giovedì 17 dicembre 2009

DISCHI - NATALE


Per Natale è meglio regalare musica. Le case discografiche lo sanno, e infatti hanno sfornato anche quest’anno una quantità notevole di raccolte, compilation, antologie, cofanetti, ”cd-più-dvd” e avanti con quella fantasia che è necessaria - anche se non sufficiente - per tentare di uscire da una crisi che picchia duro.

La prima scelta non può che essere il nuovo album di Bob Dylan, ”Christmas in the heart” (Sony Columbia), nel quale il menestrello di Duluth rilegge con il suo stile inconfondibile quindici classici natalizi tra cui ”Here comes Santa Claus”, ”I’ll be home for Christmas”, ”O little town in Bethlm”...

Per la cena del 24 va bene anche Andrea Bocelli con il suo ”My Christmas” (Sugar), già ai vertici delle classifiche americane. La scaletta? Da ”Tu scendi dalle stelle” a ”Jingle Bells” cantata con i Muppets, da ”What child is this” con Mary J.Blige a ”God bless us everyone” (dalla colonna sonora di ”A Christmas Carol”, il film con Jim Carrey).

”Merry Christmas in Jazz” è invece il cd proposto da Rossana Casale, acquistabile solo online su www.cdbaby.com: fra i brani ”The Christmas song”, ”I’ll be home for Christmas” ed altre celebri ballad.

Visto che qui non si butta via niente, Irene Grandi ripropone a prezzo speciale ”Canzoni per Natale” (Warner), l'album dell’anno scorso con ”Happy Christmas”, ”Wonderful Christmastime”, ”Buon Natale a tutto il mondo” di Domenico Modugno, ”Canzone per Natale” di Morgan...

Da segnalare ancora ”X Factor Christmas Album” (classici natalizi interpretati da alcuni protagonisti delle varie edizioni del programma: Marco Mengoni, Aram Quartet, Matteo Beccucci, Farias, Damiano...) e ”Caro papà Natale 2” (iniziativa di beneficenza con le voci fra gli altri di Katia Ricciarelli e Nicky Nicolai).

Per chi invece vuole regalare musica ”che va bene tutto l’anno”, c’è solo l’imbarazzo della scelta. ”Laura Live” (Warner) di Laura Pausini: cd e dvd per celebrare la cantante italiana più famosa nel mondo. ”Ho imparato a sognare” (Sony) di Fiorella Mannoia: cd e dvd con classici della canzone italiana e in più ”L’amore si odia”. ”Senza fine” (Sony) di Gino Paoli: due cd e un dvd per ripercorrere mezzo secolo di carriera, con la versione francese di ”Il cielo in una stanza” con Carla Bruni. ”Tutto Villa” (Warner) di Claudio Villa: due cd con quaranta canzoni dell’indimenticato ”reuccio”. ”Oltre l’infinito... Mimì” (Ricordi) di Mia Martini: due cd e un libretto per ricordare una grande interprete.

E da ultimo, il pezzo migliore (e più costoso): ”Opera completa” (Sony) di Fabrizio De Andrè. Un box in edizione limitata (Sony) che in 19 cd comprende la discografia completa dell’artista scomparso, con l’aggiunta del dvd che ripropone il concerto del febbraio ’98 al Teatro Brancaccio, a Roma, e di un libretto di 240 pagine.


NICK THE NIGHTFLY


Un’altra proposta natalizia può essere il triplo cd “Buona Vita" (Sony), di Nick the Nightfly. La storica voce della notte di Radio Monte Carlo ha ormai alle spalle una ricca discografia. Stavolta ha pensato alla Terra e ai suoi satelliti per selezionare le musiche del nuovo progetto discografico. Come titolo ha scelto l’augurio che da tanti anni rivolge al pubblico radiofonico delle sue “Monte Carlo Nights”. Ne è venuta fuori una selezione di qualità che attinge al jazz e alla fusion, alla lounge music e alla new age...

I tre cd sono "The Sun", "The Moon" e "The Earth". Il primo propone musiche calde e ritmate, ottime per cominciare la giornata. Si parte con “Move on up”, un classico di Curtis Mayfield, originariamente brano vocale, che per l’occasione viene proposto nella versione del sassofonista Richard Elliot. Si continua con Nate James e la sua versione di ”Runaway”, gli Indigo Sun (dalla Danimarca) che rileggono ”You don’t fool me” dei Queen, “Brasilian Love Song” presentata da Bebel Gilberto con la voce del mitico Nat King Cole. Ma anche l’italiano Nicola Conte, i norvegesi Röyksopp rifatti da Anneli Marian Drecker, “Sunny” cantata da James Brown con Marva Whitney

”The moon” vive di atmosfere più intime, più rilassate, giuste per poter sognare: la giovane Melody Gardot, il duetto fra la norvegese Beady Belle e l’inglese Jamie Cullum, “Enjoy The Silence” dei Depeche Mode riletta da un’altra norvegese, Janita.

”The Earth” alterna stili musicali provenienti da ogni angolo del pianeta: un modo per viaggiare ascoltando armonie e arrangiamenti insoliti. Con Bryan Adams & Sarah McLachlan, Radiodervish, Pat Metheny, Henri Salvador, Gilberto Gil, Joe Barbieri, Cassandra Wilson, Belmondo & Milton Nascimento, Patrizia Laquidara, Jeff Buckley...

“Buona Vita” - dice Nick - è anche un’esortazione a comportarsi più responsabilmente verso il nostro pianeta, sensibilizzando le persone ad aiutare e sostenere tutte le associazioni sensibili a queste tematiche.


NEIL YOUNG Ci sono certi artisti che hanno segnato in maniera indelebile la musica degli ultimi quarant’anni. Musiche e dischi che mantengono la loro bellezza - e attualità - anche a tanti anni di distanza. Il canadese Neil Young, classe ’45, da solo o con i soci Crosby Stills & Nash, è sicuramente uno di questi. Ora esce ”Dreamin' Man Live '92”, rivisitazione live di ”Harvest Moon”, a diciassette anni dall'uscita di quel disco, che a sua volta era un omaggio all’indimenticato e insuperato ”Harvest” (del ’72). L’album raccoglie il meglio delle numerose performance acustiche che il leggendario chitarrista e cantautore fece nell'omonimo tour del ’92. Fra i brani: ”Dreamin' man”, ”Such a woman”, ”One of these days”, ”Harvest moon”, ”You and me”. E ancora ”Hank to Hendrix”, ”Unknown legend”, ”Old king”, ”Natural beauty” e ”War of man”. Neil Young riceverà, il 29 gennaio a Los Angeles, il premio di MusiCares per l'impegno umanitario e sociale.


SKIANTOS Trent’anni fa il mondo della musica italiana si prendeva molto (troppo) sul serio. Poi, dalla Bologna del Settantasette, arrivarono gli Skiantos. E nulla fu più come prima. Dopo alterne vicende, il gruppo di Freak Antoni esiste ancora e, a un anno dalla pubblicazione dell'ultimo disco di inediti (”Dio ci deve delle spiegazioni”), è appena uscito ”Phogna - The Dark Side Of The Skiantos”. Si tratta di un ”ep” composto da quattro pezzi registrati tra giugno e ottobre 2008 ed esclusi dall’album dell’anno scorso perchè considerati «troppo distanti dagli altri, quasi fossero i rappresentanti della parte buia, intimista della band». «Ci siamo accorti quasi immediatamente - spiegano - che queste canzoni sono molto diverse dalle altre sia nel testo che nella parte musicale: non sono ironiche e la musica è decisamente più ricercata e complessa. Così abbiamo deciso di non inserirle nel primo album di inediti uscito dopo quasi cinque anni perchè ci sembravano poco attinenti al resto del disco. Insomma, anche noi abbiamo un'interiorità...».


 

mercoledì 16 dicembre 2009

LIBRO SPADARO


Si può essere - si può essere stati - patriottici e di sinistra? Anticomunisti e al tempo stesso democratici? Per giunta su questo nostro sofferto e martoriato confine orientale, dove mezzo secolo di storia del vecchio e ormai defunto Partito comunista ha conosciuto accenti diversi e più complessi rispetto al resto d’Italia?

Leggendo il libro di Stelio Spadaro, ”L’ultimo colpo di bora” (Editrice Goriziana, pagg. 232, euro 20), la risposta da dare al quesito è sì, assolutamente sì. E il suo, come scrive Paolo Segatti nella prefazione, è perlappunto «un punto di vista democratico patriottico».

Intervistato dagli storici Patrick Karlsen (con cui aveva già firmato tre anni fa ”L’altra questione di Trieste”) e Lorenzo Nuovo, lo storico esponente della sinistra triestina e regionale - classe 1934 - racconta una vicenda umana e politica che ha attraversato tutta la seconda metà del Novecento.

Dagli anni nella natia Isola al definitivo ritorno a Trieste nel ’45 («le aree di Isola, Pirano e Capodistria formavano a mia memoria il tessuto metropolitano triestino, perchè ogni mattina c’era il vaporetto che partiva da Isola e arrivava a Trieste davanti al Nautico, sul Molo Pescheria, e portava gente che andava a lavorare, portava prodotti della terra...»), dagli studi classici al liceo Petrarca e poi alla facoltà di filosofia, dai primi interessi politici alla netta scelta di campo, con l’iscrizione al Pci. Sullo sfondo di un dopoguerra che qui è stato più lungo e più difficile che altrove, di una Trieste amputata del suo retroterra storico e culturale, di una divisione politica che attraversava le stesse famiglie.

Quella di Spadaro è operaia e cattolica, «ma quando io mi iscrissi al Partito comunista ci fu un atteggiamento di grande rispetto da parte loro per la mi scelta. Non fecero nessuna polemica. Anche se c’era una componente nella casa di Isola che cercava di capire le ragioni della sinistra, non di quella jugoslava ma di quella italiana...».

Ma la storia va avanti. Gli anni Cinquanta, l’invasione sovietica dell’Ungheria, il governo Tambroni, il ruolo di Togliatti, il rapporto con Tito, la figura di Vittorio Vidali (e della moglie, Laura Weiss), l’esplodere del Sessantotto. Spadaro insegna al Da Vinci, poi al Galilei. Incrocia la protesta studentesca, che trova il Pci abbastanza impreparato, qui come nel resto del Paese.

Intanto Spadaro è assessore provinciale, con deleghe per scuola e cultura. «Il mio essere insegnante rafforzava e dava conoscenza diretta e concretezza alla mia azione come assessore, e viceversa».

Siamo negli anni Settanta. La firma del trattato di Osimo, che sancisce la rinuncia definitiva alla Zona B, scuote Trieste e dà origine alla nascita del Melone, la Lista per Trieste che conquista la scena politica cittadina e anticipa molti movimenti localistici.

Personaggi come Letizia Fonda Savio, Aurelia BGruber Benco, Gianni Giuricin, ma soprattutto Manlio Cecovini, che con il suo ”Discorso di un triestino agli italiani” si rivolge e cerca esplicitamente un uditorio nazionale. Il Pci, intanto, «è fuori gioco per un milione di motivi», come annota Spadaro.

Il resto è storia di ieri, anzi, di oggi. Il Pds, l’Ulivo, la stagione di Illy e di Intesa democratica. «Il riformismo - scrive Spadaro - qui non è da inventare. È da recuperare. Tutta l’azione dell’Ulivo dagli anni Novanta in poi ha avuto l’obiettivo di unificare le componenti del riformismo e di unificare la città e la regione. (...) Questo lavoro si è riallacciato costantemente sul piano ideale all’esempio politico e civile di una radicata tradizione».

Il volume - che sarà presentato domani, alle 18, all’Auditorium del Museo Revoltella in via Diaz 27 in un incontro moderato da Fulvio Gon, caporedattore centrale del ”Piccolo” - è completato da un’antologia di scritti e interventi di Spadaro che coprono il periodo fra il ’96 e il 2008, divisi in tre capitoli: ”Dal Pds ai Ds: gli anni da segretario provinciale 1996/2001”, ”Gli anni nella segreteria regionale 2002/2007” e ”Dai Ds al Partito democratico 2007/2008”.

Una frase per tutte, da uno scritto del 2003: «Trieste non è solo una città. È un’idea d’Italia, è un’idea d’Europa. Per la sua storia, per le contraddizioni che nel Novecento la segnarono, per lo scontro fra più nazionalismi e totalitarismi lungo un ”confine delle sofferenze”...».

lunedì 7 dicembre 2009

CARLO MASSARINI


Dal ’69 dei Rolling Stones fotografati ad Hyde Park, a Londra, fino ai primi anni Ottanta dei videoclip e della ”musica da vedere” che lui stesso mostrava in tivù a ”Mister Fantasy”. Lui è Carlo Massarini, classe ’52, nei primi anni Settanta giovanissimo conduttore radiofonico (”Per voi giovani” e ”Popoff”) e poi televisivo, ma anche appassionato fotografo dei suoi miti musicali. Una passione diventata lavoro, che ha prodotto un archivio fotografico e di ricordi da cui ora nasce un libro, anzi, un bel librone intitolato ”Dear Mister Fantasy” (dal verso dei Traffic già utilizzato per il programma tv...), sottotitolo ”Foto-racconto di un’epoca musicale in cui tutto era possibile 1969-1982” (Rizzoli, pagg. 353, euro 49).

Massarini, i Traffic le hanno segnato proprio la vita...

«Sì, erano il mio gruppo preferito. Non erano famosi come altri, si scioglievano spesso e non sapevi mai se avrebbero fatto un altro disco, ma facevano una musica fantastica, nel senso letterale della parola. Mischiavano blues e rock, jazz e folk, psichedelia e tradizione (”John Barleycorn” era una canzone popolare inglese antichissima), e Steve Winwood aveva questa voce che ammantava di magia le storie che inventava Jim Capaldi, vero poeta eco-psichedelico».

Capaldi una volta le fece una sorpresa.

«Quando comparse in studio a ”Popoff”, il primo aprile ’74, fu una gioia indescrivibile. E mi scrisse sull'agenda "Power to Carlo, tell it like it is!". Una reliquia, con cui apro il libro. Steve, l'unico di loro ancora in vita, mi ha mandato per e-mail un "You told it like it was!" che ha chiuso il cerchio, trentacinque anni dopo».

Com’è cominciata questa storia?

«Con ”Per voi giovani”, ereditata da Mario Luzzatto Fegiz e Paolo Giaccio quando Arbore cominciò ”Alto Gradimento” con Boncompagni. Divenne programma pomeridiano più attento al sociale, alle nuove generazioni e alla loro musica. Canzoni con un significato che meritava di essere tradotto e spiegato a un pubblico quasi digiuno di rock. Io ero "quello che sapeva l'inglese" e cominciai traducendo Dylan e Cohen, Joni Mitchell e Crosby Stills Nash & Young».

Era un’altra radio.

«Alle 21.30 c'era il bollettino dei naviganti e poi filodiffusione a reti unificate. Noi nel ’73 aprimmo lo spazio serale. Poi ho continuato con la radio fino al ’77. Nell'81 Giaccio lavorava in tv, a RaiUno, ed ebbe l'idea di fare un programma su questo nuovo materiale che si cominciava a vedere, i videoclip».

Il Canada?

«Vi passai qualche anno da bambino. Crescere lì mi ha regalato l'inglese, che è stato il fattore determinante per tutto quel che è successo dopo: capire cosa il rock esprimeva a livello letterario e di messaggio, e poi poter parlare con gli artisti. Cominciai a "giocare" con la radio che ancora studiavo...».

Medicina...

«Sì, alla Cattolica. Ma gli esami si facevano più difficili, le soddisfazioni dall'altra parte più gratificanti e promettenti, allora il dj-fotografo era un'anomalia, un non-mestiere non così promettente. Però mi attirava di più, e alla fine la scelta è stata inevitabile».

A casa?

«Beh, avevo fatto gli esami di tre anni in sei. I miei all'inizio ci rimasero male, ma cominciavano anche loro a vedere qualche risultato. Ma solo quando sono arrivato in tv, l'ufficiale di marina che era in mio padre - uomo moderno, ma pur sempre legato a certe logiche - si arrese. Mi divertivo, guadagnavo più di lui e i suoi amici gli facevano i complimenti. Era fatta».

Radio, tv o internet?

«Ho amato ogni cosa che ho fatto, anche il giornalismo musicale e la fotografia. Passare da uno all'altro ha portato ogni volta un approccio e una visione nuova, ma ogni medium ha un suo linguaggio. Sono un solitario e mi piace scrivere, mi piace la rilassatezza e l'immediatezza della radio, ma se devo scegliere dico tv, dove parola, pensiero ed espressione si fondono. Naturalmente, il web è una fetta importante della comunicazione di oggi, ha potenzialità ancora da scoprire e un'interazione multimediale in tempo reale che nessun altro può offrire».

Cosa c’era allora che oggi non c’è più?

«Una voglia, un'urgenza di creare il nuovo. Di rompere gli schemi e vedere cosa fosse possibile. Non c'erano le regole e i paletti che nella discografia esistono adesso, anzi, c'era la ricerca dell'inusuale. Rock, black, folk e jazz riunivano quasi tutto lo scibile, ma a volte c'erano più idee in un disco che in un anno di musica di adesso».

L’informazione?

«Erano tempi molto diversi. Anche l'informazione era scarsa, l'accesso universale a tutto che hai ora con internet non era neanche ipotizzabile. I dischi uscivano in ritardo rispetto a Stati Uniti o Inghilterra, a volte non uscivano affatto e li compravamo di importazione».

Oggi invece...

«Il satellitare ha portato una miriade di canali musicali, ma nessuna attenzione in più al fattore culturale della musica. Nessuno ha voglia di raccontare le storie con cui siamo cresciuti: la redenzione della musica black, la trasgressione del rock, la poesia dei cantautori è come se non fossero mai esistite. Tutte le radio trasmettono le stesse cose, quelle in classifica».

La crisi della discografia?

«Le nuove tecnologie hanno creato molti problemi alle case discografiche, che non hanno compreso per tempo la sfida delle nuove tecnologie. Si sono preoccupati della pirateria, ma non son riuscite neanche a creare una piattaforma comune per la commercializzazione sul web. Se non arrivava Steve Jobs, la Apple e i-Tunes a risolvergli il problema della vendita on line...».

Più gioie o dolori?

«Internet è una minaccia ma anche un'opportunità, ma la devi saper cogliere. È importante capire che una canzone ormai viene consumata in tante forme diverse. Il mondo del web richiedeva competenze nuove, e non tutti si sono attrezzati per tempo. Ora la lezione è chiara, e le politiche sono in parte cambiate: si è capito che il web è strategico per diffondere vecchi e soprattutto nuovi artisti. In alcuni paesi (Inghilterra, per esempio) i prezzi dei cd si sono abbassati, i veri incassi gli artisti li fanno soprattutto con concerti e pubblicità, apparizioni, marketing».

Nella comunicazione?

«Lì internet ha creato un ambiente di partecipazione che ha trasformato il mondo. Anche se siamo solo all'inizio, c'è quasi un prima e dopo. La quantità di cose nuove che possiamo fare e quelle che è più facile fare on line, i contatti che possiamo intrecciare e la facilità con cui gira l'informazione globalmente sarebbero state incredibili pochi anni fa».

Volevamo cambiare il mondo ma il mondo ha cambiato noi. O no?

«Qualcosa è cambiato: la nostra maniera di pensare, di agire, la consapevolezza di chi siamo e cosa dovremmo essere. La musica è un veicolo di idealismo e partecipazione. Non ha tempi costanti, il suo effetto non è matematico. In quegli anni, sicuramente ha contribuito moltissimo: rispecchiava i tempi, e viceversa».

Mentre ora?

«I tempi ora, come diceva Dylan, sono cambiati, e anche molto. Sono tempi in cui siamo un po’ spaventati, incerti, molti tendono al quieto vivere, per molti la vita si è fatta dura. Non sono pochi quelli che si preoccupano degli altri e di cambiare il mondo, ma certo si fa una gran fatica. E la musica di adesso - non viviamo un momento artistico memorabile - rispecchia tutto ciò».


 

domenica 6 dicembre 2009

CLAUDIO LOLLI 2


È stato qualcosa di meno ma al tempo stesso anche qualcosa di più di un concerto, quello tenuto da Claudio Lolli l’altra sera al Teatro Bobbio, davanti a duecento aficionados, nell’ambito del Festival Trieste Poesia.

Qualcosa di meno, o comunque di diverso, perchè la forma vocale perlomeno traballante del cantautore bolognese (classe 1950, primo album nel lontano ’72, lo storico ”Aspettando Godot”), unita a quel quadernetto dal quale il nostro leggeva - in certi casi nel senso letterale del termine - i suoi testi, faceva somigliare il tutto più a una sorta di reading musical-politico che a un concerto in senso tradizionale. Pur supportato da due superbi musicisti come Paolo Capodacqua alla chitarra e Nicola Alesini ai sassofoni.

Qualcosa di più, perchè - complice qualche bicchiere di buon vino sorseggiato dall’artista fra una canzone e l’altra - la serata si è via via trasformata in una confessione mai così diretta e sincera, quasi un bilancio di vita personale e forse generazionale. Condito di amarezza ma anche di tanta ironia e autoironia. Esempio: «Ho fama di cantautore malinconico, triste. Dunque se siete qui, sapete già quel che vi aspetta. Le ballerine arrivano dopo...».

Apre con ”Donna di fiume”, una delle ”Lovesongs” scritte in tanti anni di carriera e recentemente riproposte tutte assieme nel nuovo album. Poi si racconta così: «Provate a immaginare un ragazzo, verso la fine degli anni Sessanta, che non riesce a dormire. Cosa può fare? Una delle prime radioline portatili, una cuffietta improbabile, e ascolta. Tutta la notte. Ma nessuno trasmette. Suoni in onde corte che vanno e vengono...».

È la sua storia, la storia di tanti suoi più o meno coetanei che di lì a poco, entrati negli anni Settanta, si trovarono calati in un mondo nuovo, pieno di energia e di speranze e di voglia/certezza di cambiare il mondo. Quello stesso ex ragazzo, quegli stessi ex ragazzi, un paio di decenni dopo, credono di essere tornati nel Medioevo: «Sintonizzatevi su Radio Padania Libera - suggerisce - e capirete benissimo cos’è l’odio moderno, contemporaneo, cos’è la nostra colonna sonora infame».

Meglio allora l’amore, la riflessione disincantata su passato e presente. Altre canzoni, figlie di tempi diversi. ”La pioggia prima o poi” e ”L’amore ai tempi del fascismo” («non quello degli anni Trenta, quello di oggi...»), ”Alla fine del cinema muto” e ”Analfabetizzazione” («il potere nasce dalla comunicazione, l’avevo capito già trent’anni fa»), ”Adriatico” e ”Da zero e dintorni”, ”La giacca” e ”Dita”...

Altre parole, altre riflessioni. Lolli racconta e si racconta. L’adolescenza, le letture, la politica, gli anni in cui si era animati dalla fede nel progresso, dalla certezza che il mondo stesse per cambiare. Il tutto sullo sfondo di Bologna, i vecchi in Piazza Maggiore («tutti comunisti...»), la chiesa di San Petronio. Ma anche Rimini a soli cento chilometri: il demonio, il male, la casa di famiglia dove veniva portato d’estate, da ragazzo...

Accenni di particolare sincerità - persino di commozione - quando arriva il turno dei padri: quelli musicali (”Folkstudio” e ”I musicisti di Ciampi”) e quello vero, biologico, «che non sarebbe contento di vedermi stasera qui...» (”Quando la morte avrà”, brano che chiudeva l’album d’esordio, del ’72).

Il finale è dedicato al capolavoro di Lolli, ”Ho visto anche degli zingari felici”, canzone del ’76, rifatta recentemente anche da Luca Carboni. E c’è anche un bis, ”Borghesia”, necessariamente riveduta e corretta nelle sue granitiche certezze di allora. Ora infatti si conclude così: «Vecchia piccola borghesia, vecchia gente di casa mia, per piccina che tu sia, il vento un giorno - forse, eventualmente... - ti spazzerà via».

Applausi di affetto, quasi con tenerezza, per quell’ex ragazzo un po’ invecchiato.

venerdì 4 dicembre 2009

CLAUDIO LOLLI


Dice che queste canzoni sono «come un anticorpo politico-erotico contro il normale odio oggi in uso tra gli esseri umani, di qualsiasi razza, sesso, colore». Parole di Claudio Lolli, il cui concerto di domani al Teatro Bobbio (ore 21, ”evento speciale” del Festival Trieste Poesia) è uno dei primi del tour di presentazione del disco ”Lovesongs”.

«La tournée doveva partire a primavera - rivela Lolli, bolognese, classe 1950, sin dai primi anni Settanta esponente storico della miglior canzone d’autore italiana - ma il 23 aprile, due giorni prima del debutto previsto, sono caduto per strada. Una caduta banale, ma mi sono mezzo distrutto un ginocchio e ho dovuto annullare tutti gli impegni per mesi».

Lolli, dal sociale all’amore. Cos’è successo?

«Io le canzoni d’amore le ho sempre scritte. Ma mi davano sempre queste etichette: il cantautore del suicidio, della rabbia, persino il fiancheggiatore delle Brigate Rosse...».

Addirittura. Ma dica la verità: le sue canzoni d’amore erano poche...

«Questo è vero. Erano ”infilate” nei dischi, fra un brano impegnato e l’altro. Ed è per questo che ho deciso di riprenderle e riproporle. Con i miei collaboratori le abbiamo ascoltate tutte assieme, trovandole belle, omogenee, quasi ”sorelle” l’una dell’altra. Insomma, sembravano episodi minori ma non lo erano».

Canzoni di epoche diverse.

«Sì, direi fra il ’70 e il ’97. Ne abbiamo selezionate sedici, fra le quali abbiamo scelto le otto che sono inserite nel disco. Con Nicola Alesini e Paolo Capodacqua sapevamo di non poter riproporre gli arrangiamenti originali, né fare un disco pop. Dunque è prevalsa la scelta di puntare sul jazz, sul lirismo dell’improvvisazione».

E le canzoni politiche?

«Se la politica avesse ancora un ruolo, anche la canzone politica ne avrebbe uno. Ma oggi non c’è più politica, solo parole in libertà. Contano il potere per il potere, il denaro con cui si crede di poter acquistare tutto».

I giovani?

«Per un ragazzo oggi è difficile capire, intervenire, credere di poter cambiare le cose. Sembra tutto immodificabile. Sono pochi i giovani attenti al sociale: si trovano a cozzare contro questa società finta, costruita in studio. E poi manca una collettività giovanile a cui fare riferimento».

Lei insegna sempre?

«Certo. Italiano, latino e storia antica al Liceo Da Vinci di Bologna. Ormai sono vicino alla pensione: dovrò farmi fare i calcoli...».

I suoi studenti come reagiscono?

«Quando ho una classe nuova, di solito ci vogliono un paio di settimane perchè scoprano che sono ”il cantautore”. Vanno su internet, chiedono ai genitori, trovano i dischi... La loro reazione è buona. In fondo è un po’ spiazzante, per loro, scoprire che il prof è uno che fa dischi, concerti...».

Recentemente i suoi ”Zingari felici” sono stati rifatti sia dal Parto delle Nuvole Pesanti che da Luca Carboni. Quale versione preferisce?

«Quella con il Parto l’abbiamo fatta assieme, una versione molto balcanica, quasi zingaresca. Luca ha scelto da solo, ne ha fatto una versione molto dolce, delicata, togliendo aggressività all’originale. Mi ha fatto molto piacere, anche perchè lui arriva a un pubblico diverso dal mio».

Nel video c’è anche quel vostro incontro in Piazza Maggiore...

«Sì, una cosa carina. Quasi un passaggio del testimone, hanno detto. Anche se nemmeno lui, in fondo, è giovanissimo. Gli anni passano per tutti...».

Lolli, negli anni Settanta sembrava tutto possibile. Oggi...

«Ci eravamo immaginati che la storia andasse sempre avanti, in una direzione sola. E invece la storia va avanti e indietro, ha le sue fasi, ora va un po’ come un gambero. Aspettiamo che passi...».

domenica 22 novembre 2009

BATTIATO


Canta Franco Battiato: «Uno dice che male c’è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare primari e servitori dello stato? Non ci siamo capiti: e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti...?».

Ancora: «Che cosa possono le leggi dove regna soltanto il denaro? La giustizia non è altro che una pubblica merce. Di cosa vivrebbero ciarlatani e truffatori se non avessero moneta sonante da gettare come ami fra la gente...».

Versi quanto mai espliciti da ”Inneres auge”, il brano che dà il titolo al nuovo album (Universal) del sessantaquattrenne musicista siciliano. Sono passati diciotto anni da quando Battiato cantava ”Povera patria” («schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame che non sa cos'è il pudore... tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni...»). Era il ’91, si era alla vigilia della stagione di Mani Pulite e delle stragi mafiose, la parte sana del Paese si aggrappava alla speranza di un cambiamento. E l’artista scrisse quella splendida - e al tempo stesso dolente - invettiva contro l’arroganza del malgoverno, che si sperava non avesse bisogno di un seguito.

Il seguito - purtroppo e per fortuna - è arrivato. Purtroppo perchè è il segno che la situazione è, se possibile, ancora peggiore di quella che vivevamo all’alba degli anni Novanta. Per fortuna perchè almeno una sdegnata voce si leva, unica, fra i cosiddetti artisti, per denunciare la decadenza della vita pubblica. Con la complicità dei tanti che preferiscono un silenzio indifferente.

Sia come sia, ”Inneres auge” (qualcosa come ”l’occhio interiore” in tedesco) è un atto d’accusa contro una società malata, dove morale ed etica sono valori ormai fuori moda, dove il denaro è l’unico metro di giudizio. Situazione che Battiato aveva lucidamente previsto in tempi non sospetti. Ricordate ”Bandiera bianca” (da ”La voce del padrone”, dell’81)...? Ammoniva: «siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro, per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare quei programmi demenziali con tribune elettorali...». Insomma, gli anni passano ma il quadro non cambia. Anzi.

”Inneres auge” è uno dei quattro inediti dell’album. Gli altri sono ”U cuntu”, in dialetto siciliano con un verso finale in latino, in cui canta anche il filosofo Manlio Sgalambro; ”Inverno” di Fabrizio De Andrè (presentata a gennaio allo speciale di ”Che tempo che fa”, su Raitre, in occasione del decennale della morte del poeta genovese); ”Tibet”, cantata in inglese e composta nel 2008 contro il regime cinese, che finora era disponibile solo su iTunes.

Fra gli altri brani ci sono delle riuscitissime riletture di canzoni già pubblicate: ”Un'altra vita”, da ”Orizzonti perduti” del 1983; ”Haiku”, da ”Caffè de la Paix” del ’93; ”La quiete dopo un addio”, da ”Ferro battuto” del 2001. Riascoltate le quali, si ha conferma dell’antico detto: non c’è nulla di più inedito del già pubblicato. Soprattutto se firmato Franco Battiato.


TENCO


Può sembrar strano che escano ancora, magari da qualche cassetto, degli inediti di un artista scomparso nel gennaio ’67, cioè quasi quarantatré anni fa. Ma tant’è. È appena stato pubblicato ”Luigi Tenco, inediti” (Ala Bianca, collana ”I dischi del Club Tenco”), doppio album di un cantautore che ha anticipato la nostra miglior canzone d’autore.

Curato da Enrico de Angelis, responsabile artistico del Club Tenco, il doppio comprende due cd ricchissimi: nel primo compaiono canzoni mai pubblicate come ”Padroni della terra”, traduzione di ”Le deserteur” di Boris Vian, e tre brani che il cantautore piemontese non aveva mai inciso e che sono quindi stati affidati a interpreti come Massimo Ranieri (”Se tieni una stella”), Stefano Bollani (”No no no”, solo strumentale) e Morgan (”Darling remember”, traduzione in inglese di ”Vola colomba”).

Molte le versioni alternative di brani già noti ma con musiche, testi o arrangiamenti diversi dagli originali: ”Quello che tu vorresti avere da me” (sulla stessa musica de ”Il tempo dei limoni”), ”Quando”, ”Il tempo passò”, ”Come mi vedono gli altri”, ”Se stasera sono qui”.

Ma anche ”Ragazzo mio”, ”Non sono io”, ”Ah l'amore l'amore”, ”Vedrai vedrai”, ”Io sono uno”, ”Guarda se io”, ”Un giorno dopo l'altro” cantata in francese e in inglese, ”Ognuno è libero” in spagnolo. E ancora ”I know, don't know how” e ”The Continental”, eseguite al sax contralto da Tenco in registrazioni del ’57 e un'intervista radiofonica al cantautore di Sandro Ciotti.

Nel secondo cd, 17 brani interpretati da vari artisti in esibizioni tratte proprio dalla ”Rassegna della canzone d'autore” di Sanremo intitolata a Tenco: da Vinicio Capossela a Roberto Vecchioni, da Simone Cristicchi a Shel Shapiro, da Alice ad Alessandro Haber, dagli Skiantos a Tetes de Bois, da Giorgio Conte a Ricky Gianco, da Ada Montellanico a Eugenio Finardi...

"Luigi Tenco, inediti” anticipa un futuro progetto a cui da tempo il Club Tenco e Ala Bianca stanno lavorando: la pubblicazione in cofanetto dell'intera produzione del cantautore.


MARIO BIONDI Ai piani alti delle classifiche di vendita, da un paio di settimane c’è lui, Mario Biondi, la voce nera della musica italiana. Con ”If”, che comprende undici inediti e tre classici rivisitati con lo stile inconfondibile dell'artista catanese. Registrato tra Roma e Rio de Janeiro, masterizzato a New York e con il contributo degli archi registrati a Londra dalla Telefilmonic Orchestra London, il disco ospita tutti i musicisti che hanno accompagnato Biondi nella sua carriera: da Herman Jackson (piano) a Michael Baker (batteria), da Jacquès Morelenbaum (violoncello) a Ricardo Silveira (chitarra), da Sonny Thompson (basso e chitarra) a Lorenzo Tucci (batteria), da Fabrizio Bosso (tromba) a Giovanni Baglioni (chitarra)... Fra i brani: ”Serenity”, ”Something that was beautiful» (di Burt Bacharach), ”Be lonely”, "Love dreamer”, ”I know it's over» (versione inglese di ”E se domani”, di Carlo Alberto Rossi, cantata da Mina), ”Winter in America” (cover del celebre brano di Heron), ”Everlasting harmony”... Elegante e sofisticato.


SERGIO CAMMARIERE «Il suono sono andato a cercarmelo in posti lontani, ho immaginato un luogo di pace dove contemplare la natura...». Così Sergio Cammariere presenta il suo nuovo album, che mette tra parentesi le ambientazioni jazz dei lavori precedenti e si avventura in una ricerca musicale che lo porta a scoprire sonorità inedite: quasi un’incursione in mondi lontani di cui percepiamo a volte solo l’eco. L’album comprende tredici brani nuovi, di cui due solo strumentali. Esotici gli strumenti utilizzati: sitar, moxeño, vina, tampura, tabla... Al fianco dei tradizionali pianoforte, chitarre, violino, percussioni, tromba, sax, archi... «Ogni frammento di questo disco fa parte di un mosaico attraverso il quale s’immaginano le carovane come il senso della storia, il passaggio dell’umanità, generazioni senza luogo e senza tempo», spiega il musicista calabrese, sempre affiancato nella scrittura dei testi dall’antico socio Roberto Kunstler. Per chi acquista l’album su iTunes c’è una bonus track: “L’impotenza” di Giorgio Gaber, già presentata da Cammariere al Festival Gaber.


 

LIVING COLOUR e MARILYN MANSON


Living Colour domani sera in concerto al Deposito Giordani di Pordenone, Marilyn Manson dal vivo giovedì 26 novembre al Palaverde di Treviso. Un’accoppiata coi fiocchi, per il popolo del rock del Nordest, quella che il calendario propone per i prossimi giorni dalle nostre parti.

Nati nell’84 a New York (ma il loro primo album, ”Vivid”, è uscito solo nell’88) attorno al chitarrista Vernon Reid (ex Defunkt) e al cantante Corey Glover, in questi venticinque anni gli afroamericani Living Colour si sono imposti come gli esponenti forse più importanti del genere funk metal.

Si narra che fu solo grazie all’intervento di Mick Jagger, che espresse da subito il proprio parere positivo, che la band riuscì - dopo una sana dose di gavetta - a firmare il suo primo contratto discografico con la Epic Record nel 1987. L’anno dopo fu pubblicato il citato ”Vivid”. E la storia del gruppo ebbe inizio.

Dopo una carriera ormai lunga - con una breve ”pausa di riflessione”, fra il ’95 e il 2000 - due mesi fa è arrivato ”The chair in the doorway”, album nel quale spicca il brano ”Behind the sun” e che li ha confermati in questa posizione di primo piano. Grazie all’energia assicurata, oltre che dai due leader e fondatori, dal basso di Doug Wimbish e dalla batteria di Will Calhoun: veri motori della ”macchina” sonora chiamata Living Colour.

Da segnalare che due giorni dopo il concerto in programma domani a Pordenone, e cioè martedì 24 novembre, il tour europeo dei Living Colour farà tappa anche nella vicina Slovenia, per un concerto a Lubiana.

E siamo a Brian Hugh Warner, detto anche ”il reverendo”, quarantenne rocker che tanti anni fa ha scelto di farsi chiamare - meglio: chiamare il suo gruppo - Marilyn Manson in onore di Marilyn Monroe (a rappresentare nella sua concezione il bene e la bellezza) e di Charles Manson (per il male e la violenza). Il suo originalissimo mix di pose provocatorie e testi graffianti che parlano spesso di autodistruzione ha fatto il resto.

Nel corso di una carriera ormai lunga Marilyn Manson ha venduto infatti oltre sessantacinque milioni di dischi in tutto il mondo ed è sempre molto amato da schiere di fan, spesso giovanissimi, che lo imitano e lo seguono ovunque. ”The high end of low” è il titolo del suo nuovo album. Il suo breve tour italiano comprende soltanto due date: giovedì 26 novembre a Treviso, il giorno dopo a Milano.

Due brevi anticipazioni rock anche per il mese di dicembre. Martedì 8 dicembre arrivano a Jesolo, al Palazzo del Turismo, i Franz Ferdinand. Sempre nella località balneare veneta, e sempre al Palazzo del Turismo, venerdì 11 dicembre sono di scena i leggendari Deep Purple.

martedì 17 novembre 2009

COME MI BATTE FORTE IL TUO CUORE


di BENEDETTA TOBAGI


A volte lo chiama Walter, altre Tobagi, altre ancora semplicemente papà. Come nelle ultime righe della lettera che conclude il libro, quando gli confessa: ”Papà, questo libro è la mia rosa per te. Per te, come tutte le cose importanti. Con tutto il cuore”.

”Come mi batte forte il tuo cuore - Storia di mio padre” (Einaudi, 304 pagine, 19 euro), di Benedetta Tobagi, è un altro libro che andrebbe fatto leggere nelle scuole. Proprio come ”Spingendo la notte più in là”, di Mario Calabresi, pubblicato due anni fa. Entrambi spostano il dibattito sul terrorismo - di ieri, di oggi - nella prospettiva delle vittime.

Il libro è al tempo stesso lo straziante atto amore di una figlia che non ha praticamente conosciuto il padre e una ricerca storica e politica di prim’ordine sugli anni Settanta. Benedetta aveva tre anni il 28 maggio del 1980, quando suo padre Walter fu ucciso sotto casa da una semisconosciuta formazione terroristica. Ragazzi di buona famiglia, si disse, che cercavano di fare il ”salto di qualità” per essere ammessi nella macabra serie A del terrorismo.

Tobagi era nato in Umbria nel marzo 1947 a San Brizio, frazione di Spoleto. Padre ferroviere, che trasferisce la famiglia al Nord negli anni Cinquanta. Vanno ad abitare a Cusano Milanino. Gente povera e di sani principi.

La gavetta giornalistica ha radici nell’adolescenza. Al liceo Parini a quindici anni comincia a scrivere articoli di attualità sulla famosa ”Zanzara”. Poi collabora al settimanale sportivo Milaninter, a diciannove anni anni è al mensile Sciare, a ventuno è praticante all’Avanti. Da lì passa all’Avvenire e poi al Corriere di Informazione, prima di approdare nel ’76 al Corriere della Sera. Integra la vocazione di cronista con quella di studioso. Scrive libri e saggi sui marxisti leninisti, lo squadrismo fascista degli anni Venti, l’attentato a Togliatti, il potere dei sindacati confederali... Già, il sindacato: l’altra sua passione. Quando viene assassinato ha solo trentatre anni. È articolista di prima pagina del Corriere e presidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti.

«Non ho ricordi di mio padre da vivo: è morto troppo presto. In compenso sono cresciuta assediata dall’immagine pubblica di Walter Tobagi», scrive l’autrice. Che quella mattina di maggio ha visto tutto: il padre per terra, il sangue, la madre disperata. «Hanno ucciso papà. Ma queste cose succedono solo nei film, non può essere vero. I compagni dell’asilo non mi credono. Allora insisto: ”Hanno ammazzato papà, gli hanno sparato, bum bum, con la pistola”. E mimo con le dita la forma dell’arma, una P38...».

Adolescente, Benedetta decide di studiare il ”caso Tobagi”. Per tentare di capire, per attenuare un dolore e un’assenza troppo grandi, per sfuggire alla ”comprensione cristiana” materna. «Attenta a non farti troppo male», le dice nonno Ulderico. Ma lei ha deciso. E ritrova «l’eco delle perplessità della mia infanzia nelle parole di un ex terrorista tedesco della Raf, che guardando all’esperienza dei ”compagni” italiani, si chiede perchè mai, mentre in Germania si colpivano capitani d’industria ed ex nazisti, a sud delle Alpi sotto il piombo dei sedicenti rivoluzionari caddero più spesso i riformisti».

«L’hanno ammazzato perchè aveva metodo», disse di lui Leonardo Sciascia. Se ne accorge bene la figlia, che scava fra le carte professionali e quelle più intime per ricostruirne la figura pubblica e privata. Allora rilegge i suoi articoli, i libri, le pagine di diario, gli appunti, le lettere... Da cui traspare un talento precocissimo.

Di idee socialiste - e dipinto a torto come ”uomo di Craxi” - di sé Tobagi scrive: «Mi sento molto eclettico, ideologicamente; ma sento che questo eclettismo non è un male, è una ricerca. La ricerca di un bandolo fra tante verità parziali che esistono, e non si possono né accettare né respingere in blocco».

E alla moglie, per giustificare le troppe assenze: «...con la speranza che possa essere meno assurda la società in cui, fra un decennio, i nostri michelangiolini (chiamava così Benedetta e Luca, di quattro anni più grande - ndr) si troveranno a vivere la loro adolescenza».

Marco Barbone, uno dei killer di Tobagi, era un ventunenne di buona famiglia all’epoca dell’omicidio. ”Pentitosi”, ha fatto solo tre anni di galera. Poi si è sposato in chiesa, ha adottato il cognome della madre, oggi lavora alla potente Compagnia delle Opere, quella fondata da don Giussani.

Benedetta parla anche del processo, degli incontri con i killer, delle verità ancora non scritte sull’omicidio di suo padre. All’epoca del quale qualcuno avanzò sospetti di complicità all’interno del Corriere. Ma l’autrice dimostra di non credere alla ”pista interna”. Sottolinea piuttosto le inquietanti coincidenze che portano dritte alla Loggia P2 di Licio Gelli, cui all’epoca erano affiliati direttore ed editore del quotidiano di via Solferino.

Misteri dolorosi e irrisolti. Rilanciati da un libro che bisognerebbe - come si diceva - far leggere ai ragazzi di oggi. Per far capire loro cos’è davvero successo nel nostro Paese negli anni Settanta.

lunedì 16 novembre 2009

TRIESTE: A DICEMBRE PIOTTA E CLAUDIO LOLLI


Uno è romano, l’altro è bolognese. Uno è un rapper figlio degli anni Novanta, l’altro è uno dei cantautori storici che hanno segnato gli anni Settanta. Uno ha un pubblico soprattutto di ragazzi, l’altro si rivolge a tutti ma è seguito soprattutto dagli ”ex ragazzi” nati nel suo stesso decennio, gli anni Cinquanta.

Questo per dire che Piotta (l’uno) e Claudio Lolli (l’altro) non potrebbero essere più diversi. Il calendario musicale triestino ha scelto di metterli assieme, l’uno vicino all’altro, in una sorta di ”due giorni” che si terrà nel capoluogo giuliano fra meno di venti giorni. Piotta sarà infatti per la prima volta a Trieste venerdì 4 dicembre al Raceway (Ippodromo di Montebello), Lolli ritorna dopo un’assenza di qualche anno sabato 5 dicembre al Teatro Bobbio, nell’ambito del festival Trieste Poesia.

Piotta - un tempo noto come ”Er” Piotta - è nato a Roma nel ’73, vero nome Tommaso Zanello. Il primo album, dopo varie prove discografiche, esce nel ’98 e s’intitola ”Comunque vada sarà un successo”. Dentro c’è anche quella ”Supercafone” che rimane il suo brano forse più noto. Nel 2004 partecipa anche al Festival di Sanremo con ”Ladro di te”.

A due anni da "Multi Culti", disco ricco di contaminazioni linguistiche internazionali, e reduce dall’itinerante ”Warped tour” statunitense (primo e finora unico italiano invitato alla manifestazione, che atteraversa gli States da est a ovest), il rapper di Montesacro è appena uscito con il nuovo album dal titolo "S(u)ono Diverso", nel quale mischia i suoni delle origini ad atmosfere e arrangiamenti più marcatamente rock.

E siamo a Claudio Lolli, uscito quest’anno con l’abum ”Lovesongs”. Il disco vede il cantautore bolognese - classe ’50, debuttò giovanissimo nel ’72 con ”Aspettando Godot” - dedicarsi per la prima volta interamente ai temi dell’amore. Con un lavoro molto curato anche dal punto di vista musicale, poichè i brani sono stati arricchiti dalle sonorità sperimentali del sassofonista Nicola Alesini e del chitarrista Paolo Capodacqua, che da anni accompagna Lolli dal vivo.

Il disco è arrivato a tre anni di distanza da ”La scoperta dell’America”, che a sua volta aveva seguito la rivisitazione - assieme ai calabresi trapiantati a Bologna del Parto delle Nuvole Pesanti - dello storico album del ’76 ”Ho visto anche degli zingari felici”. Canzone che lo scorso anno anche Luca Carboni ha riletto nel suo ”Musiche ribelli”.

Il ”Lovesongs tour” sarebbe dovuto partire a maggio, ma è stato rinviato per una frattura alla rotula dell’artista, che ha richiesto una lunga riabilitazione e gli ha impedito per mesi di esibirsi (ulteriori informazioni su www.storiedinote.com)

giovedì 12 novembre 2009

ELISA A DUINO


 Elisa diventa mamma e sforna il disco forse più rock della sua giovane ma già importante carriera. Per presentare ”Heart”, che esce oggi, la trentaduenne popstar di Monfalcone ha invitato stampa e tivù nazionali al Castello di Duino, a due passi da casa sua. E mentre la piccola Emma Cecile dorme al sole novembrino accudita amorevolmente dalla nonna materna, lei spiega com’è nato l’album e parla del suo momento magico, artistico e personale.

«Sì, ho fatto un disco rock - spiega Elisa - anche perchè volevo cose divertenti da suonare dal vivo. Sono canzoni nate in un periodo di tempo ampio. ”Lisert” è addirittura del ’98. Doveva già entrare in album precedenti, ma poi per una cosa o per l’altra era sempre rimasta fuori. Stavolta sono riuscita a inserirla, anche come atto d’amore per la mia terra, alla quale rimango molto legata. Le mie radici sono sempre qui, è qui che ho scelto di continuare a vivere. E ne sono soddisfatta. Non mi sento prigioniera. Ma non trovo ragioni per andare a vivere altrove, anche perchè posso partire ogni volta che serve o che voglio».

Nel disco, che arriva a cinque anni da ”Pearl days” e dopo la raccolta ”Soundtrack”, e richiama l’energia del ”Pipes & Flowers” del fulminante esordio datato ’97, ci sono quattordici canzoni nuove. «Non c’è un filo conduttore unico. L’album - dice la cantante - non è stato pensato in maniera globale. Diciamo che è un insieme di canzoni accomunate dal linguaggio musicale, che in effetti è più rock, più aggressivo delle mie ultime cose. In questo è venuta fuori l’anima di Andrea (Andrea Rigonat, chitarrista della sua band dal ’96 ma soprattutto padre felice di Emma Cecile - ndr), che ha prodotto e arrangiato con me il disco, cofirmando alche alcune canzoni».

”Heart”, ovvero ”cuore”. Quanto di più intimo e centrale si possa immaginare. «Ho scelto di intitolarlo così perchè stavolta ho messo da parte la razionalità. In questa fase della mia vita hanno prevalso le ragioni del cuore, per la musica e per tutto il resto. La mia vita musicale e privata è oggi una scelta d’istinto, direi quasi di pancia. Sì, a guidarmi è stato il cuore. E con il cuore ho abbattuto filtri e barriere che avevo dentro».

Con questo disco Elisa torna a cantare soprattutto in inglese. «Ma in realtà - precisa - io dall’inglese non mi ero mai allontanata. Anche se il pubblico ricorda di più le mie canzoni in italiano. E pure quest’album, inizialmente, doveva essere in italiano. Poi, quando sono rimasta incinta, mi sono in qualche modo inabissata. Ho provato a scrivere in italiano, ma mentre a livello musicale il lavoro stava procedendo in modo fluido, sui testi mi sentivo in difficoltà. E diventavo quasi isterica, anche perchè per la gravidanza non potevo fumare. Ma non volevo fare il compitino in classe, ero terrorizzata dallo scrivere cose glaciali, nelle quali poi non mi sarei riconosciuta».

Fra le quattordici canzoni ci sono due duetti: ”Ti vorrei sollevare” con Giuliano Sangiorgi dei Negramaro (singolo apripista già molto trasmesso dalle radio) e ”Forgiveness” con Antony Hegarty (quello di Antony and The Johnsons). «La prima canzone - spiega - l’ho scritta ad aprile, già pensando a un possibile duetto con Giuliano. Lui è intenso, istintivo, ha la potenza vocale giusta».

E Antony? «L’avevo conosciuto al suo concerto milanese della primavera scorsa, al Conservatorio. Sono rimasta affascinata dalla sua voce fuori dallo spazio e dal tempo, addirittura fuori dal sesso, per quel suo timbro così puro e incontaminato da risultare assolutamente classico. E perfetto per la canzone. Il duetto purtroppo è stato solo virtuale: lui a New York, noi a Milano. Ma abbiamo comunicato molto, scambiandoci ”file” e opinioni».

Qualcuno chiede se ”ricambierà la cortesia” nel prossimo disco dei Negramaro. Elisa e il suo staff (che ruota attorno alla sorella manager, Elena Toffoli) sorridono ma si vede chiaramente che sono presi in contropiede. Non confermano né smentiscono, ma la cosa - considerato anche che la cantante monfalconese e il gruppo salentino fanno parte entrambi della scuderia Sugar, di Caterina Caselli - ha tutta l’aria di essere già decisa e programmata. È solo questione di tempo.

Nel disco c’è anche una cover: ”Mad world” dei Tears for Fears: «Guardando il film ”Donnie Darko” - rivela Elisa - sono rimasta folgorata dalla versione acustica di Michael Andrews e Gary Jules. E l’ho voluta inserire nel disco».

Ma il tempo vola. E la piccola Emma Cecile reclama giustamente la sua dose di attenzioni. Fra le interviste televisive e l’incontro con la stampa, s’impone dunque una pausa per l’allattamento. Bissata un paio d’ore dopo, a incontro ultimato.

«È nata il 22 ottobre - racconta mamma Elisa - dopo quarantuno, interminabili ore di travaglio. La data prevista per il parto era il 2 novembre (e scatta un gesto scaramantico molto meridionale... - ndr), ma lei ha deciso di venire al mondo in anticipo. Meglio così. Noi ci eravamo preparati per il parto in casa, avevamo comprato persino una piccola piscina per l’occasione, ma poi non è stato possibile ed Emma Cecile è nata all’ospedale di Monfalcone. Devo dire che non ho mai urlato tanto in vita mai. Anzi, ho urlato talmente tanto che a questo punto potrei fare la cantante di un gruppo hard rock».

Il doppio nome? «Emma era quello che ci girava per la testa da tempo. Poi Andrea si è innamorato di Cecile, in onore del pianista jazz Cecil Taylor. Alla fine, abbiamo semplicemente messo assieme i due nomi. Essere mamma ha influenzato questo disco, mi ha reso più spontanea ma anche più pratica, più diretta...».

A primavera Elisa sarà di nuovo in tour. Debutto il 6 aprile da Conegliano Veneto (per ora la data più vicina alla nostra zona, assieme a quella di Padova il 7 maggio), e poi si prosegue in giro per la penisola. «Ma prima - rivela - dobbiamo trovare una tata. Per ora siamo noi a occuparci della bimba: non vogliamo estranei in casa, soprattutto di notte».

Elisa guarda il tramonto e ricorda: «Da ragazzi andavamo al mare lì, a Duino. Chi aveva il motorino a volte trainava qualcuno che era in bicicletta. Sì, ho girato il mondo, ma continuo ad amare molto questa terra...».

mercoledì 4 novembre 2009

DEMETRIO STRATOS, FILM AL MIELA


"Da Pugni chiusi agli Area, alla ricerca vocale estrema”. È il sottotitolo del film-documentario ”La voce Stratos”, di Luciano D’Onofrio e Monica Affatato, che viene presentato domani sera al Teatro Miela. Ma è anche la sintesi di un percorso artistico breve ma intensissimo.

Sono passati trent’anni da quel 13 giugno del ’79, data della morte di Demetrio Stratos, cantante e leader negli anni Sessanta dei Ribelli e nei Settanta degli Area, e poi massimo sperimentatore dell’umana vocalità.

Nato nel ’45 ad Alessandria d’Egitto da genitori greci, Stratos giunge giovanissimo nella Milano degli anni Sessanta, dove con i Ribelli fa parte del Clan di Celentano. Fra tante cover di brani stranieri, ”Pugni chiusi” è il maggior successo di quella breve stagione. Segue l’esperienza con gli Area, punta di diamante di una ricerca musicale che rifugge gli schemi precostituiti mischiando rock, jazz, avanguardia, improvvisazione, musica etnica. Con un approccio fortemente politicizzato, come dimostrano nel ’73 l’album d’esordio ”Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi, scritta che campeggiava all’ingresso dei lager nazisti) e poi lavori come ”Caution Radiaton Area”, ”Crac!”, ”Are(a)zione”, ”Maledetti”, ”1978: gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano”...

Gli Area vanno verso la musica totale, Demetrio intraprende la difficile strada del ricercatore solitario, che lo porta a collaborare con John Cage ed esplorare i territori dell’avanguardia pura. Album solisti come ”Metrodora”, ”Cantare la voce” e ”Le milleuna” documentano un lavoro di sperimentazione vocale che sfiora i limiti dell’umano, basti pensare che la sua voce varca la soglia ”impossibile” dei settemila hertz. Studiando e perfezionando una tecnica vocale originaria dei pastori mongoli, riesce a emettere le cosiddette diplofonie e triplofonie, cioè due o tre suoni vocali di frequenza diversa, simultaneamente.

Ma intanto l’uomo sta lottando la battaglia più difficile: contro una rarissima forma di leucemia al midollo spinale che in pochi mesi ne spegne la forte fibra. Quando muore a New York, dove si era recato nell’ultima speranza di guarigione, Demetrio aveva solo trentaquattro anni. Ma aveva già scritto il proprio nome nella storia della musica del Novecento.

Il documentario che viene presentato domani a Trieste (alle 18.30 e alle 21, alle 20.30 introduzione di Gino D’Eliso e incontro con i registi), a cura di Bonawentura, Cappella Underground e Filmakers, narra il suo percorso biografico e artistico, riesumando vecchi filmati e intervistando amici e colleghi musicisti (fra gli altri: Mauro Pagani, Claudio Rocchi, Nanni Balestrini, Patrick Djivas...), ma indaga anche su tematiche inerenti voce umana e linguaggi diversi.

«La mia scommessa consiste nel mettere in comunicazione mondi che solo in apparenza sono lontani», ci aveva detto dopo un concerto con gli Area, nel ’77, a Trieste. Come dire: Demetrio Stratos era avanti di almeno un paio di decenni. Anche per questo lo ricordiamo. E ci manca.

THRILLER LIVE AL ROSSETTI


Politeama Rossetti? Macchè. Da ieri e fino a domenica, il teatro triestino somiglia al Lyric Theatre di Londra. E ciò grazie a ”Thriller Live”, lo spettacolo che Adrian Grant (presente ieri sera in platea) aveva immaginato per celebrare in vita la carriera e i successi di Michael Jackson, ma che dopo la morte di quest’ultimo, nel giugno scorso, si è trasformato comunque in qualcosa di diverso.

La struttura dello show è rimasta praticamente immutata. Una sorta di grande jukebox, forse senz’anima, con dentro tutta la storia e quasi tutti i successi del nostro, dagli esordi ragazzino con i fratelli nei Jackson 5 fino alla consacrazione. Perchè la forza dello spettacolo sta nella musica, in queste canzoni - soprattutto degli anni Ottanta - già trasformate in classici della musica popolare: <CF>”I want you back” e ”I’ll be there”, ”Show you the way to go” e ”Can you feel it”, ”Rock with you” e ”She’s out of my life”, ”Beat it” e ”Billie Jean”, ”Earth song” e ”Man in the mirror”. E ovviamente ”Thriller”.

La scomparsa del Re del pop ha prodotto due conseguenze per lo spettacolo. La prima: gli autori hanno modificato l’inizio. Una sorta di preghiera laica in apertura, col brano ”Gone too soon” (qualcosa come ”andato via troppo presto”), che stava nell’album ”Dangerous”, del ’91, ed era dedicato a Ryan White, un giovane stroncato dall'Aids, che aveva conosciuto Michael prima di morire. Jackson eseguì questa canzone al gala per la prima elezione di Bill Clinton, nel gennaio ’93, quando sottolineò l'importanza di sostenere la ricerca contro quel male.

La seconda conseguenza non si vede in scena ma forse è più importante. Quello nato come un ”music show” che, dopo l’esordio nel 2006 al Dominion Theatre di Londra e i tre tour di successo in Inghilterra, doveva restare in scena solo per qualche mese nel West End londinese, ora è uno spettacolo rappresentato contemporaneamente da tre compagnie: la prima è tuttora in scena al Lyric Theatre, la seconda è quella arrivata a Trieste per il tour italiano (che proseguirà a Roma, Bologna e Milano), la terza è stata messa su in fretta e furia per accogliere le tante richieste piovute addosso agli organizzatori. Insomma, oltre che una macchina da soldi, un vero e proprio cult-show del quale oggi nessuno può prevedere la longevità.

In scena, sdoppiata da una balconata con due scalinate laterali, una rutilante giostra di luci e di effetti multimediali è la scatola magica nella quale un cast di cantanti e ballerini mette in scena la leggenda di ”Jacko”.

Si comincia, come si diceva, da Michael ragazzino (interpretato ieri sera dal determinatissimo quattordicenne Jeremiah Whitfield, ”from Los Angeles”, che si alternerà nei prossimi giorni con Jordan D. Bratton) con i fratelli nei Jackson 5 degli esordi. Capigliature afro, pantaloni a zampa d’elefante, ritmi soul. Erano gli anni della Motown, del padre-padrone che aveva capito subito le potenzialità del piccolino, e lo menava senza pietà se non si esercitava a sufficienza. Michael aveva soltanto cinque anni, nel ’63, quando debuttò con i fratelli al mitico Apollo Theatre, la mecca della musica nera.

Musica nera da cui ”Jacko” prese le mosse ma che volle e seppe trasformare in qualcosa di diverso. Lui, primo artista di colore a diventare una star mondiale, per i bianchi e per i neri, mischiando i suoni e le radici della sua razza con le suggestioni del pop e del rock.

”Thriller Live”, a passo di moonwalking, ripercorre la strabiliante carriera seguita a quegli esordi bambini. Il primo album da solista, ”Off the wall”, del ’79. Michael ha quasi vent’anni, sua maestà Quincy Jones non si limita a produrre l’album: lo conduce quasi per mano nei meandri di una dance venata di rock destinata ad aprirgli le porte del successo mondiale e trasformarlo in leggenda.

Che diventa tale proprio con l’album ”Thriller”, uscito nell’82, sempre siglato Quincy Jones: l’album dei record, della sintesi quasi perfetta fra pop e musica nera, di successi come ”Billy Jean” e Beat it”, ma anche di quel cortometraggio girato nell’83 da John Landis, con la trasformazione di Michael in zombie, che è tuttora considerato il miglior video musicale di sempre.

Poi le canzoni di ”Bad” e di ”Dangerous”, album rispettivamente dell’87 e del ’91, e poi ancora le cose più recenti, che non sono le migliori della sua carriera. Lo spettacolo, una canzone e una coreografia dietro l’altra, racconta tutta questa storia artistica. Tace ovviamente del momento del declino, che Jackson voleva arrestare proprio con il ritorno in scena a Londra nel luglio scorso.

Quei concerti l’artista non ha fatto in tempo a tenerli. Ma, come spesso accade in questi casi, la sua morte ha fatto di più, aggiungendo l’ultimo definitivo tassello alla sua trasformazione in mito. Un mito che resisterà agli anni e ai decenni, e che viene celebrato anche da questo show.

Al Rossetti, primo tempo deboluccio, con l’ombra di Michael che sembra gravare su tutto. Poi, nella seconda parte, grazie ai pezzi da novanta del repertorio e alla bravura dei protagonisti, lo show decolla. Alla fine, entusiasmo autentico e applausi per tutti. Per i cinque cantanti (fra cui anche una donna: la brava Hayley Evetts), per i dieci ballerini che tengono la scena con consumata professionalità, per i musicisti che suonano nascosti dietro uno schermo. Ma l’applauso più sentito forse è per lui, per Michael Jackson, l’eterno Peter Pan del pop, vero protagonista di uno show che ne celebra la grandezza senza tempo.

lunedì 2 novembre 2009

SUNSPLASH LASCIA IL FVG


UDINE «Un altro mondo è possibile» era lo slogan della sedicesima edizione del Rototom Sunsplash, il più importante festival europeo di musica e cultura reggae, svoltosi dal 2 all’11 luglio scorso al Parco del Rivellino di Osoppo. Ebbene, quell’«altro mondo possibile», gli organizzatori della rassegna ma soprattutto le migliaia di partecipanti che ogni estate arrivavano qui da terre anche lontane, andranno a cercarlo altrove. Chi dice in un’altra regione italiana, chi addirittura a Barcellona.

L’annuncio ufficiale è arrivato ieri, in un’affollata conferenza stampa svoltasi al Visionario di Udine. Ma la (brutta) notizia era nell’aria già da tempo. Almeno dall’estate 2008, quando la nuova giunta regionale di centrodestra aveva annunciato di voler tagliare i finanziamenti alla manifestazione. Ufficialmente a causa dei tempi di crisi e di ristrettezze economiche, in realtà con l’obbiettivo di dare un segnale chiaro di discontinuità con il passato, nei confronti di un festival storicamente ”frequentato” da droghe e droghette leggere.

Ora è arrivata la denuncia all'autorità giudiziaria del presidente dell’associazione Rototom, Filippo Giunta, per il reato di agevolazione dell'uso di sostanze stupefacenti sulla base dell'articolo 79 della legge Fini-Giovanardi. Il rischio: da tre a dieci anni di reclusione. Per il sindaco di Osoppo c’è anche l’abuso di ufficio, solo per aver concesso l’uso dell’area di campeggio esterna al festival.

«Una accusa fragile e paradossale per questo festival - dicono gli interessati - che ha speso centinaia di migliaia di euro per garantire le migliori condizioni di sicurezza, in una collaborazione piena con le forze dell'ordine».

Secondo l'accusa il Sunsplash agevola l'uso di marijuana per il solo fatto di essere un festival reggae. Nelle motivazioni si legge infatti che «l'ideologia rastafariana prevede l'associazione tra la musica reggae e la mariuana». È chiaro, sottolineano gli organizzatori, che una simile interpretazione della legge potrebbe colpire chiunque organizzi anche solo una serata reggae.

Intanto, il 13 novembre parte da Udine la «campagna nazionale di libertà» indetta dal Rototom: musica, incontri e interventi con il titolo «Non processate Bob Marley». E il sindaco di Udine, Furio Honsell, dice: «Perdere il Sunsplash di Osoppo sarebbe per la nostra regione un impoverimento sul piano culturale ed etico prima di tutto. La cultura del Sunsplash promuove l'antirazzismo e l'anticoloniasmo attraverso dibattiti e forum di altissimo livello. Grazie al Rototom il Friuli Venezia Giulia è entrato in contatto con altre culture, aprendosi alla costruzione di una dimensione culturale planetaria che oggi è in gioco».

Nel frattempo, dopo quasi vent’anni, il Rototom Sunsplash lascia il Friuli Venezia Giulia nel quale è nato. E che molti giovani, in Europa e nel mondo, conoscevano anche - o solo - grazie a quel festival. Com’era quello slogan turistico? Ospiti di gente unica. Sì, ma evidentemente senza pericolose contaminazioni con altri mondi e altre culture.


 

DANIELE LUTTAZZI


E' il David Letterman italiano. Magari un po’ volgaruccio, ma un piccolo lord al confronto dell’Italia in cui viviamo. E mentre il suo illustre collega statunitense sta da anni in prima serata, lui, Daniele Luttazzi, è stato cacciato con ignominia dalla televisione di casa nostra. Dunque per una parte del pubblico italiano è come se non esistesse più.

Non certo per chi va a teatro e legge libri. Stasera il quarantottenne autore satirico di Santarcangelo di Romagna debutta al Teatro Nuovo di Milano con la nuova versione del suo ”Va dove ti porta il clito” («Ogni tanto - dice - riporto in scena i miei monologhi classici. Li riscrivo di continuo: miglioro io, migliorano loro. E il pubblico cambia, adesso la mia platea è soprattutto di ventenni che avevano otto anni alla mia edizione...»). E domani esce con il suo nuovo libro, ”La guerra civile fredda” (Canguri Feltrinelli, pagg. 240, euro 15).

Dentro c’è la scoppiettante e a tratti esilarante follia cui il pubblico della televisione italiana, pubblica e privata, non può più assistere causa embargo politico. «L'ostracismo - ammette Luttazzi - mi pesa, eccome: la tv non è un hobby. Non è normale che uno non possa fare satira in tv perchè c'è il veto del capataz. È marcatissimo. Sono però ostico anche ai clan Pd, dato che ne colpisco l'inconsistenza politica. E ai cattolici, della cui religione mi faccio beffe. All'estero la satira è libera e in prime time».

Appunto. L’autore descrive il libro come «l’esito del progetto organico, reazionario, fatto di disuguaglianze e gerarchie, che è in atto da un ventennio nel Paese. Ne sono conseguiti, fra l’altro, un aumento del 553% della cassa integrazione, una manovra economica che beffa i ceti medi e un piano federalista che porterà alla divisione fra regioni di serie A (magari da annettere alla Carinzia) e di serie B...».

Secondo Luttazzi, «nella nuova realtà politica, tutta emotiva, la popolarità sostituisce la legittimazione; la vittoria la credibilità; i sondaggi l’ideologia. Una volta agganciato emotivamente, l’elettore sospende la propria capacità critica e finisce per votare anche chi, a conti fatti, non gli converrebbe».

Il futuro? Non promette nulla di buono. «Non ci saranno novità - sostiene Daniele Luttazzi - finchè il conflitto di interessi berlusconiano continuerà ad avvelenare il Paese».

sabato 31 ottobre 2009

ADRIAN GRANT / THRILLER LIVE


Conto alla rovescia per la prima nazionale di ”Thriller Live”, martedì sera al Politeama Rossetti. Lo show musicale (come sottolineano gli organizzatori, si tratta di un ”music show”, non di un musical...), nato per celebrare la carriera di Michael Jackson, con la morte dell’artista a giugno è diventato lo spettacolo di punta della stagione teatral-musicale.

«L’idea di realizzare lo spettacolo - dice Adrian Grant, ideatore e co-produttore dello show, ma anche amico e socio della popstar, nonchè autore di ”Michael Jackson, The Visual Documentary” - mi è venuta nel 2002, quando decisi di trasformare la Michael Jackson Celebration che già organizzavo in uno show da rappresentare a teatro».

La prima Celebration è del ’91.

«Sì, era un tributo al Re del pop e andò avanti per dieci anni. Nel 2001 lui stesso partecipò allo show a Londra e vide oltre cento performer rendergli omaggio. Alla fine della serata salì sul palco e disse ai tremila fan in attesa che riteneva la Celebration ”splendida e incredibile”».

Era contrario a uno show sulla sua vita?

«Assolutamente no. Lui e il suo staff erano al corrente e informati dello show. Nel 2007 Michael in persona mi augurò buona fortuna per la produzione. Era collaborativo, come già lo era stato per la Celebration, dove mandava spesso una sua troupe per filmare lo show e gli spettatori».

Però non ha fatto in tempo a vedere lo show.

«Ed è davvero un peccato. Noi abbiamo debuttato il 2 gennaio 2009, al Lyric Theatre, nel West End londinese. Ma Kenny Ortega (regista del film ”This it” - ndr) mi ha detto che Michael aveva programmato di venirlo a vedere a luglio, quand’era in programma il suo ritorno sulle scene a Londra. Poi, è successa la disgrazia».

Che ha commosso il mondo. Se lo aspettava?

«Sicuramente lui meritava questa grande partecipazione popolare. Ma penso che sia una vergogna aver dovuto attenderne la scomparsa perchè gli venissero riconosciuti gli onori e il rispetto che meritava da vivo. Comunque nelle settimane successive al lutto c’è stata una tale copertura da parte dei media che tutti hanno potuto vedere che splendida e genuina persona lui fosse».

Cosa pensa del grande business che è partito dopo la sua morte?

«Si sta facendo di tutto per proteggere la sua immagine, ma anche per massimizzare i profitti per la sua famiglia, per i suoi figli e per le opere di carità che l’artista portava avanti. È normale. E credo sia quello che lui avrebbe voluto».

Come sono stati scelti i protagonisti dello show?

«Il casting è stata la parte più difficile, perchè Jackson era un talento unico. Sin dal primo giorno sapevo che non lo avrei impersonato con un solo artista sul palco, volendo mostrare le varie facce del suo talento. Ho scelto allora cinque protagonisti: un bambino per gli anni dei Jackson 5, un cantante soul, uno pop, uno rock e una cantante donna che ha sorpreso molti».

E poi c’era il Jackson ballerino.

«Certo, abbiamo scelto un protagonista ballerino per canzoni come ”Smooth criminal”, ”Thriller” e ”Billie Jean”. E dieci ballerini, uomini e donne, che danno vita sul palco alle fantastiche coreografie del regista Gary Lloyd. Per loro è un sogno diventato realtà far parte di uno show ispirato a un’icona con cui sono cresciuti».

Pensa che gli spettacoli di luglio lo avrebbero rilanciato?

«Sì, lo avrebbero confermato come il più grande showman del mondo. Lui era un perfezionista e lavorava per migliorare sempre. Aveva ancora molto da dare, sulla scena e fuori».

Ci sarà un altro Michael Jackson?

Non credo. L’industria musicale è molto cambiata in questi anni. Lui è cresciuto nell’era della Motown, imparando da gente come Stevie Wonder, Smokey Robinson, James Brown. E ha sempre lavorato duro per migliorare».

Perchè era il Re del pop?

«Perchè potevi trovare uno che cantasse meglio, uno che ballasse meglio e uno che scrivesse meglio di lui. Ma quel che ne ha fatto ”il re” era la splendida maniera in cui lui faceva tutte queste cose assieme, con un suo stile unico. Come cantante aveva un’estensione di quattro ottave, come ballerino era secondo solo a Fred Astaire, come autore ha scritto brani che sono autentici classici del pop. Nello show ho voluto raccontare la sua grandezza. E per questo - conclude Grant, che martedì sarà al Rossetti - non credo ci sarà mai un altro Michael Jackson».

"Thriller Live” rimarrà al Rossetti fino a domenica prossima. Poi sarà a Roma, Bologna e Milano. Intanto la ”Jackson mania” prosegue anche al cinema. Il film ”This is it”, sulle prove per i concerti previsti e mai andati in scena a luglio a Londra, ha incassato venti milioni di dollari solo nel primo giorno di programmazione. File nei cinema dove viene proiettato. Anche a Trieste, al Cinecity delle Torri e al Nazionale.


 

mercoledì 28 ottobre 2009

DISCHI - CARMEN CONSOLI


La cantantessa è tornata. La bambina impertinente è cresciuta. Confusa e felice come quando anni fa ci ha fulminati con il suo esordio, prende carta e penna e microfono e dice la sua su quest’Italia scassata. Sulle donne, sui padri e sulle figlie, sui nostri rapporti personali, su questa società. A tre anni di distanza dal precedente ”Eva contro Eva”, Carmen Consoli si ripresenta con l’album ”Elettra” (Universal), che arriva nei negozi il 30 ottobre ma si può ascoltare in Rete già da qualche giorno.

La trentacinquenne cantautrice e musicista catanese prende a prestito una figura mitologica per parlare dell’Italia di oggi, della mercificazione della donna, tema che torna spesso nel disco.

Tanto che alla presentazione romana del disco, l’altro giorno ha detto: «Sapete che vi dico, voglio diventare una escort, anzi per chiamare le cose col loro nome una ”buttana”. Tanto essendo una donna italiana verrò vista sempre così e per tale mi tratteranno...».

Ma Carmen va oltre. Usando la musica, le canzoni anche come medicina per superare la rabbia e il dolore. Nella psicanalisi Elettra, complessa figura di donna, è il contraltare femminile di Edipo: non il figlio innamorato della madre, ma la figlia innamorata del padre. L’origine è nella mitologia greca, che tramanda la figura di questa donna che istiga il fratello a vendicarsi sulla madre per la morte del padre.

«Questo è un disco sull'amore paterno - dice l’artista, che ha perso il padre pochi mesi fa -, Elettra rappresenta il mettere da parte l'amore materno per scoprire il rapporto con il padre, che è più sottile, meno scontato: un sentimento che si scopre col tempo e che racchiude tutto ciò che non è scontato».

Lavoro pieno di sfaccettature, molto ”al femminile”, acustico ma ricco di suoni rock e anche di folklore siciliano. Dieci brani che formano un unicum, sospeso fra pop e melodia, che a tratti sembra inscindibile.

"Mandaci una cartolina" è dedicata al padre scomparso, con la partecipazione di Franco Battiato, fra l’altro suo vicino di casa alle pendici dell’Etna. E presente anche in "Marie ti amiamo", la storia - con versi anche in arabo - di una bambina che ha peccato perchè non ricorda i canti di Natale.

"Non molto lontano da qui" è il primo singolo estratto dall'album, con un video ambientato in un bordello di tanti anni fa. «Mi piaceva vestire i panni della prostituta - rivela l’artista - perchè una delle idee forti dietro al disco è che ognuno si vende, sacrificando le sue reali aspirazioni per omologarsi».

Ancora: ”Mio zio” parla di pedofilia, di violenza domestica. E mostra come spesso le verità scomode vengono nascoste perchè c'è vergogna e si pensa sia meglio lavare i panni sporchi in casa.

”Col nome giusto” ci riporta alla Carmen dei momenti migliori. ”Sud Est” propone il tema del viaggio. ”’A finestra” è in dialetto siciliano: una conferma dell'amore per le proprie radici e della ricerca multilinguistica della cantante. Che dal 3 febbraio è in tour. Debutto all'Auditorium di Roma.


SKUNK ANANSIE


Sarà che Skin da sola non ha avuto lo stesso successo che le sorrideva con gli Skunk Anansie. Sarà che i suoi ”orfani” non avevano nemmeno tentato di rimpiazarla. Fatto sta che dopo quasi un decennio di pausa la band che segnato gli ultimi anni del secolo (e del millennio) torna assieme: ”Smashes & Trashes” (Carosello) è il ”best of” che segna la ”reunion” di una delle rock band più amate degli ultimi anni.

Rimasterizzato in digitale, il disco presenta brani selezionati dai primi tre album della band. Passando dalla gioiosa ”Weak” alla celeberrima ”Hedonism (Just because you feel good)”, da ”Secretly” a ”Charlie big potato”, si materializza una raccolta senza tempo dove ritrovare, traccia dopo traccia, successi ancora vivi. E i tre inediti - «Because of you”, ”Squander” e ”Tear the place up” - vibrano dell’energia necessaria a pensare a una ripartenza che vada al di là di questa uscita.

«I nuovi brani sembrano davvero enfatizzare ciò che di più buono ha la band: testi forti, ritornelli incisivi, ottimi arrangiamenti... E anche qualche stranezza gettata in mezzo», affermano gli Skunk Anansie. «Questa è la differenza tra una nuova formazione e ciò che stiamo facendo. La maggior parte delle band che tornano insieme speculano sul loro passato. Per noi questo sarebbe un punto d'inizio. Quello che per noi è davvero eccitante è il futuro là fuori».

Dei tre brani nuovi, ”Because of you” sembra quello in grado di coniugare con grande equilibrio le due anime del gruppo: l’energia travolgente unita a melodie estremamente contagiose.

Dal 9 ottobre il gruppo sta girando l’Europa in tour: il 15 novembre sono a Milano, il 16 a Firenze. A dicembre, la vocalist Skin, Cass al basso, Ace alla chitarra e Mark Richardson alla batteria entrano in studio per registrare il nuovo album, stavolta tutto di inediti, la cui uscita è prevista per la primavera/estate dell’anno prossimo. Dunque è vero: la storia degli Skunk Anansie è ripartita...


IACCHETTI Ci sono anche i triestini della Witz Orchestra, nel nuovo album di Enzo Iacchetti dedicato alle canzoni di Giorgio Gaber. Il comico pensava da tempo a questo gesto di stima e d’amore per l’amico e maestro di origine triestina. E il destino ha voluto che ad accompagnarlo in questa avventura, dopo tante altre vissute assieme dal vivo e in tivù, ci fosse proprio la band capitanata da Toni Soranno e Loretta Califra. Assieme, rivisitano i brani più famosi del primo repertorio gaberiano: da ”Il Riccardo" a "Barbera & Champagne", dal "Cerutti Gino" alla "Torpedo Blu", passando per "Ma pensa te" e "Porta Romana"... «Ho provato a metter mano alle prime canzoni di Giorgio, facendogli qualche scherzo - dice Enzino -. È chiaro che fatte da lui sono molto più vere. Ma il mio intento è quello di far sì che chi conosce Gaber non lo dimentichi mai, e chi non lo conosce possa sapere quanto fosse bravo, inimitabile e irraggiungibile». Iacchetti è da anni una delle anime del Festival Gaber che si svolge ogni estate a Viareggio.


BASTARD SONS Mentre la terza edizione di ”X Factor” sta facendo seriamente rimpiangere le prime due, prosegue la strada di alcuni solisti e gruppi lanciati dalla gara musicale di Raidue. I ”tre trentini” (e qui potrebbe partire la filastrocca...) che si fanno chiamare The bastard sons of Dioniso, finalisti dell’edizione dell’anno scorso, dopo il mini-cd ”L’amor carnale” pubblicato appena finito il programma, escono in questi giorni con l’album ”In stasi perpetua”. E dimostrano che la fama televisiva non li ha cambiati di mezza virgola. Rimangono i tre ragazzacci cresciuti fra le valli trentine, che non hanno abbandonato, amanti delle schitarrate rock e degli sberleffi irriverenti. Il disco - dicono - «riassume sei anni di rock alpestre con retrogusto di cantina». ”Mi par che per adesso” è il singolo apripista, molto trasmesso dalle radio in questi giorni. Loro lo definiscono «un connubio tra opera lirica e chitarroni distorti», rivelando che hanno mutuato da ”L'incoronazione di Poppea”, opera lirica di Claudio Monteverdi, l'ispirazione e parte del testo. Dal 28 novembre sono in tour.


 

LIBRO BEPPINO ENGLARO


«Ho solo una certezza: il rispetto, vera espressione d’amore per Eluana e Saturna, è stato e sarà infinitamente più forte di tutto il dolore che mi porto dentro». Si conclude così, con queste parole d’infinita tristezza ma al tempo stesso di pace apparentemente e finalmente ritrovata, il libro scritto da Beppino Englaro assieme alla giornalista Adriana Pannitteri. ”La vita senza limiti” (Rizzoli, pagg. 195, euro 17) ha già nel sottotitolo la sua spiegazione: ”La morte di Eluana in uno Stato di diritto”.

Non sono passati nemmeno nove mesi da quel 9 febbraio 2009 in cui un padre testardo come sanno esserlo forse soltanto i carnici riuscì a liberare una figlia che già non viveva più da diciassette anni. Un incidente stradale, il coma irreversibile, un corpo diventato una prigione. Storia fin troppo nota, diventata miserrimo campo di battaglia per opposte fazioni etico-politiche. Diciassette anni, 6233 giorni per poter finalmente restituire dignità a una figlia tanto amata e dirle addio.

Quanta ipocrisia, quanta mancanza di sensibilità, quanto cattivo gusto in quei giorni, in quelle settimane che precedettero l’epilogo. Molti si domandavano: ma perchè un padre ha accettato di finire nel tritacarne politico e mediatico per ottenere quello che tanti altri, in analoghe e tragiche situazioni, sono costretti dagli eventi della vita a fare ogni giorno, per una persona cara, in tutti gli ospedali del mondo?

La lettura di queste pagine è al proposito illuminante. Beppino Englaro ha fatto tutto quel che ha fatto, in quei diciassette lunghi anni, per amore e rispetto della figlia ma anche e forse soprattutto della legalità. Rispetto della legalità: concetto ostico per molte persone, soprattutto in questa nostra Italia scassata, in questi tempi cialtroni e miserevoli.

«Non eravamo spinti da alcun furore ideologico - scrive Englaro quando rievoca i primi tempi della sua lunga battaglia - né volevamo imporre ad altri ciò che ritenevamo e riteniamo tuttora giusto per noi stessi. Chiedevamo solo di non essere discriminati. Ma rivendicare uno spazio per l’individuo, per le sue scelte personali, sostenere che la propria vita non appartiene agli altri è stato ritenuto un affronto e una sfida. Per questo la vicenda di Eluana faceva paura...».

Fra le righe emerge un uomo diverso da quello che l’Italia ha conosciuto nell’inverno scorso, quando divideva il Paese maneggiando un linguaggio giuridico e tecnicistico che era stato costretto a imparare. Lottava, autorizzato da una sentenza, a mettere in pratica lo stop all’alimentazione e all’idratazione forzata. A interrompere la suprema ipocrisia di una vita artificiale imposta da uno Stato che dovrebbe essere laico e si scopriva etico. Il Beppino di questo libro è invece e semplicemente un padre, un uomo riservato che racconta il dramma indicibile toccato a lui e alla sua famiglia.

Un capitolo, ”La ricerca della squadra e della struttura”, parla del ruolo dei vecchi amici friulani, già socialisti, alcuni dei quali assurti a importanti ruoli istituzionali: il presidente della Regione Renzo Tondo, il senatore Ferruccio Saro, l’ex assessore regionale alla sanità Gabriele Renzulli... «La coscienza della nostra dignità - scrive riferendosi a ”noi friulani, soprattutto i carnici...” - non è mai stata un fatto solitario ma una sorta di fratellanza, un sentire comune, un orgoglio, persino nelle sfide più estreme. Non credo sia un caso il fatto che molte battaglie sui diritti civili che hanno cambiato il volto del nostro Paese, come quella sul divorzio, siano partite proprio dal Friuli...».

Il resto sono ricordi, episodi, particolari, soprattutto dolore. Tutta roba che scava nel profondo e non può lasciare insensibile un essere umano. Undici febbraio di quest’anno, il giorno prima del funerale: «Nel silenzio, ad un tratto ho riconosciuto la mia voce: ”Addio stellina mia, ora riposa in pace”. Ho pianto, i singhiozzi erano talmente forti che mi squassavano lo stomaco».

La battaglia personale di Beppino Englaro è terminata. Quella politica, per la libertà di cura, perchè la legge e lo Stato rispettino l’individuo, è ancora lungi dall’essere portata a compimento. Quando finalmente ciò avverrà, dovremo ringraziare soprattutto un carnico dalla testa dura, rispettoso della legalità. E della laicità dello Stato.

giovedì 22 ottobre 2009

ALL FRONTIERS 2009


Torna «All Frontiers». Dopo l’edizione del ventennale, lo scorso anno, la piccola ma prestigiosa rassegna di Gradisca (sottotitolo «Indagini sulle musiche d’arte contemporanee») propone una nuova edizione, dal 20 al 22 novembre alla Sala Bergamas e al Teatro Comunale della cittadina sul fiume Isonzo.

Fra le proposte di quest’anno spiccano il concerto del pianista Keith Tippett (figura storica del jazz-rock inglese, già leader dei Centipede e già marito di Julie Driscoll) e quello dell’ensemble vocale Muna Zul, trio femminile messicano prodotto (e assai ”raccomandato”...) da John Zorn, ospite più volte della rassegna isontina.

Ma il jolly è l’unica data italiana di ”Hommage à John”, progetto speciale dedicato al compositore americano John Cage (1912-1992), curato dalla musicista e compositrice francese Joëlle Léandre, che aveva già partecipato all’edizione dello scorso anno. Con lei anche l’inglese Fred Frith (chitarrista, multistrumentista, già con gli Henry Cow e collaboratore del citato Zorn, docente al Mills College di Oakland in California) assieme al suo Mmm Quartet.

«John Cage è stata una figura molto importante per me - dice Joëlle Léandre - perché mi ha fatto ascoltare il mondo attorno a me. Lasciate che i suoni siano ciò che sono, mi diceva sempre. Mi ha aperto a un’infinità di possibilità che ancora oggi continuo a esplorare. La sua lezione è andata oltre ed è arrivata direttamente al centro, al cuore, al nocciolo, all’essenza».

L’Omaggio a Cage, che arriva a Gradisca all’indomani della prima mondiale a Bruxelles, si articola in quattro sezioni: ”Ryoanji”, per contrabbasso e un ensemble di venti musicisti; Joëlle Léandre solista (con brani tutti scritti da Cage); ”Oaxaca” con il danzatore e coreografo Dominique Boivin; Mmm Quartet con la stessa Joëlle Léandre, Alvin Curran, Fred Frith e Urs Leimgruber.

Ma vediamo il programma completo. Il 20 novembre si parte con Keith Tippett, con la violinista Mia Zabelka, con il gruppo Nous Percons Les Oreilles, con il duo Han Bennink & Terrie Ex. Il 21 tocca all’americano Anthony Coleman, all’italiana Letizia Renzini, al trio K-Space e al duo Cristina Zavalloni & Andrea Rebaudengo. Il 22 serata finale con Tim Hodgkinson & Fred Frith, l’Omaggio a Cage e le citate Muna Zul.

Insomma, un cast di qualità. All Frontiers 2009 - organizzata anche quest’anno dal suo ideatore Tullio Angelini con la sua Moremusic - si conferma crocevia dei protagonisti più originali e intelligenti della scena musicale internazionale votata alla sperimentazione e all’avanguardia.

Un’avventura nata nel luglio dell’88, col concerto goriziano di Nico, l’ex cantante dei Velvet Underground. Fu lei che in quella sera d’estate disse ad Angelini e agli altri suoi amici: «Bello qui, mi piacerebbe tornare l’anno prossimo, magari con John Cale, mio amico e produttore. Anzi, perchè non organizzate una rassegna vera e propria. Vi regalo anche il titolo: All Frontiers...».

L’anno dopo, quando era quasi tutto pronto, agli amici isontini arrivò la telefonata con la notizia della morte, a Ibiza, della leggendaria cantante. Ma il sogno è andato e continua ad andare in scena ugualmente, anche in onore della grande Nico. Che avrebbe amato le ”indagini musicali” che, dopo una non breve interruzione, da qualche anno vengono messe in scena a Gradisca.

Tutte e tre le serate della rassegna saranno seguite da RadioTreRai. Ingresso libero fino ad esaurimento dei posti. Info su www.moremusic.it

mercoledì 21 ottobre 2009

EUGENIO FINARDI


CAPODISTRIA «Non ero un ribelle ideologico, ma un ribelle idealista. È per questo che molte mie canzoni di trent’anni fa, in fondo, rimangono attuali e fruibili anche adesso...». Parla Eugenio Finardi, che stasera alle 20 al Teatro di Capodistria presenta lo spettacolo ”Omaggio a Vysotsky” (assieme al cantautore Jani Kovacic, nell’ambito dei festeggiamenti per i sessant’anni di Radio Capodistria, che trasmette la serata in diretta), mentre domani e sabato alle 20.45, al Teatro Verdi di Pordenone, propone ”Suoni - Appunti e contrappunti teatrali”.

«Quando nel 2002 ho festeggiato cinquant’anni di età e trenta di carriera - spiega l’artista milanese -, ho deciso di cambiare musicalmente vita: non avrei più inseguito il successo ma mi sarei dedicato solo alle cose che mi piacciono. Ho fatto allora un disco sul fado portoghese e uno sul blues americano, che rimane il mio primo grande amore. Ma anche il disco e lo spettacolo su Vysotsky, e poi questo spettacolo teatrale che adesso arriva a Pordenone...».

Cominciamo da Vysotsky. Chi è?

«Era un attore, autore e cantante russo, boicottato dal regime sovietico. In un secolo che ha celebrato gli ”artisti maledetti”, lui lo è stato più di tutti. Diede voce ai perdenti che non si arrendono, agli sconfitti indomiti, agli idealisti disillusi. Quando venne in Occidente per la prima volta disse: in Russia non credono all’anima dunque la lasciano stare, qui con i soldi si corrompe anche quella. È morto nell’80».

Come l’ha scoperto?

«Il Club Tenco mi chiese nel ’94 di interpretare le sue canzoni. Le ascoltai, scoprendo un uomo e un artista che non si è fatto mai corrompere dal potere. Uno che non era disposto a cambiare nulla di se stesso per compiacere chicchessia. Me ne innamorai. Il frutto furono lo spettacolo, che ora ripropongo a Capodistria, e il disco ”Il cantante col microfono”, assieme all’ensemble Sentieri selvaggi, che vinse il Premio Tenco».

Con ”Suoni”, invece, debutta nel teatro canzone che fu di Giorgio Gaber...

«Non scrivo canzoni nuove da dieci anni, dunque dall’altro secolo. Contenitori troppo brevi, per come io sono adesso. In questa fase della mia vita preferisco raccontare le ombre, i chiaroscuri, ho bisogno di spazi più ampi per esprimermi. La forma canzone è troppo limitata per contenere tutti i concetti che sento il bisogno di esprimere».

Dunque?

«Dunque sono in realtà tornato alle origini. Mia madre è americana. E a vent’anni, prima del successo con la musica in Italia, studiavo teatro a Boston. La mia prova d’esame fu ”L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello...».

La ”Musica ribelle” fu allora un incidente di percorso...

«In un certo senso. Capitai nella Milano della contestazione degli anni Settanta. Io, Alberto Camerini, Fabio Treves volevamo essere funzionali al Movimento. La musica era per noi un momento di militanza politica, quasi una parentesi. Non rinnego nulla, sia chiaro, ma quelle canzoni non erano un tentativo di fare poesia. Piuttosto dei ta-tze-bao in musica, utili alla causa...».

Torniamo allo spettacolo teatrale.

«Sì. Come dicevo è una dimensione che fa parte della mia storia, ma fu proprio lo spettacolo su Vysotsky a far scattare la molla. Ne è venuto fuori questo percorso teatrale e musicale, nel quale i racconti che ho scritto per l’occasione si alternano alle mie canzoni. È la mia storia personale, che mi offre lo spunto per rileggere anche fatti che hanno segnato il secolo scorso».

Nella prima scena parla di sua madre.

«S’intitola ”Nato in uno strumento musicale”. Quello strumento è lei, che era una cantante lirica. In casa si diceva che mi aveva partorito con l’acuto della Regina della notte, dal Flauto magico di Mozart. Leggende familiari a parte, mia madre ha avuto una grande influenza, anche musicale, sulla mia crescita. Adoro il blues perchè l’ho scoperto e subito amato a tredici anni, negli Stati Uniti. Ma nelle mie cose si può intravedere anche un’impronta barocca, qualcosa dell’opera settecentesca a lei così cara».

In un’altra scena parla del suo rapporto con Medici senza frontiere.

«Una delle esperienze più importanti della mia vita. Loro si occupano della cura, ma hanno bisogno anche di persone che si occupino della testimonianza. Io sono andato e ho raccontato. Nel ’98 in Sudan, nel ’95 a Sarajevo, prima degli accordi di Dayton. Luoghi diversi, ma storie sempre uguali di dolore e sofferenza e coraggio. Ricordi ancora presenti. In particolare quelli sotto l’assedio di Sarajevo, assieme a un gruppo bosniaco: forse i giorni in cui mi sono sentito più vivo...».

”Musica ribelle” chiude il monologo sul Sessantotto.

«Sì, la trovo in tema con l’ultima epoca in cui c’è stata una visione del futuro come di un’utopia possibile. In quegli anni si è osato sognare, oggi siamo al salvate il salvabile. Per quella canzone comunque provo un sentimento di amore e odio. Per me rappresenta un marchio e una condanna. Ecco, quando ho deciso di dedicarmi ad altre cose è stato anche perchè non volevo essere condannato a cantare le stesse dieci o venti canzoni per tutta la vita...».

Quali altri brani ha inserito nello spettacolo?

«Ho scelto episodi noti e altri meno noti: ”Le ragazze di Osaka” e ”Laura degli specchi”, ”Patrizia” e ”Vil Coyote”, ”Diesel” e ”Dolce Italia”... Tutte canzoni che vengono usate a commento dei testi».

Ma ce n’è una che ama di più?

Ci pensa un attimo. «Sì, preferisco ”Non diventare grande mai”, perchè è una mia canzone che allora parlava già di oggi. La trovo paradigmatica di un mio modo di scrivere canzoni ispirate dagli ideali e non dall’ideologia. Nella scrittura ho sempre avuto un approccio molto pragmatico, sarà stato per il mio essere mezzo americano, ma il risultato è che molti di quei brani oggi sono ancora attuali».

Il tempo dei saluti. E di un ricordo. «Torno sempre volentieri da queste parti. Quand’ero bambino, nella Milano degli anni Cinquanta, avevamo una governante di Palmanova, che fra l’altro è poi sempre rimasta con la nostra famiglia. Con lei sono venuto tante volte, nella sua città, ma anche a Trieste. Cosa ricordo? Ovviamente la bora, per un bambino quel vento fortissimo era una cosa incredibile...».