ROBERT WYATT C’è un signore che sta da trentaquattro anni su una sedia a rotelle. Ma rimane una delle menti più geniali e visionarie della musica pop. I ragazzi non lo conoscono. Si chiama Robert Wyatt. Fra la fine degli anni Sessanta e l’alba dei Settanta suonava la batteria nei Soft Machine (gruppo storico del jazz-rock inglese, che una volta suonò anche a Trieste, al Rossetti...), poi trasportò il suo genio iconoclasta nei Matching Mole (la cui pronuncia corrispondeva alla traduzione in francese del nome Soft Machine...), poi un giorno, a un party, a Londra, strafatto d’alcol e di chissà che altro, precipitò giù dal terzo piano forse nella convinzione errata di poter volare. Poteva morire, perse invece l’uso delle gambe. E da quel giorno del ’73, come detto, sta una sedia a rotelle. Oggi, a sessantadue anni, quattro anni dopo l’album «Cuckooland», esce con un nuovo disco intitolato «Comicopera» (Domino Records), registrato in parte in Italia, in cui suonano fra gli altri i suoi vecchi amici Brian Eno, Phil Manzanera, Paul Weller, Annie Whitehead, David Sinclair... Si tratta di una suite, come quelle che andavano di moda negli anni Settanta di cui Wyatt è stato protagonista. Con brani cantati in inglese, in spagnolo («Hasta siempre comandante») e anche in italiano («Del mondo» dei Csi).
L’opera è divisa in tre atti abbastanza eterogenei, indipendenti l’uno dall’altro: «Lost in noise» (il più intimista, con canzoni pop tutto sommato tradizionali, tipo «Just as you are», scritte assieme alla moglie Alfreda Benge), «The here and the now» e «Away with the fairies». Wyatt mescola jazz, musica etnica, pop di non immediata lettura, elettronica, inni politici, in quella che a tratti somiglia a una raccolta di appunti, ma non per questo perde il suo fascino e la capacità di incuriosire e intrigare l’ascoltatore.
Parte da «Stay tuned» di Anja Garbarek, cita Garcia Lorca («Cancion de Julieta»), oltre ai Csi di cui si è detto. «Registrare un disco non è solo un piacere astratto - ha spiegato Wyatt - e in questo disco si sente fortemente la presenza di esseri umani distinti e in comunione, intenti nell'atto di creare musica...».
Ma nel disco, soprattutto nel secondo atto, c’è anche una riflessione amara sul potere e sulla guerra. «Siamo tutti uniti in questa arrogante missione per civilizzare il mondo - sostiene il musicista - non sarebbe un male, se lo scopo fosse davvero nobile. Ma non lo è, considerato chi andiamo a bombardare...».
Ed è per questo che nel terzo atto l’artista evita la lingua inglese, considerata l’idioma dei paesi potenti, quelli che pretendono di esportare la democrazia con le guerre, e mette in scena una sorta di anarchica protesta poliglotta.
Lavoro di grande libertà, avanguardistico, quasi folle, non etichettabile, che ci riporta ai furori creativi della stagione di cui Robert Wyatt è stato grande - e per tanti versi sfortunato - protagonista. Una lezione di intelligenza e di eleganza, di ragione e sentimento, mai autoreferenziale, lontana anni luce dalle produzioni musicali attuali. Sorta di messaggio nella bottiglia per chi lo voglia ascoltare e intendere...
NOMADI «Nomadi & Omnia Symphony Orchestra» (Atlantic Warner) è invece il doppio cd (ma c’è anche la versione con dvd) che raccoglie trentadue pezzi storici del repertorio della band fondata negli anni Sessanta dal compianto Augusto Daolio e da Beppe Carletti. Che dice: «Dopo 35 anni siamo riusciti a suonare con gli archi: nel '72 li avevo fatti con il mellotron, la tastiera che allora si usava per riprodurre i suoni dell'orchestra. Per me suonare con l'orchestra sinfonica è il massimo...». Il progetto si deve alla collaborazione con Bruno Santori, incontrato al Sanremo 2006, quello da loro vinto nella categoria gruppi con «Dove si va», presente nel disco. Ed è stato registrato nell’aprile scorso al palasport di Brescia. Nella scaletta non mancano «Dio è morto» e «Auscwitz», scritte da Francesco Guccini più di quarant’anni fa, diventate veri e propri inni dei Nomadi. Ma anche i tanti altri successi di ieri e di oggi. E due inediti: «Ci vuole un senso» e «La mia terra». Già in classifica.
MORANDI Gianni Morandi, un mito: quarantacinque anni di carriera (il primo 45 giri è del ’62) e quasi cinquanta milioni di dischi venduti. Numeri da festeggiare con «Grazie a tutti» (EpicSonyBmg), triplo cd antologico con cinquanta canzoni rimasterizzate a Londra. Nell’antologia ci sono i classici degli anni Sessanta («In ginocchio da te», «Non son degno di te», «C’era un ragazzo», «La fisarmonica»...) e i successi della seconda giovinezza, cominciata quando Mogol nel 1980 scrisse per lui «Canzoni stonate». Gli inediti sono quattro: «Stringimi le mani» di Pacifico, «Un mondo d’amore» in duetto con Baglioni, una versione «live», mai pubblicata prima, di «Se non avessi più te» eseguita con l'orchestra diretta da Ennio Morricone nel ’65, e un medley («Questa vita cambierà/Come è grande l'universo/Principessa»), inciso dal vivo per questo album con l'orchestra di soli archi Roma Sinfonietta, diretta da Celso Valli. Un monumento discografico a un monumento vivente della canzone italiana. Uno che ha attraversato cinque decenni di storia musicale - e di costume - del nostro paese. Ed è ancora qui.
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