venerdì 29 aprile 2016

PJ HARVEY, THE HOPE SIX...

PJ HARVEY “The hope six demolition project” (Universal) Torna Pj Harvey. Il nuovo album trae ispirazione da alcuni viaggi intrapresi dall’artista inglese, fra Kosovo e Afghanistan, ma anche nei quartieri degradati di Washington. «Quando scrivo una canzone visualizzo l'intera scena - ha detto -. Posso vedere i colori, dire l'ora del giorno, percepire lo stato d'animo, vedere il cambio di luce, le ombre in movimento, tutto è racchiuso in quella foto. Raccogliere informazioni da fonti secondarie era troppo lontano per comprendere appieno quello che stavo cercando di scrivere. Volevo annusare l'aria, sentire la terra e incontrare la gente dei paesi di cui ero affascinata». L'album è un riuscito racconto rock per immagini (c’è anche un libro). Arriva cinque anni dopo “Let England Shake”, che era dedicato alla guerra, ed è stato registrato alla Somerset House, il centro culturale più importante di Londra. Lì l’artista, la band, gli ingegneri del suono e i produttori Flood e John Parish, hanno lavorato a tutte le fasi del disco in uno studio di registrazione appositamente costruito dietro a un vetro, per consentire al pubblico di osservare tutto ciò che succedeva all’interno.

LOREDANA BERTE', AMICI NON NE HO... MA AMICHE SI'

Loredana Bertè è stata la miglior voce rock della canzone italiana. Ci riferiamo soprattutto al periodo fra gli anni Settanta e Ottanta, quando la sessantacinquenne cantante di Bagnara Calabra ha inanellato album di assoluto rilievo (“Tir”, “Traslocando”, “Jazz”, “Savoir faire”, “Carioca”...), che comprendevano brani di rara bellezza, alcuni firmati da Ivano Fossati e Enrico Ruggeri. Poi si è letteralmente buttata via. Un po’ perchè la vita non le è stata tenera (la morte della sorella Mia Martini, il ricordo di un padre padrone, le unioni sentimentali non felici...), un po’ perchè in un mondo di squali non è stata capace di difendersi e crearsi un proprio equilibrio, una corazza per difendersi e sopravvivere. Ora, per celebrare i quarant’anni di carriera, è uscita con un album che le sta dando qualche soddisfazione e il cui titolo è già una dichiarazione d’intenti: “Amici non ne ho... ma amiche sì!” (Warner). Idea e produzione di Fiorella Mannoia, che debutta in cabina di regia, e ha messo assieme un gruppo di colleghe, più o meno giovani, che hanno duettato con Loredana in un grappolo di canzoni di quest’ultima. Ciliegina sulla torta, tre inediti: “È andata così”, scritta per lei da Ligabue, che apre l’album; “Il mio funerale”, dal testo contro l’ipocrisia dell’industria discografica, a chiusura della lista; e in mezzo “Ma quale musica leggera”, un brano di Edoardo Bennato che doveva uscire in un album del 2012 che poi non vide mai la luce, e che in questa occasione la cantante calabrese interpreta in duetto con la sua storica corista Aida Cooper. Il resto? Belle canzoni, interpretate meglio. Palma d’oro a “Mi manchi”, con Patty Pravo. A seguire classici come Non sono una signora” (con Emma), “In alto mare” e “Il mare d’inverno (entrambe con la stessa Mannoia), “Dedicato” (con Noemi), “Sei bellissima” (del ’75, con Alessandra Amoroso), “E la luna bussò” (con Elisa), “Così ti scrivo” (con Bianca Atzei), “Buongiorno anche a te” (con Irene Grandi). E c’è spazio anche per Paola Turci (“Luna”), Nina Zilli (“La goccia”), Antonella Lo Coco (“Folle città”). E tutta la compagnia al femminile rilegge poi quella “Amici non ne ho”, presentata al Sanremo ’94, a cui si ispira il titolo. Da ultimo, dobbiamo citare il momento più emozionante dell’album. Si tratta di “Stiamo come stiamo”, che le due sorelle Bertè portarono al Sanremo ’93. Mia Martini morì nel maggio ’95. E quella canzone sul disagio di vivere rimane l’ultima testimonianza di loro due assieme. Risentirla adesso, magari rivedere su Youtube il video di quella partecipazione al Festival, presentate dall’immarcescibile Pippo Baudo, è uno di quei momenti che ti fanno amare la musica. E le canzoni.

giovedì 28 aprile 2016

MONI OVADIA RICORDA JANNACCI AL T.MIELA DI TRIESTE

«Enzo Jannacci è stato per me il più grande poeta e autore della canzone italiana. Ha cantato con una grazia insuperata e insuperabile l’epopea dei poveri cristi, degli umili, degli ultimi, quelli che anche io ho frequentato nella Milano di tanti anni fa: i barboni, i balordi, gli sbandati, i ladruncoli, il primo travestito in piazza Napoli, dove abitavo. Ogni sorta di umanità marginale. Per questo motivo ho voluto ricordarlo con questo spettacolo». Moni Ovadia torna mercoledì a Trieste, al Teatro Miela, per la stagione “Altri percorsi” (organizzazione Stabile regionale e Cooperativa Bonawentura), con il suo nuovo spettacolo intitolato “Il nostro Enzo. Ricordando Jannacci”. Sul palco soltanto lui con il pianista Alessandro Nidi. «È stato proprio lui, Alessandro - spiega Salomone “Moni” Ovadia, massimo divulgatore della cultura yiddish nel nostro paese -, a suggerirmi di fare questo spettacolo. E aveva ragione. Fra le mie tante identità io sento molto forte quella milanese, sono cresciuto nel quartiere popolare del Giambellino, ho imparato il dialetto per strada, lo parlo, e Jannacci ne è stato il più grande interprete di quella cultura. Lui non aveva debiti, è stato artista originalissimo, un caposcuola come Renato Carosone, come Roberto Murolo, come Fred Buscaglione. E aggiungo come Lucio Dalla, le sue sono state le ultime grandi ballate della canzone italiana». Ancora Ovadia: «Enzo ha cantato la Milano che anch’io ho conosciuto negli anni Cinquanta e Sessanta, quella che oggi non esiste più, e ne ha espresso la grande poesia. Che poi lui fra l’altro nasceva bene, la sua famiglia veniva dalla Puglia, lui era medico e diplomato al conservatorio. È cresciuto, siamo cresciuti quando il benessere era la radio nuova, la cinquecento, il frigorifero, la torta per i bambini la domenica». Lo spettacolo è un recital, ricco di canzoni, di episodi, di ricordi. Attraverso i quali l’arte e la poesia di Enzo Jannacci rivivono almeno per una sera. Rivivono anche il suo ottimismo, la sua energia, la sua voglia di vivere. Lui che si domandava: «Come si fa a cadere nel pessimismo quando c'è la musica?» Quando è mancato, nel marzo di tre anni fa, Moni Ovadia ha scritto su La Stampa: «Il suo talento di musicista si esprimeva al meglio nel jazz come nel rock, ma la fonte più intima della sua prodigiosa ispirazione era l’humus poetico-culturale delle periferie urbane e specificamente quelle della sua Milano. La “capitale morale”, quando Jannacci fece la sua comparsa sulle scene della canzone e del cabaret, era una metropoli industriale in pieno e impetuoso sviluppo, dava lavoro, chiamava gli immigrati dalle periferie meridionali orientali ed isolane dello Stivale. Ma la stessa orgogliosa città albergava nei suoi interstizi e nei suoi sottofondi, la povera gente, i disperati, i fuori di testa, gli esclusi, i sognatori senza voce, i terroni, gli abbandonati dall’amore e dalla vita, le puttane navi scuola da strada e da cinema». Ancora da quel toccante ricordo: «Di tutti questi poveri cristi, lui è stato il cantore assoluto. Jannacci ne ha colto, incarnato e raccontato la storia, le emozioni, i sentimenti e la vita vera. Di quel popolo ha interpretato la malinconica, maleducata e balorda grazia, ha rivelato che la poesia dei luoghi, fiorisce nei gesti impropri e sgangherati degli ultimi fra gli ultimi, nella loro grandiosa lingua gaglioffa e sfacciata. Enzo non era nato povero cristo, aveva fatto ottimi studi in ogni senso, ma quella condizione l’aveva incorporata con arte alchemica». Nel recital che arriva a Trieste tornano grandi classici e anche episodi meno noti di una carriera maiuscola, sempre in bilico fra canzoni dialettali, tentazioni rock, reminiscenze jazz. Un repertorio immenso, creato collaborando con amici che poi erano grandi artisti della statura di Dario Fo e Giorgio Gaber, e poi ispirando a sua volta altri personaggi dello spettacolo, tra cui Renato Pozzetto e Diego Abatantuono. «Il dialetto è fondamentale - aggiunge Ovadia - nella poetica di Jannacci. Una volta Pier Paolo Pasolini, i cui “Scritti corsari” andrebbero ancora letti e riletti, disse che è un crimine aver messo la lingua italiana “contro” i dialetti. E il grande poeta siciliano Ignazio Butitta aggiunse che un popolo diventa servo quando gli viene tolta la lingua, il dialetto». «Questo spettacolo - prosegue l’artista - ha debuttato ad Asti con l’Orchestra Paganini, poi è stato replicato a Milano, al Teatro dell’Elfo, a Parma, a Lugano e in altre città. A Trieste proporremo capolavori “Vengo anch’io, no tu no” e “L’Armando”, “El purtava i scarp del tennis” e “Ma mi”, ovviamente “Vincenzina e la fabbrica, brano di struggente umanità. Di quelli da far sentire a Marchionne...». Ancora: «Ho amato di Jannacci la caratura di grande interprete stralunato, surreale, con quella maschera ferma, alla Buster Keaton. Lo ho amato anche come interprete cinematografico. Ma voglio dire che per cantare le sue canzoni devo fare uno sforzo di concentrazione, mi toccano le fibre più intime dell’anima, la voce mi si spezza per la commozione». «E sarà un’emozione nell’emozione - conclude Moni Ovadia, nato a Plovdiv, Bulgaria, nel 1946, milanese d’adozione e cittadino del mondo per vocazione culturale - cantare le sue canzoni a Trieste, città nella quale torno sempre davvero volentieri. La considero una delle “mie” città, di una bellezza struggente, dove ho tanti amici. Come qualcuno ricorderà, a questa che è una città simbolo della Mitteleuropa, porta sull’Est, ho anche dedicato nel ’98 uno spettacolo, “Trieste... ebrei e dintorni”».

lunedì 25 aprile 2016

LINK PREMIO LUCHETTA, FORSE TRIESTE HA TROVATO IL SUO FESTIVAL

Diciamolo a bassa voce. Ma forse Trieste ha trovato il “suo” festival. Sì, perchè “Link. Premio Luchetta Incontra”, che si conclude oggi nel tendone allestito in piazza della Borsa e battezzato per ragioni di sponsor Fincantieri Newsroom, ha dimostrato quest’anno di aver raggiunto il grado di maturazione giusto per occupare quella casella vuota nel panorama cittadino degli eventi, che ci rendeva un po’ invidiosi guardando ad altre città regionali o trivenete, già festival-dotati. Quattro giorni dedicati al #buongiornalismo, nei quali si parla di terrorismo e migranti, economia e religione, storia e cultura, sport e informazione sul web, Caso Regeni e Panama Papers. Unendo quantità e qualità delle proposte. Ieri la giornata è cominciata con l’incontro “Terrorismo e media”. Protagonisti due volti noti del servizio pubblico: Antonio Di Bella, neo direttore di Rainews, e Franco Di Mare, di Unomattina. Le domande attorno alle quali è ruotato il dialogo: è giusto rinunciare a frammenti di libertà, anche libertà di informazione, per difendere la sicurezza di tutti? Servono leggi speciali? Esistono dei limiti, ci sono immagini da non far vedere quando il terrore colpisce? I due giornalisti hanno risposto attingendo alle rispettive esperienze sul campo. Di Mare: «I comportamenti e le reazioni sono diverse da paese a paese. Degli attentati del 2005 a Londra non ci sono immagini. La zona fu subito isolata. La strategia, forse giusta, era quella di evitare che replicare le immagini comportasse anche il reiterarsi della paura. Gli aerei che si schiantano nelle Torri Gemelle sono state viste milioni di volta, ma quelle delle persone che si sono gettate nel vuoto pur di sfuggire alle fiamme ma non alla morte sono state date col contagocce. Per evitare di veicolare il messaggio dei terroristi: vi colpiremo sempre, e tutti». Di Bella: «A volte passiamo per burattini che obbediscono a burattinai che decidono, ma il mondo è troppo complesso per essere ridotto a pochi che comandano e tanti che ubbidiscono. L’informazione è affidata a ognuno di noi, oggi ne circola talmente tanta che la censura è difficile. Ma fino a dove l’informazione deve dare tutto e dove deve fermarsi per non mettere in pericolo delle vite? Quando arriva una notizia devi decidere in otto secondi se darla, non chiami il tuo ipotetico censore per avere l’okay. Io credo in un grado di libertà avanzato, nel quale l’esperienza e la deontologia ti fanno capire cosa devi fare». Conferma Di Mare: «Se sei inviato in un posto sei tu che decidi cosa va in onda, non il tuo direttore. Il limite, rispettato da tutte le testate, è non far vedere immagini di morte. Sul web invece trovi di tutto». Entrambi concordano sul fatto che non servono regole, leggi speciali. In uno stato di diritto non bisogna venir meno ai diritti fondamentali. Anche perchè l’emergenza passa, le leggi speciali restano. Di Bella, che poi ha concluso “da cantautore” con la sua spassosa canzone sul giornalista finanziario (ovazione...): «In Italia siamo più avanti, abbiamo avuto il terrorismo e la mafia, almeno il primo lo abbiamo sconfitto senza leggi speciali...». Secondo incontro su “L’informazione in rete”. Incalzati dalle domande e dalle riflessioni del vicedirettore del “Piccolo” Alberto Bollis, ne hanno parlato Antonella Baccaro del Corriere della Sera e Vittorio Di Trapani, segretario Usigrai. La prima: «Giornalismo è approfondire, non si ferma a internet, a Google. Servono competenze per verificare una notizia. La rete ha velocizzato l’informazione, prima un giornale usciva una volta al giorno, ora il sito va aggiornato di continuo. Ma le tante bufale circolate dimostrano quanto è necessaria la professionalità. Facebook e Google sono gratis solo apparentemente, dietro c'è chi vende i nostri dati e guadagna». Di Trapani: «Internet c’è, il tema è come lo utilizzi. Ma bisogna evitare che diventi un alibi per gli editori, per spendere meno e impoverire l’informazione. Mandare un giornalista sul posto non è un costo ma un investimento, che serve per aumentare il nostro livello di democrazia». Nell’incontro “Le rotte della speranza”, la giornalista e scrittrice Francesca Barra ha presentato il suo libro “Il mare nasconde le stelle”. È la storia del giovanissimo Remon, migrante egiziano, cristiano-copto, sopravvissuto al mare e agli scafisti, alla fame e alla solitudine. E accolto da una mamma italiana, che con la sua generosità e il suo coraggio gli ha regalato un futuro. Quando tre anni fa è arrivato in Italia dopo una traversata lunga 160 ore, aveva quattordici anni. Oggi frequenta il liceo scientifico ad Augusta ma non vede da due anni i genitori. «Perchè quelli che arrivano non sono terroristi, ma esseri umani», ha commentato Andrea Iacomini, portavoce italiano dell’Unicef.

martedì 19 aprile 2016

GIANNA NANNINI merc 20-4 a TRIESTE, al Rossetti

«I teatri vanno ripresi anche per fare rock, che poi è musica popolare, come lo era il melodramma. in un teatro posso esprimere al meglio la mia voce e il mio suono, che è rock sinfonico». Gianna Nannini torna a Trieste, stasera alle 21, al Politeama Rossetti, nell’ambito del suo “Hitstory Tour 2016”, e parla innanzitutto dei luoghi nei quali questa tournèe si svolge. «Gli archi nei palasport non si sentirebbero - spiega l’artista toscana, classe ’54, quarant’anni di carriera discografica alle spalle - e questa è una grande occasione che mi ha dato il mio manager David Zard. In un teatro posso davvero esprimermi al massimo». «Il teatro è il luogo più adatto per sentire tutto della musica, anche quella rock, come succede all'estero dove si esibiscono anche molti gruppi metal. Questo al Rossetti sarà un concerto-spettacolo in grado di coniugare e amalgamare il rock con il classico, nel quale le canzoni più armoniose si alternano con quelle rock, in modo da far ballare anche le poltrone dei teatri grazie al sestetto d'archi Red Rock Strings, supportato dal mio gruppo». “Hitstory”: un monumento in vita o il racconto di una carriera? «Una collezione dei miei successi raccolti in due cd (la versione deluxe ne contiene invece tre insieme al “Giocagianna”), con l'aggiunta di sei inediti. In questo album ripercorro le epoche della musica dagli anni Settanta, Ottanta e Novanta fino a oggi». La collaborazione con Pasquale Panella, già autore per Lucio Battisti? «Panella è un poeta dei nostri tempi, è uno che non ha paura della melodia e innesca sempre nella linea melodica del brano versi che esaltano la musica e la voce». In “Hitalia” quale cover l’ha emozionata di più? «”Dio è morto”». Dopo “Hitalia” e “Hitstory”, ci sarà la terza “Hit...”? «Sto preparando un album di inediti che a mio avviso è bello come non mai». Avrebbe pensato che la sua antica produttrice Mara Maionchi sarebbe diventata un personaggio televisivo? «Mara è stata per me come una terapia. Litigavamo spesso e proprio quelle litigate mi hanno dato la forza di andare avanti e inseguire il mio sogno. Lei ha una dote unica: capire se un ragazzo ha le qualità per diventare un artista. Infatti per questo motivo, molti autori la vogliono nei loro programmi». La vedremo giurata a “X Factor”? «No comment (girano da tempo voci su un possibile ingresso della Nannini fra i quattro giudici del popolare talent, al posto di Skin; pare che il suo manager stia trattando con Sky gli aspetti di un’eventuale partecipazione; il 31 aprile l’annuncio del cast - ndr)» Sua figlia si sta abituando alla vita in tour? «Cerco di portare Penelope in più date possibili del tour. Ho notato che è molto affascinata dalla magia del palcoscenico e dal fatto di vedere sua madre scatenarsi assieme al suo pubblico. Ovviamente per lei è sempre una grande festa». Cosa canterà a Trieste? «Ho una scaletta di trenta brani che si apre sempre con “America”. Mi dà la carica giusta per cominciare al meglio il concerto e per scaldare subito il pubblico. Anche se il pubblico in Italia non sa capire che nel rock ci si alza tutti in piedi a gioire e far festa». «Durante il “live” - conclude Gianna - si scatenano alcuni momenti di contrasto fra quelli che vogliono star seduti a guardare (non si sa cosa...) e quelli che reagiscono in modo rock alzandosi dalle poltrone, così come avviene all'estero e soprattutto come dovrebbe accadere anche nei teatri...». Sul palco, stasera con Gianna Nannini, Davide Tagliapietra e Thomas Festa alle chitarre, Moritz Müller alla batteria, Daniel Weber al basso, Will Medini alle tastiere e le coriste Isabella Casucci e Anna Camporeale. Il sestetto d’archi Red Rock Strings è composto da Lorenzo Borneo, Roberta Malavolti, Liuba Moraru, Chiara Santarelli al violino, Lina Rusca alla viola e Davide Pilastro al violoncello. Il tour teatrale proseguirà quest’estate in alcune delle arene più suggestive d'Italia. Debutto il 14 maggio all’Arena di Verona, con ospite la Bohemian Symphony Orchestra, diretta da Wil Malone, che l’ha accompagnata nel suo recente tour in Germania “Rock Meets Classic”.

FLORIS 22-4 APRE LINK A TRIESTE

I talk show sono in crisi? «No, il pubblico è sempre quello. Sono i programmi che sono aumentati e si dividono la stessa torta». La politica? «Siamo in un periodo in cui non dà gran prova di sé. È sin troppo omologata, standard, quasi “leggera”». L’ospite migliore? «Quello preparato ma che sa sorridere, profondo ma leggero, capace di discutere con persone che hanno idee diverse dalle sue...». Giovanni Floris ritorna a Trieste per aprire, venerdì alle 16, la quattro giorni di Link. Premio Luchetta incontra, il Festival dedicato al mondo dell’informazione. Alla Fincantieri Newsroom di piazza della Borsa, alle 16, dialogheranno con lui Beppe Giulietti, presidente della Fnsi, e Andrea Filippi, direttore de “La Nuova Sardegna” Da due anni, Floris conduce su La7 il talk show “DiMartedì”, con cui idealmente sfida quel “Ballarò” che per dieci anni, su Raitre, era stato il suo regno e ora è condotto da Massimo Giannini. Per molti, il martedì sera, spesso sfruttando le pause pubblicitarie, saltare da un programma all’altro è un’abitudine. Floris, i talk sono in crisi perchè la politica è in crisi? «Distinguiamo. Quando ho cominciato “Ballarò” mi dicevano che solo un telespettatore su dieci è interessato alla politica. Ma erano tempi in cui i talk erano pochi, in questi anni si sono moltiplicati. Ed è successo anche che abbiamo vissuto anni, diciamo la stagione di Berlusconi, in cui avvenivano fatti eccezionali, che travalicavano i confini della politica tradizionale per entrare nei terreni del gossip, della cronaca nera, della giudiziaria. Ai tempi del cosiddetto processo Ruby arrivavano in Italia giornalisti e troupe televisive da mezzo mondo...». Ora siamo tornati alla normalità? «Diciamo che la politica è meno interessante, infatti perde spazio nei talk, nei quali ora si parla molto di economia, di cronaca, di problemi che interessano di più alla gente comune. E i talk non perdono ascolti nel complesso, li perdono singolarmente perchè le proposte sono tante e in concorrenza l’una con l’altra. Insomma, dopo una stagione “eccezionale”, siamo tornati a quell’uno su dieci che si interessa all’argomento. La torta è sempre quella, sono aumentati i commensali». Crozza l’ha seguita su La7. «Ne sono molto contento. Vuol dire che il rapporto è solido. A livello di satira, credo che oggi lui sia il numero uno in Italia. Ha una capacità non comune di cogliere gli elementi di grottesco della realtà. I suoi interventi sono veri e propri editoriali». Ha imitato anche lei. «E devo dire che ho riso tanto, mi sono divertito moltissimo. Lui fa un grande lavoro di preparazione sui personaggi, ha un’ottima squadra, riesce a cogliere tic e caratteristiche di ognuno. Evidentemente in tanti anni ha studiato per bene anche me...». In tanti anni di ospitate avete anche creato dei “mostri”... «Non credo. Da noi sono passati in tanti, alcuni sono cresciuti, si sono imposti all’opinione pubblica. Altri sono spariti. La televisione non crea, al massimo mette in mostra. Nel caso dei politici, poi sono i partiti a puntare sull’uno o sull’altro. E alla fine è sempre la gente che decide se uno va bene o non va bene». Ma il livello medio dei politici è scaduto. «Un problema di formazione politica esiste, inutile negarlo. Un tempo c’erano le scuole quadri, esisteva la gavetta: si cominciava nei consigli circoscrizionali, poi il Comune, la Provincia, la Regione... Sono alla fine di un lungo percorso chi valeva faceva il salto al parlamento, alla scena nazionale». Da qualche anno, invece... «Ci sono donne e uomini che si trovano alla Camera o al Senato di punto in bianco, senza grande esperienza e anche senza sufficiente preparazione. È sempre così, quando quando c’è un ricambio della classe dirigente. Ma vedo che i partiti si stanno attrezzando, nascono di nuovo le scuole di formazione, sia da una parte che dall’altra». L’11 settembre 2001 le ha cambiato la vita. «Sì, ero a New York per la Rai, inizialmente per sostituire temporaneamente un collega. L’attentato alle Torri Gemelle fu un evento di tale portata, di quelli che ti segnano più come persona che come professionista. Ha cambiato la mia vita e la storia professionale in maniera netta e repentina, al di là del fatto che ovviamente non avevo mai affrontato una cosa nemmeno paragonabile a quanto accadde». Il passaggio a conduttore? «Avevo dei dubbi. All’Agi mi ero occupato di economia, poi gli esteri furono una novità, la corrispondenza da New York un’altra novità. Ma davanti alle cose nuove io non mi spavento. Diciamo che colgo queste esperienze come delle opportunità. E mi ci butto». Dopo vari saggi ha appena pubblicato il suo secondo romanzo. «Sì, s’intitola “La prima regola degli Shardana” ed è il seguito del precedente “Il confine di Bonetti”. Racconta la vita di tre amici quarantenni, alla soglia dei cinquant’anni, che hanno la grande possibilità di avere una seconda occasione. Ma anche per sintonizzarsi con la propria età, per scoprire il lato positivo della propria età». Libro autobiografico? «In parte sì. I protagonisti sono tre vecchi compagni di liceo. Diventati un avvocato da cause piccole, di quelli che si arrangiano con gli incidenti stradali; un imprenditore mezzo fallito che tenta di risollevarsi; un giornalista che ha ancora voglia di avventura». E il giornalista magari somiglia a lei... «In parte. Diciamo che racconto il mondo che conosco, dunque in alcuni tratti potrebbe anche somigliarmi». Somiglianze a parte? «Il romanzo è un po’ lo specchio del nostro Paese, che ha vissuto una stagione di sviluppo ma ora sembra rassegnato, deluso, quasi in difesa. I tre protagonisti si riconoscono sempre meno in questa società, vivono in mondo che stentano a comprendere, ma poi si salvano nella solidarietà, nell’altruiscmo, nella capacità di fare squadra, di non mollare mai il compagno che è rimasto indietro». È vero che ha scritto il libro nel passaggio dalla Rai a La7? «Sì, forse per questo parla di passione nel rimettersi in gioco». E la regola del titolo? «È svelata all’ultima riga. Ed è una regola semplicissima: non fare mai la pipì controvento...».

domenica 17 aprile 2016

MARIO FEROCE, UN TRIESTINO A PARIGI

«Domani uscirà, in un festival parigino, il mio cortometraggio “Keep in touch”, che è la mia prima commedia, scritta insieme alla bravissima Sivia Lavit Nicora...». Parla Mario Feroce, triestino, classe 1955, partito tanti anni fa da Trieste alla volta della Francia, con il fagotto - inteso come strumento... - in spalla, a cercar fortuna come musicista. E affermatosi nel corso negli anni prima come direttore d’orchestra e successivamente come regista. Questo 2016 è per lui un anno speciale. Il suo film “Le sable” verrà ridistribuito nei prossimi mesi in versione rimasterizzata in Francia e arriverà per la prima volta anche in Italia. A settembre uscirà “Sun”, girato in inglese, secondo episodio della sua personalissima tetralogia sugli elementi. Nel frattempo sta discutendo con un produttore un progetto cinematografico intitolato “La sirène et la petite fille”. E ha in testa un lavoro sul ghetto di Venezia... «Sono partito da Trieste nell’82 - ricorda -, perchè l’ambiente musicale cittadino mi stava stretto. Avevo il mio diploma al Conservatorio Tartini in fagotto. A Parigi ho studiato con Michel Denize e Maurice Allard, fra i migliori specialisti d’oltralpe dello strumento. All’inizio ho fatto mille lavori, ho suonato anche alle fermate della metropolitana: i francesi, abituati a vedere là sotto soprattutto chitarristi, erano piuttosto incuriositi nell’incontrare un suonatore di fagotto...». Feroce studia direzione d’orchestra, torna per brevi periodi anche in Italia, a seguire i corsi di Franco Ferrara e Carlo Maria Giulini. Ed è con la bacchetta in mano che raggiunge il successo, soprattutto con la «Passione secondo Giovanni» di Bach, poi diventata anche un film, diretta da Jean-Claude Malgoire e messa in scena come un'opera sacra. «Il cinema - spiega - è entrato nella mia vita come un serpente, senza quasi che me ne accorgessi. Mi hanno conquistato le sue potenzialità espressive. Nel 2001 decisi di lanciarmi nel primo lungometraggio, “La porta, blu”. Film dal budget "lillipuziano", forse un po’ troppo ambizioso per essere il primo lungometraggio e che finì dunque in un cassetto, anche se tecnicamente finito...». Ma il passo ormai era fatto. E i lavori si sono susseguiti. Dopo il cortometraggio “Mal di fede (Crise de foi...e!)”, e dopo il libretto e la regia dell'opera di Olivier dos Santos “La chiave del Paradiso”, dieci anni fa il film “Le sable”, storia d’amore tra due ragazze, molto prima de “La vita di Adele” e tante altre pellicole sul genere. «Mi interessava - ricorda - scoprire il loro turbamento, i loro sguardi, le loro sensazioni. Ho sempre dato più importanza alle storie di donne. La più bella ricompensa è stata di vedere che il film non turba, anche perchè non comprende scene scabrose. Tutti lo vedono solo come una storia d’amore. E questo era il mio messaggio: rispettare l’amore che in qualsiasi forma si presenti è più degno e rispettabile che tutto l’odio che riceve da quelli che non lo condividono». I suoi maestri? «Ho ammirato Fellini, Wim Wenders, Visconti. E studiato con Ermanno Olmi. Giro in modo leggero e naturalistico, unendo il vecchio sogno del neorealismo italiano e della nouvelle vague francese. Sono troppo libero per seguire un dogma, ho creato il mio piccolo universo personale. Credo onestamente di non aver mai voluto imitare nessuno». Altri progetti? «Un documentario sul ghetto di Venezia e una trasmissione televisiva nel sud della Francia dedicata all’arte. Poi abbiamo aperto una nuova scuola di recitazione a Parigi: École d'acteurs artisans. Io insegnerò tecnica di recitazione davanti alla cinepresa e tecnica dell'improvvisazione nel cinema. Apriremo a settembre».

RICORDO DI MARIO TOMMASINI, 10 ANNI DOPO

Domani sono dieci anni che è morto Mario Tommasini, l’uomo senza il quale Franco Basaglia ci avrebbe messo qualche tempo in più, per trasformare la sua apparente utopia in realtà. Fu infatti l’allora assessore provinciale di Parma, che chiamò Basaglia a dirigere il manicomio di Colorno. Lo incontrò a Padova, al Caffè Pedrocchi, in pieno Sessantotto, e gli disse più o meno: «Venga da noi, insieme chiuderemo il manicomio e libereremo i seicento pazienti ricoverati». Da lì - e da Gorizia, da dove lo psichiatra veneziano proveniva - cominciò la rivoluzione basagliana, che poi si sarebbe concretizzata soprattutto a Trieste. Oggi alle 11, allo Spazio Villas dell’ex Opp triestino, nel parco di San Giovanni, Tommasini verrà ricordato in un incontro intitolato “Eretico per amore”. Classe 1928, terza elementare, partigiano e operaio, Tommasini era finito in carcere nel dopoguerra. Fu lì che maturò la sua scelta di vita, l’impegno a favore dei più deboli: carcerati, emarginati, disabili. Amministratore locale nella sua Parma, ebbe un rapporto contrastato con il Pci a cui era iscritto. Ma quando Berlinguer andò a trovarlo, gli disse: «Le tue iniziative prefigurano alcuni tratti del socialismo che vogliamo». In parlamento non arrivò mai, ma lo chiamarono a Bruxelles, dove contribuì ad alcune legislazioni in tema di diritti. E a Parigi, dopo una conferenza alla Sorbona, ricevette i complimenti di Sartre. E a Ginevra la giuria del Premio Schweitzer gli conferì un riconoscimento. «Tommasini - disse una volta Enzo Biagi - è un giusto. Non serve nelle amministrazioni italiane? Non c’è bisogno di buoni esempi? Se a chi salva un’anima spetta il paradiso, a lui compete l’amore e la gratitudine che si deve a chi ha incoraggiato la speranza sulla terra». «Colorno – ha detto Franco Rotelli – è stato un vero e proprio crocevia per la riforma della psichiatria. Io sono arrivato nel 1971, ho incontrato Basaglia e all’inizio ho fatto fatica a capire cosa stesse succedendo...». Nella presentazione dell’incontro odierno, che rientra nell’ambito di Horti Tergestini, si legge: «Mario Tommasini, uno di quegli uomini che in Italia hanno saputo trasformare bisogni in diritti, uno che in vent’anni di lavoro politico ha vissuto per le tre ecologie: della mente, del sociale, dell’ambiente, senza mai dividerle. Per un’idea della politica dell’uomo che fa dell’utopia un liuogo che può essere dappertutto: nelle città, nei quartieri, nelle istituzioni».

giovedì 7 aprile 2016

BOB DYLAN, FALLEN ANGEL, 20-5

Il 20 maggio 2016 uscirà un nuovo album in studio di Bob Dylan intitolato Fallen Angel, in cd e vinile. Il disco, che conterrà 12 classici americani firmati da alcuni dei compositori più acclamati e influenti della storia della musica, non farà che confermare lo straordinario talento di Dylan come interprete, arrangiatore e bandleader. Prodotto da Jack Frost, Fallen Angels è il 37esimo album in studio di Bob Dylan, nonché il seguito di Shadows In The Night, pubblicato nel 2015. Da oggi “Melancholy Mood”, una delle canzoni del nuovo album, è disponibile su iTunes come instant gratification track, e sarà inclusa – insieme ad altri tre brani – in un EP 7’’ in uscita il 22 aprile per il Record Store Day. Inoltre è possibile ascoltare il brano attraverso un “vinyl video” su YouTube (http://smarturl.it/MelancholyMood). Fallen Angels è disponibile per il pre-order su iTunes (http://smarturl.it/FallenAngels), Amazon (http://smarturl.it/FallenAngelsAmz). Per Fallen Angels, Dylan ha scelto canzoni tratte dal repertorio di compositori molto diversi tra loro, come Johnny Mercer, Harold Arlen, Sammy Cahn e Carolyn Leigh, e le ha incise insieme alla sua band ai Capitol Studios di Hollywood nel 2015. Il suo precedente album di classici americani, Shadows In The Night del 2015, ha raggiunto la Top 10 in 17 paesi: negli USA si è piazzato al 7° posto e ha debuttato al numero 1 nel Regno Unito, in Irlanda, in Svezia e in Norvegia. Il disco è stato acclamato dalla critica mondiale: Neil McCormick del Telegraph gli ha assegnato un voto di cinque stelle su cinque descrivendolo come un’opera “spettrale, dolceamara, affascinante e toccante” e con “la migliore performance vocale di Dylan da 25 anni a questa parte”. Secondo Jon Pareles del New York Times, “Mr Dylan presenta ancora una volta una voce che cambia... un timbro morbido e sostenuto… Shadows in the Night mantiene il suo mood distintivo: pene d’amore e ossessioni, sospese tra un presente che non trova consolazione e tutti i rimpianti del passato”. Gli ultimi sei album da studio di Dylan sono stati universalmente riconosciuti come alcuni tra i migliori della sua gloriosa carriera, e hanno toccato nuove vette di successo commerciale e di critica. Time Out Of Mind del 1997, disco di platino, gli è valso numerosi Grammy, tra cui quello per Album Of The Year, mentre Love And Theft, anch’esso disco di platino, ha ottenuto numerose candidature ai Grammy e una statuetta nella categoria Best Contemporary Folk Album. Modern Times, uscito nel 2006, è diventato uno dei suoi album più amati, con oltre 2,5 milioni di copie vendute nel mondo e due Grammy. Together Through Life è stato il suo primo album a debuttare al numero 1 sia negli USA sia nel Regno Unito (e in cinque altri paesi); il disco ha superato il tetto del milione di copie vendute. Tempest ha ottenuto subito il plauso della critica mondiale ed è entrato nella Top 5 di 14 paesi, mentre Shadows In The Night è stato acclamato da fan e critici per la straordinaria capacità interpretativa di Dylan. Questi sei dischi sono usciti nell’arco di 18 anni, periodo di tempo che include anche la registrazione di “Things Have Changed”, brano vincitore di un Oscar e di un Golden Globe tratto dalla colonna sonora del film Wonder Boys (2001); la pubblicazione di Chronicles Vol. 1, memoir di grande successo mondiale rimasto per ben 19 settimane nella New York Times Best Seller List (2004); l’uscita di un documentario diretto da Martin Scorsese intitolato No Direction Home (2005). Nel 2009 Bob Dylan ha anche dato alle stampe la sua prima raccolta di standard natalizi, Christmas In The Heart, donandone le royalty a programmi alimentari di organizzazioni umanitarie di tutto il mondo. Recentemente Bob Dylan ha ricevuto la Medaglia presidenziale della libertà, la più alta onorificenza civile degli Stati Uniti. Nel 2008 è stato insignito di uno speciale Premio Pulitzer per “il suo profondo impatto sulla musica pop e sulla cultura americana, grazie a testi dalla straordinaria forza poetica”. Ha inoltre ottenuto il titolo di Officier della Légion d’Honneur francese nel 2013, il Polar Music Award svedese nel 2000 e diverse lauree ad honorem, tra cui quelle della University of St. Andrews e Princeton University, oltre a numerose altre onorificenze. Bob Dylan ha venduto oltre 125 milioni di dischi nel mondo. Di seguito la tracklist completa di Fallen Angels: 1. Young At Heart 2. Maybe You’ll Be There 3. Polka Dots And Moonbeams 4. All The Way 5. Skylark 6. Nevertheless 7. All Or Nothing At All 8. On A Little Street In Singapore 9. It Had To Be You 10. Melancholy Mood 11. That Old Black Magic 12. Come Rain Or Come Shine