lunedì 31 dicembre 2007

Ma si può ancora parlare, l’ultimo giorno dell’anno, di un album che si intitola «Il regalo di Natale» (Universal)? Assolutamente sì, se gli autori sono Enrico Ruggeri, Andrea Mirò e «Quei bravi ragazzi», tutti fotografati in copertina attorno a una tavola imbandita, con un’aria da cattivoni che rimanda a qualche film di Scorsese. Se ne può e se ne deve parlare perchè il disco in questione - pur partendo dalla celebrazione in tutte le salse del tema natalizio - ha una ricchezza musicale che raramente si incontra fra le cose che escono nel nostro Paese. Il cantautore milanese e la sua versatile compagna di vita e di mestiere, ben supportati dal gruppo capitanato dallo storico socio di Ruggeri, Luigi Schiavone, hanno realizzato un lavoro destinato a durare, al di là delle scadenze del calendario.

Una dozzina di canzoni, con atmosfere estremamente varie. Si va da cover rivisitate in chiave punk (ebbene sì, punk...) come «Jingle Bells» e la «White Christmas» scelta per aprire la raccolta, a episodi di grande intensità come «Have yourself a merry little Christmas», in bilico tra rock e canzone d'autore.

Quattro inediti, di cui tre interpretati singolarmente («Stella» e «Il centro luminoso» da Ruggeri, «Regalo di Natale» da Andrea Mirò) e uno in duetto («C'era una volta Natale»). Ma anche rivisitazioni di brani precedentemente incisi dai due: da «Il Natale dei ricordi» (pubblicata nel ’99 e qui rimasterizzata) a «Piccola lettera di Natale» (nuova versione del brano che stava in un album degli anni Ottanta).

Spiega Ruggeri: «Avevo in mente questo progetto da almeno quindici anni. Il Natale è l’unica festa capace ancora di commuovermi. Mi riporta all’infanzia, a persone, colori e sapori che non ci sono più, con la voglia di riproporre ai miei figli quello scenario che per me fu così importante e formativo».

«Ho cominciato a scrivere canzoni sullo stesso argomento visto da varie angolazioni - dice ancora il cantautore, che sta lavorando anche al suo prossimo ”vero” album - rileggendo e registrando altri brani che avevo da sempre voglia di cantare. Andrea Mirò ha effettuato lo stesso percorso, naturalmente filtrato attraverso la sua sensibilità, molto diversa dalla mia...».




S’intitola invece «Rosalino Cellamare – Ron – In Concerto» (SonyBmg) il nuovo album dal vivo del cantautore di Garlasco, qui accompagnato dall’Orchestra Toscana Jazz. Quasi quarant’anni di carriera (debuttò sedicenne al Sanremo ’70, cantando «Pa’ diglielo a ma’» assieme a Nada) riassunti in un’ora di musica, fra classici come «Piazza grande», «Il gigante e la bambina», «Al centro della musica», «Joe Temerario», «Anima», «Attenti al lupo»... E la scelta simbolica di mettere vicini, sulla copertina il nome vero - quello degli esordi - e il nome d’arte adottato da quasi trent’anni. C’è anche un inedito, «Canzone dell’acqua».



Ultima segnalazione per Marco Armani, che qualcuno ricorderà in alcuni Sanremo di tanti anni fa. In «Parlami d’amore Mariù» (Delta Dischi) è andato a rivisitare canzoni della tradizione italiana degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta: da «Mamma» a «Portami tante rose», da «Violino tzigano» a quella scelta per il titolo, tutte firmate da Cesare Andrea Bixio, nato a Napoli nel 1896, che ha lasciato qualcosa come 500 canzoni e 150 colonne sonore. Operazione storica di un certo interesse. Fra gli ospiti, la cantante Rosalia De Souza e il rapper inglese Kevin Attienne.



 

Anticipazioni per il 2008. Una straniera, una italiana. Giusto per cominciare a farci la bocca, visto che nelle prossime settimane il calendario delle uscite verrà aggiornato continuamente. Buone notizie per chi ama i Rem: anche se manca l'ufficialità, la band americana dovrebbe pubblicare presto un nuovo disco di inediti. L'ultimo lavoro di Michael Stipe e compagni è datato 2004, era «Around the sun». Ad alimentare le speranze dei fan ci sono le parole che lo stesso Stipe si è lasciato scappare un paio di settimane fa durante un'asta di beneficenza tenutasi a New York: «Lasciate che vi dica un segreto: abbiamo nel cassetto un grande disco, un grande cambiamento per il sound della band. Lo faremo uscire il prossimo primo aprile...». Qualcuno ha notato che, visto il giorno, potrebbe anche trattarsi di uno scherzo... O forse è tutto vero, e allora non resta che aspettare la conferma ufficiale, per ascoltare il nuovo disco di una delle migliori band degli ultimi anni.



S’intitola invece «Pica!» il nuovo album di Davide Van De Sfroos che uscirà l’8 febbraio. La parola usata nel titolo in dialetto lombardo «laghée» (zona lago di Como...) significa «picchia», e rappresenta il suono, la parola e l'invocazione che accompagnava i minatori di Frontale (frazione di Sondalo, comune dell'Alta Valtellina). A tre anni di distanza da «Akuaduulza», dal cantautore lombardo arriva un nuovo album composto da quindici brani, tre dei quali con testo in italiano e ritornello in dialetto laghee. Davide Bernasconi, in arte Davide Van de Sfroos, ha vinto nel 2001 la Targa Tenco come «miglior album in dialetto» con «...E semm partii» mentre nel gennaio del 2003, con «Laiv», ha ottenuto un disco d'oro. Infine l'ultimo album di inediti - il citato «Akuaduulza» -, storie, leggende, tradizioni di «acqua dolce» racchiuse in quattordici brani, che hanno registrato consenso di pubblico e critica a livello ormai nazionale.

 

FIORELLO Dovrebbe essere l'ultimo estratto discografico dalla fortunata trasmissione radiofonica, ma in questo settore e di questi tempi... mai dire mai... Comunque, ecco 67 tracce per 66 minuti. La media è di un minuto a frammento, talvolta schegge di pochi secondi limitate a una battuta, un tormentone, anche una sola parola che però, trattandosi di loro due, a volte basta e avanza per sganasciarsi. A conferma che stiamo parlando della trasmissione radiofonica più amata dai tempi di «Alto Gradimento». Una galleria di 44 nomi: da Prodi a Ciampi, da Berlusconi a Napolitano, da Camilleri a Battiato, da Morandi alla Bellucci. Passando per La Russa, Costanzo, Califano, Moccia... Grande Fiorello, davvero.



ROSA BALISTRERI
Nuovo disco dell’interprete forse più rappresentativa della canzone popolare siciliana, scomparsa nel ’90. Nell’anno di quello che sarebbe stato il suo ottantesimo compleanno (era del ’27) arriva questa raccolta di inediti o versioni mai registrate di brani che ne hanno caratterizzato la carriera. Chi non comprende il dialetto siciliano può concentrarsi su elementi altrettanto fondamentali che spesso rimangono in ombra rispetto alle parole: la circolarità e la ripetitività dell’accompagnamento della chitarra, sempre pizzicata, e il timbro secco e asciutto della voce, che canta con le cadenze del canto tradizionale siciliano. Tre brani su tutti: «Vurria di lu tu sangue cincu stizzi», «Rosa canta e cunta» e «Tu si bedda».




TRIESTE È stato un anno davvero molto rock, almeno per Trieste e per tutto il nostro Friuli Venezia Giulia. Mai era avvenuto, infatti, che un anno solare, a queste latitudini e longitudini, fosse stato tanto ricco di nomi - italiani e stranieri, grandi e piccoli, belli e brutti, superstar ed emergenti - come lo è stato questo 2007 che ora va in archivio.

Fra capoluoghi e centri minori sono infatti arrivati signori più o meno arrabbiati come i Red Hot Chili Peppers (unica data italiana del tour) e i Placebo, grandi signore della musica come Bjork (anche qui unica data italiana) e Laurie Anderson, e poi in ordine più o meno sparso Robert Plant dei leggendari Led Zeppelin (che venti giorni fa si sono riuniti dopo tanti anni per un concerto col botto a Londra) e Steve Vai, Patti Smith e i Jethro Tull, i Fairport Convention e Noa, il duo Tuck & Patti e i Devo, Philip Glass e Richard Galliano, Robert Wyatt e Khaled, Gotan Project e Andreas Vollenweider, Goran Bregovic e tanti altri che sicuramente ora stiamo dimenticando ma non per questo sono risultati meno graditi e sono meno importanti.

Sul versante degli italiani, faremmo quasi prima a citare quelli che non sono venuti, in questo musicalissimo 2007, nel Friuli Venezia Giulia. Comunque ricordiamo Vasco Rossi (nel solito Stadio Friuli tutto esaurito, a settembre) e Laura Pausini, Zucchero (nemmeno un mese fa, in un gremito PalaTrieste) e Lucio Dalla, Claudio Baglioni e i Negramaro, Gianna Nannini e Tiziano Ferro, Luca Carboni e Ivano Fossati, la storica Pfm (in versione repertorio De Andrè) e Pino Daniele, Paolo Conte e Francesco De Gregori (che il 13 febbraio tornerà in regione, al Teatro Verdi di Pordenone, in esclusiva regionale, con il suo tour), Franco Battiato e la coppia Tozzi Masini, Enzo Jannacci e Milva.

E poi ancora Caparezza, Gianmaria Testa, gli Assalti Frontali, Gino Paoli, i Finley, gli Stadio, il vincitore dell’ultimo Sanremo Simone Cristicchi, i New Trolls (che a Trieste, in piazza Unità, l’estate scorsa hanno festeggiato una storica «reunion» e registrato un dvd che sta girando il mondo), Max Pezzali, i Negrita, Giovanni Allevi, Mario «Barry White» Biondi, gli Avion Travel, Fiorella Mannoia, Ornella Vanoni, Elio e le Storie Tese, gli Zero Assoluto, Giuliano Palma e i suoi Bluebeaters, gli Afterhours, l’Orchestra di Piazza Vittorio, ovviamente la nostra piccola grande Elisa...

Anche fra gli italiani dimentichiamo di certo qualcuno. Ma come si vede, la lista è comunque lunghissima. Ed è stata nel corso dei mesi ben distribuita fra Trieste e Udine, fra Grado e Lignano, fra Gorizia e Pordenone, fra Tarvisio e Villa Manin, fra Monfalcone e Spilimbergo... Riempiendo di volta in volta stadi, palasport, teatri, piazze, luoghi storici. Con una ricchezza e una varietà di nomi, ma anche una continuità di appuntamenti che davvero da queste parti non si erano mai registrate.

La cosa può forse sorprendere l’osservatore più distratto, quello che era abituato a una situazione da «periferia dell’impero», peraltro assai radicata in queste terre nei decenni scorsi.

Ma è una novità che non trova affatto impreparato chi da tempo ha notato l’inversione di tendenza, la svolta radicale, la felice congiuntura che è peraltro figlia di un nuovo clima di proficua collaborazione fra pubblico e privato (non possiamo non citare al proposito il fondamentale ruolo di Azalea Promotion), e che ha portato a trasformare il Friuli Venezia Giulia in una sorta di grande, ideale palcoscenico aperto quasi trecentosessantacinque giorni all’anno.

Insomma, possiamo dire che se ieri eravamo «periferia dell’impero», oggi siamo «al centro della musica».

E domani, con la storica e definitiva caduta del confine con la Slovenia ormai avvenuta e festeggiata, rischiamo di diventare una sorta di «euroregione della musica» ancora tutta da costruire ma di cui già si intravedono i contorni e le potenzialità.

Sì, perchè con Lubiana che adesso è anche psicologicamente più vicina a Trieste di Lignano o Pordenone, con Nova Gorica che diventa un’unica grande città con Gorizia (non dimentichiamo che il circuito nei casinò sloveno ospita spesso grandi nomi della musica), è chiaro che il 2008 diventa il primo anno in cui il pubblico di queste terre avrà a disposizione una scelta di spettacoli che può tranquillamente tener testa a zone in passato molto più frequentate della nostra dai circuiti della grande musica.

Il futuro è cominciato, allora. In tutti i settori. Anche quello degli spettacoli. Non rimane che contribuire a scriverlo. Si ricomincia il 5 gennaio al PalaTrieste con Nick and the Nightfly con la Montecarlo Orchestra e Sarah Jane Morris. Si prosegue il 15 gennaio al Rossetti con Dionne Warwick, il 14 febbraio al palasport di Udine con i Subsonica, il 22 febbraio al palasport di Pordenone con i Korn. E probabilmente è solo l’inizio di un’altra grande annata.

domenica 9 dicembre 2007

CELENTANO Il 6 gennaio compie settant’anni, essendo nato nel ’38 a Milano, in via Gluck, da genitori immigrati pugliesi. Sta sulle scene da oltre mezzo secolo, avendo debuttato alla fine del ’56, con uno spettacolo di rock’n’roll al Teatro Smeraldo. E nonostante ciò - o forse proprio per questo - oggi Adriano Celentano è ancora una figura di primissimo piano della scena musicale (e televisiva) di casa nostra. Tanto da ottenere da Raiuno uno show in prima serata ogni volta - guarda caso - che decide di pubblicare un disco. È successo anche stavolta, per «Dormi amore, la situazione non è buona» (Clan-SonyBmg), presentato in pompa magna la settimana scorsa, davanti a nove milioni e passa di telespettatori, sulla rete ammiraglia del malandato e scassatissimo servizio pubblico. E se il programma di quest’anno, «La situazione di mia sorella non è buona», una sola puntata, ha raccolto più perplessità che consensi, lo stesso non può dirsi per il disco, già schizzato ai vertici delle classifiche di vendita. I temi toccati dal nuovo lavoro - che arriva a tre anni di distanza dal precedente «C’è sempre un motivo» - sono l’amore, l’ambiente, l'emarginazione del Sud, la denuncia sociale, la difficoltà di essere sempre controcorrente. Tra gli autori dei dieci brani inediti, oltre alla supercoppia Mogol-Bella, che firma pure il brano di punta «Hai bucato la mia vita», ci sono anche Carmen Consoli, Domenico Modugno, Neffa, Tricarico e Jovanotti. «Ragazzo del Sud» è il titolo di un vecchio e attualissimo inedito di Modugno, risalente al ’74, mai inciso dal Mimmo nazionale. «Aria... non sei più tu» è stata scritta da Jovanotti. «Anna Magnani» - eseguita dal quintetto di Stefano Di Battista - è firmata da Vincenzo Cerami e ancora Carmen Consoli.

Il disco è uscito sia in cd che in vinile. Sulla copertina il pittore Wainer Vaccari raffigura l’ex Molleggiato nelle vesti di un aggressivo boxeur. Arrangiamenti di Celso Valli, Fio Zanotti e Michele Canova. Bel disco, da ascoltare. Di un grande interprete, oltre che un «combattente nato», con una buona squadra di autori e produttori alle spalle.

VENDITTI Un altro italiano che non si è arreso alla moda e all’imperativo delle antologie e dei cofanetti che sembra dominare questo finale di 2007 è <CF32>Antonello Venditti</CF>. Il suo «Dalla pelle al cuore» (Heinz-SonyBmg) arriva a quattro anni dal precedente «Che fantastica storia è la vita», che per la verità era un po’ deboluccio. La lunga pausa ha permesso al cantore di «Roma capoccia» di rifiatare, e queste nove canzoni nuove lo riprongono all’attenzione di pubblico e critica con le carte in regola per giocarsela. I temi, in bilico fra tradizione e novità, e con lo stile di sempre, sono quelli cari al cantautore romano: si viaggia fra l'amore e l'attualità, fra il tradimento e le riflessioni sul rapporto tra laicità e cristianesimo.

Da segnalare la canzone dedicata all'amico scomparso e calciatore della Roma Agostino Di Bartolomei («Indimenticabile»), la performance di Carlo Verdone alla batteria nella dissacrante «Comunisti al sole», e ancora il sax di Gato Barbieri in «Piove su Roma». Ma non si può non citare anche «Scatole vuote», «Giuda», «Tradimento e perdono», oltre ovviamente al brano che dà il titolo all’album e ne ha anticipato la pubblicazione. Dall’8 marzo Venditti sarà protagonista del «Dalla pelle al cuore tour 2008», con partenza dal palasport di Padova.

DE GREGORI Due cofanetti raccolti nel marasma di pubblicazioni antologiche che la discografia italiana manda sul mercato per Natale. Il primo si intitola «Left & Right - Documenti dal vivo» (Columbia-SonyBmg), comprende un cd e un dvd, ed è il nuovo lavoro di <CF32>Francesco De Gregori</CF>. Il disco è stato registrato dal vivo l’estate scorsa. Il titolo, sinistra e destra, non deve far pensare a coloriture politiche. Si riferisce infatti al suo esser stato registrato su due piste dai canali - quello di destra e di sinistra, per l’appunto - del mixer di sala. Fra le canzoni: «Numeri da scaricare», «Compagni di viaggio», «Un guanto», «Mayday», «La leva calcistica della classe '68», «L'agnello di Dio», «La donna cannone»... Il dvd, intitolato «Takes & Out Takes», contiene scene di backstage, versioni inedite e una lunga intervista realizzata da Renato Nicolini. Messo a confronto con quel che esce, e tenendo conto delle potenzialità del nostro, è decisamente poverello. Con De Gregori ci sono Stefano Parenti alla batteria, Alessandro Arianti alle tastiere, Alessandro Valle, Lucio Bardi e Paolo Giovenchi alle chitarre, Guido Guglielminetti al basso. Il tour è cominciato due settimane fa dal Malibran di Venezia, e sarà il 13 febbraio al Verdi di Pordenone.

CARBONI L’altro cofanetto è un triplo cd firmato da <CF32>Luca Carboni</CF> e si intitola «...Una rosa per te!» (Rca-SonyBmg). A un anno di distanza dal convincente «Le band si sciolgono» (il nono della sua ormai lunga carriera), il cantautore bolognese mette in fila trentasei canzoni d’amore, scritte e cantate con il suo caratteristico approccio minimalista alle cose della vita. Ognuno dei tre cd è aperto da un inedito: «C'è», che è anche il primo singolo, e poi «Dentro le scarpe» e «Canzoni alla radio». Si tratta in realtà di tre brani che Carboni aveva scritto per gli Stadio e non aveva mai inciso. Le altre canzoni sono quelle che lo hanno fatto amare dal pubblico italiano: da «Farfallina» a «Mi ami davvero», da «Fragole buone buone» a «Le ragazze», da «Ci sei perchè» a «Vieni a vivere con me»...


VASCO A settembre il mito Vasco era anche allo Stadio Friuli di Udine. A conclusione dell’ennesimo megatour che lo ha confermato sovrano incontrastato del rock italiano. Questo doppio dvd è stato registrato il 27 e 28 giugno scorsi, allo Stadio Olimpico di Roma, ovviamente tutto esaurito come le altre strutture toccate dalla tournèe. Il primo dvd è quello del concerto, con ventidue canzoni fra le più belle ed esaltanti ed emozionanti della sua carriera. Da «Basta poco» fino alla tradizionalmente conclusiva «Albachiara». Il secondo dvd comprende fra l’altro un divertente «road movie», con i protagonisti del tour immortalati dietro le quinte e durante i trasferimenti fra tappa e tappa, e le interviste ai componenti della band del Blasco.


DALIDA Ve la ricordate Iolanda Cristina Gigliotti, in arte Dalida, francese nata nel ’33 al Cairo da genitori calabresi, morta suicida vent’anni fa, nel ventennale della morte in analoghe circostanze del «suo» Luigi Tenco? È stata una delle maggiori interpreti della canzone popolare degli anni Sessanta, ha venduto qualcosa come 125 milioni di dischi. In questa raccolta ci sono ventuno canzoni che ripropongono la sua grande voce. Dagli esordi all’insegna della canzone napoletana («Bambino», del ’56, versione francese di «Guaglione») passando per gemme come «Bang bang», «L’ultimo valzer», il sirtaki «La danza di Zorba», fino a «Ciao amore ciao» e «Vedrai vedrai» di Tenco. Brava e sfortunata.

sabato 8 dicembre 2007

di Carlo Muscatello 

TRIESTE Trionfo ieri sera al PalaTrieste per Zucchero, il cui Fly World Tour 2007 è atterrato finalmente anche qui da noi, dopo aver girato mezzo mondo.

Già, perchè dopo la partenza dall’Olympia di Parigi nel maggio scorso, in questi mesi il nostro ha scorrazzato in lungo e in largo, toccando Stati Uniti, Canada, America Latina e vari paesi europei. Il tour è arrivato quasi alla fine - sarà domani al Palaverde di Treviso e sabato a Padova - e dunque lo spettacolo è rodato al punto giusto.

Ore ventuno e quindici. Irene Fornaciari, che ha accompagnato papà in questo tour, stasera non è della partita. Allora il sipario argentato si alza giusto un pezzetto, per far apparire l’Adelmo, cappellaccio in testa, chitarra in braccio, assiso su una sorta di trono di velluto rosso, da vero re del blues. Comincia a cantare «Dune mosse» (da «Blue’s», dell’87), melodia sublime che fu capace di stregare persino Miles Davis. Si alza il resto del sipario e rivela una band coi controfiocchi nella quale spicca David Sancious, già membro della E Street Band di Springsteen, ma anche compagno d’avventure di Santana, Sting, Peter Gabriel, Eric Clapton...

In alto, al centro, fa bella mostra di sé un’enorme riproduzione del «moscone geneticamente modificato» che fa da logo al tour e al disco «Fly», uscito l’anno scorso, un milione e mezzo di copie vendute in tutto il mondo. Ai lati della struttura metallica che regge tutta la baracca, due schermi ovali incorniciati come quei vecchi specchi di una volta: un tocco di originalità in più, che ben si sposa con i lampadari di cristallo, il fondale con le canne d’organo, le lamiere ondulate, le divise da marchin’ band dei musicisti, il caos del palco che rimanda a una taverna sul Mississippi, o a una ballroom della New Orleans di tanti anni fa.

Dopo «Occhi» e «Quanti anni ho» (dal citato «Fly»), Zuccherone nostro si alza in piedi e attacca «Bacco perbacco»: sembra il segnale convenuto, il treno del blues sta partendo, la gente si alza in piedi e comincia a ballare. Danza che prosegue con «Un kilo» e «Cuba libre», ma si prende una pausa con «Il volo» (stava in «Spirito DiVino», del ’95) e con quell’altra perla che risponde al titolo di «Diamante». Qui, e sono ormai quasi le ventidue, ci scappa un «Ehi, Trieste...!» che manda in brodo di giuggiole quelli che aspettavano solo una sua parola.

Poco più tardi, dopo le atmosfere soft di «Così celeste», il treno riparte per non fermarsi quasi più: «Baila», «Overdose d’amore», «Il mare», «Senza una donna»... È un viaggio che profuma di blues, soul, gospel, di anni Sessanta e Settanta, l’epoca migliore per chi non ha smesso di amare questa musica. Da un passato lontano quarant’anni arriva anche «Nel così blu», versione italiana firmata da Zucchero e Pasquale Panella del classico dei Procol Harum «A salty dog». Il nostro avrebbe voluto scriverla lui - dice - ma per consolarsi l’ha inserita nell’antologia fresca di pubblicazione «All the best».

«Con le mani» e «Solo una sana e consapevole libidine» scivolano via senza soluzione di continuità. «Diavolo in me» ha il compito ingrato di fingere la chiusura della serata. Ciao, grazie Trieste, ma la gente non ne vuol sapere e stavolta ha proprio ragione. Stasera i bis non sono una consuetudine ma una necessità. Ecco allora «Hey man», che ci riporta ancora sulle rive del Mississippi. E poi arriva il momento di «un amico che non c’è più». Il duetto virtuale di «Miserere», con Pavarotti che ci sorride dai due schermi ovali, lassù, poteva essere una cosa di cattivo gusto, roba da rovinare una bella serata, e invece tutto sommato ci sta. La gente lo capisce e lo saluta con un’ovazione. Tanto da meritare poi altro blues, con «Per colpa di chi».

Gran concerto, davvero. Il migliore fra quelli portati in giro dal nostro bluesman da esportazione in tutti questi anni.

lunedì 3 dicembre 2007

Il titolo originale, «Playing for pizza», giocare per la pizza, forse è più azzeccato. E rende meglio l’idea ma anche l’atmosfera che si respira fra le pagine del nuovo romanzo di John Grisham, intitolato in italiano «Il professionista» (Mondadori, pagg. 286, euro 18), titolo che invece fa pensare magari a un killer prezzolato e che rimanda ai tanti precedenti best seller dello scrittore dell’Arkansas («Il socio», «Il cliente», «Il partner»...).

Il re del legal thriller molla il genere che l’ha reso ricco e famoso (non è la prima volta: l’aveva già fatto in «L’allenatore» e in «Fuga dal Natale») e ambienta per la seconda volta una sua storia in Italia: era già successo con «Il broker», ambientato soprattutto a Bologna, ma nel quale era citata anche la friulana Aviano.

La storia. Rick Dockery è ormai un’ex promessa del football americano, con tre commozioni cerebrali per mille incidenti in campo. Un quarterback cui è sempre mancato quel tocco (anche di fortuna) in più per diventare un grande giocatore. Una sera fa di peggio: entra in campo con la propria squadra in vantaggio e riesce a rovinare la partita con quella che sarà descritta come la peggior performance nella storia del football professionistico. Esce in barella, si sveglia in un letto d'ospedale, e scopre che la sua squadra lo ha licenziato e che è diventato lo zimbello dei tifosi inferociti, oltre che di giornalisti carogna come tale Charles Cray, che sul «Post» ha suggerito di nominarlo «il più grande cane di tutti i tempi».

La tentazione di mollare tutto è assai forte. Ma giocare a football è l'unica cosa che Rick sa fare. Chiede allora al suo agente di trovargli un ingaggio qualsiasi, giusto per andare avanti, per aspettare che passi la nottata. E l’unico posto disponibile è in Italia, dove il football americano si svolge a livello dilettantistico, nella squadra dei Panthers Parma.

C’è che il ragazzo non sa nemmeno dove si trovi Parma. Tuttavia parte, accetta un ingaggio misero rispetto agli standard americani, con la speranza di tornare negli States il più presto possibile. Trova una squadra dopolavoristica, dove «si gioca per la pizza» (e per la birra...), e dove lui è l’unico giocatore che viene pagato.

Subito scopre una città a misura d’uomo, la buona tavola, il parmigiano, il buon vino, i tempi rilassati, le piazze, i vicoli... Impara la lingua ma anche a parcheggiare auto piccolissime in parcheggi sul filo dei centimetri, va all’opera, visita palazzi e chiese e castelli, prende una sbandata per una cantante lirica ma poi s’innamora di una studentessa americana in fuga dagli Stati Uniti e dalla famiglia. E nel frattempo conduce la sua squadra in un’impresa che all’inizio sembrava disperata...

L'ispirazione per il libro è venuta a Grisham mentre si trovava a Bologna a fare ricerche per «Il broker». Un giorno, durante la visita della città, pare abbia fatto amicizia con la guida, un ragazzo di un metro e novanta, che gli ha raccontato di essere un giocatore di football americano. La sua squadra era quella dei Panthers di Parma e il compenso per ogni partita disputata era una pizza a fine partita.

Per documentarsi, Grisham è stato a Parma nell’aprile del 2006. Ha parlato con l’allenatore e i giocatori dei Panthers (che esistono per davvero), ha mangiato nelle trattorie e nei ristoranti della città, è andato al Teatro Regio, ospite del sindaco, a vedere l’opera...

Nel romanzo non c’è suspense, il finale - che pur rimane in sospeso - è facilmente intuibile, ma Grisham mantiene quella rara capacità di tenere in pugno il lettore fino all’ultima pagina. Di questi tempi, non è da tutti.
Il titolo originale, «Playing for pizza», giocare per la pizza, forse è più azzeccato. E rende meglio l’idea ma anche l’atmosfera che si respira fra le pagine del nuovo romanzo di John Grisham, intitolato in italiano «Il professionista» (Mondadori, pagg. 286, euro 18), titolo che invece fa pensare magari a un killer prezzolato e che rimanda ai tanti precedenti best seller dello scrittore dell’Arkansas («Il socio», «Il cliente», «Il partner»...).

Il re del legal thriller molla il genere che l’ha reso ricco e famoso (non è la prima volta: l’aveva già fatto in «L’allenatore» e in «Fuga dal Natale») e ambienta per la seconda volta una sua storia in Italia: era già successo con «Il broker», ambientato soprattutto a Bologna, ma nel quale era citata anche la friulana Aviano.

La storia. Rick Dockery è ormai un’ex promessa del football americano, con tre commozioni cerebrali per mille incidenti in campo. Un quarterback cui è sempre mancato quel tocco (anche di fortuna) in più per diventare un grande giocatore. Una sera fa di peggio: entra in campo con la propria squadra in vantaggio e riesce a rovinare la partita con quella che sarà descritta come la peggior performance nella storia del football professionistico. Esce in barella, si sveglia in un letto d'ospedale, e scopre che la sua squadra lo ha licenziato e che è diventato lo zimbello dei tifosi inferociti, oltre che di giornalisti carogna come tale Charles Cray, che sul «Post» ha suggerito di nominarlo «il più grande cane di tutti i tempi».

La tentazione di mollare tutto è assai forte. Ma giocare a football è l'unica cosa che Rick sa fare. Chiede allora al suo agente di trovargli un ingaggio qualsiasi, giusto per andare avanti, per aspettare che passi la nottata. E l’unico posto disponibile è in Italia, dove il football americano si svolge a livello dilettantistico, nella squadra dei Panthers Parma.

C’è che il ragazzo non sa nemmeno dove si trovi Parma. Tuttavia parte, accetta un ingaggio misero rispetto agli standard americani, con la speranza di tornare negli States il più presto possibile. Trova una squadra dopolavoristica, dove «si gioca per la pizza» (e per la birra...), e dove lui è l’unico giocatore che viene pagato.

Subito scopre una città a misura d’uomo, la buona tavola, il parmigiano, il buon vino, i tempi rilassati, le piazze, i vicoli... Impara la lingua ma anche a parcheggiare auto piccolissime in parcheggi sul filo dei centimetri, va all’opera, visita palazzi e chiese e castelli, prende una sbandata per una cantante lirica ma poi s’innamora di una studentessa americana in fuga dagli Stati Uniti e dalla famiglia. E nel frattempo conduce la sua squadra in un’impresa che all’inizio sembrava disperata...

L'ispirazione per il libro è venuta a Grisham mentre si trovava a Bologna a fare ricerche per «Il broker». Un giorno, durante la visita della città, pare abbia fatto amicizia con la guida, un ragazzo di un metro e novanta, che gli ha raccontato di essere un giocatore di football americano. La sua squadra era quella dei Panthers di Parma e il compenso per ogni partita disputata era una pizza a fine partita.

Per documentarsi, Grisham è stato a Parma nell’aprile del 2006. Ha parlato con l’allenatore e i giocatori dei Panthers (che esistono per davvero), ha mangiato nelle trattorie e nei ristoranti della città, è andato al Teatro Regio, ospite del sindaco, a vedere l’opera...

Nel romanzo non c’è suspense, il finale - che pur rimane in sospeso - è facilmente intuibile, ma Grisham mantiene quella rara capacità di tenere in pugno il lettore fino all’ultima pagina. Di questi tempi, non è da tutti.

domenica 25 novembre 2007

Si va verso Natale e sembra che la discografia guardi soltanto al passato, al già sentito: antologie, raccolte, cofanetti doppi e tripli, cd e dvd... Quest’anno più ancora che in passato, a dimostrazione di una tendenza a raschiare il fondo del barile ormai radicata e che non sembra avere fine. Pochi si sottraggono all’andazzo generale. Alcune pubblicazioni hanno l’unico pregio di raccogliere in un unica raccolta il meglio di un artista, con l’aggiunta magari di un paio di inediti. Altre vanno a cercare e propongono anche la rarità, il tassello che mancava in una storia conosciuta. Ma prima di arrenderci all’andazzo, e segnalare anche in questa pagina alcuni cofanetti degni di nota, spazio a tre artisti che invece sono appena usciti con materiale inedito...


Con «Songs in A minor» (2001) e «The diary of Alicia Keys» (2003), l’ex ragazzina cresciuta in uno dei quartieri più poveri di New York, Hell's Kitchen, ha venduto qualcosa come trenta milioni di dischi in pochi anni. «As I am» (SonyBmg) è il suo terzo album in studio (due anni fa è uscito un «Unplugged») e la conferma regina incontrastata del new soul, stante l’inaffidabilità della pur fascinosa Amy Winehouse.

Alicia Keys - vero nome Alicia Augello Cook, madre di origini italiane, 28 anni a gennaio - spazia fra soul e jazz, sforna ballad appassionate, citando atmosfere anni Settanta e lasciandosi andare a qualche puntata nell'hip hop e persino nella musica classica. «No one», primo singolo del disco, sembra un inno alla felicità e alla pace. Altri brani da segnalare «The thing about love» (anticipata al Live Earth dell’estate scorsa), «Sure looks good to me» e «Superwoman».

Da New York a Roma, restando fra grandi voci femminili, per parlare del nuovo disco di Giorgia, intitolato «Stonata» (SonyBmg). Che poi se c’è una cantante italiana che sembra dotata dell’orecchio assoluto, e dunque è tutto fuorchè stonata, questa è proprio la trentaseienne Giorgia Todrani. Dai trionfi sanremesi ormai sono passati più di dieci anni, e non sempre la ragazza ha saputo mettere a frutto le sue indubbie e grandi doti vocali.

Ce la fa forse proprio con questo disco, che arriva a quattro anni dal precedente (e incerto) «Ladra di vento». Una manciata di inediti, aperti da «Parlo con te» (che è anche il primo singolo del disco), e fra cui spiccano la partecipazione quasi rap di Beppe Grillo a «Libera la mente» e soprattutto il duetto (a distanza: ognuna nel suo studio di registrazione...) con Mina in «Poche parole». E c’è anche la chitarra del vecchio amico Pino Daniele in «Anime sole».

Finale con un maschietto, anzi, con l’ultimo orgoglioso maschietto della canzone italiana. Il professor Roberto Vecchioni lascia finalmente perdere Malindi e gli altri riempitivi che ci ha proposto quando l’ispirazione non era evidentemente al massimo, per tornare a quel che sa fare: cantare la vita e l’amore senza dimenticare le frequentazioni letterarie. «Di rabbia e di stelle» (Universal) è il suo nuovo album: tredici canzoni che nascono dal rifiuto della realtà circostante. «Non ne posso più delle mediocrità, delle vallette, di certi mass media, di dibattiti inutili», dice Vecchioni. Vecchia voce, nuove melodie, la magia di sempre. Fra i brani brillano «Non lasciarmi andare via», «Amico mio» e «Comici spaventati guerrieri».


LUCIO BATTISTI «Devo la mia fortuna all’aver creduto in un pazzo, mi disse un giorno Lucio. E quel pazzo ero io...». Parole di Mogol. E Lucio è ovviamente Battisti, la cui prematura scomparsa, il 9 settembre del ’98, ha reso immortale il suo mito. Il mito del massimo artista pop della musica italiana, che torna nel cofanetto «Battisti-Mogol. Il nostro canto libero» (SonyBmg).

Due cd e un dvd (con un’intervista a Mogol da cui la frase citata...) che vanno a pescare in un repertorio già consegnato alla storia della nostra canzone. Nei cd ci sono trenta canzoni, praticamente il meglio della sua produzione dal ’69 all’80: da «29 settembre» e «Un'avventura», fino a «Una giornata uggiosa». Con in coda due inediti. Il primo è «Perché dovrei», malinconico rhythm’n’blues scritto nel ’70 e destinato inizialmente al debutto della cantante Sara, che poi esordì invece con un altro brano della coppia, «Uomini». Si pensava che Battisti lo non avesse mai registrato, poi è sbucato questo provino abbastanza spartano, con il giro del basso in primo piano a sostenere la struttura del brano. L’altro inedito, «Il mio bambino», era stato cantato da Iva Zanicchi nell’album «Fantasia» del ’72. Entrambi i brani hanno un valore perlopiù documentale.

Il dvd è il primo di Battisti e attinge a piene mani dalla celebre puntata di «Speciale per voi» di Renzo Arbore (1970), con un Battisti polemico nei confronti del pubblico in sala, che sforna quattro capolavori come «Per una lira», «Io vivrò (senza te)», «Il tempo di morire» e «Fiori rosa fiori di pesco». Da altri programmi dell’epoca sono tratte «Pensieri e parole», «I giardini di marzo», «Anna», «Balla Linda», «Non è Francesca»...

Da segnalare, tra i contenuti extra, una «Proud Mary» dei Creedence Clearwater Revival cantata da Battisti con gli amici dell’epoca: Flora Fauna e Cemento (con Mario Lavezzi), Formula 3, Dik Dik, Adriano Pappalardo, Bruno Lauzi, un esordiente Edoardo Bennato all'armonica...


LED ZEPPELIN Loro «sono» il rock degli anni Settanta. Come sanno bene quelli che erano ragazzi allora. E in attesa della storica reunion, attesa per il 10 dicembre a Londra, esce questa raccolta con 24 brani degli anni fra il ’68 e l’80. Nella versione deluxe c’è anche un dvd con diciannove tracce video. I classici ci sono tutti: da «Heartbreaker» a «Stairway to heaven», fino a «Immigrant song». E risentirli rimasterizzati aiuta a comprendere la grandezza della band. Di cui è stata appena pubblicata anche la versione restaurata di «The song remains the same», ovvero tre serate al Madison Square Garden di New York nel ’73, con l’aggiunta di sei brani che non stavano nell’originale. Sì, è l’anno dei Led Zeppelin...


RINO GAETANO Complice la fiction recentemente trasmessa dalla Rai, il grande pubblico sta riscoprendo Rino Gaetano, scomparso a trentuno anni in un incidente stradale nel 1981. Questa nuova edizione del cofanetto (trenta canzoni, foto, interviste...), a pochi mesi da quella curata dalla giornalista Maria Laura Giulietti, nasce dopo il ritrovamento di quattro inediti. Il primo è «Sandro trasportando», scritto da Rino ed Eugenio Gandaleta, vecchio 45 giri oggi introvabile. Altre due canzoni sono invece interpretate dal cantautore nato a Crotone e da Anna Oxa: «Ad esempio a me piace il sud» e una personale versione de «Il leone e la gallina» di Lucio Battisti. Video inedito di «Mio fratello è figlio unico» voce e chitarra.

giovedì 22 novembre 2007

di Carlo Muscatello


TRIESTE Un paio di settimane fa abbiamo incrociato Vittorio De Scalzi all’aeroporto romano di Fiumicino. Era diretto, assieme a Nico De Palo e agli altri New Trolls, a Bari per un concerto. E non aveva dimenticato la bella serata triestina dell’agosto scorso, in piazza Unità.

«È stata veramente una grande emozione - ci ha detto in quell’occasione il musicista - riunire dopo tanti anni il gruppo in una piazza così piena di fascino. Siamo anche molto soddisfatti dei suoni e delle immagini che abbiamo registrato in quell’occasione, noi e  l’Orchestra San Marco di Pordenone diretta da Stefano Cabrera, con ospite il soprano Barbara Vignudelli».

«Come preannunciato - confermò quella volta De Scalzi - da quella serata triestina verrà fuori un cofanetto, completo di dvd, che è molto atteso dai nostri fan giapponesi. Siamo stati recentemente in Estremo Oriente, e non ci crederete, ma laggiù i New Trolls, soprattutto fra i giovanissimi, sono più popolari che in Italia...».

Ebbene, ladies and gentlemen, il momento è arrivato. Esce infatti oggi «Concerto Grosso - New Trolls - Trilogy Live», cofanetto con due cd e un dvd, comprendente la trilogia completa: il fondamentale «Concerto Grosso per New Trolls» del 1971 (quello scritto da Luis Bacalov, futuro Premio Oscar, da un’idea di Sergio Bardotti), il meno importante «Concerto Grosso n.2» pubblicato nel 1976 e il recente «Concerto Grosso - New Trolls - The Seven Seasons», uscito quest’anno per «festeggiare» la reunion fra i due tronconi, anzi, le due anime del gruppo, da sempre rappresentate dai suddetti De Scalzi e Di Palo, che per anni si sono guardati storto, prima di ricominciare esattamente dal punto in cui la loro collaborazione si era interrotta.

La pubblicazione di «Concerto Grosso», trentasei anni fa, fu molto importante nel panorama della musica italiana dell’epoca. Qualcuno dice che il pop italiano sia nato da lì. I New Trolls avevano già sperimentato la formula del «concept album» (un unico tema su cui ruota tutto il disco) con «Senza orario senza bandiera», su testi del grande Fabrizio De Andrè, genovese come loro. Ma «Concerto Grosso», con la marcata impostazione sinfonica, e con quell’idea di trasporre in rock la formula del Seicento, consistente in un piccolo gruppo di solisti su un palco assieme all’orchestra per dar vita a una sorta di botta e risposta, fu il vero elemento di rottura fra passato e futuro, il crinale del cambiamento non più rinviabile.

Risentirlo in piazza dell’Unità, l’estate scorsa, e ora in questo cofanetto, è emozionante: un magistrale connubio tra melodia classica e pop-rock sinfonico, in bilico fra passato e presente, fruibile dai ragazzi di ieri e da quelli di oggi.

Il cofanetto propone anche due «bonus track»: sia nel dvd che nel cd c’è «In St. Peter’s Day» (tratto dall’album «Searching for a land», del ’76), nel solo cd c’è anche «Dance with the rain», da «Concerto Grosso - The seven seasons», con ospite Sarah Jane Morris.

Nel concerto triestino, e dunque anche nella trilogia che esce oggi, la formazione dei New Trolls vede schierati - oltre a Vittorio De Scalzi (tastiere, chitarra, flauto e voce) e Nico De Palo (tastiere e voci: la chitarra non la suona più dopo il gravissimo incidente automobilistico che una decina d’anni fa gli fece rischiare la vita) - Alfio Vitanza alla batteria, Andrea Maddalone e Mauro Sposito alle chitarre, Francesco Bellia al basso.

domenica 11 novembre 2007

LIGA «Niente paura, niente paura, niente paura ci pensa la vita, mi han detto così...». Versi quasi ottimisti che le radio stanno pompando incessantemente ormai da un paio di settimane. Sono quelli del singolo che anticipa il nuovo album di Ligabue, intitolato «Ligabue - Primo tempo», il primo dei due «best» del rocker di Correggio, atteso per il 16 novembre. Intanto il nostro dimostra a se stesso e allo show business italiano di essere l’unica alternativa a Vasco, sul versante dei grandi numeri. Ha infatti già incassato il tutto esaurito in prevendita per tutti e quattordici i concerti che terrà tra il Palalottomatica di Roma (da sabato 17 al 26 novembre) e il DatchForum di Assago, Milano (dal 12 al 21 dicembre). Oltre 150 mila i biglietti venduti per il Liga dal vivo. L’album ripercorre la sua storia musicale, dal disco d’esordio «Ligabue» (1990) a «Buon compleanno Elvis» (1995), con brani ormai storici come «Balliamo sul mondo», «Libera nos a malo» e «Quella che non sei». «Ligabue - Secondo tempo», atteso per maggio, andrà invece da «Su e giù da un palco» (1997) all’ultimo «Nome e Cognome» (2005).

Oltre a «Niente paura», questo primo disco - completo di dvd con tutti i videoclip - comprende anche un altro inedito, «Buonanotte all’Italia», che si inserisce nel solco delle grandi ballate che hanno fatto grande Ligabue. Le canzoni del passato sono state riportate a nuova vita grazie alla sapiente masterizzazione di Ted Jensen (tra i migliori tecnici al mondo di mastering) allo Sterling Studios di New York.

«Non nego che ho fatto il ”best of” perchè previsto dal contratto con la Warner - ha detto l’artista - ma mi piace averlo realizzato solo dopo tanti anni di storia personale. E poi è utile fare i conti con quello che la gente ha sentito più vicino a sé e vedere se regge l'urto del tempo, verificando anche le ingenuità che si erano commesse. Ed è bello sentire, ora con le nuove tecnologie, i suoni ancora forti e chiari anche perchè io non riascolto mai i miei dischi. Comunque non è stato cambiato nulla...».

Per quanto riguarda invece i concerti che avranno il via sabato a Roma, si tratta del suo ritorno dal vivo dopo il «Nome e Cognome Tour 2006», cominciato nei club, proseguito nei palasport e negli stadi, terminato nei teatri, che ha fatto tappa anche a Trieste.




DE ANDRE' & PFM Da una grande raccolta di oggi alla ripubblicazione di uno storico «live» doppio di tanti anni fa. Era il gennaio 1979, prima a Firenze e poi a Bologna s’incontrarono Fabrizio De Andrè e la Pfm. Ovvero il grande poeta genovese, lo chansonnier più libero della nostra epoca, e la band italiana di punta del rock italiano degli anni Settanta. «Fabrizio De Andrè & Pfm in concerto» (SonyBmgRicordi) ritorna dunque a ventotto anni dalla pubblicazione - allora naturalmente in vinile - del primo disco (il secondo uscì nell’80, e in mezzo, nell’agosto ’79, ci fu il drammatico rapimento di De Andrè e Dori Ghezzi in Sardegna) e continua a fare la sua gran bella figura. Erano tempi in cui il cantautore era quello chitarra e voce (rare le eccezioni) e l’armamentario rock era lasciato ai gruppi. Quell’incontro aprì la strada alle collaborazioni e alle contaminazioni tra il pop/rock e la canzone d'autore. Diciotto brani («Bocca di rosa», «La guerra di Piero», «La canzone di Marinella», «Amico fragile», «Sally», «Rimini», «Via del Campo»...), che grazie ai nuovi missaggi e alle nuove tecniche digitali, brillano oggi più di allora.


EROS Pensate: Eros Ramazzotti ha realizzato anche due duetti inediti, con Annie Lennox e con Shakira. Ma non li ha inseriti in questo disco. Chissà, forse nel prossimo... Una curiosità che ci permette di comprendere a che livello stiamo, con questo «e2» (SonyBmg), raccolta doppia di successi con aggiunta di inediti e riletture assieme a gente del calibro di Carlos Santana («Fuoco nel fuoco»), Steve Vai, Chieftains...

Il primo disco comprende quattro inediti e quattordici successi in versione originale rimasterizzata (le canzoni più vecchie sono state recuperate dai nastri originali); il secondo comprende diciassette successi rivisitati da Ramazzotti insieme a grandi artisti del panorama musicale italiano e internazionale

«Musica è» sembra quasi epica grazie a Gian Piero Reverberi e alla London Session Orchestra, «Dolce Barbara» diventa struggente nella versione piano-voce del jazzista Dado Moroni, «Il buio ha i tuoi occhi» sfoggia un'atmosfera cubana con i Rhythm Del Mundo.

E ancora «Un attimo di pace» rinasce col coro gospel a cappella dei Take 6, «Un'emozione per sempre» si tinge di folk con gli irlandesi Chieftains, «Dove c'è musica» vira in rock con la chitarra di Steve Vai, «Taxi story» si arricchisce delle sonorità newyorkesi di Jon Spencer...

Fra gli inediti, brilla il duetto con Ricky Martin in «Non siamo soli», brano di apertura, scelto anche come singolo di lancio. Ma anche l'autobiografico «Ci parliamo da grandi», dove Eros immagina cosa proverà quando la figlia Aurora sarà grande e lui dovrà «lasciarla libera di volare con le sue ali».  E ancora «Il tempo tra noi», che parla del sentimento che resiste anche quando la storia è finita.

Fra gli altri titoli: «Terra promessa», «Una storia importante», «Adesso tu», «Se bastasse una canzone», «Cose della vita» (duetto con Tina Turner), «Un’altra te», «Più bella cosa»...


GABER Secondo appuntamento con la monografia dedicata all’artista milanese di origini triestine, scomparso il primo gennaio 2003, dopo il cofanetto dello scorso anno dedicato agli anni '60. Libro e dvd documentano gli anni del passaggio al teatro. Nel ’70 matura infatti la scelta di abbandonare la televisione e il successo commerciale a favore del teatro, accogliendo l’invito di Paolo Grassi del Piccolo Teatro di Milano. Nasce il «Signor »G e con lui il Teatro Canzone, con spettacoli come «Il signor G», «Far finta di essere sani» e «Anche per oggi non si vola». Fa parte dell'antologia anche il duetto del 1972 con Mina, in televisione, a «Teatro 10».


PATTY Si parte nell'unico modo possibile: con «Ragazzo triste», cover di «But you are mine» di Sonny Bono, testo italiano di Gianni Boncompagni. La canzone che lanciò Nicoletta Strambelli, in arte Patty Pravo, nella versione televisiva della popolare trasmissione «Scala Reale», del 1966. Si prosegue con «Se perdo te», «La bambola», «Il paradiso», «Pazza idea», «Pensiero stupendo», per arrivare alle cose più recenti. Sono passati quarant’anni, l’ex ragazza del Piper è una signora, ma per tanti rimane sempre l’icona della rivoluzione beat. Trasgressiva, anticipatrice, camaleontica, inafferrabile, ingestibile, sempre e comunque diva. Un percorso artistico straordinario, il suo, che torna in questo cofanetto.

sabato 10 novembre 2007

TRIESTE Beh, quel che salva Ornella Vanoni, oltre alla gran voce, è decisamente l’autoironia. Prendete ieri sera, in un Politeama Rossetti impietosamente mezzo vuoto - o mezzo pieno, a seconda dei punti di vista - per il debutto del suo tour teatrale intitolato «Una bellissima ragazza» proprio come il nuovo album, il primo di canzoni inedite dopo una decina d’anni.
Presentando l’ultimo bis la grande signora della canzone italiana (classe 1934) farfuglia: «Mi vorrei accomiatare con... no, sa di antico... Allora mi vorrei ritirare con...». E prosegue: «Neanche, mi ricorda la mia ginecologa, ops, la mia foniatra che mi visita e mi dice: signora, per una gola come la sua non c’è casistica. Alla sua età o sono morti o si sono ritirati...». Sorrisi sul palco e in platea, e lei infila con noncuranza l’ennesima bella canzone della serata, «L’azzurro immenso», scritta con Sergio Cammariere.

Poca gente, si diceva, ed è un peccato, perchè lo spettacolo è di qualità. Scenografia teatrale, elegante ed essenziale. Sulla destra una sorta di gabbia bianca «contiene» i musicisti (l'argentino Natalio Luis Mangalavite al pianoforte, Luca Scarpa al pianoforte e alle tastiere, Michele Ascolese alle chitarre, Dino D'Autorio al basso, Roberto Testa alla batteria, Carlo di Francesco alle percussioni), sulla sinistra alcuni specchi e quattro gradoni su cui sono ammonticchiati degli enormi sacchi bianchi, dai quali la cantante estrae coloratissimi foulard. A rappresentare altrettanti amori, passioni, sentimenti.

Ornella canta l’amore, nello spettacolo come nel nuovo disco, né potrebbe essere altrimenti. La forza del recital sta nel fatto che le canzoni nuove, quelle che il pubblico conosce poco, non sfigurano al fianco dei classici di una vita e di una carriera ormai lunghe. «Una bellissima ragazza», «Dolce meccanica», «La vita che mi merito» (parole di Renato Zero) tengono insomma botta anche se vengono alternate con cavalli di battaglia datati come «Uomini», «Ho capito che ti amo» (splendida, per pianoforte e voce, con accoglienza timidina che la fa sbottare così: «Lo so che voi triestini siete un po’ freddi, anche quando applaudite, sù, coraggio...»), «Questa notte c’è», «La voglia la pazzia» (che stava nell’album del ’76 con Vinicius de Moraes e Toquinho)...

Secondo tempo. Cambio d’abito. Si riparte con un capolavoro assoluto della canzone italiana come «Insieme a te non ci sto più», scritto da Paolo Conte per Caterina Caselli nel ’68. Si prosegue con altri brani del nuovo disco («Cosa m’importa», «Gli amanti», «E del mio cuore», «Buona vita», «Pagine»...), la classicissima «Rabbia libertà fantasia», e ancora una canzone del 1968: quella «Canzone per te» con cui l’istriano Sergio Endrigo e il brasiliano Roberto Carlos vinsero Sanremo. Di nuovo versione pianoforte e voce, essenziale, dolente, quasi da antologia.

Si scivola verso il finale. Ornella molla i tacchi su cui si è costretta per tutta la serata e respira finalmente a piedi nudi. Sembra anche più rilassata. Non è una grande raccontatrice di aneddoti, ma più si va avanti e meno si impappina. Parlando, of course, perchè quando canta non ce n’è per nessuno...

Ecco allora un’antica «Senza paura», di Vinicius, quello che diceva sempre: «Ci hanno messo su questa terra, ma hanno dimenticato di darci il libretto per le istruzioni...». Ecco le immortali «Che cosa c’è» e «Una ragione di più», rispettivamente del ’63 e del ’69, ma emozionanti come allora.

Poi i bis, fra cui «Domani è un altro giorno», con la gag di cui si diceva all’inizio. Ornella saluta e ringrazia, ma ha ancora un sacco di voglia di parlare, ora che si è sciolta. Racconta allora di quanto le piace Trieste, del mare che lei ha trovato sempre calmo, di Strehler che la portava in quella tale pasticceria a mangiare lo strudel... Successo caloroso, peccato per le tante file vuote.

martedì 6 novembre 2007

di Carlo Muscatello


Enzo Biagi era il prototipo del giornalista, anzi, del cronista che non esiste (quasi) più. Quello che va, vede, ascolta, chiede, tenta di comprendere, e solo allora riferisce e spiega ai lettori o ai telespettatori. Quello che non urla, non insulta, non cerca il clamore. Quello che rifugge i toni scandalistici, che evita il cattivo gusto come fosse la peste. Quello delle vecchie regole del giornalismo anglosassone, le mitiche «cinque w» (who, what, why, when, where, ovvero chi, che cosa, perchè, quando, dove), che si continuano a insegnare agli aspiranti giornalisti ma si stentano a reperire in tante cronache dei nostri scassati giornali.

Biagi ha raccontato per quasi settant’anni l’Italia, gli italiani, la vita della gente, le cose e le persone che lo circondavano. L’ha fatto con sincerità, onestà professionale, ma soprattutto rispetto per le persone. Credendo in questo mestiere bello e dannato. Per questo piaceva alla gente ma non al potere politico, che in epoche diverse l’ha ostacolato.

«Nella Bibbia - ricordava spesso - si trova quella che a mio parere è la miglior domanda che sia mai stata posta. Dio, che sa perfettamente quel che è successo, chiede a Caino, reduce dall’omicidio di Abele, “dov’è tuo fratello?”. Ecco, io credo di essere un discreto intervistatore perché mi limito a fare le domande che lettori o telespettatori farebbero se si trovassero al mio posto».

Ancora: «Non ho mai approvato le cosiddette domande provocatorie. Colui che chiede a una madre che ha appena saputo dell’assassinio del figlio cosa prova non è un giornalista, è un deficiente. D’altronde nello sforzo di apparire super-intelligenti si può ottenere il risultato di sembrare stupidi...».

Il vecchio maestro, con quell’arietta dimessa che celava un carattere tostissimo, la figura dello stupido non l’ha fatta mai. Tantomeno quando il 18 aprile 2002 Berlusconi, all’epoca presidente del consiglio, a conclusione di una visita di stato in Bulgaria, a Sofia, se ne venne fuori con quello che sarebbe passato alla storia recente del nostro povero Paese come «l’editto bulgaro».

«Ho già avuto modo di dire - sibilò quella volta il premier, dinanzi a duecento giornalisti internazionali perlopiù allibiti - che Santoro, Biagi e Luttazzi hanno fatto un uso criminoso della televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti: credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza Rai di non permettere più che questo avvenga».

Povero Enzo. Lui, liberale vecchio stampo, di moderate idee di sinistra (diceva: «sono un socialista senza partito»), accomunato dalla foga berlusconiana al tribuno di «Sciuscià» (la trasmissione condotta all’epoca da Santoro) e al dissacratore di Satyricon (il programma nel quale Luttazzi aveva ospitato Marco Travaglio per parlare di un libro di cui non si doveva parlare).

La sua vera colpa, agli occhi del Cavaliere - che oggi si unisce al coro unanime del cordoglio e della stima post mortem -, era stata quella di aver dato ampio spazio, in una delle 814 puntate de «Il fatto», prima delle elezioni politiche del 2001, al diavoletto Benigni che ovviamente non ci era andato leggero, sugli argomenti di attualità politica ed elettorale del momento. Zac... L’uomo di Arcore - che nell’86 aveva tentato senza successo di ingaggiarlo per le sue reti tv - se l’era legata al dito. E alla prima occasione aveva presentato il conto.

Conto salato, soprattutto per lui. Sì, perchè quando escludi dal video una persona di ottantadue anni, con tutta evidenza l’effetto è molto diverso da quello ottenuto con chi ha aspettative di vita più ampie.

Che vita, comunque, quella dell’uomo nato nel 1920 (coetaneo dunque di Papa Woityla e di Carlo Azeglio Ciampi) a Pianaccio, paesino sull'Appennino bolognese, frazione di Lizzano in Belvedere. Dove vive fino ai nove anni, quando la famiglia si trasferisce a Bologna, al seguito del padre Dario che lavorava come magazziniere in uno zuccherificio.

Pare che l’idea di diventare giornalista, al ragazzo, fosse nata dopo aver letto «Martin Eden» di Jack London. Tanti anni dopo avrebbe ammesso: «Ho sempre sognato di fare il giornalista, lo scrissi anche in un tema alle medie: lo immaginavo come un ”vendicatore” capace di riparare torti e ingiustizie. Ero convinto che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo».

Intanto il ragazzo studia all'istituto tecnico, con i compagni di scuola dà vita a un giornalino studentesco, «Il Picchio», che si occupa soprattutto di vita scolastica ma viene comunque soppresso dal regime fascista. La mamma, che aveva la terza elementare, gli aveva detto: «Non devi mai dire bugie». Lui la prende alla lettera. Di più: ne fa il manifesto programmatico della sua vita professionale.

Che comincia presto. A diciassette anni, nel ’37, pubblica il primo articolo sull’Avvenire, quotidiano al quale collabora per un paio d’anni, prima di venir assunto giovanissimo, nel ’40, al «Carlino Sera», versione serale del Resto del Carlino. Primo incarico: estensore di notizie, ovvero colui che nei giornali di allora si occupava di scrivere gli articoli sulla base delle notizie portate in redazione dai cronisti.

Nel ’42 lo chiamano alle armi ma non parte a causa di problemi cardiaci con cui dovrà confrontarsi per tutta la vita. Nel ’43 sposa Lucia Ghetti, maestra elementare, modenese, che gli darà le tre figlie Carla, Bice e Anna. Una storia durata sessant’anni, fino alla scomparsa di lei nel 2002 (e nel 2003 morirà anche la figlia Anna).

Nel ’44 aderisce alla Resistenza combattendo nelle brigate Giustizia e Libertà, legate al Partito d'Azione. Si rifugia in montagna. Finita la guerra entra con le truppe alleate a Bologna e annuncia alla radio locale l'avvenuta liberazione. Poco dopo viene assunto come inviato speciale e critico cinematografico al Resto del Carlino.

Dal quotidiano bolognese viene allontanato nel ’51, quando aderisce al manifesto di Stoccolma contro la bomba atomica: l’editore lo accusa di «essere un comunista sovversivo». Ma da quel momento comincia per lui una carriera che lo porta a diventare uno dei più importanti giornalisti italiani della seconda metà del Novecento.

Arnoldo Mondadori lo chiama a Milano, a fare il caporedattore del settimanale Epoca dal ’52 al ’60, quando ne diventa direttore. E trasforma quella che era considerata una rivista di costume e pettegolezzi in un giornale impegnato. Ma un’inchiesta sugli scontri di Genova e Reggio Emilia contro il governo Tambroni scatena un putiferio e lo costringe a dimettersi.

Riparte subito come inviato speciale della Stampa, a Torino. Dove rimane poco: il primo ottobre ’61 viene nominato direttore del Telegiornale, che allora era unico. Sono gli anni del nascente centrosinistra, e quella nomina viene letta come un’apertura verso il Partito Socialista, che stava per affiancare la Democrazia Cristiana al governo.

Nel ’63 cura la nascita del tg del secondo canale e realizza il primo «RT - Rotocalco Televisivo» (marchio che poi avrebbe resuscitato nel 2007 per il suo breve ritorno in video dopo gli anni dell’ostracismo). Ma le mani della politica si fanno sempre più pesanti sul servizio pubblico, e il nostro è costretto nuovamente a lasciare. Torna da dove era venuto, alla Stampa, di nuovo a fare l’inviato. Ma comincia a scrivere anche sul Corriere della Sera e per il settimanale L'Europeo.

Alla Rai lo richiama nel ’68 Ettore Bernabei, potentissimo direttore generale. Nascono alcuni programmi di approfondimento giornalistico di successo, fra cui «Dicono di lei» (interviste a personaggi famosi fra pubblico e privato) e nel ’71 «Terza B, facciamo l'appello» (con personaggi famosi che incontravano ex compagni di classe, amici dell'adolescenza, primi amori...).

E proprio nel ’71 ritorna da direttore nel giornale della sua città, quel Resto del Carlino da cui era stato cacciato vent’anni prima. Dura poco. Nel ’72 torna al Corriere della Sera, che non avrebbe più lasciato, tranne una breve parentesi come editorialista a Repubblica, negli anni seguiti allo scandalo della P2 che rischiò di travolgere la corazzata di via Solferino.

Negli ultimi trent’anni la vita professionale di Enzo Biagi si è divisa fra il Corriere, la Rai e i libri: romanzi, interviste, inchieste, libri storici, alcuni persino a fumetti. Giornalista multimediale senza bisogno di aspettare internet. Per il servizio pubblico cura dal ’77 all’80 su Raidue «Proibito», nell’82 su Raiuno «Film Dossier», nell’83 su Raitre «La guerra e dintorni» (un programma dedicato a episodi della seconda guerra mondiale) e poi su Raiuno il seguitissimo «Linea Diretta», che avrà più edizioni.

Gli anni Novanta sono quelli delle grandi trasmissioni tematiche («Che succede all'Est?», «I dieci comandamenti all'italiana», «Una storia», «Processo al processo su Tangentopoli»...), fino al «Fatto» di cui si è detto. Cominciò nel ’95, cinque minuti di approfondimento sui principali fatti del giorno subito dopo il Tg1 delle venti. Media di sei milioni di telespettatori a sera, nominato da una giuria di giornalisti il miglior programma giornalistico realizzato nei cinquant'anni della Rai. Fino a quell’intervista a Benigni nel 2001 e ai cinque anni di esilio dal video che ne seguirono.

Negli ultimi mesi, nell’ultimo giro di giostra, quasi alla fine di quelli che lui chiamava «i miei tempi supplementari», Biagi scriveva su Espresso, Oggi e Corriere della Sera. E si dedicava al premio «È giornalismo», da lui fondato anni fa con Montanelli e il suo coetaneo Bocca (più giovane di lui di nove giorni), già considerato il Pulitzer italiano. L’anno scorso è uscito «Quello che non si doveva dire», un saggio sull’«editto bulgaro».

Una volta aveva detto: «Le persone che ho intervistato erano tutte interessanti per la storia che avevano dietro. Ho parlato con grandi uomini, grandi donne, ma anche grandi imbecilli. E purtroppo viviamo in un mondo sguaiato, dove anche chi non ha veramente niente da dire si sente in dovere di rendere il mondo partecipe del proprio pensiero. Di sicuro è molto più piacevole intervistare una persona intelligente. Parlare con Roberto Benigni, per esempio, è sempre una festa perché è geniale...».

Biagi ha comunque fatto in tempo a tornare in televisione. Prima come ospite nel programma di Fabio Fazio «Che tempo che fa» (intervista di 20 minuti, standing ovation del pubblico, record di ascolti) e a «Primo Piano», a testimoniare il suo affetto per la Rai, «la mia casa per quarant'anni».

Poi nell’aprile scorso, esattamente a cinque anni dall’«editto», con il suo vecchio e nuovo «RT - Rotocalco Televisivo», aprendo la trasmissione vista da due milioni e mezzo di spettatori così: «Buonasera, sono contento di rivedervi, scusate se sono un po' commosso e magari si vede. C'è stato qualche inconveniente tecnico e l'intervallo è durato cinque anni. Mi aveva avvolto la nebbia della politica...».

Quella volta parlò anche di Resistenza. Che non è solo un argomento del passato. Perchè c’è sempre qualcosa o qualcuno - ricordò Enzo Biagi - a cui bisogna resistere.

giovedì 1 novembre 2007

TRIESTE «Sono contenta di tornare a Trieste, città che amo molto, per cantare al Politeama Rossetti. Peccato per quel palcoscenico in discesa. Bisogna stare attenti a non scivolare. Ma mi hanno detto che la via del teatro è stata intitolata a Giorgio Strehler...».

Ornella Vanoni aprirà il suo tour teatrale - dopo due anteprime a Cattolica, oggi e domani - mercoledì 7 novembre al Rossetti. E il pensiero torna subito al grande Strehler. Corsi e ricordi della storia: correva l’anno 1955, e una giovanissima Ornella Vanoni, fresca di diploma alla Scuola d'arte drammatica del Piccolo di Milano, debuttava come attrice in «Questa sera si recita a soggetto»
, diretta proprio da quel triestino di Barcola, cittadino del mondo...

«La prima volta che sono venuta a Trieste - ricorda la cantante - è stato proprio con Giorgio. Lui amava molto la sua città. E posso dire che io l’ho scoperta attraverso lui. Che si emozionava sempre davanti a piazza dell’Unità, alle Rive, al mare, a quella vostra pasticceria in stile austriaco. Stava da tanti anni a Milano, ma bastava che tornasse a Trieste, o che incontrasse un suo concittadino, e riprendeva a parlare tranquillamente in dialetto. Me lo ricordo perfettamente che parlava in triestino con sua madre...».

Lei poi è tornata a Trieste tante volte...

«E l’ho sempre trovata un po’ abbandonata. Il porto, per esempio, credo avrebbe delle potenzialità immense. Non so se la situazione è cambiata negli ultimi anni, ma io me lo ricordo abbastanza sottoutilizzato. Eppure adesso la città ritorna a essere centro d’Europa...».

Cosa le piace della città?

«Per me, oltre a essere la città di Strehler, è la città di Svevo, di Saba. È quella la Trieste che amo. Ha quella leggera tristezza che la permea e la rende unica. La gente è molto gentile. Me lo ricordo quando siamo venuti con il primo tour Vanoni Paoli, verso la metà degli anni Ottanta, proprio al Rossetti: l’accoglienza fu splendida...».

Strehler, Paoli: fasi diverse della sua vita e della sua carriera...

«Giorgio era teatro puro. Fu lui che mi inventò come ”cantante della mala”. Era la Milano a cavallo fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, il Piccolo Teatro, la Galleria del Corso, il Festival di Spoleto nel ’59: un periodo irripetibile, di grande creatività. Ci sentivamo al centro di qualcosa di importante...».

Paoli, invece?

«A un certo punto mi ero stufata di cantare per un pubblico di nicchia. E lui, che è un poeta fantastico, aveva scritto per me un capolavoro assoluto come ”Senza fine”. Il grande pubblico mi scoprì allora, poi arrivarono ”Io ti darò di più”, la televisione come conduttrice, il cinema...».

E l’amore per il Brasile.

«Era il ’67, c’era questa canzone di Niltinho che si intitolava ”Tristeza”, che nella versione italiana diventò ”Tristezza”. Ma l’album fondamentale arrivò qualche anno dopo: ”La voglia, la pazzia, l’incoscienza e l’allegria”, nato dalla collaborazione con Sergio Bardotti, Vinicius De Moraes e Toquinho. Credo che il pubblico italiano abbia scoperto la bellezza della musica brasiliana anche attraverso quei miei dischi...».

Un amore, quello con la musica brasiliana, che continua.

«Sì, certo. Nel nuovo disco, fra tante canzoni nuove, c’è anche “O que me importa”, un vecchio successo brasiliano del 1971, una perla preziosa recuperata in tempi recenti anche da Marisa Monte».

Lei ha cantato anche con le star del jazz.

«Erano gli anni Ottanta. E al mio album ”Ornella &...” parteciparono musicisti come Gil Evans, George Benson, Herbie Hancock, Lee Konitz, Michael Brecker... Non era come adesso, che si può fare un disco a distanza, scambiandosi dei ”file” musicale. Allora erano tutti assieme, lì, in sala di registrazione...».

Il piacere di farsi accompagnare dai jazzisti le è rimasto.

«I buoni musicisti sono sempre anche dei jazzisti. Nel nuovo disco suona Paolo Fresu, con cui collaboro da anni. E Mario Lavezzi, il mio produttore, si è inventato anche questa presenza di Mario Biondi, una voce davvero eccezionale».

Il nuovo disco è «Una bellissima ragazza». Dicono che è molto autobiografico.

«Sì, è un lavoro decisamente autobiografico. Sono canzoni che raccontano l’amore in ogni sua modulazione: da quello irregolare de ”Gli amanti” fino a quello della serenità, dell’affetto profondo di ”Qualcosa di te”, scritta da Lavezzi».

Una canzone è di Renato Zero.

«Sì, ha scritto per me un bellissimo pezzo, interpretando perfettamente il mio stato d’animo. Un artista ha sempre un lato femminile. Ed è quello che permette a tanti autori di scrivere splendide canzoni ”al femminile”...».

In copertina c’è lei ragazza.

«Quella foto me l’ha scattata mio padre, a Paraggi. Avevo quindici anni, stavo sbocciando. È un’immagine a cui ovviamente sono molto legata».

C’è anche una dedica a Gesù che ha fatto discutere.

«Da qualche anno frequento la chiesa evangelica di Milano, canto nei cori, partecipo alle funzioni. Ho anche condotto le ultime edizioni del festival dei canti religiosi al Palalido di Milano. Gesù ha cambiato la mia vita in meglio da quando l'ho accettato e mi sono affidata a lui».

Lei era cattolica.

«Sì, in Italia siamo tutti cattolici. Da noi c’è tanta religione ma manca la fede. Io anni fa ho conosciuto un pastore evangelico che mi ha parlato di Gesù. E ha cambiato la mia vita. Ricordavo il catechismo come qualcosa di noioso, andare a messa era puro formalismo. Oggi frequento il culto che comprende ringraziamento, adorazione e molta musica...».

Lo spettacolo che debutta a Trieste?

«Le canzoni del nuovo disco, ovviamente. Ma anche un percorso a ritroso nella mia storia artistica. Diciamo che mi racconterò attraverso le mie canzoni. Con una scenografia molto bella e la regia di Giancarlo Cauteruccio, uno dei nomi più importanti e innovativi dell’avanguardia teatrale».

Con Ornella Vanoni, sul palco del Rossetti, ci saranno l’argentino Natalio Luis Mangalavite al pianoforte, Luca Scarpa (pianoforte, tastiere e programmazione), Michele Ascolese alle chitarre, Dino D’Autorio al basso, Roberto Testa alla batteria, Carlo di Francesco alle percussioni. Dopo il debutto triestino, il tour sarà l’11 novembre a Torino, il 13 a Bergamo, il 15 a Ravenna, il 22, 23 e 24 a Milano al Teatro Smeraldo, il 26 e 27 al Sistina a Roma. E poi a dicembre a Bari, Firenze, Venezia, Modena e altre città in via di definizione.



ROBERT WYATT C’è un signore che sta da trentaquattro anni su una sedia a rotelle. Ma rimane una delle menti più geniali e visionarie della musica pop. I ragazzi non lo conoscono. Si chiama Robert Wyatt. Fra la fine degli anni Sessanta e l’alba dei Settanta suonava la batteria nei Soft Machine (gruppo storico del jazz-rock inglese, che una volta suonò anche a Trieste, al Rossetti...), poi trasportò il suo genio iconoclasta nei Matching Mole (la cui pronuncia corrispondeva alla traduzione in francese del nome Soft Machine...), poi un giorno, a un party, a Londra, strafatto d’alcol e di chissà che altro, precipitò giù dal terzo piano forse nella convinzione errata di poter volare. Poteva morire, perse invece l’uso delle gambe. E da quel giorno del ’73, come detto, sta una sedia a rotelle. Oggi, a sessantadue anni, quattro anni dopo l’album «Cuckooland», esce con un nuovo disco intitolato «Comicopera» (Domino Records), registrato in parte in Italia, in cui suonano fra gli altri i suoi vecchi amici Brian Eno, Phil Manzanera, Paul Weller, Annie Whitehead, David Sinclair... Si tratta di una suite, come quelle che andavano di moda negli anni Settanta di cui Wyatt è stato protagonista. Con brani cantati in inglese, in spagnolo («Hasta siempre comandante») e anche in italiano («Del mondo» dei Csi).

L’opera è divisa in tre atti abbastanza eterogenei, indipendenti l’uno dall’altro: «Lost in noise» (il più intimista, con canzoni pop tutto sommato tradizionali, tipo «Just as you are», scritte assieme alla moglie Alfreda Benge), «The here and the now» e «Away with the fairies». Wyatt mescola jazz, musica etnica, pop di non immediata lettura, elettronica, inni politici, in quella che a tratti somiglia a una raccolta di appunti, ma non per questo perde il suo fascino e la capacità di incuriosire e intrigare l’ascoltatore.

Parte da «Stay tuned» di Anja Garbarek, cita Garcia Lorca («Cancion de Julieta»), oltre ai Csi di cui si è detto. «Registrare un disco non è solo un piacere astratto - ha spiegato Wyatt - e in questo disco si sente fortemente la presenza di esseri umani distinti e in comunione, intenti nell'atto di creare musica...».

Ma nel disco, soprattutto nel secondo atto, c’è anche una riflessione amara sul potere e sulla guerra. «Siamo tutti uniti in questa arrogante missione per civilizzare il mondo - sostiene il musicista - non sarebbe un male, se lo scopo fosse davvero nobile. Ma non lo è, considerato chi andiamo a bombardare...».

Ed è per questo che nel terzo atto l’artista evita la lingua inglese, considerata l’idioma dei paesi potenti, quelli che pretendono di esportare la democrazia con le guerre, e mette in scena una sorta di anarchica protesta poliglotta.

Lavoro di grande libertà, avanguardistico, quasi folle, non etichettabile, che ci riporta ai furori creativi della stagione di cui Robert Wyatt è stato grande - e per tanti versi sfortunato - protagonista. Una lezione di intelligenza e di eleganza, di ragione e sentimento, mai autoreferenziale, lontana anni luce dalle produzioni musicali attuali. Sorta di messaggio nella bottiglia per chi lo voglia ascoltare e intendere...








NOMADI «Nomadi & Omnia Symphony Orchestra» (Atlantic Warner) è invece il doppio cd (ma c’è anche la versione con dvd) che raccoglie trentadue pezzi storici del repertorio della band fondata negli anni Sessanta dal compianto Augusto Daolio e da Beppe Carletti. Che dice: «Dopo 35 anni siamo riusciti a suonare con gli archi: nel '72 li avevo fatti con il mellotron, la tastiera che allora si usava per riprodurre i suoni dell'orchestra. Per me suonare con l'orchestra sinfonica è il massimo...». Il progetto si deve alla collaborazione con Bruno Santori, incontrato al Sanremo 2006, quello da loro vinto nella categoria gruppi con «Dove si va», presente nel disco. Ed è stato registrato nell’aprile scorso al palasport di Brescia. Nella scaletta non mancano «Dio è morto» e «Auscwitz», scritte da Francesco Guccini più di quarant’anni fa, diventate veri e propri inni dei Nomadi. Ma anche i tanti altri successi di ieri e di oggi. E due inediti: «Ci vuole un senso» e «La mia terra». Già in classifica.


 

SANTANA Carlos Santana ha descritto questa raccolta «una lettera d’amore dedicata ai miei fan». I classici di una carriera irripetibile (novanta milioni di dischi venduti in quarant’anni) ci sono tutti: da «Samba Pa Ti» a «Black Magic Woman», da «Corazon Espinado» a «Oye como va»... Nuovi arrangiamenti e collaborazioni celebri (Tina Turner, Jennifer Lopez, Manà, Steven Tyler...) fanno di questo disco qualcosa di più della solita antologia di grandi successi. Anticipata dal singolo inedito «Into the night», interpretato dal leggendario chiarrista messicano assieme al leader dei Nickelblack, Chad Kroeger. Da mettere da parte per le grandi occasioni.

 

MATIA BAZAR Ci sono quarant’anni di musica nel nuovo cd dei Matia Bazar, che ripercorre la storia dei più rappresentativi gruppi italiani con quindici cover. Quasi un omaggio alle band che hanno influenzato in passato il quartetto guidato da Piero Cassano e Giancarlo Golzi, o che da questi sono state amate: da «Una ragazza in due» (Giganti, ’65) fino a «Svegliarsi la mattina» (Zero Assoluto, 2006). Passando per Equipe 84, Corvi, Dik Dik, Pooh, Nomadi, Pfm, Banco, Delirium, Negramaro... «Canzoni che avrei voluto scrivere», come spiega Cassano. Roberta Faccani dal 2005 è la nuova voce femminile del gruppo. Il disco è uscito anche in vinile.


MORANDI Gianni Morandi, un mito: quarantacinque anni di carriera (il primo 45 giri è del ’62) e quasi cinquanta milioni di dischi venduti. Numeri da festeggiare con «Grazie a tutti» (EpicSonyBmg), triplo cd antologico con cinquanta canzoni rimasterizzate a Londra. Nell’antologia ci sono i classici degli anni Sessanta («In ginocchio da te», «Non son degno di te», «C’era un ragazzo», «La fisarmonica»...) e i successi della seconda giovinezza, cominciata quando Mogol nel 1980 scrisse per lui «Canzoni stonate». Gli inediti sono quattro: «Stringimi le mani» di Pacifico, «Un mondo d’amore» in duetto con Baglioni, una versione «live», mai pubblicata prima, di «Se non avessi più te» eseguita con l'orchestra diretta da Ennio Morricone nel ’65, e un medley («Questa vita cambierà/Come è grande l'universo/Principessa»), inciso dal vivo per questo album con l'orchestra di soli archi Roma Sinfonietta, diretta da Celso Valli. Un monumento discografico a un monumento vivente della canzone italiana. Uno che ha attraversato cinque decenni di storia musicale - e di costume - del nostro paese. Ed è ancora qui.

mercoledì 24 ottobre 2007

TRIESTE Dionne Warwick canterà a Trieste, al Politeama Rossetti, martedì 15 gennaio. Il concerto è previsto a conclusione del tour italiano che comincerà il 7 gennaio al Sistina di Roma e poi toccherà anche Napoli e Firenze, prima di ripartire per gli Stati Uniti. La tournèe mondiale della cantante del New Jersey è già in corso: ieri sera ha fatto tappa a New York.

E va detto che la stagione musicale dell’autunno/inverno triestino - cominciata l’altra sera con i Negramaro al Rossetti, dove il 7 novembre debutta il tour teatrale di Ornella Vanoni - promette sin da ora anche altre attrattive. Sabato primo dicembre arriva Max Pezzali (ex 883) al PalaTrieste, dove a marzo è annunciato un concerto di Biagio Antonacci e ai primi di aprile ritornano gli intramontabili Pooh. E il calendario si arricchirà certamente col passare delle settimane.

Ma torniamo a Dionne Warwick, vera signora della musica americana e internazionale, il cui concerto triestino di gennaio si preannuncia sin d’ora come un appuntamento da non perdere. Classe 1940, vero nome Marie Dionne Warrick. Dopo gli esordi da ragazza nel gospel, debutta nel ’63 col singolo «Don't make me over», sulla copertina del quale il suo cognome viene riportato in maniera errata (Warwick anzichè Warrick) originando però quello che sarebbe rimasto il suo cognome d’arte. Di quello stesso anno è l’album intitolato «Presenting Dionne Warwick».

Successivamente «Walk on by» ma soprattutto nel ’67 «Here where there is love» (in particolare grazie al singolo «I say a little prayer», rispolverato per il film «Il matrimonio del mio migliore amico») la consacrano come cantante di successo mondiale. Sono di quegli anni anche le sue partecipazioni al Festival di Sanremo, nel ’67 con «Dedicato all'amore» e nel ’68 con «La voce del silenzio».

Nei decenni successivi Dionne Warwick - famosa soprattutto per le sue interpretazioni delle canzoni di Hal David e Burt Bacharach - si è sempre mantenuta su un buon livello qualitativo, collaborando fra gli altri con Barry Manilow, gli Spinners, Barry Gibb dei Bee Gees (il famoso duetto di «Heartbreaker», nell’82),

Nell’85 partecipa alla registrazione di «We are the world». L’anno dopo è alla guida di un progetto benefico per la ricerca sull'Aids e canta «That's what friends are for» con Gladys Knight, Elton John e Stevie Wonder. È il suo quinto Grammy Award, dopo quelli vinti alla fine degli anni Sessanta.

<Nel suo attuale spettacolo, che sta portando in giro per il mondo, non mancano ovviamente i suoi cavalli di battaglia, quali «Walk on by», «Alfie», «I say a little Prayer», «That's what friends are for» e «I never fall in love again». Quest’anno è uscito il suo nuovo album intitolato «My friends & me», tutto al femminile, nel quale duetta fra le altre con Cindy Lauper, Gloria Estefan, Angie Stone, Kelis e Gladys Night.

Da segnalare ancora che la cantante - cugina per parte di madre di Whitney Houston - è stata arrestata per possesso di marijuana nel 2002 a Miami (condanna ritirata in seguito a un pattegiamento che prevedeva un programma di disintossicazione).

Per quanto riguarda gli altri protagonisti della stagione triestina, ricordiamo che Ornella Vanoni - che ha appena pubblicato l’album «Una bellissima ragazza» - farà due anteprime del tour teatrale il 30 e 31 ottobre a Cattolica, prima di debuttare mercoledì 7 novembre a Trieste, al Politeama Rossetti. In scaletta, le canzoni del nuovo album ma anche i tanti cavalli di battaglia della sua lunga carriera, senza dimenticare i brani che testimoniano il suo antico amore per il Brasile.

Il tour di Max Pezzali, seguito all’uscita dell’album «Time out» e partito da Milano il 12 ottobre, dopo un’anteprima nel maggio scorso in un locale milanese, arriva al PalaTrieste quasi in chiusura: il 30 novembre sarà al Palaverde di Treviso, il primo dicembre è nel capoluogo giuliano e si conclude il 6 dicembre a Napoli.

Biagio Antonacci girerà invece la penisola nei palasport, a partire dal 9 novembre (debutto a Treviglio, provincia di Bergamo), dopo i due megaconcerti dell’estate scorsa allo Stadio San Siro di Milano e al Velodromo di Palermo. Prima di arrivare a Trieste a marzo, il «Vicky Love Tour» fa tappa martedì 13 novembre al palasport di Pordenone.

Da segnalare infine altri due importanti appuntamenti a Pordenone: il 9 novembre è in programma un concerto dei leggendari Deep Purple, il 22 febbraio sono invece attesi i californiani Korn.
TRIESTE Aromi di Negramaro, ieri sera al Politeama Rossetti. Aromi rock caldi e appassionati, con quel retrogusto amarognolo tipico del vino del Salento da cui Giuliano Sangiorgi e compagni hanno preso il nome. Aromi di grande musica italiana, che la band esplosa negli ultimi due anni e mezzo ha deciso di «denudare» e proporre in versione acustica nella cornice elegante di un tour teatrale, dopo i tanti club e spazi all'aperto riempiti dalla primavera/estate 2005 a oggi.

L'apertura offre uno splendido colpo d'occhio. Scenografia essenziale, lineare come l'operazione acustica richiede. Una grande griglia colorata fa da fondale. I musicisti sono disposti a semicerchio sul palco pieno di strumenti quasi tutti acustici e molti etnici: il piano Rhodes, l'organetto diatonico, la steel guitar, lo xilofono, il contrabbasso elettrico, ma anche la fisarmonica, il banjo, il bouzuki vestono di colori nuovi canzoni già conosciute e amate dal pubblico.

«La distrazione», il brano che apre l’ultimo disco registrato a San Francisco, è anche quello scelto per cominciare lo show. Si capisce subito che l'operazione è stata fatta con gusto e intelligenza. L'abito musicale è diverso ma l'anima, il cuore sono rimasti immutati. Né poteva essere altrimenti. Una sontuosa conferma arriva con «Mentre tutto scorre», il brano clamorosamente bocciato al Sanremo Giovani 2005, che poi nello spazio di poche settimane trasformò il gruppo pugliese nella grande sorpresa di quell'annata musicale italiana. Ebbene, per quello che rimane comunque la loro bandiera, per quello che si porta dentro il marchio di fabbrica che ha fatto grandi i Negramaro, ieri sera al Rossetti rilettura elegante ed essenziale, quasi scarna, soltanto per chitarra e voce, praticamente perfetta.

Sangiorgi si alterna fra piano e chitarra. Quando ha le mani libere si trasforma in uno scatenato folletto nero, una marionetta snodata che corre, salta, s’inginocchia, ma soprattutto permea lo spettacolo della sua splendida e poderosa vocalità meridionale. I cori del migliaio abbondante di spettatori fanno il resto.

Lo show, diviso in due parti, va a pescare nei tre album diciamo così «ufficiali» della giovane discografia del gruppo (il primo era stato una sorta di «album test» uscito nel 2003, dall'anima profondamente rock, un po' stile Radiohead, dovuto alla solita geniale intuizione di Caterina Caselli...), realizzando una riuscita operazione a ritroso. Canzoni che erano nate nella versione chitarra e voce, oppure pianoforte e voce, e che solo in un secondo tempo erano state rivestite di abiti rock, con un occhio alla tradizione melodica italiana e l'altro al miglior rock progressive degli anni Settanta, ritornano metaforicamente a casa, nude, semplici, acustiche, come mamma le ha fatte...

Ecco allora «Come sempre» e «Scusa se non piango», «Quel posto che non c’è» (ai sei Negramaro si aggiungono Andrea Di Cesare al violino e Claudia Della Gatta al violoncello) e «Solo per te», «Nuvole e lenzuola» (altra bandiera...) e «Neanche il mare», «Scomoda-mente» e «La finestra», che chiude il primo tempo.

Si riparte con «Giuliano poi sta male» (che diventa un vibrante mix fra una taranta pugliese e una giga irlandese...), si prosegue con «Un passo indietro» e «L’immenso», «Estate» (con Sangiorgi che sbuca in platea, una piccola torcia in una mano e il microfono nell’altra...) e «Cade la pioggia» (con commossa dedica a Jovanotti, che la canta con loro nel disco, e proprio ieri sera ha perso il fratello in un incidente).

Fra i bis non può mancare «Parlami d’amore», tormentone dell’estate ormai conclusa. Dentro il Rossetti - fra suoni, aromi e colori del Sud -, canzone dopo canzone la temperatura ormai è calda. Fuori la notte autunnale non promette nulla di buono. E forse anche per questo il pubblico, ieri sera, non aveva nessuna voglia di andar via...

sabato 20 ottobre 2007

TRIESTE «Volevamo rimetterci in discussione, ripartire da zero. Come quando l’anno scorso siamo andati a San Francisco per registrare ”La finestra”. Anche stavolta, dopo il tour estivo nelle arene e nei grandi spazi, abbiamo sentito l’esigenza di metterci alla prova con un tour teatrale, il nostro primo tour teatrale, tutto acustico, con strumenti etnici, denudando le canzoni, per vedere se funzionano anche così...».

Giuliano Sangiorgi, cantante e leader dei Negramaro, racconta con entusiasmo genesi e motivazioni di questo tour teatrale, partito l’altra sera da Verona, dopo una «data zero» a Trento, che domani sera arriva a Trieste, al Politeama Rossetti.

«Finora il pubblico triestino - prosegue Sangiorgi - ci ha visti solo in versione elettrica, al Barcolana Festival di due anni fa e al Festivalbar dell’anno scorso, entrambe le volte nella vostra splendida piazza Unità. Stavolta scoprirà le nostre canzoni con nuovi arrangiamenti, quasi com’erano nate, nella ”stanzetta” delle origini».

A teatro per intercettare un pubblico più adulto?

«No. Non ci spinge una voglia elitaria, non cerchiamo un pubblico diverso, anche perchè noi abbiamo sempre avuto un pubblico vario, molto trasversale. Non decidi a tavolino a chi ti rivolgi. Diciamo anzi che con questo tour vogliamo rendere omaggio al nostro pubblico, quello che ci ha permesso di arrivare dove siamo».

Dalla bocciatura al Sanremo Giovani 2005 al trionfo nelle classifiche e nelle piazze già nell’estate successiva. Come avete mantenuto i piedi per terra?

«La nostra storia è cominciata sette anni fa, anche se negli ultimi tre anni ha subito una netta accelerazione. Il progetto era solido, radicato nelle nostre teste e nella nostra cultura, e ci ha dotato dei mezzi necessari per affrontare questo successo, per non farci andare fuori di testa. Oggi facciamo cento concerti all’anno, ma non dimentichiamo quel nostro primo concerto a Trani, sette anni fa, davanti a pochissime persone...».

Dal Sud arriva oggi molta della miglior musica italiana...

"Il Sud oggi è verità, c’è poco artificio, in un mondo come quello musicale che soffre proprio di artificiosità. La cultura musicale del Salento è sempre stata elevata, forse serviva solo che qualcuno la scoprisse. Noi non usiamo il dialetto, non suoniamo la pizzica per una scelta precisa: puntare sul lato internazionale della nostra musica, usufruibile ovunque».

Per questo siete andati negli Stati Uniti?

«Anche. Andando negli States non inseguivamo il sogno americano che peraltro non abbiamo mai avuto. Ci serviva ricominciare da zero, confrontarci con una realtà sconosciuta, con studi di registrazione e tecnici che ci dessero i consigli giusti, senza essere condizionati dal fatto che in Italia eravamo primi in classifica».

E avete registrato in analogico.

«Fa parte dello stesso discorso minimalistico del tour teatrale. Volevamo giocare con poche cose, catturare le emozioni, la magia che sta nell’essenza delle canzoni».

Cos’è questa storia che ora vivete tutti assieme in campagna?

«È vero. Ci dividiamo fra il nostro Salento, che non abbiamo abbandonato, e questo casolare di campagna, vicino Parma, dove torniamo tutte le volte che è possibile. C’è anche una sala prove. Chi è venuto a trovarci ha detto che c’è l’atmosfera di una vecchia comune degli anni Settanta...».