giovedì 4 gennaio 2024

PINO DANIELE, SEMPRE CON NOI / Art21

 L’anno prossimo saranno già dieci anni senza Pino Daniele, tradito dal suo cuore buono il 4 gennaio 2015. Sembra ieri, e non è la solita frase che si dice in queste circostanze. Per fortuna in questi anni l’artista napoletano è sempre stato con noi, grazie ai tanti dischi, alle tante canzoni che ci ha lasciato. Capita di vederlo anche in qualche breve clip sui social, magari assieme a quell’altro gigante che se n’è andato troppo presto, Massimo Troisi, anche lui tradito da un cuore fragile. Sarò un inguaribile sentimentale, ma confesso che a me capita spesso di commuovermi, a vederli tutti e due, a ridere e scherzare…

Ascoltando Pino mi tornano in mente le tante interviste che ho avuto la fortuna di fargli. Ricordo la prima, alla fine degli anni Settanta, per la Rai del Friuli Venezia Giulia, in occasione di un suo concerto a Gorizia. Mi ero preparato tante domande “intelligenti”, per non sfigurare dinanzi a quel ragazzo che stava spazzando via l’immagine oleografica, da cartolina, stile “mandolino pizza e ammore”, che aveva contraddistinto fino ad allora la Napoli della canzone. Lui mi rispose con semplicità, spiazzandomi: “Sai, a mmè me piace sunà…”. Concetto ripreso in musica, di lì a poco, nel classico “A me me piace ‘o blues” (dall’album “Nero a metà”, uscito nel 1980, uno dei suoi dischi capolavoro). 

Eravamo entrambi ragazzi. Ed era un’epoca magica e irripetibile in cui tutto sembrava possibile. Volevamo cambiare il mondo e ci siamo limitati a cambiare la musica, forse il costume, liberandoci dai suoni che ci giravano attorno e sapevano di stanze chiuse, vecchie, dall’aria stantia, che avevano bisogno soltanto di qualcuno che spalancasse le finestre. 

Pino Daniele è stato uno di questi. Ci ha liberato da una napoletanità vecchia. Nel corso degli anni ha pescato nel blues e nel jazz, ha inseguito l’Africa e l’Oriente e a un certo punto persino i canti gregoriani. Per un periodo ha smesso di cantare in quell’anglonapoletano che è stato il suo miglior marchio di fabbrica. Ma in fondo è rimasto l’ex scugnizzo nato in un sottoscala di Vico foglie a Santa Chiara, primo di sei figli, cresciuto da due zie per i problemi economici dei suoi genitori. Guaglione cresciuto per strada, in mezzo alla camorra e alla povertà, cui il grande amore per la musica ha salvato la vita. Almeno fino a quando il suo debole cuore gli ha presentato il conto.

Una trentina d’anni dopo, l’ultima delle tante interviste per il quotidiano Il Piccolo. In occasione di un concerto a Trieste, in piazza dell’Unità, d’estate. Per quel tour aveva richiamato con sé i vecchi compagni delle origini: da James Senese a Tony Esposito, da Tullio De Piscopo a Rino Zurzolo. Mi disse fra l’altro: «Trent’anni di musica mi hanno portato a esplorare i suoni e le culture dei tanti paesi che si affacciano sul Mediterraneo, dall’Africa al Medio Oriente. Ma a un certo punto mi è tornata la voglia di raccontare al pubblico la mia storia musicale sin dalle origini. Che ne so, sarà stata la nostalgia per le atmosfere, i suoni, se vuoi anche le speranze di allora». 

E poi, quasi in una sorta di testamento civile: «Da ragazzo ne ho viste di tutti i colori. Posso dire che la musica mi ha salvato la vita. Napoli è avvolta da quel grande cancro che è la camorra, dipende come buona parte del Sud da un vero e proprio contropotere che si chiama criminalità organizzata. Ma l’emergenza Napoli è l’emergenza Italia, un Paese in cui non si ha più fiducia nelle istituzioni, troppo vecchie e lontane dalla gente».

Ancora: «La rinascita deve partire dalla scuola, dalla comunicazione, dall’informazione, dalla cultura, magari da internet. Napoli e tutto il Sud devono uscire da una mentalità che per decenni è stata come una pesante zavorra. È necessaria una collaborazione con lo Stato, con le istituzioni. Bisogna far vedere ai ragazzi, sin da giovani, che esiste un’alternativa nella legalità». 

E infine: «C’è un lungo lavoro da fare, sarà un percorso lungo. Ma alcuni segnali ci sono, in tutto il Sud, proprio sul fronte della legalità. La speranza come sempre sono le giovani generazioni, che si stanno finalmente rendendo conto che questa situazione non può andare avanti. E che le alternative sono possibili». Insomma, a Pino Daniele piaceva suonare. Ma sapeva guardare e leggere benissimo le cose della vita e del nostro povero Paese, ben al di là delle corde della sua chitarra.


Carlo Muscatello 


mercoledì 3 gennaio 2024

L’INFORMAZIONE IN QUESTI TEMPI BUI / Art21, AssostampaFvg

 Care colleghe, cari colleghi,

che tempi bui stiamo vivendo. Le guerre innanzitutto, più o meno vicine a casa nostra. La crisi economica, che picchia duro anche nella nostra categoria che un tempo era considerata privilegiata. L’emergenza climatica, che non è fatta solo di ghiacciai che si sciolgono ma i cui eventi calamitosi sconvolgono sempre più spesso anche terre a noi vicine.

E il dramma dei femminicidi, della vergognosa, inumana violenza di genere per combattere la quale c’è bisogno di una rivoluzione etica e culturale che parta dalla famiglia, dalla scuola, ma anche dal linguaggio, dell’informazione, dai nostri giornali. E poi l’altro dramma indegno di un paese civile: le morti sul lavoro, persone che un giorno vanno a lavorare ma non tornano più a casa, eventi a cui purtroppo e colpevolmente abbiamo fatto l’abitudine.

In questo contesto è difficile ma doveroso parlare dei problemi del mondo dell’informazione. Che da anni sono tanti e grandi. Ma sappiamo che senza un’informazione forte, libera, indipendente, non c’è democrazia. E dunque difendere la democrazia significa anche difendere l’informazione.

Il nostro faro è e rimane la Costituzione, quell’articolo 21 che va declinato assieme agli altri principi che forse andrebbero applicati, piuttosto che riformati, sicuramente non stravolti.

La storia degli ultimi anni insegna che la politica, i partiti non hanno mai amato la libera stampa e i giornalisti. Meglio: li vorrebbero sempre asserviti al potere di turno, megafoni usa e getta che fra l’altro nell’era dei social e della disintermediazione - e magari, già domani, dell’intelligenza artificiale - hanno perso centralità e importanza. La tentazione della censura, del bavaglio, della mordacchia c’è sempre stata, da una parte politica e dall’altra. In queste settimane ci risiamo, peggio che in passato.

La Fnsi, la Federazione nazionale della stampa di cui l’Assostampa Fvg è articolazione territoriale, è in campo con determinazione contro l’ennesima legge bavaglio che, qualora approvata, impedirebbe ai nostri cronisti di lavorare come hanno fatto finora ma soprattutto ai cittadini di essere informati come lo sono stati finora. Non dobbiamo permettere che ciò avvenga.

La grande novità degli ultimi mesi, dalle nostre parti, qui a Nordest, è l’arrivo di un nuovo editore per i due quotidiani che hanno il monopolio dell’informazione in lingua italiana nel Friuli Venezia Giulia. Un editore, che ha acquisito anche quattro giornali veneti e una testata online di economia, che a novembre si è presentato in pubblico e alle redazioni con belle parole e lungimiranti suggestioni di futuro, di crescita, di sviluppo. Ma la prima mossa è stata la presentazione di un piano di crisi con annessi prepensionamenti, in redazioni già ridotte all’osso. Sono stati annunciati trentasei esuberi: undici al Messaggero Veneto, nove al Piccolo, gli altri nei giornali veneti. Non un bel biglietto da visita…

Certo, c’è l’impegno a sostituire i futuri prepensionati, esce uno entra uno, con la parola d’ordine del “ricambio generazionale”. Il cui rovescio della medaglia è: rottamiamo i sessantenni, e con loro l’esperienza e la memoria storica dei nostri giornali. Ma staremo a vedere. I conti si fanno alla fine di una partita ancora in corso e il cui esito non può essere un giornale unico con annesse le rispettive pagine di cronaca locale. Intanto, i colleghi dei Comitati di redazione, affiancati dalla Fnsi e dalle Assostampa regionali, hanno lavorato in queste settimane e stanno tuttora lavorando per difendere quel che rimane degli organici - e dell’autonomia - dopo anni di tagli e risparmi e piani di crisi. Per difendere giornali che in passato hanno scritto la storia e da sempre sono la voce di queste terre e delle rispettive comunità, oltre che insostituibile presidio di democrazia.

E comunque, nonostante tutto e considerato il calendario, buon anno a tutte e a tutti. Anche nel 2024 abbiamo sempre e ovviamente bisogno che le colleghe e i colleghi, professionali e collaboratori, contrattualizzati e non, precari e pensionati, si iscrivano al nostro sindacato unitario, unica difesa della professione. Purtroppo molti iscritti all’Ordine, professionisti e pubblicisti, non sono iscritti. L’Assostampa Fvg ha da molti anni le quote d’iscrizione immutate, fra l’altro le più basse d’Italia. Aiutateci a tutelare i più deboli, a difendere la professione, il lavoro, il contratto, le pensioni, i nostri enti di categoria, il diritto dei cittadini a essere informati e il dovere dei giornalisti di informare.

 

Carlo Muscatello, presidente Assostampa Fvg

lunedì 1 gennaio 2024

IL 2024 COMINCIA SU RAITRE CON IL RICORDO DI GABER / da Art21

 Raitre ha scelto di aprire il 2024 proponendo in prima serata il docufilm di Riccardo Milani "Io, noi e Gaber", già visto qualche settimana fa al cinema. Un segno anche questo dell’attenzione che continua a circondare l’artista e intellettuale milanese di origini triestine, scomparso il primo gennaio 2003. Ventun anni senza Giorgio Gaber, che è stato comunque e sempre presente nel panorama culturale, se vogliamo anche politico di casa nostra. Con i versi delle sue canzoni e dei suoi spettacoli, con le sue idee, le intuizioni, persino le sue provocazioni. Un segno della grandezza, dell’importanza del suo pensiero, che l’ha sempre posto una spanna sopra i suoi “colleghi” del mondo della canzone e del teatro italiani. 

Già, perchè Giorgio Gaberscik in arte solo Gaber, nato a Milano nel ’39, aveva cominciato come cantante di musica leggera ma a un certo punto del suo percorso personale e artistico si era trovato stretto in quegli abiti. E assieme all’amico e collaboratore Sandro Luporini si era inventanto il Signor G, il teatro canzone, gli spettacoli e le tournèe attraverso i quali non ha mai corso il rischio della banalità. 

Ma andiamo per ordine, ricordandone il grande tragitto artistico. La passione per la musica l’eredita dal padre Guido, gran suonatore di fisarmonica. Comincia a suonare la chitarra a otto anni, per emulare il fratello maggiore ma anche per esercitare quella mano sinistra ferita dalla poliomelite. Ascolta jazz e studia ragioneria, nella Milano del dopoguerra, dove la sua famiglia si era trasferita da Trieste pochi anni dopo la sua nascita. Comincia con un gruppetto jazz in cui suonava anche Luigi Tenco, ma nel frattempo esplode il rock’n’roll. Con Enzo Jannacci prima poi fonda “I due corsari”, poi accompagna Celentano nelle sue prime esibizioni. Negli anni Sessanta arriva il grande successo, anche televisivo: Sanremo, il Festival di Napoli, Canzonissima, il matrimonio con Ombretta Colli. Allora cantante, femminista e di sinistra, per la quale aveva lasciato la storica fidanzata Maria Monti, anche lei cantante e donna di spettacolo, con cui aveva debuttato a teatro nel ’59. Nel ’69 e nel ’70 le tournèe teatrali assieme a Mina. Fu lì, confessò molti anni dopo, che maturò la scelta della “seconda vita artistica”. Erano anni particolari, di cambiamenti, di riflessione, di impegno politico.

“Il signor G” nasce nel ’70: primo di una lunga serie di spettacoli di teatro-canzone, con cui l’artista scandaglierà le sue ma anche le nostre umane debolezze, i tic, i timori, le speranze, i fallimenti. Fustigando i costumi e criticando il consumismo, l’omogeneizzazione della cultura, la galoppante massificazione dei gusti. Disse tanti anni dopo: «La fine degli anni Sessanta era un periodo straordinario, carico di tensione, di voglia, al di là degli avvenimenti politici e non, che conosciamo, e fare televisione era diventato dequalificante. Mi nauseava un po’ una certa formula, mi stavano strette le sue limitazioni di censura, di linguaggio, di espressività, e allora mi dissi, d’accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto successo, ma ora a questo successo vorrei porre delle condizioni. Mi sembrò che l’attività teatrale riacquistasse un senso alla luce del mio rifiuto di un certo narcisismo». 

Ancora Gaber: «Poi mi sono chiesto se successo, popolarità e denaro che ne derivava dovessero condizionare la mia vita, le mie scelte. La risposta mi sembra risulti chiara: ho scoperto che il teatro mi era più congeniale, mi divertiva di più, mi permetteva un’espressione diretta, senza la mediazione del disco o di una telecamera frapposta tra l’artista e il suo pubblico. Le entrate erano sicuramente minori rispetto ai proventi derivanti dalla vendita dei dischi, ma guadagnavo abbastanza da non dover soffrire la scelta di campo. E rispetto al denaro, penso che se si riesce a guadagnare una lira di più di quello che è necessario per vivere discretamente si è ricchi». 

Tanti spettacoli, allora. Prima nella divisa da contestatore (maglione blu, jeans e scarpe Clarks), poi di nuovo in giacca e cravatta. “Dialogo tra un impegnato e un non so”, “Far finta di essere sani”, “Anche per oggi non si vola”, “Libertà obbligatoria”, “Polli di allevamento”. E ancora “Anni affollati”, “Io se fossi Gaber”, “Parlami d’amore Mariù”, “Il grigio”, “E pensare che c’era il pensiero”.

L’ultima volta che lo vidi, novembre ’98, Trieste, Politeama Rossetti, lo spettacolo era “Un’idiozia conquistata a fatica” e lui era già da tempo malato. Glielo vedevi in faccia, al cantore del nostro eterno disagio esistenziale. Ma alla fine dello spettacolo, sudato e visibilmente affaticato, almeno per un attimo ci sembrò felice. Felice del fatto che la gente cantasse ancora una volta in coro le sue vecchie canzoni, quelle che non faceva quasi mai mancare fra i bis: “La ballata del Cerutti” e “Porta romana”, “Torpedo blu” e “Barbera e champagne”, persino “Non arrossire” («Questa è del ’60. E non era nemmeno la prima...», disse con un sorriso agrodolce). 

Era il suo ultimo spettacolo, lo sapeva lui per primo. Con parole che avrebbero avuto di lì a poco una sorta di compendio nei dischi “La mia generazione ha perso” e “Io non mi sento italiano” (ma per fortuna o purtroppo lo sono, proseguiva il verso...). Quasi il testamento di un uomo deluso e disilluso. Alla mia consueta domanda «Gaber, dov’eravamo rimasti?», nell’ultima di tante interviste, rispose: «Al pensiero, alla preoccupazione di un’assenza totale di pensiero. Che ora è stata sostituita da... un’idiozia conquistata a fatica. Quindi andiamo peggio, perché la situazione della vita è peggiorata. Non dal punto di vista politico, su cui si potrebbero comunque fare tante considerazioni. Andiamo peggio perché segnali positivi dall’umanità non ne arrivano». E ancora: «Prendo atto dello scadimento generalizzato della qualità delle persone. Quindi diventa difficile non sentirsi coinvolti in questa idiozia. Non sto parlando di qualcuno in particolare, anche se ci sono quelli più e meno idioti, ma proprio di uno scadimento generale delle coscienze. Con Sandro (Luporini, ndr) colleghiamo questo fenomeno all’espansione del mercato, al consumo. Il mercato ci garantisce benessere ma ci condiziona la vita, annienta la consapevolezza e la coscienza». 

Di dischi e libri su Gaber, in questi anni, ne sono usciti tanti, quasi sempre sotto la garanzia della fondazione a lui intitolata. In “G. Vi racconto Gaber”, scritto anni fa da Sandro Luporini (Mondadori-Fondazione Gaber), l’amico e coautore ruppe per la prima volta il suo leggendario riserbo. «Avrebbero voluto da Giorgio e da me delle risposte. Proprio da noi che abbiamo vissuto tutta la vita nell’assoluta certezza del dubbio». Già, il dubbio. L’insegnamento forse più grande che ci ha lasciato Giorgio Gaber.

Carlo Muscatello