venerdì 30 marzo 2012

MARIO BIONDI dom 1-4 a trieste, al rossetti

A Trieste, al Politeama Rossetti, il siciliano Mario Biondi ritorna con puntualità asburgica ogni due anni. Debutto da applausi nel marzo 2008, apprezzato bis e “tutto esaurito” nel maggio 2010, e adesso, domenica primo aprile, con inizio alle 21, è già tempo di tris.
In questi ventiquattro mesi, il ragazzone alto quasi due metri con la voce che sembra quella di Barry White non è certo stato con le mani in mano: due nuovi album (prima il live “Yes, you”, poi lo scorso anno il doppio “Due”), ancora tournée in Italia e all’estero, persino delle incursioni nel cinema di animazione.
All’estero, sì, perchè prima di essere conosciuto e apprezzato in Italia, il quarantunenne crooner catanese aveva già lavorato con successo a Londra, a New York e persino in Giappone. In Inghilterra, in particolare, l’uomo è molto amato sin da quando, cinque anni fa, la sua “This is what you are”, originariamente pensata per il mercato giapponese, grazie a un lungimirante dj aveva già conquistato Radio Bbc1 prima di essere adottata come jingle natalizio da Radio Montecarlo. Poi, la collaborazione con Bluey, il leader degli Incognito che ha remixato la sua “No’ mo’ trouble”, e un duetto con Chaka Khan hanno rafforzato il suo appeal oltremanica.
Davanti a questi successi, tornano alle mente le sue parole di qualche anno fa: «Quando negli anni Novanta portavo i miei provini alla Sony e in altre case discografiche, mi rispondevano sempre che questa roba in Italia non potrà andare, perché la casalinga che stira non sentirà mai le cose jazzate e soul. E io cercavo di immaginarmi che genere di essere umano fosse questa casalinga. Poi comunque, siccome avevo fatto vent’anni di concerti in giro, mi son detto: o ’sta casalinga non esiste più o si è evoluta, perché la musica non ha confini di stili e generi...».
Dal 1988 Mario Biondi faceva infatti da spalla alle grandi star internazionali che venivano a suonare in Italia, da Ray Charles in giù. Anni duri, nei quali comunque l’artista siciliano ha imparato moltissimo. «Devo dire che ho fatto molta fatica a restare a galla. Gavetta, cori, turnista. E ho incassato anche molti “no”. Per farcela bisogna riuscire ad arrivare al pubblico. Ognuno deve trovare il modo per toccare la gente. Non importa se con una “major” o con un’etichetta indipendente. Non importa se cominciando da angoli di nicchia o dalle piazze. Alla fine è il pubblico che decide, ed è una lotta continua. Io non mi sono mai arreso, sono andato avanti: di solito, quando trovo un ostacolo, faccio di tutto per superarlo, o almeno aggirarlo”.
Ostacolo dopo ostacolo, oggi Mario Biondi, all’anagrafe Mario Ranno (il cognome d’arte l’ha ereditato dal padre, il cantautore di incerte fortune Stefano Biondi), è uno dei musicisti italiani più apprezzati in giro per il mondo. Che ha lavorato fra gli altri con Burt Bacharach, che ha scritto per lui “Something that was beautiful”.
«L’ho conosciuto quando aprivo i suoi concerti italiani e non ero ancora famoso. La cosa incredibile è che lui stava dietro le quinte e mi faceva gesti di incoraggiamento. Ha una carica umana immensa e mi fa pensare che valga la pena vivere fino a ottant’anni. Avevo provato a chiedergli un brano ma sul momento non mi ha risposto. Qualche mese dopo, mentre stavo iniziando a lavorare al disco, ecco la sorpresa: mi arriva un suo “file” audio con il brano. Allora ho pensato: se Bacharach, uno dei mosti sacri della canzone mondiale, ti scrive una email dicendoti che il suo brano che tu hai interpretato andrebbe fatto sentire a gente che conta, vuol dire che c’è qualcosa di speciale nella tua voce. E che tutto non è avvenuto per caso».
Per caso non sono arrivati i tre album che l’hanno lanciato: “Handful of soul” del 2006, il live “I love you more” del 2007, “If” del 2009. «Sono andato a registrare “If” a Rio de Janeiro perché volevo che ci fosse un certo tipo di atmosfera. E in Brasile ho suonato con musicisti brasiliani. Volevo che nell’album ci fosse la loro forza, la gioia, il caldo, e anche quella malinconia particolare».
Negli ultimi due anni i nuovi dischi citati all’inizio hanno rafforzato la stima e il seguito dell’artista. Che ama variare. Dopo aver cantato nel 2008 due brani nella colonna sonora del rifacimento de “Gli Aristogatti”, come si diceva l’artista siciliano è stato doppiatore e interprete di alcuni brani della colonna sonora di un altro film disneyano, “Rapunzel – L’intreccio della torre” (nel quale prestava la sua voce al brigante dal cuore tenero Uncino). E ancora, l’anno scorso, ha interpretato il cattivissimo pappagallo Miguel nel film “Rio”.
Ora mario Biondi ritorna a Trieste con la sua orchestra, in questo tour cominciato il 7 marzo da Roma, e che dopo la tappa al Rossetti sarà il 3 aprile a Bergamo e il 4 a Milano. Un tour da “tutto esaurito” in ogni piazza, come si conviene a una grande star.

martedì 27 marzo 2012

AMERICA merc 28-3 a trieste, al rossetti

“A horse with no name”, “Ventura highway”, “I need you” e tante altre canzoni che fanno ancora parte della colonna sonora delle nostre vite, dagli anni Settanta in poi. Canzoni scritte e cantate dagli America, che arrivano a Trieste, per un concerto al Rossetti (stasera alle 21, biglietti ancora disponibili alle casse) che conclude un tour italiano cominciato dieci giorni fa a Salerno.
Quarant’anni fa quello che allora era un trio è stato fra i maggiori protagonisti dell’anima più leggera della West Coast americana. Quella più impegnata, in certi casi “più acida”, era rappresentata da Crosby Stills Nash & Young, Grateful Dead, Jefferson Airplane, Byrds... Ma anche loro, quei tre ragazzi dall’aria per bene, accusati dai duri e puri di fare musica commerciale, trovarono il modo per farsi amare da milioni di loro coetanei in tutto il mondo. Al pari degli Eagles e di poche altre band, hanno saputo raccontare la West coast, la Route 66, le infinite highway a stelle e strisce.
Partono da Londra, alla fine degli anni Sessanta, dove sono al seguito dei genitori, ufficiali della marina americana in servizio in Europa. Dewey Bunnell, Dan Peek e Gerry Beckley s’impongono come trio folk-rock. Fra il ’71 e il ’72 prima il singolo “A horse with no name” e poi l’album “America” finiscono ai vertici delle classifiche inglesi. Forti di quel successo tornano negli States, dove replicano la scalata delle hit parade. Nel ’73 arriva il primo Grammy, i successivi album vengono premiati dal pubblico a suon di milioni di dischi venduti.
Nel ’77 Dan Peek (morto lo scorso anno, nel luglio 2011) esce dal gruppo, Bunnell e Beckley proseguono in duo, facendosi affiancare da altri strumentisti dal vivo e in sala d’incisione. Nel ’79 esce “Silent letter”, ma è “You can do magic” a riportarli nell’82 ai vertici delle classifiche.
La band prosegue la propria attività dal vivo anche per tutti gli anni Novanta, fino ai giorni nostri (250 concerti all’anno, di cui 25 in Europa, 60 tra Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Asia, il resto negli Stati Uniti), supportando i tour con la pubblicazione di antologie, dischi dal vivo e nuovi album (come “Here & now”, del 2007) che però non aggiungono nuove perle al loro ricco repertorio. Fotografato dal recente album “Back pages”, nel quale la band rilegge i suoi maggiori successi.
Il tour che arriva a Trieste, firmato dal loro storico manager italiano Francesco Sanavio (uno dei maggiori organizzatori di concerti negli anni Settanta e Ottanta), fa parte del tour mondiale che festeggia il quarantennale del gruppo. Con Gerry Beckley (voce, chitarra e piano) e Dewey Bunnel (voce e chitarra), sul palco ci saranno Richard Campbell al basso, Michael Woods alla chitarra e Willy Leacox alla batteria e alle percussioni.
L’atmosfera da “come eravamo” verrà completata dalle immagini sul grande schermo, alle spalle dei musicisti, per ripercorrere le fasi più importanti della loro carriera. Oltre ai brani citati, sarà l’occasione per riascoltare altri esempi del loro particolare country-rock rivisto in chiave pop, quali “Sister golden hair”, “Tin man”, “Don’t cross the river”, “Sandman”...

venerdì 23 marzo 2012

MARCO MASINI 17 maggio a trieste

Marco Masini a Trieste, al Teatro Bobbio, giovedì 17 maggio. Si aggiunge dunque un altro nome al calendario musicale della primavera/estate appena partita, che vivrà il suo top l’11 giugno con Bruce Springsteen allo Stadio Rocco (prevendite ormai oltre quota 25 mila).
Masini (Firenze, 1964) è da oltre vent’anni un protagonista di primo piano della musica italiana. Dopo una lunga gavetta come autore, assieme al compianto Giancarlo Bigazzi, nel ’90 vince Sanremo Giovani con “Disperato”. Il primo di una lunga serie di successi, in Italia ma anche all’estero. L’album “T’innamorerai” vende nel ’93 oltre un milione di copie solo in Europa, preceduto dal singolo “Vaffanculo”, con cui l’artista risponde a modo suo ai suoi tanti critici. Fra un temporaneo ritiro dalle scene e diversi ritorni a Sanremo (nel 2004 con L’uomo volante”, nel 2009 con “L’Italia”), la storia musicale di Masini continua. Anche attraverso la collaborazione con l’antico amico Umberto Tozzi (album e tour “Tozzi Masini”, 2006).
Nel settembre scorso esce “Niente d’importante”, definito nelle note della casa discografica “un viaggio nel pianeta amore di un artista che ancora ricerca il senso della vita attraverso l'unica ragione di vita che ognuno di noi ha: amare per essere amato”. Ora questo tour, comincia con una “data zero” il 28 marzo al Teatro Mascagni di Chiusi, in provincia di Siena, e arriva a Trieste il 17 maggio.
Un appuntamento che si aggiunge a quelli con gli America (28 marzo al Rossetti), Mario Biondi (primo aprile al Rossetti), Peter Hammill (10 maggio al Miela), Biagio Antonacci (22 maggio al PalaTrieste) e - dopo il citato Boss - i Gogol Bordello (13 luglio a Sgonico). Ma altri aggiornamenti sono in arrivo.

giovedì 22 marzo 2012

BANCO sab a pordenone

«Volevamo evitare luoghi comuni del tipo “i nostri primi quarant’anni”. Ma ai nostri concerti ci ha sempre incuriosito l’alta percentuale di giovani. Allora ci siamo resi conto che in tutto questo tempo siamo sempre stati piuttosto reticenti nel parlare di noi. E che era arrivato il momento di colmare questa lacuna...».
Parla Vittorio Nocenzi, fondatore nel lontano ’68 del primo nucleo da cui poi, nel ’72, nacque il Banco del Mutuo Soccorso. Per tutti gli amanti della musica: il Banco, che festeggia il proprio quarantennale con questo tour che domani alle 21 fa tappa al Deposito Giordani di Pordenone.
«Ma non c’è solo questo tour - prosegue il musicista -. Ne faremo un altro fra l’estate e l’autunno. Poi ci sono due libri: “Sguardi dall’estremo Occidente”, già uscito, e la biografia autorizzata “Non ci rompete”, in arrivo».
Non può mancare un disco. S’intitola “Sacro massacro”, uscirà entro l’anno, con brani inediti e cover di altri pezzi del gruppo affidati ad alcuni amici e colleghi. Uno è Franco Battiato. «Con lui abbiamo fatto “Imago mundi”, il brano uscirà entro un paio di mesi, anticipando l’album. Con Franco abbiamo cominciato assieme, nei festival pop dei primi anni Settanta. Lui all’epoca faceva cose sperimentali come “Fetus” e “Pollution”. Ritrovarci è stato un grande piacere. E in questo mondo che va al massacro, parlare dell’anima umana ci è sembrata la cosa più opportuna».
Ritrovarsi. Come con le Orme, ospitate in questo tour. «E e probabilmente nel prossimo. La cosa è nata per caso. L’anno scorso li abbiamo incontrati in occasione di un nostro concerto alla casa del jazz, a Roma. Ci è piaciuta l’idea di suonare assieme. E devo dire che la cosa sta funzionando».
Assieme, le due band hanno scritto la storia del pop italiano. Ma Nocenzi vuole puntualizzare una cosa. «Sì, non vorrei che questa collaborazione fosse letta come una sorta di piccolo “festival del prog”. La musica progressive è stata ed è parte importante della nostra storia. Ma noi facciamo musica a trecentosessanta gradi, non solo prog. Abbiamo abbracciato il rock e il jazz, e molto di quello che sta in mezzo».
Del vecchio Banco, in questa versione 2012, sono rimasti in due. «È vero, io e Francesco Di Giacomo. Anche se lo stesso Rodolfo Maltese, che non partecipa a questo tour per i postumi di un intervento chirurguico, fa parte della band ormai da oltre vent’anni. Con noi, ci sono altri quattro validissimi musicisti».
Il ricordo torna ai primi anni Settanta, quando l’immagine del Banco era affidata a Di Giacomo e ai due fratelli Nocenzi. «Gianni sta bene. Lui è uscito dal gruppo molti anni fa. Ovviamente è ancora un ottimo pianista, ma fa altre cose: si occupa molto di tecnologia, oltre che di musica. Ha fatto una scelta rispettabile...».
Sù, prosegua. «Che dire? Finchè in Italia la musica è considerata intrattenimento, e non cultura, è chiaro che gli spazi per lavorare rimangono ristretti. Gianni, tanti anni fa, ne ha preso atto. Noi abbiamo continuato a combattere, consapevoli delle difficoltà».
Una punta di legittimo orgoglio, come un comandante che ha passato tante battaglie. «Quando abbiamo cominciato - conclude Vittorio Nocenzi -, sentivamo l’esigenza di sperimentare. Oggi il mondo della musica è un’altra cosa. E forse è proprio per questo che tanti giovani vengono a sentire i concerti del Banco».
Il gruppo romano debuttò nel ’72 con l’album omonimo, che non passava inosservato già dalla copertina: un enorme salvadanaio di cartone, che nelle collezioni di album in vinile dell’epoca creava persino problemi di sistemazione, mentre oggi è un pezzo da collezionisti.
Si capì subito che si trattava di una delle esperienze più innovative dell’allora nascente pop italiano. Il debutto discografico arrivò dopo un’audizione alla Rca, con l’inserimento in una compilation di nuovi gruppi, e dopo la partecipazione a vari festival pop: Caracalla, estate ’71, Villa Pamphili, estate ’72...
Il Banco colpiva l’ascoltatore con brani come “R.I.P. (Requiescant in pace)”, “Il giardino del mago”, “Metamorfosi”... L’uso classicheggiante delle tastiere e la particolarissima voce tenorile di Francesco Di Giacomo erano il marchio di fabbrica. Il resto: contaminazione tra “prog-rock” inglese, sonorità mediterranee, tradizione del melodramma italico, grande originalità.
Nello stesso ’72 uscì anche il secondo disco, intitolato “Darwin!”, concept album sul tema della teoria sull'evoluzione delle specie di Charles Darwin, proclamato da trecento critici americani “miglior disco progressive dell’anno”. A seguire: altri album, collaborazioni illustri, musiche per il cinema, tour in mezzo mondo. E una storia non ancora conclusa.

domenica 18 marzo 2012

IVANO FOSSATI, LA COSTRUZIONE DI UN ADDIO lunedì ultimo concerto a Milano

«Mi sento come quando si chiude un libro dopo averlo letto tutto d’un fiato. La mia carriera e le canzoni mi hanno fatto vivere anni irripetibili. Scintillanti e qualche volta non facili allo stesso tempo. Ma si può provare a guardare anche più avanti di così e adesso vorrei proprio farlo...».
Ivano Fossati stasera al Piccolo Teatro di Milano conclude il “Decadancing Tour” e, incidentalmente, la sua carriera. Non sono passati nemmeno sei mesi da quella prima domenica di ottobre. Ospite di Fabio Fazio su Raitre, comunicò la decisione con calma, con quell’espressione «che abbiamo noi che abbiamo visto Genova...». Ultimo album, ultima tournée, basta con il mestiere di cantautore. Qualcuno credette al solito annuncio promozionale, per lanciare un disco nuovo con annessa serie di concerti. Non lo conosceva.
Eppure l’aveva spiegato bene: «È una decisione serena, di quelle che si prendono in tanto tempo. Ho compiuto sessant’anni e ho sempre saputo che, raggiunta questa età, avrei voluto cambiare, fare altro». E ancora: «Mi sono sempre chiesto se al prossimo disco avrei potuto garantire la stessa passione che mi ha portato fino a qui. Non credo che potrei ancora fare qualcosa che aggiunga altro rispetto a quanto, nel bene e nel male, ho messo nei dischi finora».
Va detto che l’album “Decadancing” ha beneficiato dell’effetto annuncio. Pur non all’altezza di suoi tanti capolavori, ha frequentato per molte settimane i vertici delle classifiche. E anche il tour giunto all’epilogo - e passato anche a Udine, giusto un mesetto fa -, con le sue quarantatre date tutte esaurite, ha conosciuto numeri non usuali.
Ma ciò non inficia la serietà, la grandezza di una decisione che non ha molti precedenti. L’industria della musica, in Italia e all’estero, è piena di personaggi che non mollano le luci della ribalta neanche se presi a pedate. Gente che, avesse fatto un lavoro “normale”, sarebbe da un pezzo in pensione anche con le restrittive regole inaugurate dal governo dei tecnici. E invece è ancora lì, a tentare la fortuna con un altro disco, a raccattare l’interesse dei nostalgici con l’ennesimo tour, a monetizzare fama e fortuna lontane con un’apparizione in tivù. Per non parlare di quelli che annunciano il ritiro, e poi, dopo un paio d’anni, magari con la formula di una non necessaria “reunion”, come se niente fosse si ripresentano a raschiare l’ennesimo fondo dell’ultimo barile.
Fossati è di altra pasta. Ci ha regalato grande musica e canzoni memorabili (“La costruzione di un amore”, “Mio fratello che guardi il mondo”, “Una notte in Italia”...), mai banali. Dagli esordi giovanissimo con i Delirium (l’album “Dolce acqua” nel ’71, “Jesahel” a Sanremo ’72...) all’attività come autore (per Mia Martini, Mina, Patty Pravo, Vanoni, Berté, Mannoia, Oxa: domani Emi pubblica un album, “Pensiero stupendo”, dedicato al Fossati autore), dalla collaborazione con De Andrè (“Le nuvole” e “Anime salve”) alla lunga discografia solista: “La mia banda suona il rock” e “Panama e dintorni”, “Le città di frontiera” e “Ventilazione”, “700 giorni” e ”La pianta del tè”, “Discanto” e “Lindbergh”. E ancora “Macramè”, “La disciplina della terra”, “L'arcangelo”...
Stasera, a Milano, saluta la compagnia. Con una dignità che dovrebbe essere d’esempio per molti. In tanti settori.

ORME, FESTA x 40 ANNI DEL BANCO sabato a pordenone

Il Banco (già del Mutuo Soccorso) compie quarant’anni, festeggia con un tour - che sabato 24 fa tappa al Deposito Giordani di Pordenone - e chi chiama per condividere palcoscenico e celebrazione? Ma ovviamente le Orme, gruppo assieme al quale ha scritto la storia del pop italiano. «Come tutte le cose belle - spiega il batterista Michi Dei Rossi, unico superstite della formazione originale, dopo l’addio indolore del tastierista Toni Pagliuca e quello con strascichi giudiziari del bassista Aldo Tagliapietra - anche questa è nata per caso. E sta funzionando. Sul palco, durante i concerti, sembra quasi che il tempo si sia fermato. Fra noi e loro c’è un ottimo dialogo umano e professionale». Altri ricordi. «Quando il Banco debuttò, noi eravamo in scena già da qualche anno, era uscito l’album “Collage”, facevamo le nostre tournèe. Ricordo che andai a vedere una loro anteprima dal vivo, vicino Milano, e rimasi entusiasta per l’originalità della loro proposta musicale dell’epoca. Il loro uso delle tastiere, le costruzioni dei brani, i testi». Eppure, per collaborare hanno aspettato quarant’anni. «Già, non era mai capitata l’occasione. Rapporti di buona colleganza, mai sentimenti di invidie o gelosie reciproche. Fino a che è arrivata quest’occasione. Forse era destino così». Che storia, quella delle Orme. Veneto, fine degli anni Sessanta, il beat comincia a lasciare il campo al nascente pop. Inizialmente avevano scelto di chiamarsi “Le Ombre”, in omaggio agli inglesi Shadows, ma poi cambiarono idea per evitare ironie e doppi sensi (“ombra” in veneto è il bicchiere di vino...). Al Disco per l’estate del ’68 cantano “Senti l’estate che torna”. Ed è un successo. Ma il botto arriva nel ’71 con l’album “Collage”. «Sì, quel disco ci ha cambiato la vita - ammette Dei Rossi -. Siamo passati dai garage dove facevamo le prove ai palasport, ai teatri, ai grandi raduni all’aperto. Nell’estate ’70 partimmo con il furgone per l’Isola di Wight, dove assistemmo all’ultima grande esibizione dal vivo di Jimi Hendrix. C’erano anche Emerson Lake & Palmer, di cui eravamo dei fan». Ancora Dei Rossi: «Eravamo partiti con il vecchio beat nelle orecchie, tornammo ebbri di suoni, sensazioni, idee nuove. Eravamo pronti per gli anni Settanta e per il pop italiano. Il pubblico fu subito dalla nostra parte. Cominciava un decennio speciale, c’era un fermento che oggi non c’è più, noi che stavamo sul palco avevamo la stessa età del nostro pubblico, assieme eravamo protagonisti di una rivoluzione musicale e al tempo stesso culturale». Tanti anni dopo, la storia finisce in tribunale. Tre anni fa, Tagliapietra esce dal gruppo. Dei Rossi continua con il tastierista Michele Bon, entrato nel ’90, e con gli altri nuovi compagni. «Tagliapietra ha chiesto al giudice di vietarci l’uso del nome Le Orme, registrato al cinquanta per cento fra noi due. Richiesta respinta. Ma la causa è ancora in corso». Meglio non pensarci. E dedicarsi a questo tour con il Banco, che forse avrà anche un seguito discografico. «Nella prima parte del concerto - conclude Dei Rossi - siamo in scena da soli: presentiamo le canzoni del nostro nuovo album, “La via della seta”, uscito un anno fa e accolto con interesse anche all’estero. Poi tocca al Banco. E alla fine facciamo i bis assieme: due canzoni nostre, di solito “Gioco di bimba” e “Sguardo verso il cielo”; e due loro, quasi sempre “Fino alla mia porta” e “Non mi rompete”. È una grande festa, davvero...».

venerdì 16 marzo 2012

DISCHI / CAMMARIERE e finardi

A quasi tre anni dal precedente lavoro “Carovane”, che già aveva spalancato la finestra della sua curiosità verso le musiche e i ritmi del mondo, Sergio Cammariere torna con un album - intitolato semplicemente con il suo nome e cognome, etichetta Sony - e un tour che parte lunedì da Bologna. Un periodo, quello di silenzio discografico, dedicato alle composizioni per il cinema e il teatro, che ci restituisce ora il musicista e cantautore calabrese di nascita (Crotone, 1960, una lontana parentela con Rino Gaetano) e romano d’adozione nel pieno della sua maturità artistica. Lo dimostra questa manciata di canzoni nuove, che si inseriscono nel solco migliore della poetica elegante e raffinata che il grande pubblico cominciò a conoscere anni fa con l’album “Dalla pace del mare lontano” (fra l’altro da un verso del goriziano Carlo Michelstaedter). Sonorità ricercate, impreziosite dai ritmi del mondo, con lo straordinario collante rappresentato dall’intensità interpretativa dell’artista. Canzone jazz, si diceva al suo apparire, forse per uscire in qualche modo dalla difficoltà di ingabbiare in un’etichetta la musica di Cammariere. Ma queste pennellate d’arte musicale sono in realtà di più. E di diverso. Spaziando fra bossa nova e samba, echi di folklore balcanico e ritmi quasi cubani, blues e canzone, tentazioni classicheggianti e tradizione jazz. Nell’album - dedicato all’amico Pepi Morgia, regista, scenografo e artista delle luci recentemente scomparso - dodici brani e una “bonus track”, “Sinestesie”, per pianoforte solo, scaricabile soltanto su iTunes. Nel paniere, anche due brani strumentali (spicca l’intensità di “Thomas”) e un omaggio al grande Vinicius de Moraes, “Com’è che ti va?” (Onde anda você), con testo liberamente ispirato dell’indimenticato Sergio Bardotti e di Nini Giacomelli. Fra gli altri titoli: “Ogni cosa di me”, “Inevitabilmente bossa”, “La mia felicità”. Ma anche “Transamericana”, “Controluce”, “Notturno swing”... Per gli altri testi Cammariere si avvale della consolidata collaborazione di Roberto Kunstler, cui si aggiungo per l’occasione lo scrittore Sergio Secondiano Sacchi e il musicista/narratore Giulio Casale. Completano il cast Luca Bulgarelli al contrabasso, Amedeo Ariano alla batteria, Bruno Marcozzi e Simone Haggiag alle percussioni, Olen Cesari al violino. Più Fabrizio Bosso alla tromba (che farà anche lo “special guest” nel tour in partenza), Michele Ascolese alle chitarre, Roberto Rossi al trombone, Francesco Puglisi al contrabbasso, Marcello Di Leonardo alla batteria, Max Ionata al sax. --- EUGENIO FINARDI “SESSANTA” (triplo cd, Edel) Eugenio Finardi compie a luglio sessant’anni. Per festeggiarsi, è tornato al Festival di Sanremo a cantare “E tu lo chiami Dio”. Ma soprattutto ha pubblicato un triplo cd che ripercorre una carriera che iniziò giusto quarant’anni fa, all’alba dei Settanta. Riascoltiamo allora i suoi successi storici (“Musica ribelle” e “La radio”, “Extraterrestre” e “Saluteremo il signor padrone”, “Le ragazze di Osaka e “Non è nel cuore”...), ma scopriamo anche cinque inediti: “Nuovo umanesimo”, “Why?” (classico pezzo blues), “Maya” e “Passerà” (brano country), oltre al pezzo sanremese. Bella raccolta, che permette ai più giovani di conoscere in maniera organica uno degli artisti più rappresentativi della musica italiana degli anni Settanta e Ottanta. Poi ha fatto un po’ di tutto, esplorando territori culturalmente e musicalmente diversi. In una commistione di generi che ritroviamo in questi tre cd, testimonianza di una carriera importante, che attraversa quattro decenni.

ROGER DALTREY DOM A TRIESTE

“Tommy”, ovvero la storia della musica rock. Domenica sera rivivrà al Rossetti grazie a Roger Daltrey, storico cantante e “front man” degli Who, la band inglese che pubblicò nel ’69 l’omonimo album doppio (scritto quasi interamente dal chitarrista Pete Townshend), che nel corso degli anni ha venduto oltre venti milioni di copie. Con “Quadrophenia” una delle due opere rock cui rimane legato il nome del gruppo, famoso all’epoca anche per aver lanciato nel ’65 quella sorta di inno generazionale che era “My generation”. “Tommy”, da cui nel ’75 fu poi tratto l’omonimo film di Ken Russell, che chiamò lo stesso Daltrey per il ruolo del protagonista, racconta la storia di un ragazzo nato alla fine della guerra mondiale (la prima nel disco, la seconda al cinema), che diviene sordo, cieco e muto dopo l’omicidio dell’amante di sua madre da parte del padre. Il ragazzo assiste alla scena da dietro uno specchio, gli dicono di non dire, vedere e sentire nulla (e infatti “See me, feel me, touch me, heal me” - presentata anche a Woodstock - era il tema del disco). Tommy diventa così muto, cieco e sordo. Peggiorano la situazione violenze sessuali e atti di bullismo subiti in famiglia. Le cure sembrano tutte inutili, finchè un giorno il ragazzo si scopre un “mago del flipper”, ottenendo così notorietà e ricchezza. E avviando un percorso di rinascita che lo porta a diventare una sorta di “guru”, in grado lui stesso di liberare e curare gli altri. «Credo che “Tommy” - ha detto Roger Daltrey, classe ’44, presentando il tour italiano - fosse particolarmente in sintonia con i suoi tempi. Non ho mai ritenuto che raccontasse la storia di una persona, sono invece convinto che parlasse di tutti noi. Quando uscì fu accolto con scetticismo e molti reagirono in modo negativo. Parte dell’opinione pubblica e della critica ritennero addirittura osceno che un disco parlasse di qualcuno che era muto, cieco e sordo. Ma quella metafora serviva per guardare all’esterno con occhi diversi, per raccontare la società in cui vivevamo, le sue distorsioni e le sue oscenità». Ancora Daltrey: «Se dovessi spiegare cos’è una rock opera, la assimilerei semplicemente alla musica classica. E “Tommy” è veramente un’opera di musica classica. È così che va concepito: per la sua struttura, per la costruzione delle canzoni, perché è un lavoro organico. Io lo tratto e lo considero con lo stesso rispetto che di solito si riserva a un pezzo di musica classica di grande levatura». Nel tour italiano, cominciato da Padova e che toccherà, dopo Trieste, anche Firenze e Roma (due date), prima di concludersi il 24 marzo a Milano, Daltrey è accompagnato dai suoi No Plan B, ovvero Frank Simes e Simon Townshend (fratello di Pete) alle chitarre, Jon Button al basso, Loren Gold alle tastiere e Scott Devours alla batteria. Dopo la scomparsa del batterista Keith Moon nel ’78 e del bassista John Entwistle nel 2002, Pete Townshend e Roger Daltrey hanno continuato a proporre dal vivo i classici del gruppo. Dopo la momentanea separazione per questo tour, i due “superstiti” hanno in animo di riunirsi per riproporre assieme l’altra opera rock, “Quadrophenia”.

lunedì 12 marzo 2012

GIORGIA MERC A UDINE

«Cosa c’è “Dietro le apparenze”? Con questo titolo volevo dire che ora riesco ad allargare il mio sguardo sulle cose e sulle persone. Ho raggiunto una nuova consapevolezza. A volte si crede di essere in un modo ma ci si accorge di essere diversi».
Parla Giorgia, che domani sera debutta a Udine con un concerto al palasport Carnera, nell’ambito del suo “Dietro le apparenze Tour”, che prende il nome dal nuovo album pubblicato a settembre. Dopo il quale il pubblico record dello show tv di Fiorello l’ha ammirata nelle sigle di coda “stile varietà televisivi in bianco e nero degli anni Sessanta”...
L’hanno paragonata a Mina: felice?
«Come non esserlo, lei rimane una grandissima artista. Da piccola, con mia madre ascoltavo tanta musica italiana, ma soprattutto Mina e Lucio Battisti. Con mio padre invece più musica black. Sì, posso dire che lei sicuramente ha influenzato la mia crescita artistica».
Elisa?
«Siamo amiche, ho un grande sintonia con lei. E mi piacerebbe molto pensare a un progetto insieme. Aspettiamo che i bimbi crescano un po’».
Ecco, il figlio come le ha cambiato la vita?
«Avere un figlio ti impone di attingere a tutte le tue risorse. Ti scopri anche come non ti conoscevi, e avendo il privilegio di fare un lavoro in cui ti devi esprimere tutto ciò è molto bello».
La sua classifica dell'ultimo Sanremo?
«Diciamo innanzitutto che sono molto felice che nei primi tre posti ci siano state tre donne. Potrei dire: “Girl power!”. Nel complesso benissimo così, ma nella mia personale classifica voto la serata dei duetti, una serata di musica con uno scambio bellissimo tra gli artisti».
Dei “talent” cosa pensa?
«Quando ho cominciato io c’era la musica dal vivo, era tutto diverso. I “talent” sono la novità di questi ultimi anni. Gli artisti che escono da lì imparano subito a stare in televisione, da subito affrontano critiche durissime, per questo per me sono un po’ degli eroi».
Cosa ascolta in questo periodo?
«I dischi della grande Whitney Houston, che voglio ricordare. Mi manca tantissimo e mi mancheranno la sua voce, la sua intonazione, le sue note perfette. Per il pubblico che verrà al concerto a Udine ci sarà una sorpresa, non vi svelo il brano ma le farò un omaggio: mi emozionava sempre, io amavo tutto di lei».
L’album “Dietro le apparenze” è tuttora tra gli album più venduti in Italia. Il tour è cominciato da pochi giorni, dopo le anteprime di gennaio a Roma e Milano. Nelle due ore di concerto, oltre alle canzoni del nuovo album e l’annunciato omaggio a Whitney Houston, spazio a grandi classici come “Di sole e d’azzurro”, “Gocce di memoria”, “Come saprei”... Con Giorgia, sul palco, Sonny Thompson (basso e voce), Mike Scott (chitarre), Mylious Johnson (batteria), Claudio Storniolo (piano e tastiere), Gianluca Ballarin (tastiere), Diana Winter e Chiara Vergati (cori).

venerdì 9 marzo 2012

MADONNA, FORFAIT PER 11-6 ZAGABRIA

Springsteen batte Madonna per abbandono. Potremmo raccontarla così, mutuando il linguaggio sportivo. La verità è che il virtualissimo derby fra il Boss e la signora Ciccone, in programma lunedì 11 giugno fra Trieste e Zagabria, non si terrà. Il megashow della popstar allo Stadio Maksimir della capitale croata è stato infatti annullato. Ufficialmente per non meglio identificate “ragioni logistiche”. In realtà pare che la causa vada ricercata nelle basse prevendite dei biglietti.
L’annullamento - annunciato dal promoter locale Adria Entertaiment e da Live Nation - segue quello dell’agosto 2009 a Lubiana: anchè lì, a fronte di “soli” settemila biglietti staccati in prevendita, la data fu cancellata, lasciando a bocca asciutta i fan della zona.
L’ex Jugoslavia non ama Madonna? Chissà. O forse, più pragmaticamente, è un problema di costi: dello show e dunque dei biglietti. Che per Zagabria costavano da un minimo di 37 a un massimo di 136 euro, con inarrivabili “posti vip” vicini a quota 400. Per i due concerti italiani finora previsti dal tour (14 giugno a Milano, 16 a Firenze), i biglietti costano invece dai 50 ai 170 euro, anche qui con carissimi “posti vip” in vendita solo via internet. E gira voce fra gli addetti ai lavori che la data dell’11 giugno, libera dopo l’annullamento a Zagabria, potrebbe essere “ceduta” proprio all’Italia, per un concerto allo Stadio Olimpico di Roma. Prima di arrivare in Italia, Madonna sarà il 7 giugno a Istanbul: concerto già tutto esaurito. Come tutto esaurito è anche il primo dei due spettacoli previsti a Barcellona a fine luglio.
Per quanto riguarda i fan provenienti da Trieste e dal Friuli Venezia Giulia, per il concerto di Zagabria l’agenzia Multimedia-Radioattività aveva venduto poco meno di duecento biglietti: rimborsi a partire da lunedì. Mentre proseguono le prevendite per la tappa a Vienna, il 29 luglio, del Madonna World Tour. Che partirà il 29 maggio da Tel Aviv, in Israele, e toccherà Europa e Stati Uniti, ma anche Australia e Sud America, dove non si esibisce da vent’anni.
Intanto, il 26 marzo esce “Mdna”, dodicesimo album in studio dell’artista.

lunedì 5 marzo 2012

DOPO IL PALATRIESTE, NUOVO LUTTO A REGGIO CALABRIA

Palchi sempre più grandi, strutture affette da gigantismo, faraonici impianti di amplificazione e luci. E di conseguenza lavori di montaggio/smontaggio sempre più complessi, che impongono ritmi di lavoro pesanti. Basti pensare che la tragedia di Reggio Calabria, a tre mesi da quella al PalaTrieste nella quale ha perso la vita Francesco Pinna, è avvenuta dopo le due di notte, mentre una squadra di operai stava lavorando perchè tutto fosse pronto per il concerto che Laura Pausini avrebbe dovuto tenere ieri sera.
Poco più di quarantotto ore prima, Jovanotti aveva detto al PalaTrieste: «Tanti passi avanti sono stati fatti sui livelli di sicurezza del nostro lavoro, ma bisogna lavorare ancora perchè non ci siano più incidenti sul lavoro, perchè la vita è la cosa piu importante ma anche piu fragile che c’è».
Purtroppo il nuovo lutto dimostra che l’industria della musica dal vivo dà il suo macabro contributo ai 1100 morti all’anno in Italia (dato del 2011, media di tre lutti al giorno) ed è diventata un settore a rischio per quel che concerne la sicurezza. Le cause sono note. Controlli non sempre adeguati sulle strutture, standard di sicurezza a volte non rispettati, turni di lavoro giorno e notte.
Passi avanti sono stati fatti rispetto a tanti anni fa, con barriere antipanico che non diventano trappole come le transenne rovesciate, controlli sugli impianti elettrici, regolazione di afflussi e deflussi. Ma dopo il ripetersi di tante tragedie, in Italia e all’estero, forse è arrivato il momento di dire basta a questa corsa senza fine verso il palco sempre più grande, la struttura sempre più avveniristica, la “scatola” sempre più sorprendente per lasciare a bocca aperta lo spettatore.
Oggi per allestire un concerto di una star in uno stadio si muovono anche 40 tir. Un ridimensionamento di palchi e strutture, unito magari a un contenimento dei compensi per gli artisti, avrebbe un effetto benefico anche sui biglietti d’ingresso ai concerti, arrivati ormai a vette non sostenibili in tempi crisi, soprattutto per un pubblico giovane. Perchè se per i big la media si aggira sui 40/50 euro, in casi particolari (esempio: Madonna) i picchi superano i 150. Troppi, per due ore di musica.

TRIESTE, BELLA ADDORMENTATA di Aldo Cazzullo, Corriere della Sera

Siamo tutti in debito con Trieste. Conquistata al prezzo di 650 mila vite, perduta nel disastro della guerra e dell'esodo istriano, ripresa dopo 18 mesi di crimini nazisti, 40 giorni di massacri titini e nove anni di occupazione angloamericana, e poi dimenticata. Trieste che ha dato all'Italia Saba e Svevo, Strehler e Magris, Kezich e Dorfles, Trieste crocevia di tre mondi, latino tedesco slavo, Trieste la città più settentrionale del Mediterraneo e più meridionale della Mitteleuropa; eppure Trieste è in un angolo, anche oggi che a cinque chilometri non c'è più il comunismo ma l'Europa di domani, non la cortina di ferro ma l'Est entrato nella sfera d'influenza tedesca. Di questa opportunità, il Paese non si è accorto: alla sua unica grande città di confine l'Italia volge le spalle; l'Italia finisce a Mestre. A Mestre - signori, si scende - la ferrovia rallenta, ferma in ogni stazione, si inerpica in salita, passa su viadotti ottocenteschi. Eppure si è scelto di non costruire la linea ad Alta velocità insieme con la terza corsia dell'autostrada; prima o poi bisognerà farla, ma a costi doppi. Un secolo fa, da Trieste partivano treni diretti per Fiume, Lubiana, Ragusa, Mostar, Belgrado, Budapest; ora (anche a causa dei ritardi sloveni) non si va più neppure a Vienna. In vagone letto si arrivava a Belgrado e a Parigi; ora si va solo a Lecce. Per Roma bisogna cambiare: «Ci si mette più tempo ad andare in treno da Trieste a Roma che in aereo da Roma a New York» ha scritto Giovanna Botteri sul Piccolo, che sta raccogliendo le testimonianze di triestini indignati (il giorno prima toccava a Margherita Hack, toscana che lavora qui dal '64: «A Mestre si perde sempre la coincidenza, non ci aspettano mai...»). L'antico porto dell'Impero adesso è più piccolo di quello di Capodistria. L'Adriatico davanti a Trieste pare un lago, a occhio nudo si vedono le sponde slovene e quelle croate, potrebbe diventare un mare urbano, una piazza d'acqua solcata dalle navi. Ma il traffico passeggeri langue, non si trova l'accordo per nominare i dirigenti del Terminal tra gli investitori privati e la presidente dell'autorità portuale, Marina Monassi, casualmente compagna del controverso capo locale del Pdl Giulio Camber, detto il Castellano per la sua signorile dimora. Il porto vecchio voluto da Maria Teresa è in rovina. Le Generali volevano farne la sede delle attività italiane; il Comune si oppose, le Generali si spostarono a Mogliano Veneto (a Trieste resta la sede della holding internazionale, oltre a decine di insegne sui palazzi più belli, come un marchio sulla città). Poi si è fatta avanti la Evergreen, colosso cinese, che però avrebbe abbattuto i magazzini storici; altro rifiuto, stavolta giustificato. Ora dovrebbero finalmente cominciare i lavori per restituire il mare alla città, com'è accaduto a Genova, e spostare le ultime attività nel porto nuovo, che boccheggia chiuso com'è dalla ferriera, in mano ai russi, e poco più in là dalla Grandi Motori, comprata dai finlandesi. Trieste ha poco di Nord Est, e meno ancora di italiano. Non è città di piccoli imprenditori ma di mercanti cosmopoliti: sette cimiteri - cattolico, ebraico, islamico, greco-ortodosso, serbo-ortodosso, evangelico, più quello militare con tombe di ogni religione - e neppure un ghetto. Ci sono chiese luterane, valdesi, metodiste, anglicane, oltre a una sinagoga tra le più grandi d'Europa e una chiesa ortodossa di commovente bellezza, San Spiridione, con le cupole e l'iconostasi dorata come al Cremlino. Cose che esistono solo qui: i buffet dove servono le carni affumicate con il kren, i ricreatori - oratori laici per i ragazzi, aperti dai tempi degli Asburgo -, i caffè che servirono la Sachertorte a Joyce e a Rilke: perché, spiega Claudio Magris, «quando una città non sa dov'è, di chi è, che cos'è, allora si affida alla letteratura». Il primo cittadino, Roberto Cosolini Magris sorride del revival austriacante. Il sindaco pd Roberto Cosolini, appena vinte le elezioni, si è portato a Vienna a incontrare il borgomastro: il 2014, anniversario della Grande Guerra scatenata dall'Austria, sarà celebrato a Trieste con mostre e concerti in memoria della buona amministrazione asburgica; ma non è nostalgia per cose passate, è solo un modo per ricordare all'Italia che Trieste esiste. Certo, arrivando da Roma o da Milano (il volo da Linate è stato ripristinato), pare quasi di essere in un altro Paese. Di solito in Italia si dice sempre di sì, e poi non si fa nulla. I triestini dicono sempre di no - «No se pol!» -, e poi fanno tutto. Si può andare in Slovenia con l'auto noleggiata? «No se pol, ci vogliono le catene!»; in realtà le catene sono già a bordo. Avete una cartina? «No, sono finite!»; ma a bordo ci sono anche le cartine. Un minaccioso cartello avverte che «se il veicolo sarà restituito particolarmente sporco saranno addebitati euro 71 di lavaggio». Per avere un antibiotico senza ricetta si viene - giustamente - rimproverati da quattro farmacisti prima di essere accontentati dal quinto. Di solito alla vista di una telecamera gli italiani si fiondano facendo ampi gesti di saluto; i triestini cambiano marciapiede, «grazie ma preferirei non comparire». Le macchine si fermano sulle strisce e non parcheggiano (quasi mai) in doppia fila. Si trovano i taxi. Le pizzerie invece sono rare, più facile trovare la porcina con i crauti che una margherita. Riccardo Illy, 56 anni, per 8 anni sindaco di Trieste e per cinque governatore della Regioene (Imagoeconomica) La Bella Addormentata, come qualche triestino chiama la sua piccola patria, si sveglia con il buio. La città ha angoli metafisici ed episodi surreali: d'un tratto si sente un coro notturno, una canzone goliardica, un suono di campane, che battono implacabili tutte le ore, anche le tre del mattino. Mai visti tanti autovelox e tanta polizia, anche la sera, in una città italiana. La settimana scorsa poi c'erano in giro un sacco di scozzesi in kilt: tifosi dell'Aberdeen. Si giocava in Slovenia ma loro sono scesi in albergo qui, dopo aver letto la classifica della Lonely Planet che colloca Trieste in testa tra le città belle e poco conosciute (Aberdeen è quinta). I giovani triestini, che raccontano di sentirsi talora allo stretto, quasi al confino, fanno il percorso inverso e vanno a Lubiana, che per bellezza non regge il confronto con la loro città ma è pur sempre una capitale. Si pagano 15 euro per la «vignetta», il pedaggio autostradale, e si risparmia il 30% sulla benzina, la metà sul dentista, due terzi sui centri benessere. Chi ha soldi da gettare punta invece verso la costa, su Portorose e i suoi casinò; oppure porta qui la barca, per sfuggire alle tasse del nuovo governo. Le terre slave fino a qualche anno fa suscitavano ancora diffidenza, se non odio e timore. Spiega Magris che nel giro delle generazioni si sono sciolte rivalità ataviche, superati rancori di guerre e occupazioni: «Fra i miei studenti, ad esempio, il problema non esiste. La celebrazione - voluta da un sindaco di centrodestra, Roberto Dipiazza - di Boris Pahor quale nostro scrittore, scrittore di tutta la nostra Trieste, avvenuta nel Teatro Verdi, simbolo del patriottismo italiano, è stata significativa. Non si tratta di scordare i morti né le violenze, ma di non usarli per riattizzare odi». Sono ancora pieni di dolore e rabbia, però, i familiari delle vittime. Raccontano l'angoscia di bambini che videro uscire di casa il padre senza mai vederlo tornare, senza sapere dove fosse finito, senza avere un corpo da seppellire, una tomba su cui piangere. Andiamo a Basovizza con Paolo Sardos Albertini, presidente del comitato onoranze caduti delle foibe, e con Anna Maria Muiesan Gaspàri, l'autrice della poesia incisa accanto al pozzo, storia di sua madre che va alla ricerca del marito nei campi di prigionia con una foto in mano, «co' tuti i so recordi/che i xe deventadi mii». C'è anche Nicolò Molea, l'uomo che ha passato la vita a chiedere una lapide con l'elenco dei finanzieri assassinati, e dieci anni per far correggere il nome di suo padre: maresciallo Domenico Molea, non Moleo, come avevano scritto. I primi a sparire erano stati i poliziotti: gli uomini di Tito andarono a prenderli il primo maggio, appena entrati a Trieste. Poi toccò a chiunque portasse una divisa, pure ai bidelli. Quindi agli impiegati comunali e anche ai capi antifascisti contrari all'annessione alla Jugoslavia. Basovizza non è una foiba ma un pozzo, scavato da un minatore che cercava la bauxite, la leggenda dice che non avendola trovata si sia gettato dentro. Quanti corpi ci siano con il suo, non si saprà mai. Gli inglesi occupanti provarono a recuperarli con l'argano, ma rinunciarono quando s'imbatterono in granate inesplose e - raccontano i vecchi triestini - nella carcassa di un cane nero, che i titini gettavano insieme con gli odiati italiani per dannarne l'anima per l'eternità. I morti di Basovizza si calcolano a cubatura: siccome la fossa è piena per 500 metri cubi, e in un metro cubo ci stanno quattro corpi fracassati, i morti dovrebbero essere duemila. Qui vicino, nel bosco, c'è invece una foiba vera, la Plutone, con la bocca spalancata come la porta dell'Ade. Non ci si può avvicinare, il terreno sdrucciolevole ti trascina dentro. A gettare un sasso, lo si sente risuonare a lungo, prima di toccare il fondo. La Risiera di San Sabba, unico lager tedesco in territorio italiano dotato di forno crematorio (Ansa) La cosa che più indigna i familiari delle vittime è far notare che prima delle foibe ci furono la politica antislava del fascismo e l'occupazione della Jugoslavia. È l'obiezione che si sentono fare sempre. Sempre replicano che gli italiani del confine orientale non erano più o meno fascisti dei connazionali, ma hanno pagato il prezzo più alto. Negli stessi giorni del maggio 1945 cominciava l'esodo di 300 mila istriani, sistemati a Trieste in 109 campi profughi, compreso quello allestito nella Risiera di San Sabba. Un nome insolito - uno stabilimento per la lavorazione del riso, un santo sconosciuto - per indicare l'unico lager tedesco in territorio italiano dotato di forno crematorio, che bruciò i corpi di 2 o 3 mila antinazisti. La Risiera era un lager di città, accanto c'era già lo stadio, oggi intitolato a un altro grande triestino, Nereo Rocco. I profughi di Pola - su 34 mila abitanti partirono in 30 mila, portandosi dietro la bara di Nazario Sauro - e di Fiume, sfuggiti al comunismo e alla vendetta titina, si trovarono distesi sulle stesse panche che due anni prima avevano accolto i settecento ebrei triestini, in viaggio verso Auschwitz: tornarono in venti. Racconta Magris che quando, dopo il liceo, andò a Torino per l'università, tutto gli appariva più semplice e chiaro: i giusti e gli ingiusti, i perseguitati e i persecutori. A Trieste era diverso: tutti contro tutti; si era diviso persino il Cln. Non è vero, dice Magris, che delle foibe non si è mai parlato, lui stesso ne scrisse sul Corriere , con cui collabora dal '67; «ma non importava nulla a nessuno. Non serviva politicamente. E la città aveva rimosso anche la Risiera, capitava che il boia Lerch si facesse rivedere a Trieste, accolto da famiglie perbene». Ora è cambiato tutto, Basovizza e la Risiera sono monumenti visitati da decine di migliaia di studenti, e Roberto Menia - anima della destra, figlio di una profuga istriana -, che da capo del Fronte della Gioventù si scontrava con la Fgci guidata proprio da Cosolini, ora si ritrova con il sindaco a sostenere il governo Monti, cercando di portare qualcosa in città. Dice Magris che il futuro di Trieste è legato al polo della scienza, in particolare alla Sissa, Scuola internazionale di studi superiori avanzati, dove lo scrittore ha tenuto per quattro anni un corso sui rapporti tra le due culture, l'umanistica e la scientifica. È d'accordo Riccardo Illy, per otto anni sindaco della città, per cinque presidente della Regione, ora tornato in azienda. Trieste ha un'antica storia di contaminazioni tra i saperi, la psicanalisi e la medicina, la letteratura e la fisica. Qui venne Franco Basaglia a rivoluzionare la psichiatria italiana, i padiglioni ottocenteschi del vecchio manicomio - per «tranquilli», «semiagitati», «agitati» - oggi ospitano asili nido e istituti universitari. Qui sul Carso Rubbia impiantò il sincrotrone che fotografa le molecole; ora hanno inventato anche il laser a elettroni liberi che fissa le immagini in movimento, si potranno vedere eventi infinitamente piccoli, come le molecole di un antibiotico che aggrediscono i batteri. Oggi in città ci sono settemila ricercatori, non estranei al primato dell'università - la prima italiana nella World Top Universities - e alla nascita di piccole imprese ad alto tasso tecnologico, come la Ital Tbs, ramo software medicali, e la Kropf, che fa i test per la celiachia. Illy coltiva invece un altro ramo dell'eccellenza triestina: il caffè, il tè, il cioccolato, le confetture e altre delikatessen di una città golosa. Suo nonno paterno, ungherese di Timisoara (oggi in Romania, allora nell'Impero), sposò una donna metà irlandese metà tedesca; i nonni materni erano istriani, lui di Pola lei di Rovigno. Ora Riccardo Illy e suo fratello Andrea hanno aperto nel mondo 230 caffè con il loro marchio, per combattere sia pure in ritardo il fenomeno mortificante delle catene internazionali che offrono menu in italiano - ristretto, macchiato, cappuccino - ma non sono italiane. È il destino di Trieste, esportare idee e uomini. Quando vi sbarcò l'Audace, il 3 novembre 1918, i triestini erano 230 mila; ora sono 25 mila in meno. La città contende a Bolzano il primato nelle classifiche di qualità della vita, e a Genova quello della città più anziana d'Italia. Sono sopra la media nazionale sia i depositi bancari sia, in teoria, i reati: ma questo perché i reati qui vengono denunciati tutti. Sarebbe sbagliato però presentarla come una città asburgica, il tratto latino e mediterraneo alla lunga prevale, persino la bora - che a febbraio ha imperversato con raffiche a 168 chilometri l'ora - cede il posto ai venti del Sud: in un secolo la frequenza della bora e in genere dei venti orientali è diminuita di 28 giorni l'anno, quella dello scirocco e dei venti meridionali è aumentata di 18 giorni. Trieste insomma è nostra, appartiene più che mai all'Italia, e l'Italia le appartiene; anche se spesso se ne dimentica. Invece dobbiamo sempre ricordare il «barbaro sognante» Slataper e il genio suicida Michelstaedter, il passaggio di Tommaseo e quello di Tomizza; gli irredentisti impiccati dagli austriaci e i duemila volontari che disertarono dall'esercito imperiale per combattere accanto agli altri italiani; i triestini perseguitati dai nazisti e quelli infoibati dai comunisti, e anche i sei ragazzi uccisi dagli inglesi nel '53 mentre manifestavano per il ritorno della città all'Italia; il più giovane, Piero Addobbati, aveva solo 14 anni. Per tutto questo, e per molto altro ancora, dobbiamo sempre ricordarci di Trieste. http://blog.aldocazzullo.it Aldo Cazzullo

domenica 4 marzo 2012

JOVANOTTI "REGALA" IL CONCERTO A FRANCESCO

Alle parole sono seguiti i fatti. Jovanotti ha devoluto il proprio compenso per il concerto al PalaTrieste (oltre cinquemila presenze) all’associazione Calicanto, per la quale faceva volontariato Francesco Pinna, il giovane triestino morto il 12 dicembre nel crollo del palco.
Il quarantacinquenne artista romano ha anche nuovamente incontrato la famiglia - papà Claudio, mamma Valentina e la sorella Caterina, che era già andata ad assistere alla tappa padovana del tour -, prima e dopo il concerto, al quale i familiari del giovane scomparso hanno assistito commossi, mescolati fra tanti coetanei del figlio.
Su Twitter, poche ore prima dello show, Jovanotti aveva scritto: «Siamo a Trieste. Stasera si suona. Oggi incontri importanti. Emozioni, pensieri, progetti, futuro, energia, vita. Ci vediamo dopo».
E infatti “Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti” (come si è presentato in chiusura di serata) ha incontrato anche alcuni volontari ragazzi della Calicanto - associazione che si occupa di attività sportive per le persone “diversamente abili” - e della cooperativa sociale On Stage, quella che curava i servizi locali del concerto: trasporti, facchinaggio, supporti tecnici e logistici vari.
C’è un progetto della famiglia - con Calicanto, On Stage e gli altri soggetti coinvolti nella tragedia - di costituire un’associazione nel ricordo di Francesco. Nulla ancora di definito, tutto in fase di progettazione, ma di certo Jovanotti parteciperà all’iniziativa. Assicurando altro aiuti, ma in forma assolutamente privata, per evitare speculazioni.
Alla Calicanto il musicista aveva già inviato un videomessaggio un mese fa, in occasione del decennale celebrato con un convegno al Teatro Basaglia. «Il nostro destino si è incrociato proprio grazie a Francesco - aveva detto in quell’occasione - e per quanto possibile sarò sempre vicino a questa associazione che lui tanto amava, con la mia voce, con l’impegno dei collaboratori, ma anche con la mia famiglia. Spero ci vedremo presto».
E nel concerto dell’altra sera, quando alle ventidue e dieci l’artista ha ricordato Francesco con sincere parole di affetto, chiedendo e ottenendo dal pubblico un minuto di silenzio, un doveroso pensiero è andato anche agli altri lavoratori rimasti feriti nel crollo: «I ragazzi coinvolti nell’incidente si stanno rimettendo, grazie a dio».
L’artista ha poi dormito a Trieste, al Savoia. Non prima di aver “postato” su Twitter il proprio saluto: «Appena finito il concerto Trieste grazie amici miei. Grazie a tutti. Alzo la mia stella al cielo». Riferimento alle stelle gialle distribuite dagli organizzatoti all’ingresso del PalaTrieste, con il suggerimento di alzarle in cielo quando Jovanotti avrebbe cantato “Ora”, dedicandola a Francesco.
Che non si sarebbe trattato di un concerto come tutti gli altri, lo si sapeva. Il commosso ricordo di Francesco, ma anche quello di Lucio Dalla (per cui ha cantato “L’anno che verrà”, nel secondo set acustico), hanno modificato la scaletta, con l’esclusione di alcuni brani proposti nelle altre tappe del tour. Un piccolo fuoriprogramma è stato costituito anche dalla presentazione del tastierista monfalconese della sua band, Christian Rigano, alla cui bambina l’artista ha dedicato “Ciao mamma”.
Jovanotti voleva dare il massimo, lo ha detto subito («Stasera voglio fare il concerto più bello...»), e di certo non si è risparmiato. Al momento del commiato, dopo due ore e mezzo di grande musica, era commosso, ha indugiato, sembrava quasi non voler andar più via.
Concerto dunque diverso rispetto a quello che ha girato l’Italia, fra un’interruzione e l’altra, per quasi un anno, dal debutto del 16 aprile 2011 a Rimini, fino all’ultima data di ieri sera a Bologna. Dove, prima del concerto al palasport di Casalecchio di Reno, ha partecipato ai funerali di Lucio Dalla, confuso fra i cinquantamila di Piazza Maggiore. «Abbiamo perso un genio, uno dei più grandi musicisti del Novecento», ha detto entrando nella basilica di San Petronio.

sabato 3 marzo 2012

JOVANOTTI AL PALATRIESTE, NEL RICORDO DI FRANCESCO PINNA E LUCIO DALLA

di Carlo Muscatello TRIESTE Ventidue e dieci di ieri sera. La prima parte del concerto è volata via a mille, a ritmo sostenutissimo, mitigato appena dal set acustico con tre classici ("Le tasche piene di sassi", "Come musica", "A te") cantati in coro col pubblico. E' ora che Jovanotti, cravatta rossa e scarpe luccicanti, decide di fermare la sua danza, fa accendere le luci, saluta il pubblico e ricorda Francesco Pinna. Difficile guardare quel palco, e non pensare che lì sotto, meno di tre  mesi fa, ha perso la vita il giovane triestino. E amaro destino, in fondo, dover fare comunque uno spettacolo - per forza di cose allegro, gioioso, solare - proprio laddove c’è stato un lutto. Ma Jovanotti è persona sensibile, sa trovare le parole. Ricorda i fatti di quel tragico 12 dicembre, quando Francesco rimase sotto il palco. Chiede un minuto di silenzio, non vola una mosca. «La sua famiglia è qui - dice il ragazzone quarantacinquenne - aiutiamo l'associazione per cui Francesco lavorava, abbiamo ripreso perchè suonare è la mia vita, perchè suonare è il mio modo per celebrare la vita, che è la cosa più importante ma anche piu fragile  che c’è". Parte "Ora". Commozione autentica, sul palco e fra il pubblico. Ma la vita va avanti e deve andare avanti, sembra suggerire il musicista alla sua gente. Che è venuta per onorare la memoria di Francesco ma anche per sentire le sue canzoni. Quelle dell’album che dà il titolo a questo tour, durato fra una cosa e l’altra un anno, e che si conclude  domani a Bologna. Guarda a volte il destino, nella città e nella  giornata dei funerali - oltre che del sessantanovesimo, mancato, compleanno - di Lucio Dalla, ricordato ieri sera con "L'anno che verrà" in versione acustica. Spettacolo dunque più che rodato, già visto in mezza Italia. Apertura con le stelle, il filmato di Piero Angela che invita tutti a un “viaggio stellare”, un presente giocato sul crinale tra tribalità ed  elettronica, tra realtà e immaginazione, tra vero e falso. Fra questi estremi, l’allampanato ex dj (vi ricordate “E’ qui la festa”, “1, 2, 3... casino”, “Mamma guarda come mi diverto”?) si muove come un esperto e spericolato acrobata, intento a unire mondi apparentemente diversi. Palco diviso in due: da una parte i musicisti, che a volte danno  l’impressione di essere al lavoro in studio, più che nel pieno di un concerto; dall’altra lo schermo che rimanda immagini, volti, situazioni da comporre e scomporre e ancora ricomporre, fra giochi di  prestigio e geometrie di luce, simmetrie e asimmetrie, zoomate che vanno a cercare i particolari più segreti delle cose e delle persone, dal pianeta Terra fino alle mani dell’artista. Quasi un film in 3d,  ricco di meraviglie tecnologiche. Per costruire il nuovo progetto - aveva spiegato Lorenzo - «mi ero immaginato come un crooner elettronico, un Dean Martin che canta sulla  luna». Prima parte molto elettronica, c’è molto ritmo nell’universo sonoro di quella banda che suona sul palco. Dove ogni tot minuti, come in una festa tecno, sembra cambiare tutto ma in realtà non cambia nulla: siamo sempre e comunque nella macchina musicale immaginata da Jovanotti per sé e per il suo pubblico. Con quel palco, quel maledetto palco, che rappresenta l’impalcatura non soltanto materiale dello show. Le canzoni dell’ultimo album s’intrecciano con i classici di un repertorio ormai ventennale (gli esordi sciocchini nemmeno fanno testo...), senza aver sentito i quali la gente non andrebbe mai a casa. Tanto ritmo, come si diceva, e tanta elettronica, ma anche dei set acustici che per noi rimangono le cose migliori dello show. Dentro lo scrigno, perle travestite da ballate come “Piove", “Raggio di sole”, “Serenata rap". Non possono mancare “Mi fido di te", “Penso positivo”, “Ragazzo fortunato”, “Baciami ancora”... Trionfo atteso e annunciato.

venerdì 2 marzo 2012

SPRINGSTEEN, MARTEDI' ESCE "WRECKING BALL"

Per i fan del Boss, il conto alla rovescia è quasi ultimato. “Wrecking ball”, il nuovo album di Bruce Springsteen, presentato in anteprima il 16 febbraio a Parigi, esce martedì. Sarà disponibile in versione standard (undici brani) e in una “special edition”, con due “bonus track” in più: “Swallowed up - In the belly of the whale” e “American land”, oltre a un libretto di 24 pagine.
In attesa di vederlo dal vivo in Italia (7 giugno a Milano, 10 a Firenze, 11 allo Stadio Rocco di Trieste), arriva dunque l’attesissimo nuovo lavoro, per il quale il rocker del New Jersey si è avvalso della collaborazione di Patti Scialfa, di alcuni membri della E Street Band, della Seeger Sessions Band, dei batteristi Matt Chamberlain e Steve Jordan e del chitarrista Tom Morello (già Rage Against The Machine e Audioslave). L’album è prodotto da Ron Aniello insieme a Springsteen e al produttore esecutivo Jon Landau, suo manager storico, famoso per aver mollato negli anni Settanta il lavoro di critico musicale, dopo aver scritto la frase: «Ho visto il futuro del rock’n’roll. Il suo nome è Bruce Springsteen».
A Parigi Landau ha detto: «In questo disco Bruce ha voluto assicurarsi che la gente capisse chiaramente il suo punto di vista sulla situazione americana attuale. È molto specifico ed è molto focalizzato sul contesto che conosce bene, non si sarebbe mai espresso in certi termini se avesse conosciuto altre situazioni in modo vago. Le prove dal vivo sono assolutamente fantastiche, la band suona benissimo. Bruce ha scavato il più possibile per arrivare a questa visione della vita moderna. I testi raccontano una storia che non si sente da nessun’altra parte e la musica è la più innovativa che abbia realizzato negli ultimi anni. Le composizioni sono tra le migliori della sua carriera...».

DALLA, l'ultima intervista al "Piccolo"

«La storia è fatta di fluttuazioni. Dopo anni bui, possono e debbono arrivare tempi migliori. Anche se non sai mai quando hai toccato il fondo. Ecco, mi sforzo di pensare, di sperare che l’Italia sia alla vigilia di un nuovo rinascimento, di una vita migliore, nella quale ci si occupi di cose più importanti. Oggi il mondo sembra grigio, ma qualcuno può sempre accendere la luce, prendere coscienza, provocare una reazione. E’ proprio quando ti viene negata la libertà che la cerchi con più forza, con più ostinazione...».
Parole di Lucio Dalla, un anno fa, presentando la tappa triestina del tour “Work in progress”, in coppia con De Gregori, trentadue anni dopo “Banana Republic”. In trentacinque anni di interviste, in lui abbiamo trovato sempre una persona cortese, disponibile, attenta alle cose della vita, alle vicende delle città che ospitavano i suoi concerti.
Persino quella volta, nell’aprile 2004, quando arrivò a Trieste per presentare la sua opera “Tosca: amore disperato”, e si trovò coinvolto nell’incidente che l’aereo proveniente da Roma subì nell’atterraggio a Ronchi dei Legionari: «Stavo sonnecchiando, ho sentito un gran botto, pensavo fosse scoppiata una ruota, poi mi sono reso conto che l'ala destra dell'aereo si era spezzata di netto, finendo contro un camion che si trovava incredibilmente sulla pista...».
Ma torniamo all’ultima intervista, quella di un anno fa. L’Italia del ’79, quella di “Banana Republic”? «Più stimolante - disse Dalla -, più piacevole, più curiosa, forse anche più autentica. Sentivamo il vento delle idee nuove, di una socialità diversa. C’era la voglia di tirar fuori la parte migliore di ognuno di noi. Oggi c’è più tecnologia, ma tutto sembra molto più finto, essendo virtuale. La realtà risulta più annacquata. Anima e cervello vengono alterati, spesso sono peggiori».
Lirica. «E’ sempre stato un mio grande amore. Ormai ho fatto diverse regie. Ora devo tornare in Irlanda per uno Stravinkij e un ”Arlecchino” di Busoni. È che non ho abbastanza tempo... Ma mi aiuta il fatto di avere tre studi di registrazione: a Bologna, alle Tremiti e sulla barca. Sto scrivendo anche tre colonne sonore: per il nuovo film di Pupi Avati, per un ”Pinocchio” di Enzo D’Alò, per un altro film la cui sceneggiatura è stata scritta dal nipote di Bob Kennedy».
Berlusconi. «Lo frequentavo ai tempi di Craxi. Tipo simpatico, generoso, divertente. Lo considero un amico anche se non condivido nulla di lui. Già allora si intuiva che avesse un destino diverso dall’edilizia e dalle televisioni».
Siamo a fine impero? «Boh. Di certo in altri paesi, se uno avesse fatto un quarto di quel che ha fatto lui, sarebbe a casa già da un pezzo. Comunque non mi ha mai sconvolto lui, mi turbano quelli che lo votano. E forse - concluse Dalla - continueranno a votarlo».

LUCIO DALLA, UOMO INNAMORATO DEL FUTURO

di CARLO MUSCATELLO
Lucio Dalla era un uomo innamorato del futuro. Della vita, della musica ma soprattutto del futuro. Lo si capiva parlando con lui, assistendo ai suoi concerti, ascoltando le sue canzoni. Quel verso: «E se è una femmina si chiamerà Futura...». Quei titoli: “L’anno che verrà”, “Il motore del Duemila” (del ’76, nell’album “Automobili” e nello spettacolo “Il futuro delle automobili e altre storie”), per non parlare del primo album “1999” uscito nel ’66. Non si fermava mai, certo non si sedeva sui tantissimi allori, sembrava una freccia pronta per essere scoccata verso territori sempre nuovi.
E non è un caso che l’ultimo ricordo sia di due settimane fa, sul palco del Festival di Sanremo, a far da (umile) spalla al giovane Pierdavide Carone. Con il quale aveva scritto e prodotto “Nanì”, accompagnandolo all’Ariston come direttore d’orchestra e seconda voce.
Dopodomani l’artista avrebbe compiuto sessantanove anni. Già: Bologna, 4 marzo 1943. Una data, un titolo di una delle sue canzoni più famose. Un altro Sanremo, stavolta del ’71, basco in testa e barba nera, ad affrontare le censure dell’epoca. Il verso “per i ladri e le puttane” divenne “per la gente del porto”, il titolo originario “Gesù bambino” fu considerato irrispettoso, cambiare cambiare, altrimenti la Rai non l’avrebbe mandato in onda... Ma la gente era già allora più avanti dei suoi governanti: la canzone, testo della poetessa Paola Pallottino, arrivò terza.
Che vita, che carriera quella del piccolo grande Lucio. Esordi come clarinettista e sassofonista jazz, nella Bologna povera ma pulita del dopoguerra. Incrocia Chet Baker, suona con la Rheno Dixieland Band, di cui fa parte anche il futuro regista Pupi Avati. Approda a Roma, fa parte dei complessi (allora si chiamavano così) Flippers e Idoli, nel ’64 esce il primo 45 giri: “Lei (non è per me)” - scritta da Gino Paoli e portata senza successo al Cantagiro - e “Ma questa sera” (cover di “Hey little girl” di Curtis Mayfield).
L’ambiente della Rca è una fucina di talenti, affidati alla cura di discografici attenti e illuminati. C’è anche un’etichetta per giovani virgulti, per la musica e i personaggi nuovi che cominciano ad affermarsi: è la Arc, per la quale nel ’66 esce anche il suo citato primo album.
Nello stesso anno lo mandano a Sanremo. Canta “Paff bum”, in coppia nientemeno che con gli Yardbirds (Eric Clapton, Jeff Beck, Jimmy Page: roba da non credere...), presentati da Mike Bongiorno come “I gallinacci”, traduzione più o meno letterale del nome. Torna al Festival nel ’67, l’anno del suicidio di Luigi Tenco: lui canta con i Rokes “Bisogna saper perdere”, sembra fatto apposta, ma è solo uno scherzo di un destino tragico.
Ma a Lucio le canzonette vanno decisamente strette. E’ un tipo che non sta mai fermo. Al cinema lo vediamo nei cosiddetti “musicarelli” ma anche in un film dei fratelli Taviani, “I sovversivi”, dove guadagna una candidatura come miglior attore alla Mostra di Venezia. Il secondo album s’intitola “Terra di Gaibola” (un sobborgo di Bologna), il terzo Sanremo è quello di “4 marzo ’43”, il cui successo arriva persino da oltreoceano, in Sudamerica, con la versione di Chico Buarque de Hollanda.
Dalla vuole altro. E di più. Comincia a collaborare con il poeta bolognese Roberto Roversi. Con lui scrive, fra il ’73 e il ’76, tre album: “Il giorno aveva cinque teste”, “Anidride solforosa” e “Automobili” (con il brano “Nuvolari”), da cui poi viene tratto lo spettacolo “Il futuro delle automobili e altre storie”.
Fino a quel momento era stato musicista e interprete. Dopo la collaborazione con Roversi, diventa un cantautore. E riconosce: «Da lui ho imparato tanto, rimane un mio forte punto di riferimento culturale. Mi ha insegnato la disciplina della scrittura. Dopo quella collaborazione mi sentii davvero pronto. Lui mi fece scoprire un mondo diverso da quello che conoscevo».
Gli album “Com’è profondo il mare” (’77) e “Lucio Dalla” (’78) consegnano alla canzone italiana un nuovo, grande protagonista. Collabora con Ron e con gli Stadio. L’accoppiata con Francesco De Gregori (altro artista che lo influenzò nella sua trasformazione), nel tour del ’79 dal titolo “Banana Republic”, fa il resto.
I trent’anni successivi hanno lasciato a referto dischi e tour di successo (uno con l’amico Gianni Morandi), punteggiati da autentici capolavori: “Anna e Marco”, “Balla balla ballerino”, “Cara”, “La sera dei miracoli”, “Washington”, “Ayrton”, mille altri, fino all’inarrivabile “Caruso”.
Ma lui non si accontenta ancora. Fonda una sua etichetta (“Pressing”), fa il talent scout, compone musiche da film, realizza programmi tv, dipinge, fa il gallerista, si cimenta con la lirica e la classica. Fino all’ultima, defilata apparizione a Sanremo.
Cattolico e “comunista” (quando esisteva il Pci), Lucio Dalla non ha mai nascosto la sua omosessualità. La calvizie invece l’ha camuffata sempre e comunque, con berretti, baschi, cappelli e copricapi di tutte le fogge. Negli ultimi anni persino con un autoironico parrucchino dal colore decisamente improbabile per un uomo della sua età.
Amava il mare (casa e barca alle Tremiti) e non aveva paura della morte. Di cui diceva: «La morte non è un problema, è solo l’inizio del secondo tempo». Buona ripresa, allora, piccolo grande Lucio.

giovedì 1 marzo 2012

TEATRO DEGLI ORRORI, PARTE TOUR, TRIESTINO FRANCESCO VALENTE

C’è un triestino che suona in uno dei migliori gruppi rock italiani usciti di recente. Lui si chiama Francesco Valente, ha trent’anni, suona la batteria. Il gruppo è Il Teatro degli Orrori, il cui tour “Il mondo nuovo” (stesso titolo del loro terzo album, uscito un mese fa) debutta stasera alle 21.30 al Deposito Giordani di Pordenone.
Di Valente abbiamo scritto su queste colonne oltre vent’anni fa. Era solo un bambino, ma anche il più giovane allievo di batteria alla Scuola di Musica 55, affidato alle cure di Gabriele Centis, allora batterista e insegnante, oggi anche direttore della Scuola di Musica di via dei Capitelli.
«Avevo cominciato con la batteria a cinque anni - ricorda Francesco -, seguendo le lezioni di Gabriele. Poi, diciamo fra i dieci e i tredici anni, mi sono innamorato degli strumenti a corda, soprattutto violino e chitarra. Ma fu un’infatuazione breve. Dopo i quattordici anni ho cominciato a studiare percussioni al Conservatorio, purtroppo non ultimando il corso di studi. E nel contempo sono arrivati i primi gruppi, i primi concertini nelle scuole, le prime collaborazioni...».
Insomma, il percorso di tanti ragazzi innamorati della musica. L’unica particolrà, nel caso di Valente, è che questo percorso è cominciato decisamente presto. Dopo anni di apprendistato, il destino di enfant prodige comincia a diventare realtà quasi necessariamente fuori da Trieste, nel vicino Veneto.
«Ho conosciuto Pierpaolo Capovilla nel giro dei musicisti veneziani - prosegue Valente -. Assieme abbiamo dato vita prima al gruppo One Dimensional Man. Con noi c’era già il chitarrista Gionata Mirai, già leader dei Super Elastic Bubble Plastic. Suonavamo in una sala prove abbastanza precaria a Marghera. Ma in trio sentivamo che mancava qualcosa. Con l’arrivo del quarto elemento, il bassista Giulio Ragno Favero, che era già con noi nei primi Odm, possiamo dire che è nato Il Teatro degli Orrori».
Nel 2007 esce il primo album, “Dell’impero delle tenebre”, pubblicato dall’etichetta pordenonese La Tempesta Dischi (quella dei Tre Allegri Ragazzi Morti, per cui incide anche Vasco Brondi con le sue Luci della centrale elettrica). Riscontro di pubblico e di critica subito buono, lungo tour di successo, la band diventa una punta di diamante del nuovo rock alternativo di casa nostra. Nel 2009 esce il secondo album, “A sangue freddo”. Un mese fa, il citato terzo capitolo.
«Il nostro - spiega Valente - è uno spettacolo molto teatrale, già nel tributo presente nel nome che ci siamo dati, citazione del “Teatro delle crudeltà” di Artaud. Musica e parole sono sullo stesso piano, e in questo la scelta di scrivere e cantare in italiano (con One Dimensional Man cantavamo in inglese) è stata molto importante».
Per realizzare “Il mondo nuovo” la band ha passato un periodo a Lari, un borgo medievale nelle colline pisane, lontano dal caos metropolitano. L’autore dei brani è Capovilla, sul suo lavoro si innestano poi i contributi degli altri membri della band. Il mastering finale è stato affidato a Matt Colton, nell’Air Studio di Londra.
«E’ una specie di concept album - prosegue “Franz” -, formato da sedici piccole biografie: storie di emigrazione, mischiate alle storie di chi rimane e combatte comunque la sua battaglia per la vita».
Da batterista di un gruppo rock di successo, Francesco Valente fa ormai da anni vita da pendolare: fra Trieste, il Veneto e tutti i luoghi dove lo porta la sua musica. Oltre vent’anni fa, in quel primo articolo dedicato al “batterista bambino” su queste colonne, riportavamo una sua confidenza fatta alla madre, di ritorno da una lezione ovviamente di batteria: «Non so se voglio fare il musicista, da grande. Ogni sera in una città diversa, sempre in tournèe, mai un po’ di tranquillità. Che vita dura mi aspetta, mai una notte con mia moglie...».

JOVANOTTI DOMANI A TRIESTE

«Abbiamo ripreso a suonare perchè suonare è la mia vita, perchè suonare è il mio modo per celebrare la vita». Lo ha detto Jovanotti pochi giorni fa a Padova, in una delle tappe del suo tour che è ripreso dopo l’interruzione seguita alla tragedia del 12 dicembre a Trieste, quando il giovane Francesco Pinna ha perso la vita nel crollo del palco che stava contribuendo a erigere al PalaTrieste, il palco dove l’artista doveva esibirsi quella sera.
Lorenzo Cherubini voleva far ripartire il tour proprio da Trieste, ma non è stato possibile. Arriva domani, quasi in chiusura. Domenica ultimo concerto a Bologna, poi lunedì parte per gli Stati Uniti.
Quello di domani, è ovvio, non sarà un concerto come gli altri. Troppo vicino il ricordo della tragedia, troppa l’emozione anche sul palco. Sicuramente Jovanotti parlerà dell’accaduto, forse farà qualcosa di speciale, di certo troverà le parole adatte.
Come ha fatto in questi concerti di inizio 2012, nei quali ha sempre ricordato la tragedia di Francesco. Si diceva di Padova. Prima di eseguire “Ora”, il brano che dà il titolo all’ultimo album e allo stesso tour, ha detto così: «Il 12 dicembre questo spettacolo si è fermato, si è fermato questo nostro circo. Ci siamo fermati tutti perchè non distante da qui, a Trieste, un incidente, una tragedia ha travolto una parte dei nostri ragazzi. Alcuni sono rimasti feriti, uno di loro che quel giorno stava lavorando per noi non si è più rialzato. Questo ragazzo si chiamava Francesco Pinna e aveva diciannove anni, e quando qualcuno se ne va a questa età non ci sono parole, non ci sono spiegazioni. Io nemmeno sapevo che cosa avrei fatto della mia vita, a diciannove anni. E’ un’età in cui hai tutta la vita davanti...».
Ancora Lorenzo, più volte interrotto dagli applausi del pubblico: «Abbiamo ripreso a suonare perchè suonare è la mia vita, perchè suonare è il mio modo per celebrare la vita, che è la cosa piu importante ma anche piu fragile che c’è. Anche se tanti passi avanti sono stati fatti sui livelli di sicurezza del nostro lavoro, io credo che bisogna lottare ancora perchè non ci siano più incidenti sul lavoro, bisogna lavorare meglio che si può per raggiungere questo obbiettivo».
Un momento di pausa, poi ha ripreso così: «Stasera tra di voi, nascosta, c’è Caterina, la sorella di Francesco, che è venuta da Trieste per vedere il concerto. A lei dedico la prossima canzone, dicendole che quando se ne va qualcuno prima del tempo noi non riusciamo a darci una spiegazione, ma possiamo fare qualcosa: onorare le persone che se ne vanno vivendo ancora di più, credendoci ancora di più. E vivendo non nel passato e neanche proiettandoci nel futuro, ma cercando di vivere ora per ora, giorno per giorno. Grazie Caterina di essere venuta qui, so che non è stato facile per te, ma ti saluto e ti ringrazio a nome di tutta la mia squadra e a nome del pubblico di Padova...».
E parte “Ora”, quella che comincia così: «Dicono che è vero che quando si muore poi non ci si vede più, dicono che è vero che ogni grande amore naufraga la sera davanti alla tv, dicono che è vero che ad ogni speranza corrisponde stessa quantità di delusione, dicono che è vero sì ma anche fosse vero non sarebbe giustificazione, per non farlo più, per non farlo più, ora...».
Con la tappa triestina e quella di domenica a Bologna si conclude “Ora in Tour, Lorenzo Live 2011”, partito nella primavera 2011 e arrivato, attraverso vari stop e varie riprese, fino a questo inizio 2012. L’album “Ora” era stato pubblicato a inizio 2011 ed è tuttora presente - grazie anche alla ripresa del tour - nella classifica dei dischi più venduti. E’ stato anche ripubblicato in una nuova versione “deluxe” con due “bonus track” - “Regalito” con Juanes e “The sound of sunshine” con Michael Franti - e il doppio dvd con i concerti del tour e il film documentario “La quarta dimensione”, che mostra le prove, il pubblico e il retropalco del tour.
Nel concerto di domani sera a Trieste, Jovanotti dovrebbe far convivere i brani dell’ultimo album e i vecchi successi: “Megamix” e “Falla girare”, “La porta è aperta” e “Amami”, “L’elemento umano” e “La notte dei desideri”. E poi ancora - dopo un medley acustico giocato su “Le tasche piene di sassi”, “Come musica”, “A te” - “Tutto l’amore che ho” e “Ora”, “Io danzo” e “Battiti di ali di farfalla”, “L’ombelico del mondo” e “Mi fido di te”. Fino al medley finale con “Bella”, “Ciao mamma”, “Raggio di sole”, “Punto”, “Serenata rap”, “Piove”, “Una storia d’amore”, “Lungomare”...
Per concludere, una curiosità. Jovanotti è un assiduo frequentatore di Twitter, sul quale il suo account “Lorenzojova” è seguito da oltre 700mila “follower” (cioè utenti del popolare social network, che hanno scelto di ricevere i suoi “tweet”, i “cinguettii” di 140 battute...).
E proprio su Twitter l’artista ha lanciato pochi giorni fa la cosiddetta “twit-dance”. Al termine del suo concerto torinese di poche sere fa, Jovanotti si è infatti esibito nel suo camerino assieme ad alcuni musicisti in un ballo, che ha chiamato “twit-dance”. Il cantante ha successivamente “postato” il video su Twitter e questo è diventato subito oggetto di culto e di successivi “re-twittaggi” (cioè re-invii del messaggio ai propri “follower”) da parte di fan e curiosi.