giovedì 31 gennaio 2013

subito chiuso nuovo programma FACCHINETTI

Qualche anno fa, reduce dal successo dei primi “X Factor” griffati Raidue, sembrava fosse diventato seduta stante l’uomo-Rai del futuro. L’erede di Pippo Baudo. Il conduttore di almeno due o tre dei Festival di Sanremo a venire. Dalle stelle alle stalle. A Francesco Facchinetti, uno dei tanti figli dei Pooh, già tristemente noto come Dj Francesco, il servizio pubblico non ha dato nemmeno il tempo di riaffacciarsi sugli schermi di quei televisori che, a sentire la pubblicità Rai di queste settimane, “uno può farci quel che vuole”, ma il canone deve comunque pagarlo, visto che è “una tassa sul possesso” dell’amato-odiato elettrodomestico. Il figlio di Roby, nonchè ex fidanzato di Alessia Marcuzzi (che paparazzate, ai tempi della loro “love story” vissuta tutta sul filo del gossip...), aveva appena debuttato l’altra sera con il suo nuovo programma, dal titolo autolesionista “Rai Boh”, che l’azienda gliel’ha chiuso. L’impietoso Auditel si è fermato a quota 343mila spetttatori, per uno share di 3,29%: pare sia un’autentica miseria, anche in seconda serata. Per Facchinetti, ex ciellino, secondo stop consecutivo: un anno e mezzo fa gli avevano chiuso per analoghi motivi anche “Star Academy”. Ma ecco il comunicato: «Il direttore di Raidue Angelo Teodoli, pur riconoscendo lo sforzo ideativo e autorale della trasmissione “Rai Boh”, ha deciso di interromperne la messa in onda. Teodoli ringrazia Francesco Facchinetti per avere deciso di mettersi in gioco, gli autori e le maestranze che hanno lavorato al programma, nato - a suo tempo - anche per rispondere a una richiesta di sperimentazione». Sperimentazione? Ma i cervelloni di Viale Mazzini ci sono o ci fanno? Sperimentare richiede tempo, oltre che idee e coraggio. Se in televisione vuoi fare degli esperimenti anche al di fuori dei nuovi canali fioriti con quella catastrofe per l’utente che è stato il digitale, non devi poi arrenderti alla cruda legge dei numeri. Devi osare, combattere, resistere. Questo pensa la gente normale, quella ispirata dal comune buon senso. Territori che i grandi dirigenti, si sa, bazzicano raramente. Meglio buttare nei servizi igienici i soldi versati dall’abbonato, interrompendo un programma ma ovviamente (e giustamente) pagando fino all’ultimo euro il lavoro di Facchinetti e della sua numerosa banda. Ma tant’è, è andata così. Abbiamo fatto in tempo a seguire la “confessione” di Enrico Mentana («Una cosa che potevo evitare c’è: una decina di anni fa ci fu la corsa all’oasi che sembrava una cura alternativa contro i tumori, quella del professor Di Bella. Con Costanzo feci una trasmissione che ebbe un grandissimo successo di pubblico...»). Altra riflessione del giornalista: «Non mi piacciono quei programmi vacui fatti solo per fare audience, in cui il conduttore finge di preoccuparsi di casi umani di cui è palese non gli frega nulla, servono solo per riempire i palinsesti». Già, fare audience. Il verbo dinanzi al quale tutti in tivù s’inchinano. E fosse esistito il quale tanti anni fa, buona parte della storia della Rai non sarebbe stata scritta. Facchinetti ieri su Twitter: «Oggi, dopo 32 anni, non so più cosa fare. Passerà? Boh. Grazie a tutti quelli che mi vogliono bene e anche a chi non me ne vuole». Eh dai, non piangere...

mercoledì 30 gennaio 2013

nuovo disco BAUSTELLE; e nuovo Mario BIONDI

Il tempo che passa e nemmeno te ne accorgi. Il passato che si scontra con il presente. La morte non è argomento tabù ma semplicemente “trasformazione, passaggio di stato”. Argomenti che non ti aspetteresti di trovare nelle canzoni. Tantomeno come tema portante del nuovo album di un gruppo rock. E invece... S’intitola “Fantasma” (Warner), è il nuovo, splendido lavoro dei Baustelle, secondo molti il miglior gruppo rock italiano di questi tempi confusi. A tre anni dall’uscita de “I mistici dell’Occidente”, che aveva fatto provare al trio di Montepulciano l’ebbrezza dei vertici delle classifiche di vendita, la scelta è stata quella di abbandonare la strada che aveva garantito il successo per perlustrare territori nuovi. Scelta coraggiosa, che dimostra il valore e l’importanza di quell’alchimia scattata ormai diversi anni fa (il primo album, “Sussidiario illustrato della giovinezza”, è del 2000; questo è il sesto capitolo della discografia) tra Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini. La lavorazione del disco, realizzato con la FilmHarmony Orchestra di Wroclaw/Breslavia (Polonia), ha impiegato due anni. Anche se la registrazione, avvenuta nelle terre dell’orchestra, è durata due giorni. Preceduti e seguiti da una lunga lavorazione a Montepulciano, dove il Comune ha messo a disposizione nientemeno che la Fortezza Medicea. N’è venuto fuori quello che in altri tempi sarebbe stato chiamato un “concept album”, diciannove tracce - tra brani cantati e schegge strumentali - che ruotano appunto attorno al tema del tempo. Atmosfera terrena e spirituale al tempo stesso. Persino citazioni dalle colonne sonore del cinema horror. Una sorta di viaggio in cui il tutto suona in maniera naturale, non c’è artifizio, nulla che dia l’impressione di esser stato costruito a tavolino. Disco ambizioso, ricco di omaggi al cinema e alla musica classica del Novecento. Lavoro che non delude le aspettative, la miglior uscita italiana dell’anno peraltro appena cominciato. Ne “L’estinzione della razza umana” abbastanza espliciti i riferimenti a Berlusconi: «Cavalieri del lavoro simili a Gesù, non votiamo gli uomini, non li votiamo più». Il tema della morte è al centro di “Monumentale”, dove si invita a lasciar perdere “i programmi coi talenti”, “i salotti coi talenti e le baldracche”. “Non credo al mercato, produce demenza, io credo nel caos e nella violenza” è uno dei versi più provocatori di “Nessuno”. “La morte (non esiste più)” è il singolo apripista, originariamente scritto per Celentano, che però non l’ha ancora inciso. Anteprime “live” il 19 febbraio a Bari, il 20 a Roma, il 23 a Firenze, il 25 a Milano. Tutte con l’Ensemble Simphony Orchestra diretta da Enrico Gabrielli, che ha curato gli arrangiamenti. Dall’8 marzo il tour vero e proprio, debutto a Torino. -- MARIO BIONDI, “SUN” (Sony). Il crooner catanese è attualmente l’artista italiano più internazionale della nostra scena. Dopo due anni di lavoro tra Milano e Los Angeles, New York e Londra, “Sun” è il suo nuovo disco, che lo conferma voce per eccellenza del “new soul”, in Italia e nel mondo. Lavoro di alta qualità, dal respiro internazionale, prodotto dallo stesso Biondi con Jean Paul Maunick, alias Bluey, leader della storica band jazz britannica Incognito. Fra gli ospiti la magica Chaka Khan, che interpreta con Biondi e Incognito il brano “Lowdown”. “Shine on” è il primo singolo, con arrangiamento d’archi firmato Simon Hale. Al Jarreau duetta col nostro in “Light to the world”. E un’autentica novità del disco è la presenza di un brano in italiano, “La voglia, la pazzia l’idea”. «Questa volta - dice Biondi - è nato tutto dall’incontro con Bluey, che ha portato il suo modo di fare funk nella mia musica. La collaborazione è partita con il mio album precedente, “If”, e da lì ci sono venute alcune idee...».

martedì 29 gennaio 2013

RICHARD GALLIANO stasera a udine

Ama il jazz ma anche la classica, la musica popolare e il grande cinema. E se la musica di Astor Piazzolla è ancora viva e vitale, parte del merito va anche a lui, Richard Galliano, il sessantaduenne musicista francese di origini italiane che stasera alle 20.45 suona al “Nuovo” di Udine. È considerato dalla critica il miglior fisarmonicista contemporaneo. Con l’ingombrante strumento, secondo il parere di molti inadatto al jazz, comincia a fare conoscenza a soli quattro anni, sotto l’insegnamento del padre Luciano. A quattordici scopre il jazz e rimane folgorato dal trombettista Clifford Brown, del quale «ho copiato - disse una volta - tutti i chorus, impressionato dal suo tono, dall’energia e il fraseggio che riusciva a sviluppare sulla tonante base ritmica di Max Roach». Da lì, una carriera che lo ha portato a lavorare con i più grandi: da Chet Baker a Ron Carter, da Michel Petrucciani a Jan Garbarek, flirtando anche con gli italiani Enrico Rava e Paolo Fresu, e senza dimenticare mostri sacri della canzone francese come Juliette Greco e Charles Aznavour. Ma si diceva della sua passione per la classica. Nel 2010 il musicista ha firmato un contratto di esclusiva discografica con la prestigiosa etichetta Deutsche Grammophon, per la quale ha registrato un album interamente dedicato alla musica di Bach. Un disco che, con quarantamila copie vendute, è stato il più venduto dell’anno nel settore della classica. Il tempo di incassare un successo di questa portata ed ecco, nel 2011, un nuovo album dedicato stavolta alle musiche da film del compositore italiano Nino Rota. Affiancato da John Surman al sax soprano, Galliano ha regalato una lettura jazz delle celebri melodie di classici del cinema come “La strada” e “Il padrino” (con un suo notevole assolo al trombone), “La dolce vita” e “Amarcord”, senza dimenticare “Otto e mezzo”. Come in un gioco di rimpiattino, il prossimo lavoro bazzica nuovamente il mondo della classica. Ad aprile esce infatti, sempre per la Deutsche Grammophon, un album con le “Quattro stagioni” e altre arie di Vivaldi: fisarmonica e quintetto d’archi, per una rilettura che promette di essere diversa da tutte le (tante) altre. Ma non è finita. Visto che Galliano si considera innanzitutto un jazzista, nei “ritagli di tempo” fra un concerto e l’altro sta lavorando, sull’asse New York-Los Angeles, con jazzisti a stelle e strisce, a un disco calato per intero nel genere afroamericano. Stasera a Udine, nella scaletta del concerto, ci sarà solo l’imbarazzo della scelta.

sabato 26 gennaio 2013

stasera parte da udine tour di REMO ANZOVINO

Da Pordenone a New York e ritorno. Con ripartenza alla volta di Londra, e poi Shangai, Hong Kong, Macao. È il viaggio attorno al mondo di Remo Anzovino, pianista e compositore (nonchè avvocato penalista), che oggi alle 20.45 comincia il nuovo tour al Palamostre di Udine, dove presenterà l’album “Viaggiatore immobile”. «Suonerò a New York - spiega il musicista pordenonese, classe ’76 - il 6 marzo, al club Iridium di Broadway. Ci sono appena stato con i miei discografici, per un sopralluogo in quello che è attualmente uno dei locali di riferimento della scena musicale newyorkese e per incontrare alcuni promoter americani». Un sogno che si realizza? «Non nascondo che sono molto eccitato, per me è un sogno che si realizza. Un sogno che coltivo sin da quand’ero un ragazzino. Sono felice anche del locale, vi hanno suonato da Mike Stern a Keith Richards. Un luogo dunque assolutamente trasversale, fra jazz e rock». Trasversale come lei? «Mah, devo dire che quello che all’inizio sembrava essere un handicap, col passare del tempo è diventata la mia forza. La forza della trasversalità, dell’essere quasi inclassificabile, di non sapere dove sistemarmi». Si classifichi lei. «Faccio musica narrativa, scrivo piccoli racconti che parlano della nostra realtà di tutti i giorni, disegno sulla tastiera del pianoforte i volti degli esseri umani che incontro per strada. Le mie sono pagine bianche scritte dalla fantasia di chi ascolta. Certo, uso più linguaggi, dal rock al jazz, dal genere popolare a quello colto, a cose più eleganti. In questo sono contemporaneo». Ma ha cominciato al Festival del muto di Pordenone. «Quell’esperienza è stata per me di grande importanza, è un bagaglio prezioso che mi porto ancora appresso. Allora commentavo i vecchi film muti. Ora parlo del presente, del nostro tempo, fotografo la realtà che viviamo oggi. Ma sempre con quella tecnica di commento». Il viaggiatore immobile? «È il mio pianoforte a coda, troppo ingombrante per essere trasportato, e che dunque può viaggiare solo con la fantasia. In realtà siamo tutti viaggiatori immobili: ovunque siamo, in ufficio o in fabbrica o davanti al computer, una parte di noi è in viaggio con la mente». La sua è la colonna sonora di questo viaggio? «È quello che tento di fare, descrivere coi suoni quel nostro territorio personale, privato, intimo. Tutti noi siamo impegnati in un viaggio della fantasia, dei desideri, soprattutto in questo momento così difficile». Oliviero Toscani? «Un’altra bella favola che mi è capitata. Nel giugno scorso ha assistito a un mio concerto a Pordenone. Alla fine era così entusiasta che ha lanciato lui la standing ovation. Poi mi ha fatto degli scatti, uno è finito sulla copertina del disco. Davvero un grande regalo». Il Vajont? «Avevo dieci anni la prima volta che i miei genitori mi portarono sul luogo della tragedia, di quella che considero una strage di stato. Un ricordo per me indelebile. Il simbolo dell’incapacità dell’uomo di capire e rispettare la natura. Tutti hanno tentato di cancellare la memoria di quelle duemila vittime innocenti». Tranne Marco Paolini. «Lui ha rotto il silenzio. Grazie a lui tanti italiani che in quella tragica notte dell’ottobre del ’63 non erano ancora nati sanno che cosa è successo. Paolini ha detto che i silenzi non dovrebbero essere osservati, ma cantati. È stato così che alla fine di un disco che è un omaggio alla fantasia, il mio ideale viaggiatore si ferma dinanzi a un posto terribilmente vero: una diga che è il simbolo di una tragedia, ma anche di un popolo». Fa ancora l’avvocato? «Quest’anno poco, è un periodo molto musicale. Ma in generale sì, continuo la professione. Ho la fortuna di potermi dividere fra due cose che amo. Perchè a me piacciono entrambe queste due attività». Come Paolo Conte. «L’ho incontrato che avevo quindici anni, gli chiesi un consiglio per un giovane aspirante musicista, mi disse di non copiare mai le musiche degli altri. Una cosa che può sembrar banale, ma che col senno di poi mi ha segnato. rimango infatti convinto che bisogna ascoltare, studiare le musiche degli altri. Mangiarle, digerirle, poi “sputarle” e rifarle tue. Amo pensare alla musica come alla cucina, ricca di sapori, di spezie...». Stasera a Udine Remo Anzovino cucinerà e offrirà la sua musica con una band multietnica e le voci maschili del Coro polifonico di Ruda. Il tour proseguirà fino all’estate. Trattative in corso per una tappa a Trieste, a primavera.

giovedì 24 gennaio 2013

sabato parte da pordenone tour di ORME e NEW TROLLS assieme

Sono nati entrambi nel ’66, hanno scritto assieme la storia del pop italiano, tutti e due - dopo divisioni e riunificazioni e divorzi assortiti - hanno avuto problemi nella “titolarità del marchio originale”. Stiamo parlando delle Orme e dei New Trolls. Il trio veneto e il gruppo genovese (nella versione La storia New Trolls) apriranno il loro primo tour comune, sabato alle 21.30, al Deposito Giordani di Pordenone. «L’idea - spiega Michi Dei Rossi, il batterista che porta avanti le Orme con Michele Del Bon e Fabio Trentini - è nata lo scorso anno, dopo un concerto che abbiamo fatto assieme a Livorno. Con Vittorio De Scalzi e Nico Di Palo siamo amici da sempre. Anche loro hanno avuto la loro parte di problemi legati all’uso del nome. Un’altra cosa che ci unisce...». Ancora Dei Rossi, che aveva fondato le Orme con il bassista Aldo Tagliapietra e il tastierista Tony Pagliuca: «Fra noi c’è reciproca stima, sintonia, stiamo bene assieme sul palco. Una collaborazione del genere non era possibile negli anni Settanta, forse c’era qualche gelosia di troppo. Ma oggi fila tutto liscio ch’è un piacere». «A volte - prosegue Michi - penso che in tutti questi anni ci siamo solo sfiorati perchè era destino che lavorassimo assieme adesso. Ricordo un Disco per l’Estate del ’68, al quale partecipammo entrambi, noi con “Senti l’estate che torna”. Ma ci siamo sfiorati anche cinque anni fa, a un festival progressive in Messico. Ora finalmente dividiamo il palco per un tour di quindici date...». Quindici date allora per questa “Prog Night”, la notte della musica progressive, che dopo il debutto nella nostra regione, a Pordenone, toccherà nelle prossime settimane Savona, Potenza, Palermo, Catania, San Benedetto del Tronto, Napoli, Roma, Firenze, Rimini, Asti e altre città ancora. «Nella prima parte del concerto - spiega Dei Rossi - suonerà un gruppo, nella seconda l’altro (alternando ovviamente l’ordine nelle varie tappe) e nella terza, per il gran finale, le due band assieme. Per completare la festa della musica italiana degli anni Settanta, in alcuni di questi concerti sarà con noi sul palco anche Lino Vairetti, già anima degli Osanna, che da qualche tempo ha fatto rinascere, dopo un periodo di silenzio, lo storico gruppo napoletano...». Le Orme - che lo scorso anno avevano diviso il palco con un altro gruppo simbolo del pop italiano, il Banco, nel tour del loro quarantennale - hanno recentemente realizzato “La via della seta”: un concept album con un unico filo conduttore anche se suddiviso in undici brani. Negli ultimi mesi hanno avuto un’intensa attività “live”, compresa la partecipazione a un importante festival progressive a Tokyo. Le Orme godono infatti di una vasta popolarità in Giappone, al pari di altri gruppi pop italiani. Ma nel corso degli anni hanno tenuto tour di successo anche in Corea, Messico, Canada, Stati Uniti, Brasile, Argentina. Nel concerto a Pordenone, oltre al repertorio più recente, non mancheranno in scaletta alcuni dei loro maggiori classici: da “Uomo di pezza” a “Felona e Sorona”, da “Collage” a “Giochi di bimba”. Ma mentre Michi Dei Rossi e i suoi nuovi compagni d’avventura possono usare il glorioso nome delle Orme, sul fronte genovese di questa collaborazione le cose sono un po’ più complicate. Vittorio De Scalzi e Nico Di Palo, pur riconosciuti dal pubblico come anime oltre che fondatori del gruppo, sono costretti dal giudice a chiamarsi La storia New Trolls: il pregiato marchio, è stato sentenziato, può essere usato solo da tutti assieme i protagonisti della vicenda. Che nel corso degli anni si sono divisi fra New Trolls Atomic System, Ibis, La leggenda New Trolls, Il mito New Trolls e - appunto - La storia New Trolls. Ma le carte bollate non impediscono a De Scalzi e Di Palo di portare in giro per l’Italia (e per il mondo) la loro musica senza tempo. Fra i fan triestini è ancora vivo il ricordo della serata in piazza Unità, nell’agosto 2007, che è poi entrata nel “Concerto Grosso - New Trolls - Trilogy Live”, cofanetto con due cd e un dvd, pubblicato anche nel lontano Oriente. Con una foto del concerto triestino in copertina. Intanto, con Luis Bacalov, che aveva firmato gli arrangiamenti dei primi due capitoli di “Concerto Grosso”, sta per arrivare un terzo album. E forse un disco “live” sarà tratto anche da questo tour.

lunedì 21 gennaio 2013

PEARL JAM TWENTY da oggi anche a TS e Friuli

Per i ragazzi è solo e semplicemente “PJ20”. Per tutti gli altri il film che debutta oggi in cinquecento sale di mezzo mondo (trenta in Italia: a Trieste a “The Space” delle Torri, in Friuli a Pradamano, repliche domani e mercoledì) s’intitola per esteso “Pearl Jam Twenty”, ed è un piccolo grande monumento alla rock band di Seattle, in occasione del suo ventennale. Uno dei gruppi più importanti dagli anni Novanta a oggi, che con Nirvana, Soundgarden e pochi altri hanno scritto la storia del genere grunge. Nato sulle ceneri dei Mother Love Bone, di cui facevano parte il chitarrista Stone Gossard e il bassista Jeff Ament (con il cantante Andrew Wood, morto per overdose nel ’90), il gruppo prende forma con l’incontro fra questi due con il chitarrista Mike McCready e (soprattutto) con il cantante Eddie Vedder. Il film-documentario (regia di Cameron Crowe, Premio Oscar, ex giornalista rock, che aveva già firmato “Almost famous”) parte da quell’incontro e arriva fino ai giorni nostri, attraverso una carriera ventennale, nove album in studio (il decimo è in arrivo quest’anno), oltre sessanta milioni di dischi venduti, con il picco del successo planetario dell’album “Ten”, che con “Vs.” e “Vitalogy” forma la trilogia più amata dai fan della band. Eddie Vedder raccontò una volta che il nome della band derivava dal nome della nonna, Pearl, sposata con un nativo americano, che conosceva la ricetta per una marmellata (“jam”, appunto) fatta con il peyote. Sull’argomento, per la verità, non esiste una comunanza di versioni, visto che nel 2006 Ament e McCready dichiararono alla rivista Rolling Stone che l’idea di “pearl” venne al primo, mentre quella di “jam” arrivò dopo aver assistito a un concerto di Neil Young. Aneddoti a parte, il docu-film è un affettuoso omaggio alla band, realizzato dopo un’attenta selezione di filmati già esistenti (Crowe dice di averne passato in rassegna più di un migliaio di ore) e di nuove interviste realizzate per l’occasione. Una carrellata in bilico fra passato e presente, ma anche fra pubblico e privato. Nella quale non manca la tragedia del Roskilde Festival del 2000, quando durante il concerto della band nove spettatori delle prime file furono schiacciati dalla folla che premeva da dietro.

giovedì 17 gennaio 2013

BUBOLA, nuovo disco: non sono solo quello che scriveva x DE ANDRE'

Gli dà fastidio essere ricordato sempre e solo come quello che ha scritto tante canzoni per Fabrizio De Andrè. E forse ha ragione, visto che di canzoni lui ne ha scritte anche per altri (un solo titolo: “Il cielo d’Irlanda” per Fiorella Mannoia). Ma soprattutto perchè questo in arrivo è il ventesimo album della sua dignitosissima carriera cantautorale. Lui è Massimo Bubola, veronese di origini istriane, classe 1953, che sabato presenta dal vivo, a Mestre, il suo nuovo album “In alto i cuori”. Un titolo che somiglia a un’esortazione, un invito, forse una speranza. «Sì, una speranza. Ma anche un dovere morale, in senso religioso e laico. Un impegno nei confronti delle nuove generazioni. L’impegno quotidiano di fare il proprio dovere, verso gli altri e verso se stessi». Un titolo anche “cattolico”? «In alto i cuori è la traduzione dell’espressione latina “Sursum corda”, che rimanda ad antiche tradizioni della liturgia cristiana. È l’augurio che il sacerdote rivolge a fine messa: andate in pace. Per me, credente ma poco praticante, è una preghiera per il nostro Paese in difficoltà». Dal suo Veneto come vede l’Italia? «Da noi c’è la cultura del lavoro, dell’impegno. Ci sono tante aziende familiari che fanno fatica a tirare avanti. Siamo gente abituata a far da sola, senza l’aiuto dello Stato, che anzi spesso complica la vita. Conosciamo anche il valore della carità, della solidarietà. È riduttivo parlare sempre di Veneto leghista». Prosegua. «Valori come il sacrificio, la povertà sono scomparsi con il crollo della cultura contadina, sotto le sferzate della sottocultura televisiva. Pasolini se n’era accorto per primo, tanti anni fa. Oggi funziona la (presunta) cultura dei vip, dell’apparire. Io sono sempre stato affascinato dai perdenti. Ho fatto studi classici e storici. Chi perde una battaglia non perde necessariamente la guerra». La canzone come c’entra? «La canzone è poesia popolare. Per me è anche la testimonianza di un mondo che non esiste più, ma forse, un po’ per volta, sta ritornando. La poesia è una sorta di sentinella nella notte, un monito alle persone di buona volontà». Alle quali lei si rivolge. «Certo, questo disco si rivolge a quell’Italia sana e civile non soggetta alle facili mode. Che non si fa condizionare e che mantiene comunque la lucidità. A quella parte di Paese su cui bisogna contare per ritornare a essere seri». Lei attinge dalla cronaca. «Sì, le mie sono “istant songs”. Con le quali un fatto di cronaca viene contestualizzato, reso universale e leggibile al di là della cronaca stessa. La tradizione è quella dei cantastorie, sulla scia di un genere nato in America a cavallo fra le due guerre. Quelle erano canzoni che parlavano di fatti di cronaca con riflessi sociali». Ne aveva scritte anche con De Andrè. «Parto sempre da questa mia idea di “cantore della realtà”. Brani che riescono a parlare al di là dei singoli fatti raccontati. Penso a “Una storia sbagliata”, “Don Raffaè”, “Fiume Sand Creek”...». Come ha conosciuto Fabrizio? «Ero giovanissimo, me lo presentò a Milano Roberto Danè, che era il mio produttore e anche il suo. Lui aveva appena concluso la sua collaborazione con De Gregori. Cominciammo a lavorare assieme. La prima canzone che scrivemmo fu “Andrea” (album “Rimini”, ’78 - ndr), poi vennero tutte le altre. Quattordici anni di collaborazione. Ma mi scusi, finisce sempre che si parla di lui. Preferirei parlare del mio disco». Come preferisce. “Hanno sparato a un angelo”? «Parte da un fatto di cronaca: il 4 gennaio dell’anno scorso a Roma, durante una rapina, due balordi hanno sparato e ucciso Joy, una bimba di nove mesi, e suo padre Zhou di 31 anni. Anche questo è oggi il nostro Paese. E da una parte c’è il disincanto, anche dinanzi a tragedie come queste, e dall'altra ancora la speranza di una guarigione». Un brano l’ha scritto con Beppe Grillo. «Sì, “Analogico digitale” è un blues che contrappone la cultura antica dell’uomo e quella nuova, dove tutto è aleatorio, virtuale, dà un senso di precarietà. Beppe lo conosco dai tempi delle mie frequentazioni genovesi, la canzone l’abbiamo scritta assieme otto anni fa, non c’entra nulla con la politica». Le sue origini istriane? «La famiglia di mio padre era di Umago, poi si trasferirono in Veneto. Infatti il mio cognome è molto diffuso in Istria. Sono molto legato a queste origini, amo i romanzi di Tomizza. Ricordo che quando nel ’79 ho fatto il militare a Cividale approfittavo del tempo libero per seguire i percorsi dei suoi romanzi a cavallo del confine...». “In alto i cuori” esce il 22 gennaio. Dopo l’anteprima di sabato a Mestre, al centro culturale Candiani, il tour parte da Verona il 9 febbraio.

venerdì 11 gennaio 2013

NEGRITA acustici 29-3 al Rossetti

Scordatevi i Negrita elettrici, caciaroni e rockettari che avete imparato ad apprezzare come una delle migliori band italiane degli ultimi anni. Quelli che venerdì 29 marzo arriveranno in tour anche a Trieste, per un concerto al Rossetti, hanno infatti appena “ripudiato” le chitarre elettriche e i volumi alti necessari nei palasport per abbracciare la dimensione acustica dei teatri. «La formula dell’unplugged - rivela Paolo Bruni, in arte Pau, da sempre voce della band - non è una cosa nuova per noi, perchè negli anni Novanta, quando siamo nati suonando nei club, alternavamo spesso concerti elettrici ad altri acustici. Andavamo spesso, io e i due chitarristi Drigo e Cesare, a suonare in giro in versione trio. Ci facevamo chiamare Negrita Blues Brothers, per distinguere i concerti da quelli elettrici firmati semplicemente Negrita». La band toscana, reduce da un lungo tour “tradizionale” nei palasport, debutta in questa nuova versione con una “data zero” il 14 febbraio al Teatro Comunale di Cagli, in provincia di Pesaro e Urbino. Per poi girare mezza Italia, prima della conclusione prevista al momento per il 7 aprile al Teatro degli Arcimboldi, a Milano. «Sarà un’esperienza completamente diversa per noi - prosegue il cantante - e proprio in questi giorni siamo chiusi in studio a fare le prove. La dimensione è molto affascinante e tra le tante canzoni stiamo provando anche “Cambio” in una versione particolare che ci sta piacendo molto». “Cambio” è uno dei brani più noti della band, che nel ’94 precedette come singolo la pubblicazione del primo album, intitolato semplicemente “Negrita”. Il gruppo è attualmente formato, oltre che dal citato cantante, da Enrico “Drigo” Salvi (chitarra e voce), Cesare “Mac” Petricich (chitarra e cori), Franco “Frankie” Li Causi (basso) e Cristiano Dalla Pellegrina (batteria). Nel concerto che arriverà a Trieste alterneranno brani conosciuti dal pubblico e altri che in questi quasi vent’anni di carriera sono rimasti un po’ in secondo piano. «L’idea - conclude Pau - era di pescare pezzi suonati solo nei tour immediatamente successivi all’uscita degli album a cui appartengono, così come quella di riprendere per l’occasione brani che, per un motivo o per l’altro, non abbiamo mai suonato dal vivo».

mercoledì 9 gennaio 2013

IL RITORNO DI DAVID BOWIE

David Bowie è tornato. È vivo, verrebbe da dire che “lotta assieme a noi”, e nel suo caso - come vedremo - non si tratta di un fatto scontato. Il video del nuovo singolo, “Where are we now?”, è arrivato - prima sul sito www.davidbowie.com, poi rilanciato un po’ ovunque - quasi a sorpresa ieri, nel giorno del suo sessantaseiesimo compleanno. Una sorta di lussuosa anteprima dell’album, “The next day”, annunciato per l’11 marzo. Il brano è una malinconica ballata, straniata e straniante, che cattura l’ascoltatore già dopo il primo ascolto. Profuma di ricordi e di Berlino, non solo per le immagini in bianco e nero della città, immortalata nel video prima della caduta del Muro. Il richiamo è forte anche nell’atmosfera, nei suoni che rimandano agli anni in cui il Duca bianco visse nella capitale tedesca, realizzando fra il ’77 e il ’79 la famosa Trilogia berlinese (“Low”, “Heroes” e “Lodger”). È un ritorno che emoziona. L’artista inglese non realizzava un disco esattamente da dieci anni, da quel “Reality” pubblicato nel 2003, lavoro peraltro non eccelso. Nel 2004 fu costretto a interrompere un tour per un malore, causato da seri problemi cardiaci risolti - si spera - con un’angioplastica coronarica. Dal 2006 sembrava si fossero perse le sue tracce. Anche il tentativo degli organizzatori delle Olimpiadi di Londra, l’estate scorsa, di farlo partecipare con tanti suoi colleghi alla cerimonia inaugurale dei Giochi non ebbe buon esito. Ora questo singolo, e presto l’album con quattordici nuovi brani (diciassette nella versione “de luxe”). A dimostrare che l’artista che tanta parte ha avuto nella storia del pop-rock degli ultimi quaranta e più anni (il primo album, “David Bowie”, è del ’67; il secondo, “Space Oddity”, quello già della consacrazione, del ’69...) non ha ancora rinunciato a creare. “Ashes to ashes”, il campione dell’ambiguità - anche sessuale - è rinato dalle sue stesse ceneri. Ma si diceva del video. Diretto dall’artista multimediale statunitense Tony Oursler, è ambientato in un vecchio magazzino. Al centro, due pupazzi: uno con il volto animato di Bowie, l’altro dalle fattezze femminili. Attorno cianfrusaglie, rimasugli, fantasmi di epoche trascorse, su uno schermo le immagini citate. L’album sarà il trentesimo in studio di una carriera nella quale il nostro - che ha segnato trasversalmente arte, moda, stile, liberazione sessuale, critica sociale - ha venduto qualcosa come 140 milioni di dischi. A marzo, quando uscirà, Bowie sarà celebrato anche con una mostra al Victoria and Albert Museum, a Londra, dedicata a manoscritti delle liriche delle sue opere, fotografie, strumenti musicali, bozzetti per le scenografie dei concerti, e una sessantina dei costumi originali indossati nelle sue molteplici incarnazioni. Pare che Fazio stia tentando di portarlo a Sanremo.

lunedì 7 gennaio 2013

LE PAUSE DI CELENTANO

Come nacquero le famose, a volte interminabili “pause” di Adriano Celentano? Lo ha svelato ieri a “Domenica In” Mario Luzzatto Fegiz, nel corso del festeggiamento allestito per i 75 anni dell’ex Molleggiato. Pare che a un “Fantastico” degli anni Ottanta - ha detto il giornalista e critico triestino, che recentemente ha debuttato a teatro con lo spettacolo “Io odio i talent show” - il cantante si fosse preparato un monologo che doveva partire dal fatto che a quell’ora, di sabato sera, i ragazzi stavano per uscire, e che era un peccato, visto che lui stava per dire alcune cose che avrebbero potuto e dovuto interessar loro. A un certo punto, l’imprevisto. Un semplice “bravo Adriano!” urlato da qualcuno in platea, sufficiente però a far perdere completamente il filo al nostro. Che d’un tratto non ricorda più le cose che voleva dire. Comincia allora a passeggiare sul palco, in silenzio, in attesa di ricordare qualcosa, e si accorge che l’attenzione del pubblico rimane alta. Insomma, che la gente lo segue anche se sta zitto. Da lì, la consapevolezza di avere in mano un’arma in più per catturare l’attenzione del pubblico. Lo strumento più semplice, più elementare: il silenzio. Che non a caso è stato abbondantemente usato in tutti gli show televisivi che sono venuti dopo, fino al più recente, il “Rock Economy” di tre mesi fa dall’Arena di Verona. Senza dimenticare la sua presenza al Sanremo 2012. Per il suo compleanno Celentano ha regalato ai fan un video inedito: un provino per il cinema fatto quasi mezzo secolo fa, pubblicato sul suo blog (www.ilmondodiadriano.it/blog). «È il mio compleanno. E il modo migliore per farmi gli auguri, è che sia io a farli a voi con il video che ho postato», scrive l’artista presentando il provino al quale il regista Giuseppe De Santis lo sottopose per il ruolo di protagonista del film “Italiani brava gente”. Adriano superò il provino, ma non interpretò il film per non separarsi dalla moglie, Claudia Mori, all’epoca incinta. Il suo messaggio sul blog si conclude così: «Un augurio a tutti quelli che per amore, a volte sono costretti a dire una bugia e uno, ancora più grande, a quelli che non la diranno...». Una curiosità: ieri ha compiuto gli anni (76) anche Paolo Conte, autore di quella “Azzurro” che rimane uno dei maggiori successi di Celentano.

mercoledì 2 gennaio 2013

AGENDA 2013 / da sito ASSOSTAMPA FVG

Ripartiamo dalla legge sull'equo compenso, finalmente approvata dal Parlamento dopo anni di impegno del sindacato dei giornalisti e di tanti gruppi di base che hanno sollecitato l'azione dei nostri deputati e senatori. Oggi nell'azione sindacale abbiamo uno strumento in più: una legge che impone agli editori di retribuire in maniera adeguata quell'esercito di collaboratori, freelance, lavoratori cosiddetti autonomi, precari giovani e meno giovani, il cui lavoro è sempre più necessario per la realizzazione dei nostri notiziari, ma che finora è stato retribuito quasi sempre con compensi ridicoli, a volte sufficienti a malapena a recuperare le spese. I famosi cinque o dieci euro lordi ad articolo non saranno dunque più possibili. Chi tenterà di applicare ancora queste "tariffe" sarà chiamato a risponderne davanti a un giudice. E i giornali vedranno condizionati i contributi pubblici al rispetto di questa legge, che - ripeto - è un successo del nostro sindacato unitario, con tutte le sue strutture, centrali e periferiche. Una legge che sarà uno strumento per tentare di migliorare una situazione drammatica. Fatta anche di numeri. Oggi gli iscritti all’Ordine dei giornalisti sono in Italia oltre 112.000 (il triplo dei francesi, il doppio dei britannici). Ma nemmeno la metà di questi (per la precisione: il 45%) è ufficialmente attiva, soltanto uno su cinque (il 19,1% degli iscritti) ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato, con un reddito mediamente cinque volte superiore a quello di un freelance. In questi dati del Rapporto sulla professione giornalistica in Italia, presentato recentemente alla Fnsi, a cura di Lsdi, c'è tutta l'emergenza del lavoro giornalistico in Italia. Caratterizzata da un netto divario economico fra contrattualizzati e non contrattualizzati.  Aumentano i giornalisti con una posizione all’Inpgi: dai 43.300 del 2009 ai 46.243 della fine del 2011. Una crescita dovuta però soprattutto al lavoro autonomo, visto che l’ area di quello dipendente continua a restringersi, con un calo dei rapporti di lavoro del 5,1% dal 2008 alla fine del 2011. Aumentano anche gli stati di crisi. Nel solo 2011 sono stati trattati 55 accordi, di cui una decina ancora aperti, relativi a una cinquantina di testate e ai maggiori gruppi editoriali italiani. Ciò significa tanti prepensionamenti e  il sostanziale blocco del turn over. Sono scesi i praticanti: da 1.306 del 2009 a 868, mentre negli ultimi tre anni sono stati tagliati 3300 posti di lavoro soltanto nei tre maggiori gruppi: Rcs, Espresso e Mondadori. Cresce dunque lo squilibrio nel rapporto fra giornalisti attivi e pensionati, con conseguenze negative sulla salute degli istituti di categoria. Il rapporto fra attivi e pensionati continua a scendere, passando da 2,58 del 2010 a 2,45 del 2011. Tra l’altro, la maggiore contrazione riguarda il settore dei contratti Fieg/Fnsi - quelli che producono la parte più consistente della massa retributiva -, scesi a 14.951 rispetto ai 15.172 del 2010. Fin qui i numeri. Che dicono solo in parte della grande difficoltà in cui si trova a operare il sindacato unitario dei giornalisti. Impegnato sempre più a difendere il lavoro giornalistico, il pluralismo dell'informazione, la centralità delle redazioni. A lavorare per la tutela delle fasce più deboli della professione. A chiedere una nuova legge sull'editoria, una riforma della Rai che la restituisca ai cittadini, il rifinanziamento del Fondo per l'editoria debole (nel Fvg i giornali della minoranza linguistica slovena), interventi mirati capaci di garantire al settore qualità e prospettive di sviluppo. A opporsi a tutte le leggi bavaglio, ai conflitti di interesse, alle riforme peggiorative dell'attuale normativa sulla diffamazione, al carcere per i giornalisti. Nel 2013 partirà la trattativa per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro. Dobbiamo difenderlo perchè rappresenta quella rete di solidarietà e sicurezza economica e normativa uguale per tutti, così importante soprattutto per le realtà più piccole. Ma dobbiamo anche innovarlo, perchè oggi metà della professione non è contrattualizzata, gli editori approfittano della crisi per tagliare, tagliare e ancora tagliare. Lo vediamo anche nel Friuli Venezia Giulia, dove il Gruppo Espresso continua a ridurre gli organici del Piccolo e del Messaggero Veneto, nonostante bilanci in attivo. Nel nuovo contratto, dunque, saranno necessarie nuove forme di maggiore tutela anche per i tanti collaboratori, vero anello debole della catena. La legge sull'equo compenso e un'applicazione puntuale della Carta di Firenze saranno d'aiuto. Ma nell'agenda del sindacato c'è anche il diritto al contratto giornalistico negli uffici stampa (da difendere e allargare nella pubblica amministrazione) e per l'emittenza radiotelevisiva, che vive una crisi drammatica. Da ultimo ma non per ultimo, la difesa dell’Inpgi, della Casagit e dell'intero impianto di welfare dei giornalisti di oggi e di domani.

MUMFORD&SONS - BRYAN FERRY

A Firenze, dove il 15 marzo terranno uno dei concerti del loro breve e attesissimo tour italiano (le altre date: 14 a Milano, 16 a Roma, entrambe ovviamente già “sold out”), gli organizzatori hanno dovuto spostare la location dal locale di media grandezza dov’era originariamente previsto lo spettacolo al palasport, vista la forte richiesta di biglietti. Anche questo è un segnale del grande successo che sta premiando, in Italia e in mezzo mondo, i Mumford & Sons. Diventati con soli due album all’attivo uno dei maggiori fenomeni musicali dell’anno che abbiamo appena passato agli archivi. La loro ricetta? Profuma di antico, di anni Sessanta più ancora che di Settanta: il vecchio caro folk sciacquato nel grande fiume del rock, banjo (a volte suonato come una chitarra elettrica) e chitarre, suoni acustici e sgroppate elettrice. Nato a Londra nel 2007, il gruppo è composto da Marcus Mumford (voce, chitarra e batteria), Winston Marshall (voce, chitarra e banjo), Ben Lovett (voce, organo e tastiera) e Ted Dwane (voce e contrabbasso). Dopo tre “ep”, hanno debuttato nell’ottobre 2009 con l’album “Sigh no more”: un milione di copie vendute e secondo posto nelle classifiche inglesi e americane. “Babel”, il loro secondo album, pubblicato a settembre, ha stazionato a lungo ai vertici delle classifiche di vendita sia negli Stati Uniti che in Inghilterra. Ora, in attesa del prossimo disco nel quale promettono di abbracciare suoni e atmosfere elettroniche, senza disdegnare persino l’uso dei sintetizzatori, i quattro baldi giovani - giusto per battere il ferro finchè è caldo - pubblicano un cofanetto comprendente l’album citato, sia in cd che in versione vinile (e anche questa scelta la dice lunga sulle origini del gruppo...), un libro di un centinaio di pagine ma soprattutto un dvd, intitolato “The road to red rocks”, che permette a chi già li conosce ma soprattutto a quanti ancora non li hanno mai sentiti di fare la conoscenza, nella versione live, della band. Riviviamo allora la festosa atmosfera del concerto tenuto l’estate scorsa nell’anfiteatro di Red Rocks, in Colorado, che ci restituisce il gruppo in un autentico momenti di grazia. Nel dvd, che comprende anche un documentario girato durante il tour dell’anno scorso, quel che colpisce è soprattutto l’energia che la band riesce a tirar fuori dai propri strumenti (chitarra, batteria, mandolino, tastiera, banjo, basso, pianoforte, contrabbasso) e dalla voce di Marcus Mumford. Con brani come “Little lion man”, “Lovers eyes”, “Roll away your stone”, “Lover of the light”, “Thistle & weeds”, “Ghosts that we knew”... Da tenere d’occhio. Non sembrano assolutamente un fuoco di paglia. . BRYAN FERRY ORCHESTRA THE JAZZ AGE (Bmg) Si sapeva che l’ex Roxy Music amasse il jazz dei tempi belli. E lo aveva dimostrato già nel ’99, pubblicando “As time goes by”, godibilissima raccolta di standard degli anni Trenta. Stavolta, per celebrare i suoi quarant’anni di carriera, si regala - e ci regala - un’operazione ancor più coraggiosa. Dimentica di essere un cantante con i controfiocchi, si pone alla guida di un’orchestra e le affida la rilettura del suo ricchissimo repertorio (da solista e con i Roxy Music), spostando l’orologio della musica indietro di quasi cent’anni. Spazio allora ai suoni senza tempo degli Hot Seven di Louis Armstrong, dei Wolverines di Bix Beiderbecke, della Original Dixieland Jazz Band e delle orchestre di Duke Ellington e Humphrey Lyttelton... Sembra allora di rivivere gli anni del Grande Gatsby, dei romanzi di Francis Scott Fitzgerald, dei grammofoni a manovella. Per classici come “Do the strand” e “Don’t stop the dance”, “Avalon” e “The bogus man”, “Love is the drug” e “Virginia plain”.