli altri David Sylvian, Joan Baez, Paul Weller, assieme al primo tour italiano dei Mattafix. Mentre a settembre dovrebbe far tappa nel Belpaese il tour dei Pearl Jam, che seguirà il nuovo album annunciato per aprile.
Italiani. I Negramaro, bocciati l’anno scorso fra i Giovani a Sanremo, sono il gruppo del momento: in tour da quasi un mese, saranno a Mestre il 4 febbraio. La stessa sera, a Pordenone, suonano i Marlene Kuntz. Il tour di Roberto Vecchioni torna dalle nostre parti (dopo un’anteprima novembrina a Nova Gorica) il 6 a Udine e il 9 febbraio a Trieste. Il 10 febbraio parte da Montichiari (Brescia) la tournèe di Renato Zero, il 19 febbraio comincia a Firenze quella di Gianna Nannini. I Pooh suonano il 31 marzo al Palaverde di Treviso. Tutto esaurito per le quattro date milanesi, al Forum di Assago, del tour mondiale di Eros Ramazzotti: per accontentare tutti è stato necessario aggiungerne una quinta, il 15 aprile.
Finale con Carmen Consoli. A maggio esce il suo nuovo album, dopo il quale la «cantantessa» siciliana proporrà un tour speciale: partenza a Palermo, arrivo - dopo un numero imprecisato di tappe - a Londra.

lunedì 16 gennaio 2006

«Cara democrazia, sono stato al tuo gioco anche quando il gioco si era fatto pesante, così mi sento tradito, o sono stato ingannato, mi sento come partito e non ancora approdato, sento un vuoto, sento un vuoto al mio fianco, e nessuna certezza messa nero su bianco...».
Ovvero: quando una canzone dice di un momento politico, di una sensazione diffusa fra tanta gente, più di mille discorsi e articoli di giornale. Le parole sono di Ivano Fossati, tratte dalla sua nuova canzone «Cara democrazia», appena pubblicata su un singolo che anticipa il nuovo album, «L’arcangelo» (Sony Bmg), in uscita il 3 febbraio. Parole serie, gravi, pesanti, adeguate al momento storico e politico che stiamo vivendo, e che sembrano fatte apposta per esprimere il pensiero di tanti: delusi, allertati, disorientati.
Parole pessimiste che arrivano a quattordici anni dall’ottimismo della «Canzone popolare», poi adottata come prima sigla dell’Ulivo. Parole che richiamano il grido di dolore di Franco Battiato «Povera patria», datato 1991: si era alla vigilia della rivoluzione di Mani pulite, quando la credibilità dei politici della cosiddetta Prima repubblica era ridotta quasi a zero. Livello dal quale non siamo lontani oggi, con la Costituzione ridotta a carta straccia, modificata a botte di maggioranza. Con la contrapposizione politica ridotta a rissa, ad avanspettacolo.
Agli artisti non è chiesto di far politica in senso stretto. Ma dai più sensibili ci si può anche aspettare, a volte, di rappresentare lo spirito dei tempi, di interpretare un sentimento diffuso, di anticipare - con la forza e l’intelligenza delle emozioni - un cambio di stagione. Anche politico.
È quel che avviene con Ivano Fossati, che ha definito questa canzone «un'esortazione civile». Secondo lui «stiamo andando verso una democrazia di mercato che è pericolosa come un totalitarismo. La democrazia di mercato è quel tipo di sistema in cui, per esempio, se hai settanta-ottant’anni e poco denaro, nessuno si prende cura di te».
«Succede in tutto l'Occidente - dice il cantautore ligure in un’intervista a Vanity Fair - ma in Italia la democrazia ha subito duri colpi anche in passato. È quello che succede ogni volta che c'è una strage come Piazza Fontana, che non viene chiarita nemmeno più di trent'anni dopo. Così ci si abitua al fatto che la verità non verrà mai definita...».
Il brano è una ballata rock, ritmata, pulsante e incalzante, lontana dalle eleganti e spesso esotiche costruzioni melodiche cui l’artista ci ha tante volte abituati. «Con santa pazienza ho dovuto aspettare, con quanta buona fede sono stato ad ascoltare... con benedetta arroganza sono stato avvilito, con quanta leggerezza sono stato alleggerito... cara democrazia, cara gemma imperfetta, equazione sbagliata non scritta e mai corretta...».
Da un uomo che non ha mai nascosto la sua vicinanza alla sinistra, fra le righe si legge anche un senso di profonda delusione e disillusione - tipo il grido di dolore di Nanni Moretti di qualche anno fa, in piazza Navona, che diede il via alla stagione dei cosiddetti Girotondi - nei confronti di chi, fra un autogol e l’altro, non ha saputo risparmiare al paese le tante, troppe umiliazioni di questi ultimi anni.
Il finale è un’esortazione sofferta e puntuta: «Ahi che pessime orchestre, che brutta musica che sento, qui si secca il fiore e il frutto del nostro tempo, sono giorni duri, sono giorni bugiardi. Cara democrazia ritorna a casa che non è tardi...». Meglio, molto meglio di una dotta e noiosa analisi politica.



Nel 2003 ha vinto Sanremo Giovani. Ma l’anno dopo non l’hanno invitata fra i «big». E lei ha dovuto ricominciare tutto andando a vincere l’anno scorso il reality «Music Farm». Ora la pugliese Dolcenera - e già il nome d’arte «rubato» a una canzone di De Andrè la rende simpatica - a Sanremo ci va per davvero, dalla porta principale, con la canzone «Com’è straordinaria la vita». In attesa della quale, i suoi fan hanno molto apprezzato l’album «Un mondo perfetto» (Edel). Una manciata di canzoni emozionanti, con tre cover: «Sei bellissima» della Bertè, «Lulù e Marlene» dei Litfiba e «Pensiero stupendo» di Patty Pravo.
Da una donna del sud italiano a una splendida interprete nera del sud della Carolina, Stati Uniti. «Stone hits - The very best of Angie Stone» (Sony Bmg) è una raccolta che mette in fila alcune delle cose migliori regalate al pubblico di mezzo mondo da questa grande interprete della scena rhythm’n’blues. È il suo primo best, che conferma la Stone (che è anche compagna del soul-man D'Angelo, uno degli eredi artistici di Marvin Gaye) fra le regine del nuovo soul statunitense. C’è anche un inedito, «I wasn't kidding», fra le tante perle funky («Everyday», «Little boy», «No more rain»...) che brillano nel disco.
Cambio scena. Loro si chiamano Sikitis, vengono dalla Sardegna, hanno pubblicato un disco intitolato «Fuga dal deserto del Tiki» (Casasonica Emi). Mischiano radici hardcore, suggestioni psichedeliche, amore per il rock’n’roll e il progressive, ma soprattutto piccole e originali storie da raccontare. «Roma a mano armata», «Giulietta degli spiriti», «Metti una sera a cena» sembrano piccoli cortometraggi alla maniera di Tarantino. «Caravan» fa la figura di uno standard jazz. E la rilettura di «L'importante è finire», classico di Mina, non passa inosservata.



È diventato un dvd la bella registrazione dal vivo realizzata da Carlos Santana negli studi della Sony a New York, nell’ottobre del 2002. Il mitico chitarrista messicano, inventore del latin-rock, sulle scene ormai da quarant’anni, è qui in forma strepitosa. Meglio ancora che nel recente album «All that I am». E regala classici come «Oye como va», «Black magic woman», «Soul sacrifice», «Europa», ma anche perle dai recenti album «Supernatural» (venticinque milioni di copie vendute) e «Shaman». Il filmato riesce a restituire le emozioni che Santana - 59 anni a luglio - trasmette ogni volta che sale su un palcoscenico. Caliente...


Ha fatto dei duetti - assieme all’amore per la musica nera mischiata alla melodia italiana - il suo credo, la sua religione, forse anche il segreto della sua affermazione anche a livello internazionale. E in questo cofanetto (due cd e un dvd, che ripropone il concerto tenuto il 6 maggio 2004 alla Royal Albert Hall di Londra) spara tutte le cartucce a disposizione: Sting, Eric Clapton, Jeff Beck, Tom Jones, Macy Gray, John Lee Hooker, Sheryl Crow, B.B.King, Paul Young, Mark Knopfler, Pavarotti, Bocelli, l’inarrivabile (e compianto) Miles Davis, che aveva trasformato la sua «Dune mosse» in un capolavoro autentico. Insomma, bella parata di stelle. E documento fondamentale della carriera di Zucchero. Da collezione...

martedì 10 gennaio 2006

Sanremo? La solita sbobba, fuffa, broda... Il Festival, si sa, è da anni un format televisivo. Un format «made in Italy». Anzi, «made in Rai», perlomeno finchè dura l’accordo fra il Comune della cittadina ligure e Viale Mazzini. Comunque un prodotto che funziona da oltre mezzo secolo, pur fra tanti alti e pochi bassi. E per continuare a funzionare, in questa deprimente repubblica dell’Auditel, deve aggiornarsi, strizzare l’occhio ai gusti tradizionali e a quelli giovani, mediare fra personaggi televisivi e cantanti che hanno qualcosa da dire e da cantare.
Lo fa anche quest’anno col solito cast tuttifrutti, un colpo al cerchio e l’altro alla botte, nella speranza di catalizzare ancora una volta, per una settimana, l’attenzione degli italiani. Più con le polemiche, con il martellamento televisivo, con la forza dell’inerzia e dell’abitudine, che con cantanti e canzoni.
Se i dodici Giovani già annunciati (fra cui Simone Cristicchi, L’Aura, Ivan Segreto...) sono stati scelti da una commissione, l’identificazione dei diciotto big - divisi fra Uomini, Donne e Gruppi, si rinuncia vivaddio ai Classici... - è tutta farina del sacco di Panariello e del direttore artistico Gianmarco Mazzi.
Il risultato è quello che è. Poche note positive: Povia, trionfatore ideale del Sanremo dell’anno scorso con «I bambini fanno oh» (fuori gara perchè non inedita); l’accoppiata fra l’israeliana Noa e il milanese Carlo Fava (uno sulle orme del gaberiano teatro canzone); il ritorno dei Nomadi (ma chi glielo fa fare...) e quello di Mario Venuti (l’ex Denovo che due anni fa stupì con «Legami»), infilato fra i Gruppi, categoria supermarket, grazie alla band che lo accompagna. Per lo stesso motivo, sfilano fra i Campioni nomi nuovi come Sugarfree e Zero Assoluto (neanche ammessi l’anno scorso fra i Giovani, con quella «Semplicemente» poi esplosa...), che hanno all’attivo successi forse meno eclatanti di Cristicchi e L’Aura, inseriti fra i Giovani.
Ci siamo risparmiati Al Bano (per fortuna) e la Bertè (purtroppo). Ci cuccheremo invece, ahinoi, i Figli di Scampia, altri sedicenti Campioni: una progetto ideato da Gigi D’Alessio, con Gigi Finizio, qualche napoletano «di seconda (o terza) fascia» e alcuni ragazzi delle periferie degradate. Mah...
Completeranno il menù gli ospiti, con annessi botti ancora da confermare. Mentre è già sicura l’unica vera novità del Sanremo 2006, ovvero l’ascolto preventivo di trenta secondi delle canzoni in gara. Anche attraverso il cellulare. Una possibilità di cui in effetti sentivamo assai la mancanza...

lunedì 9 gennaio 2006

È stato senz’ombra di dubbio Vasco Rossi, il dominatore del rock italiano

nell’anno appena concluso. E lo è stato fino all’ultimo, grazie a «Buoni o

cattivi live anthology 04.05» (Emi), uno dei dischi più regalati per Natale,

sia nella versione cd doppio che in quella cofanetto con tre dvd oltre ai

due cd. Un’opera che rappresenta un’ulteriore lettura di un disco e di un

tour da record, che ha impegnato il nostro per due annate. E ha il merito, e

forse al tempo stesso il limite, di riprodurre perfettamente l’atmosfera dei

concerti del Vasco nazionale. Che sono da anni adunate di migliaia e

migliaia di fan, dimostrazioni di affetto e di dedizione e forse persino di

fede, occasioni nelle quali le canzoni del nostro sono quasi una scusa, un

spunto da lasciar spesso cantare per strofe e ritornelli interi dal popolo

vaschiano.

Lui spesso dà solo il via, eccita la folla, si lascia cullare dal coro dei
centomila. E riveste più che mai il ruolo del deus ex machina del rock

stellare di casa nostra. Fra i brani del doppio cd: «Cosa vuoi da me»,

«Sally», «Gli spari sopra», «Siamo solo noi», «Un senso», «Brava Giulia»,

«Dimentichiamoci questa città», ovviamente «Vita spericolata» e

«Albachiara».

E parlando di rock italiano il pensiero non può che tornare a quella che ne

è stata per tanti anni la band di punta, i Litfiba, che alla lunga non hanno

saputo sopravvivere alle controverse dinamiche personali. Un doppio cd a

prezzo speciale, «Litfiba ’99 Live» (Sony Bmg), con bella copertina di Mimmo

Rotella, fa affiorare la nostalgia e ce li restituisce al top del loro

fulgore. Quando Piero Pelù conduceva la danza e Ghigo Renzulli gestiva la

retrovia. «Regina di cuori», «Lacio drom», «El diablo»... Che energia! Altro

che adesso, quando la band senza il leader non lascia traccia, ma lo stesso

leader, da solo, non è mai più stato all’altezza delle premesse. Come

dimostra anche il recente «Piero Pelù Presente» (Warner), un best con due

inediti che non dice nulla di nuovo. Finirà che torneranno insieme,

vedrete...

Meglio allora il nuovo lavoro del siciliano Ivan Segreto, «Fidate correnti»

(Sony Bmg), che vedremo fra due mesi a Sanremo fra i giovani. A un anno dal

disco d'esordio, quel «Porta vagnu» che lo ha rivelato, si conferma cantante

sensibile e pianista di formazione jazzistica che potrebbe ripetere

l’exploit di Sergio Cammariere. Fra i brani: «Vola lontano», «Tingerei in

verde», «Allegra compagnia»...

E meglio anche la freschezza, la genuinità della prova d’esordio di Sabrina

Di Stefano, «Mi hanno detto che ero nata per essere felice» (Rca Records

Label). Una manciata di canzoni (fra cui spicca «Le cose vere», scritta con

Bungaro) che ne rivela la felice vena da cantautrice, un’originale cover di

«La bambola» di Patty Pravo, le esperte cure musicali di un gruppo di

jazzisti capitanati da Roberto Gatto.

E c’è ancora spazio per due vecchi leoni della canzone italiana. Il primo è

Riccardo Fogli, cui la vittoria di due anni fa al «Music Farm» televisivo

sembra aver donato nuova linfa. Il nuovo disco s’intitola «Ci saranno giorni

migliori» (Solomusicaitaliana), un titolo che è già tutto un programma per

questo bravo interprete cui è rimasta legata addosso la sindrome dell’ex

Pooh. L’altro è il pugliese/toscano Raf, che dà alle stampe la sua

«Collezione definitiva» (Warner): due cd con grandi e piccoli successi, da

«Self control» a «Infinito», passando per «Ti pretendo».

«Curtain Call - The Hits» (Universal) è la prima raccolta di Eminem. Il
bianco che ha preso la musica dei neri, il rap, l’ha riletta attraverso la

sua sensibilità e ne ha fatto un successo mondiale. Un po’ come Elvis aveva

fatto mezzo secolo fa con il rock... Il cd doppio ripercorre la sua carriera

- decollata nel ’99 e forte di 65 milioni di copie vendute, nonchè già

celebrata nel film autobiografico «8 Mile» - attraverso brani come «My name

is», «Stan», «Lose yourself»... Ci sono anche tre inediti («Fack», «Shake

that» e «When I’m gone»), la cui bontà sembra scacciare le voci girate su un

imminente ritiro dalle scene del rapper americano.

Ancora America con i newyorkesi Strokes, al terzo cd con questo «First

impressions» (Sony Bmg). Come nel debutto «Is this it» (era appena il 2001),

anche qui fresche melodie e sapienti riff. E il cantante Julian Casablancas

ha imparato la lezione dei grandi del passato. «Evening sun» e «Fear of

sleep» sono i brani che pulsano meglio.

Ancora America e ancora New York con la cantautrice Fiona Apple e un disco -

«Extraordinary machine» (Epic Sony Bmg) - che è stata una delle più belle

sorprese del 2005. Inizialmente bloccato dalla sua multinazionale, e poi

lanciato in prima battuta sul web, l’album coniuga atmosfere tipo music-hall

hollywodiano, lezioni di Joni Mitchell, arrangiamenti di grande eleganza ed

effetto. Brilla «O' Sailor», ballata sognante e ricca di pathos.

Chiusura con un’altra donna. La brasiliana Rita Lee si cimenta, nel cd

«Bossa’n Beatles» (Deck Venus), con l’inarrivabile repertorio lasciatosi dai

Fab Four. Lo fa, come dichiara già nel titolo, attingendo ai suoni della sua

terra e rileggendo con voce calda e ispirata capolavori come «With a little

help...» e «Michelle». Bella operazione, all’insegna della contaminazione

fra quanto di meglio ci ha lasciato musicalmente la seconda metà del

Novecento.

DE ANDRE'. Un cofanetto, tre cd, 54 canzoni, un libretto con  testi e foto... Insomma,
i motivi per riservare un posto sullo scaffale a quest’opera non mancano. Se

di solito siamo abituati a guardare con sospetto al fiorire di antologie e

raccolte varie, qui il discorso è diverso. Siamo in presenza di una parte

della storia della canzone - e della cultura - italiana. Di Faber ritroviamo

allora alcune delle opere più importanti, dalle origini fino ai capolavori

degli anni '80 e '90: da «Via del campo» a «Bocca di rosa», da «La guerra di

Piero» a interi frammenti tratti da album come «La buona novella» o «Non

all'amore né al cielo». Più l’inedita «Cose che dimentico», versione live

del ’97 cantata con il figlio Cristiano. Commovente.

DISCHI DEL SOLE. «I dischi del sole» hanno raccontato negli anni Sessanta e Settanta la
storia della musica popolare e di protesta italiana. Ora tornano in un

cofanetto che comprende un cd e un dvd. Nel primo ritroviamo le canzoni di

Caterina Bueno, Ivan Della Mea, Giovanna Marini (nella foto), Paolo Ciarchi,

Gualtiero Bertelli, Paolo Pietrangeli. Ma anche Fausto Amodei, Dario Fo con

Fiorenzo Carpi, il Canzoniere del Lazio, Rudi Assuntino, Laura Betti... Nel

dvd c’è il film «I dischi del sole», un prezioso documentario di novanta

minuti firmato da Luca Pastore. Che racconta con garbo e partecipazione

un’Italia che non c’è più.