domenica 26 marzo 2006

È nato nel 1969, l’anno di Woodstock e delle proteste contro la guerra nel Vietnam. Poco meno di quarant’anni dopo, il californiano Ben Harper è oggi uno di quei tanti americani schierati contro Bush, contro la guerra, convinto che «la musica può cambiare il mondo». Ne parla nel suo nuovo album, «Both sides of the gun» (Emi Virgin), un titolo che significa qualcosa come «le due facce del fucile». Un album doppio, con un cd più energico e rock, con testi impegnati, e l'altro più soft, riflessivo, poetico, ballad quasi interamente acustiche. Con rock, blues, soul, folk, rhythm’n’blues, funk e gospel che convivono in beata tranquillità e reciproca soddisfazione, proprio come dovrebbero fare - sembra voler suggerire l’artista - i popoli che abitano questo nostro pianeta.
Dice Ben Harper: «Non è necessario nascere sul Delta del Mississippi per poter interpretare in modo convincente il blues. La musica nasce nell'anima di un artista. L'ho capito negli ultimi due anni, quando ho vissuto una straordinaria avventura artistica insieme ai Blind Boys Of Alabama, che mi è valsa due Grammy Awards dei quali vado estremamente orgoglioso. Nella mia musica sono assolutamente percettibili le mie radici californiane...».
Il funk di un brano come «Black rain» somiglia a un vero atto d’accusa al governo Bush per l’inerzia usata nell’emergenza causata a New Orleans dal passaggio dell’uragano Katrina. «Li avete lasciati nuotare per salvarsi la vita, lì a New Orleans, ma non ci vorrà molto prima che la gente inondi le strade e vi destituisca...». «Gather ’round the stone» parla di «vecchi che mandano i giovani a morire invano...». Insomma, prese di posizione dure, non frequentissime nella musica americana contemporanea.
Fra gli altri brani: «Picture in a frame», «Happy everafter in your eyes» (dedicata alla moglie, l’attrice Laura Dern), «Better way», «Never leave me alone», oltre a quella che dà il titolo al disco.
Passiamo al nuovo lavoro di un signore che nel ’69, quando è nato Ben Harper, era già una superstar con i suoi Pink Floyd. Lui si chiama David Gilmour, e ha appena pubblicato «On a island» (Emi). Con il quale il cantante e chitarrista inglese dice di voler chiudere definitivamente con la band con cui ha scritto la storia del rock, dopo averla riportata in vita con i vecchi soci in occasione dell’ultimo «Live 8» del luglio scorso. «A sessant’anni - dice Gilmour - ho scoperto che lavorare per conto mio è assai più confortevole che continuare a essere un Pink Floyd: troppe pressioni, troppe attese, troppo gigantismo...».
Peccato che nella vita, quasi sempre, ognuno sa fare bene solo una cosa. E il disco dell’addio alla band suona più pinkfloydiano che mai. Con riferimenti espliciti alla produzione del gruppo sfornata a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, più che alla prima, geniale e forse irripetibile stagione.
Per il suo terzo lavoro solista, crepuscolare e sognante, Gilmour ha chiamato a raccolta uan banda di coetanei: Richard Wright, Phil Manzanera, Robert Wyatt, Georgie Fame, persino Crosby & Nash in «On a island», forse l’episodio più bello di un disco che ha un forte sapore di già sentito.


Quattro donne, un’inglese, un’americana e due italiane. La prima è la ventiseienne Corinne Bailey Rae, cui è bastato l’album di debutto, intitolato semplicemente col suo nome (Emi Virgin) - e preceduto soltanto da un minicd fatto girare fra gli addetti ai lavori - per essere salutata come il nuovo astro nascente della musica soul. La ragazza ha ventisei anni, è nata a Leeds, da padre immigrato dai Caraibi e madre inglese, e propone undici brani (fra cui il tormentone «Put your records on») che filano via ch’è un piacere. Voce calda e avvolgente, stile elegante, insomma, talento da vendere. Con la lezione di Billie Holiday ben assimilata, al pari di quella di Norah Jones.
A proposito. C’è proprio l’americana Norah Jones dietro «The Little Willies» (Emi Virgin), in cui dà libero sfogo alla sua insospettata natura countryblues. Col suo bassista e compagno di vita Lee Alexander e altri tre amici, la stella del «nu-jazz» rende omaggio a eroi del country come Willie Nelson («I gotta get drunk») e Fred Rose («Roly poly»), con rigore quasi filologico. Insomma, una sorta di divertimento in incognito, prima di tornare al suo «vero» lavoro.
E siamo alle italiane, entrambe passate per Sanremo. «L’altalena» (SonyBmg) è il disco di Nicky Nicolai, che con «Lei ha la notte» non ha ripetuto l’exploit dell’anno scorso. Il disco in compenso è un piccolo capolavoro di elenganza e buon gusto, in bilico fra jazz e canzone, con versi di Pasquale Panella, Jovanotti e persino del redivivo Renzo Zenobi, e con musiche di Nicola Piovani.
Ma la vera sorpresa è L’Aura con il suo «Okumuki» (dual disc, ovvero cd+dvd, EpicSonyBmg). Oltre all’«Irraggiungibile» portata al Festival fra i Giovani, una manciata di canzoni fresche, originali e al tempo stesso orecchiabili. Non a caso la ventunenne bresciana Laura Abena (questo il vero nome) è nelle classifiche di vendita e delle radio.


Bianca di pelle e bionda di capelli, ma con una voce nera che mette i brividi. Anche nel duetto con Eros Ramazzotti «I belong to you», ai vertici delle classifiche europee, sentito a Sanremo, presente sia nel disco di lui che nella raccolta di lei «Pieces of a dream». Ora esce il doppio dvd «Live at last», che comprende le riprese sul palco e nel backstage dell'ultimo grande tour della cantante americana, che ha toccato ben sedici Paesi con oltre 800 mila biglietti venduti. Un godibile documento filmato che racconta la vita «on the road» di Anastacia. E ne ripropone i successi: «Not that kind», «You’ll never be alone», «Sick and tired», «Left outside alone»...
Il film "Notte prima degli esami", ambientato nell’estate ’89, è la sorpresa italiana di questo inizio 2006. La colonna sonora è un doppio cd che ripropone una manciata di successi degli anni Ottanta. Si parte ovviamente dalla canzone di Venditti che ha ispirato il titolo e forse anche il film (e non è la prima volta che il cantautore romano viene «utilizzato» dal cinema...). Si prosegue con Queen, Duran Duran, Raf (la necessaria «Cosa resterà degli anni Ottanta?»), Cindy Lauper, Europe, Eurythmics («Sweet dreams»), Wham!, Clash. Ma anche Eros Ramazzotti, Vasco Rossi («Alba chiara»), Alberto Camerini, Donatella Rettore, Luis Miguel, persino il pessimo Claudio Cecchetto di «Gioca Jouer»...

Radio Sound, trent’anni fa. E non sembra ieri. Era infatti il 1976, anno di governi pentapartiti Moro e Andreotti, di elezioni politiche anticipate (con Montanelli che invita a «turarsi il naso»...), del Pci di Berlinguer quasi al sorpasso sulla Dc di Zaccagnini, di Craxi nuovo segretario del Psi dopo il congresso del Midas.


L’anno del terremoto in Friuli e della nube tossica di Seveso, ma anche di Peppino Di Capri che vince Sanremo e del Torino che si aggiudica lo scudetto. A Trieste è l’anno delle 65 mila firme contro il Trattato di Osimo, l’era del sindaco Spaccini sta per essere spazzata via dall’esplosione della Lista per Trieste, Basaglia lavora per la chiusura del manicomio.
Il monopolio statale sulle trasmissioni radiotelevisive sta cadendo, sull’onda delle tante emittenti che nascono in tutta Italia ma soprattutto grazie alla sentenza della Corte Costituzionale che apre una nuova era. Si passa dalle radio pirata a quelle libere e subito dopo a quelle private.
Trieste, al solito, arriva con calma. Il monopolio di Rai e Capodistria qui viene rotto per primo da una certa Radio Regione. Poco più di un tentativo. Perchè quella che si afferma prepotentemente in città è Radio Sound, primo giorno ufficiale di trasmissioni 29 marzo 1976, sulle mitiche frequenze dei 102.
«Ero un appassionato di musica ed elettronica - ricorda Corrado Savio, uno dei quattro fondatori di Radio Sound, all’epoca poco più che ventenne -, avevo una certa dimestichezza con ampificatori, giradischi, mixer. E sentivo delle prime ”radio pirata” che nascevano in Italia. Con tre amici, Giuliano Guidi, Silverio Giurgevich e Marino Descovich, decidemmo di provarci anche noi. La fase di studio durò sei mesi, fra problemi tecnici, logistici e naturalmente economici...».
Nasce subito un buon gruppo di collaboratori, tutti giovani e abbastanza entusiasti. Si lavora ovviamente gratis. Divisi in due «fazioni»: i cosiddetti musicali e i sedicenti giornalisti. Ai primi la gestione dei programmi di musica rigorosamente specializzata, ai secondi notizie e sport.
«Sì, c'erano quasi due partiti - dice Furio Baldassi, oggi giornalista del ”Piccolo” - da una parte quelli schierati sulla musica senza compromessi, che ti proponevano assoli di chitarra di dieci minuti a qualsiasi ora; dall'altra la redazione, più flemmatica e schierata su posizioni musicali più conservatrici (Battisti, Baglioni, i Pooh...). Gli sfottò si sprecavano...».
«Ricevetti una telefonata da un amico - ricorda Giovanni Marzini, oggi caporedattore della Rai regionale - a febbraio del ’76. Mi diceva di quest’idea, del fatto che stavano già trasmettendo in via sperimentale, cercavano un supporto giornalistico e pensarono a me, che all'epoca collaboravo con la redazione sportiva del ”Piccolo”. In una settimana nasceva una pseudo-redazione che si impegnava a garantire prima qualche notizia e poi qualche notiziario in mezzo a tanta musica...».
«Ci sentivamo dei pioneri - sottolinea Savio - il terreno su cui ci muovevamo era vergine, il paragone non erano Rai o Capodistria, il nostro riferimento era Radio Luxemburg, soprattutto per quanto riguardava la programmazione musicale, totalmente innovativa...».
Difficoltà economiche, si diceva. Ma anche tecniche. Bisognava organizzare la raccolta pubblicitaria, stante la volontà di essere indipendenti dai partiti. E far arrivare il segnale dappertutto, in una città «orograficamente difficile». Baldassi ricorda ancora «notti insonni in macchina, con l'autoradio accesa, a cercare di capire se ci sentivano a Borgo San Sergio o a Chiarbola...».
Ancora Baldassi: «Capimmo che stavamo ingranando quando hanno cominciato ad arrivare telefonate ”a nastro”. In certi casi si improvvisavano trasmissioni alle tre di notte e c'era chi immediatamente telefonava, segno che la radio era accesa costantemente sui 102. Poi, la diretta sul terremoto del maggio ’76 in Friuli ha marcato il definitivo salto di qualità. A quel punto ci conoscevano tutti...».
Già, il terremoto in Friuli. Una sorta di esame di maturità per chi aveva appena cominciato. «La notte del terremoto - ricorda Enzo Angiolini, oggi architetto - io e Marzini abbiamo cominciato a raccogliere informazioni, soprattutto dai radioamatori, e a diffonderle traquillizzando gli ascoltatori, che pensavamo pochi, invitandoli ad andare in luoghi aperti e lontani da pericoli di crolli. A mezzanotte le piazze della città erano piene di gente, e molti sentivano Radio Sound. Fu allora che capii la grande responsabilità di dare notizie alla radio...».
«Sì, ricordo bene quel 6 maggio del terremoto - aggiunge Marzini -, oltre 72 ore di diretta no-stop, dalle 22 di quel giovedì sera... A tranquillizzare la gente, a dare notizie utili, a coordinare i soccorsi, realizzando servizi e interviste in Friuli. Radio Sound diventò la voce del terremoto: da un lato tenevamo compagnia ai triestini, scossi e impauriti tra una scossa di assestamento e l'altra; dall'altro cercavamo di coordinare la macchina della solidarietà e dei soccorsi verso il Friuli...».
Per diversi anni dopo quel 1976, Radio Sound a Trieste fu la radio per antonomasia. Nonostante il moltiplicarsi delle emittenti in città, come in tutta Italia. Sempre tanta musica, ma anche dirette giornalistiche senza bavagli, telecronache della Triestina e del basket, in un riuscito connubio fra musica, informazione, sport, intrattenimento. Fino all’84, quando la premiata ditta (che dalla prima sede di via Felice Venezian era passata in Corso Italia) chiuse baracca e burattini.
Molti giornalisti triestini oggi «intorno ai cinquant’anni» hanno cominciato da lì, da Radio Sound. Ma trent’anni dopo, cos’è rimasto? «Ripenso a quegli anni con affetto e nostalgia - dice Baldassi -, c'erano passione, preparazione, in quel gruppo... Ma l'insegnamento delle cosiddette radio libere è servito a poco. Oggi la programmazione radiofonica è monocorde, i dj praticamente clonati, il livello medio scadente, con rare eccezioni. Qualcosa di quell'esperienza è stato fatto proprio solo dalle mille radio tematiche su Internet, ma il sogno, utopistico, di elevare i gusti musicali degli ascoltatori è rimasto tale...».
Angiolini: «Siamo stati bravi ma anche molto fortunati. Fortunati di essere un gruppo affiatato e capace, di aver avuto l'occasione per organizzare un’intera redazione radiofonica (eravamo decine tra redattori e collaboratori esterni), di aver visto nascere il fenomeno delle radio private. Fortunati di essere stati chiamati in blocco, dopo alcuni anni, a vivere una nuova appassionante avventura con la televisione. E credo di poter dire che abbiamo dato qualità nell'informazione e creatività nelle trasmissioni. Ripenso a quegli anni sempre con piacere. Per me Radio Sound è stata una grande scuola...».
Marzini: «Avevamo un mondo davanti a noi e lo affrontavamo con l'incoscienza dei vent'anni, con la voglia di fare, senza aspettarci chissà quale tornaconto. Il fatto stesso di lavorare senza percepire una lira. Io fra le tante cose avevo una rubrica che iniziava alle 6 del mattino, ”Giù dalle brande!”. La feci per mesi, ovviamente gratis. Quanti ragazzi oggi si prenderebbero un impegno del genere senza beccare un soldo? Noi accettammo. E oggi possiamo dire che per molti di noi fu una scommessa vincente».
«La palestra di quegli anni prima, della televisione privata poi - conclude Marzini -, ci è servita. Per certi versi possiamo considerarci anche fortunati: noi una chance l'abbiamo avuta. Certi ragazzi oggi forse non ce l'hanno nemmeno...».


La sera di martedì 28, gli ex ragazzi di Radio Sound festeggeranno il loro trentesimo anniversario al «Viale 39», il locale di viale XX Settembre gestito da Corrado Savio - uno dei quattro fondatori e per anni direttore dei programmi di Radio Sound - e precedentemente noto come «Macaki». Previsti ascolto di spezzoni di vecchi programmi, visione di vecchie documentazioni grafiche. E a mezzanotte il brindisi. A «come eravamo...».
Già, com’eravamo? Una gran voglia di radio - intesa come intrattenimento, musica e anche informazione non controllata - stava montando già alla fine degli anni Sessanta. Nel paese leader nei costumi, la Gran Bretagna, questa voglia era stata soddisfatta dalle cosiddette radio pirata (Radio Caroline, Radio Veronica) e così avveniva in altri paesi del Nord Europa. In Italia una prima risposta veniva data dalla stessa Rai, con trasmissioni come «Bandiera gialla», «Per voi giovani», «Alto gradimento», «Hit Parade», «Supersonic»...
Una seconda opportunità era rappresentata da due radio straniere che trasmettevano in lingua italiana, e che avevano iniziato una programmazione orientata ai giovani e alla musica, con un linguaggio dinamico e del tutto nuovo: Radio Montecarlo (che trasmette dal marzo del 1966 dal principato di Monaco) e la «nostra» Radio Capodistria. Radio che proponevano un nuovo stile di conduzione, vivace, spezzato nel ritmo. All'inizio degli anni Settanta si creavano insomma le condizioni per la radiofonia privata anche in Italia. Dove la sentenza della Corte Costituzionale del luglio ’76 interruppe il monopolio Rai ma lasciò comunque il settore senza regole.

domenica 19 marzo 2006

Potrebbe essere Fiorello, lo spettacolo col botto dell’estate 2006 triestina. Sono in corso infatti delle trattative per portare a giugno, in piazza Unità o allo stadio Rocco, lo spettacolo dello showman siciliano intitolato «Volevo fare il ballerino...».
Dopo il grande successo dell’estate scorsa, lo spettacolo è stato portato in tour teatrale anche quest’inverno, confermando dal vivo il momento d’oro dell’artista, che da qualche tempo ha deciso di abbandonare la televisione per dedicarsi alla radio (il suo «Viva Radio Due» è diventato un appuntamento fisso per tantissimi...).
Si tratta di uno show per grandi spazi, con una scenografia tecnologica che, grazie a particolari proiezioni video, cambia ogni volta dimensione e percezione visiva. Fiorello, accompagnato da un gruppo musicale, vi propone la sua miscela fra costume e attualità, con imitazioni (Mike Bongiorno, Cassano, Camilleri...) ed esibizioni canore, in un percorso assolutamente godibile.
La sua presenza a Trieste, nel cartellone estivo 2006, sarebbe fra l’altro quasi un debutto, visto che di Rosario Tindaro Fiorello si ricorda solo una fugace apparizione prim’ancora del successo con il karaoke. E dopo la recente tappa del tour di Beppe Grillo (che l’1 e 2 aprile è a Jesolo), porterebbe in città anche l’altro attuale numero uno dello spettacolo leggero italiano.
Ma in attesa di avere conferma dello show di Fiorello, vediamo quali sono gli altri appuntamenti musicali a Trieste e dintorni. Martedì al Teatro Miela, per «Ritratti italiani», arriva il gruppo femminile sardo Andhira. Sempre al Miela, e sempre nella stessa rassegna, suonano il 7 aprile i Quintorigo e il 14 aprile Marco Parente.
Due appuntamenti anche al Rossetti: sabato 8 aprile Nek, il cui tour è appena ripartito, martedì 16 maggio Michele Zarrillo, fresco fresco dal Festival di Sanremo.
Prosegue intanto «Gorizia Jazz». Dopo Myra Melford, domenica 26 marzo sempre all’auditorium grande musica con l’Art Ensemble of Chicago, sabato 8 aprile ancora all’auditorium torna il progressive anni Settanta con Hatfield and the North, venerdì 28 aprile al Teatro Verdi canto jazz con Rossana Casale.
Mercoledì 22 marzo due appuntamenti importanti: i Simple Minds al palasport di Pordenone, i Depeche Mode al palasport di Zagabria. A Lubiana, invece, sono attesi il 25 marzo al Tivoli Goran Bregovic, il 15 aprile al Mediapark il gruppo metal In Flames, il 17 aprile allo Cankarjev Dom la capoverdiana Cesaria Evora.
Maggio è il mese di Ligabue, in concerto allo Stadio Friuli di Udine martedì 23, con prevendite già ben avviate. A fine luglio dovrebbero arrivare a Trieste la cantante israeliana Noa (anche lei vista recentemente a Sanremo) e gli intramontabili Pooh (che sono il 31 marzo al Palaverde di Treviso). E ancora, per la terza edizione del Trieste Rock Summer Festival, in piazza Unità, i Colosseum, Alan Parson Project e La Storia dei New Trolls guidata da Vittorio De Scalzi (sull’utilizzo del nome dello storico gruppo italiano è in atto da tempo una lunga e penosa querelle che contrappone i vari superstiti...). Agosto ci riporta la Formula 3, anticipando l’anniversario di Battisti.
Per ottobre, un’ulteriore sorpresa comica: il nuovo spettacolo di Aldo Giovanni e Giacomo...

mercoledì 15 marzo 2006

Ancora Bruce Springsteen. Dopo il cofanetto celebrativo dei trent’anni dall’uscita di «Born to run» e dopo il doppio con il concerto londinese del novembre ’75 all’Hammersmith Odeon, usciti a cavallo fra l’anno vecchio e quello nuovo, il 24 aprile uscirà il suo nuovo album, il ventunesimo di una carriera cominciata nel lontano ’73 con «Greetings from Ashbury Park». Il nuovo disco s’intitola «We Shall Overcome - The Seeger Sessions» ed è per l’appunto dedicato a quello che è un po’ il padre della tradizione folk americana, il grande Pete Seeger. Del quale il rocker di Freehold rilegge tredici classici. Classe 1919, Seeger è considerato assieme a Woody Guthrie - con cui collaborò fin dagli anni Quaranta - il più importante folk singer statunitense prima dell’avvento di Bob Dylan.


«Molto di quello che scrivo - ha riconosciuto Springsteen - soprattutto quando compongo in modo acustico, attinge direttamente dalla tradizione folk. Realizzare quest’album ha rappresentato per me un cammino liberatorio a livello creativo, perché tutte le diverse sonorità delle origini mi appassionano... hanno il dono di riuscire a rievocare un intero universo con semplici note e poche parole». E Jon Landau, il suo storico manager (quello che più di trent’anni fa, quando faceva il critico musicale, scrisse la frase «Ho visto il futuro del rock’n’roll. Il suo nome è Bruce Springsteen...», prima di mollare il giornale e andare a lavorare col Boss...), aggiunge: «Il disco è attraversato da un senso di spensieratezza, di grande serenità e di incontaminata gioia che lo rendono speciale dall’inizio alla fine. Bruce ha raccolto l’anima del repertorio classico americano ed è riuscito a dare ad ognuno di questi brani un’interpretazione personale di grande energia, modernità e intensità...». Springsteen ha registrato il disco con Sam Bardfeld al violino, Art Baron alla tuba, Frank Bruno alla chitarra, Jeremy Chatzy al basso, Mark Clifford al banjo, Larry Eagle alla batteria e alle percussioni, Charles Giordano (organo, piano e fisarmonica). E ancora Ed Manion al sax, Mark Pender alla tromba, Richie «La Bamba» Rosenberg al trombone, Soozie Tyrell al violino, oltre alle voci di Lisa Powell e Patti Scialfa. Lui ha suonato chitarra, armonica, organo, percussioni e ha contribuito ai cori. I titoli: «Old Dan Tucker», «Jessie James», «Mrs. McGrath», «Oh, Mary, don't you weep», «John Henry», «Erie Canal», «Jacob's ladder», «My Oklahoma home», «Eyes on the prize», «Shenandoah», «Pay me my money down», «We shall overcome», «Froggie went a-courtin'».
<CF32>Cesaria Evora</CF> continua a stupirci a ogni nuovo lavoro. Il nuovo «Rogamar» (SonyBmg) è un piccolo scrigno con quindici perle capaci di regalare all’ascoltatore atmosfere ed emozioni senza tempo. Gran voce, la sua, cresciuta nell'arcipelago di Capo Verde, manciata di isole verdi nell'Atlantico, di lingua e cultura portoghese, a 500 miglia dalle coste africane. Fra i brani: «Avenida marginal», «Africa nossa», «Amor e mar» e quello che dà il titolo al disco. Fra gli ospiti, il brasiliano Jaques Morelenbaum.
L’abbiamo visto ospite nella serata finale di Sanremo. Del grand’ufficiale <CF32>Andrea Bocelli</CF> è appena uscito il <WC1>nuovo album «Amore»<WC> (Sugar<WC1>)<WC>,<WC1> <WC>già uscito negli Usa e in America Latina, <WC1>in cui l'artista reinterpreta alcune delle più famose canzoni del repertorio romantico e dei grandi classici della musica pop<WC>: da<WC1> «Besame mucho» e «Canzoni stonate»... Ospiti: Christina Aguilera e Stevie Wonder.
Con la loro «Dove si va», messaggio contro tutte le guerre, hanno rischiato di vincere Sanremo. Ma si sono dovuti fermare all’affermazione comunque importante nella categoria Gruppi. Sono ovviamente i Nomadi, q<WC1>uarantatrè anni di vita, <WC>centocinquanta<WC1> concerti l'anno, <WC>centosettanta<WC1> fanclub, una media di 150<WC> mila<WC1> copie vendute per ogni<WC> <WC1>disco.<WC>
E un nuovo disco è appena arrivato, per rinverdire la leggenda di un gruppo nato nell’Emilia Romagna folk-beat degli anni Sessanta, e che sembrava non dover sopravvivere alla scomparsa, nel ’92, del cantante e leader Augusto Daolio. L’album s’intitola «O con me o contro di me» (Atlantic) e propone una manciata di nuove canzoni, fra cui ovviamente quella portata al Festival. Sono canzoni che parlano di pace, di convivenza, di tolleranza. Su un tappeto sonoro che coniuga ispirata canzone d’autore e sanguigno pop-rock. Oltre al brano che dà il titolo al disco, spiccano «L’ultima salita» e «Status symbol».
Ma quei numeri importanti citati all’inizio forse non bastano a dare l'idea di cosa abbiano significato e tuttora significhino i Nomadi nella storia della musica e della società italiana. Per capirlo, Massimo Cotto ha fatto parlare loro: Beppe Carletti, ma anche Danilo, Cico, Daniele, Sergio e Massimo. Ne è venuto fuori il libro«Dove si va - Conversazione con i Nomadi» (Aliberti editore, pagg. 160, euro 14), i cui gli autori di «Io vagabondo» si raccontano, tutti assieme e uno alla volta.
Le voci dei Nomadi descrivono la nascita di una canzone, la vita privata oltre il gruppo musicale, il rapporto con il pubblico appreso nelle balere. «Nei primi anni Sessanta si suonava in quei posti lì, che ti aiutano a non dimenticare mai chi hai davanti», racconta Carletti, classe 1946, unico fondatore ancora in attività e mente organizzativa del gruppo che fu del compianto Augusto Daolio.



Nella serata finale dell’ultimo Sanremo il vecchio Mimmo è stato citato in apertura («Vecchio frac» cantata da Giancarlo Giannini) e in chiusura (duetto di Pausini e Ramazzotti sulle note di «Volare»). E nella collana «Via Asiago 10» è appena uscito un disco che alterna registrazioni storiche di suoi concerti (radiofonici) in Rai a interviste e interventi vari, tra cui un commento su Modugno da parte del poeta Salvatore Quasimodo. Fra le canzoni, oltre alle due già citate, ascoltiamo «Stasera pago io», «La donna riccia», «Musetto», «Amara terra mia», «La lontananza», «Tu si ’na cosa grande»... Disco importante per la memoria storica della musica italiana.


Lo stesso titolo di un disco di Randy Newman uscito nel ’70, per un album che riporta il grande Neil Diamond ai fasti creativi più o meno dello stesso periodo. Era infatti il ’72 quando il cantautore americano pubblicò «Moods», considerato da molti il suo ultimo capolavoro prima di perdersi nei meandri di un mainstream assai di maniera. A 64 anni il nostro imbraccia nuovamente la chitarra acustica e, supportato da una band nella quale brilla Billy Preston al piano, dimostra di esser ancora capace di sfornare quadretti acustici di gran gusto e indubbia classe. Come la splendida «Evermore». O anche «Delirious love», cantata in duetto con Brian Wilson, fra i bonus.

venerdì 10 marzo 2006

Dobbiamo far capire


agli elettori di destra


che questa volta


non si tratta soltanto


di destra e di sinistra


ma di salvare


le istituzioni democratiche.


Ho alcuni


ex compagni di scuola


che avevano sempre


votato centrodestra


e non perdonano


a Berlusconi


di costringerli


a votare a sinistra,


come non avrebbero


mai pensato di fare...


(Claudio Magris)

lunedì 6 marzo 2006

Da molti anni a Sanremo, proprio come nella politica, non si può sperare né pretendere che vinca il migliore. E allora bisogna accontentarsi del meno peggio. Primo: perchè i migliori, le famose eccellenze di cui tanto ha parlato Panariello, di solito non vanno al Festival (alla stessa maniera in cui non scendono in politica...). Secondo: perchè quando uno bravo, con una canzone decente, decide di fare il gran passo e partecipare, quasi sempre viene eliminato (continuando con la similitudine: viene bocciato alle elezioni...).


Viva allora Giovanni Povia, che l’altra notte ha vinto a sorpresa il 56.o Festival di Sanremo con la gradevole filastrocca «Vorrei avere il becco». Il rischio, da come si erano messe le cose, era che alla fine il voto popolare premiasse Anna Tatangelo, con quel testo imbarazzante firmato peraltro da Mogol. Visto che era tramontata la speranza che ce la facessero i Nomadi, con il loro grido contro tutte le guerre, nobilitato dalle immagini di drammi contemporanei che scorrevano alle loro spalle, oltre che dal duetto di venerdì con il professor Vecchioni.
Povia, trentatreenne milanese di nascita e fiorentino d’adozione, un passato di cameriere, era stato voluto l’anno scorso da Bonolis. Fuori gara, perchè la sua «I bambini fanno oh» era già stata cantata al Premio Recanati, ma comunque forte abbastanza per diventare il vincitore morale del Sanremo 2005. Quest’anno è tornato sul luogo del delitto, con una canzone con la stessa freschezza un po’ naif anche se meno riuscita, e alla fine si è portato a casa una vittoria tutto sommato meritata.
Una spinta verso il podio gliel’ha data venerdì il duetto con Francesco Baccini. Che quindi ha consumato la sua piccola rivincita nei confronti - oltre che del Festival che non aveva accettato la sua canzone in gara - anche di quella Dolcenera, favorita della vigilia e poi battuta nella categoria Donne dalla Tatangelo, con cui aveva condiviso l’anno scorso l’esperienza del reality «Music Farm», con annessa mezza infatuazione a uso della stampa scandalistica e non.
Ribadito che le canzoni di Sanremo 2006 non passeranno di certo alla storia, va riconosciuto che quella vincitrice fa comunque parte di un ristrettissimo drappello di brani qualitativamente nei dintorni della sufficienza. Un gruppo capitanato da Mario Venuti, da Noa con Carlo Fava (cui è andato il Premio della critica intitolato a Mia Martini), con dentro i citati Nomadi, ma anche Ron, Nicky Nicolai, Alex Britti, in fondo la stessa Dolcenera...
Fra i Giovani, dove il rock disincantato di Riccardo Maffoni ha avuto la meglio sulla fresca originalità di Simone Cristicchi, diverse note positive con Helena Hellwig, Ivan Segreto, L’Aura, la giovanissima Monia Russo... Da alcuni di loro, di cui sentiremo ancora parlare, qualità superiore che fra i sedicenti big.
La serata finale non ha modificato il quadro nero degli ascolti. Gli spettatori sono rimasti attorno ai nove milioni e mezzo, con uno share del 48,2 per cento. I dati più bassi da molti anni a questa parte. Picchi positivi: dodici milioni e mezzo per il duetto Ramazzotti-Anastacia e 66,6 per cento di share per l’annuncio della vittoria di Povia all’una e un quarto di notte.
Per tutta la settimana la Rai, con collegamenti imbarazzanti nei tg e nei vari programmi, ha negato il flop di ascolti. E a Panariello che ieri ha detto che dell’Auditel se ne frega, Del Noce ha ricordato che «solo attraverso l'Auditel si possono garantire e ricevere investimenti pubblicitari». E che parlare di «flop di ascolti è un falso ideologico». Che tristezza...

...ALTRI


CINQUE


ANNI


DI


SILVIO


BERLUSCONI


E


SIAMO


FOTTUTI...


(Umberto Eco)

domenica 5 marzo 2006

Povia ha vinto a sorpresa il 56.o Festival di Sanremo con «Vorrei avere il becco». Fra le Donne, affermazione di Anna Tatangelo (che ha battuto la favorita Dolcenera) con «Essere una donna». Fra i Gruppi primi i Nomadi con «Dove si va». Fra i Giovani successo di Riccardo Maffoni con «Sole negli occhi». La serata, aperta dall’omaggio a Modugno con Giancarlo Giannini che ha cantato «Vecchio frac», è brillata soprattutto della luce di Andrea Bocelli, Laura Pausini ed Eros Ramazzotti. Con «Volare» cantata da questi ultimi due all’una di notte...
Ma al di là del risultato a sorpresa (alla fine ha vinto quello che era stato il vincitore morale dell’anno scorso, con «I bambini fanno oooh»), forse non è un caso che il Festival conclusosi stanotte sia probabilmente il peggiore da diversi anni a questa parte. Sanremo, si sa, è sempre stato uno specchio del Paese, nel bene e nel male. Ne ha annusato gli umori, spesso ha saputo anticipare i cambi di stagione, nel costume ma anche nella politica di casa nostra.
E questa edizione della rassegna, a pensarci bene, somiglia un po’ all’Italia del 2006. Ferma, stanca, senza certezze, senza idee, senza passioni, incapace di ridere ma forse ormai anche di piangere. Alla vigilia di una scelta politica importante quasi come quella del 1948, la Rai ha allestito l’eterno rito del nulla, che è poi il vero spettacolo che da tempo va in scena nella città dei fiori, ma l’ha fatto peggio che in passato.
Il direttore di Raiuno, l’ex giornalista ed ex parlamentare forzista Del Noce, ha confermato sulla tolda di comando Gianmarco Mazzi, uomo vicino ad An, e ha chiamato alla conduzione un comico provinciale e innocuo come Panariello. Uno che non fa ridere, infilando luoghi comuni e doppisensi di bassa lega buoni per la platea di bocca buona del Bagaglino, non per quello che dovrebbe essere l’evento di punta della campagna d’inverno della Rai.
Lungi dal proporre un festival della canzone, questa squadra ha allestito un brutto show televisivo, la cui cifra stilistica è stata una lentezza capace di schiantare un rodato addetto alla moviola. In tempi iperveloci di zapping e videoclip, solo pensare a maratone che cominciano alle ventuno e si concludono all’una e mezzo di notte è un attentato alla tolleranza.
Sanremo, quest’anno più ancora che in passato, è l’ultimo avanposto di un mondo, di una televisione, che non esistono più. C’è stato un tempo, nella seconda metà degli anni Sessanta, in cui al Festival facevano metaforicamente a botte per partecipare i maggiori interpreti della canzone italiana dell’epoca: gli esponenti della tradizione (da Claudio Villa in giù...) ma anche i giovani (Celentano, Lucio Dalla, Caterina Caselli, Gino Paoli, l’Equipe 84, i Giganti, Bobby Solo, Giorgio Gaber, i Rokes...) che incarnavano il vento del cambiamento, nella musica ma anche nel costume. E i dischi degli uni e degli altri, finito il Festival, erano i più venduti per settimane e settimane.
Oggi i ragazzi consumano forse più musica di allora, ma attraverso canali diversi, nemmeno immaginabili soltanto pochi anni fa. E soprattutto prediligendo artisti che rarissimamente, e solo ad inizio carriera, si presentano sotto quelle che sono considerate le forche caudine del Festival.
La Rai, quest’anno, con l’edizione appena mandata in archivio, non solo non è stata capace di proporre una rassegna all’altezza della situazione da tempo mutata. Ha anche annullato i piccoli segnali di cambiamento che, pur fra mille difficoltà e lentezze, avevano contraddistinto le edizioni degli ultimi anni.
Ne è venuto fuori il Festival che abbiamo visto: un Festival di transizione, che forse prelude a un cambio di stagione anche politico (la Rai è notoriamente velocissima a sentire il vento che cambia e, quando possibile, ad adeguarsi...).
Anche se, in queste giornate di polemiche sugli ascolti in picchiata e sui maxicosti dell’evento, si è già pensato per l’ennesima volta di resuscitare Pippo Baudo. L’ormai settantenne presentatore (stessa età di Berlusconi, due anni più di Prodi) ha condotto il primo dei suoi dieci Sanremo nientemeno che nel 1968, l’ultimo nel 2002. «Non sarebbe un salto indietro - ha osservato Del Noce - anzi, c'è una certa logica in questa eventuale determinazione». Sì, verrebbe da dire, la stessa logica che sta nel riformare la Dc, il grande centro, attraverso la liturgia festivaliera onnivora come una balena bianca della canzone.
Eppure alternative ce ne sarebbero, veniva da pensare ieri sera guardando Eros Ramazzotti, Laura Pausini e Andrea Bocelli, artisti che sono partiti da qui dieci o vent’anni fa e hanno portato la musica italiana in tutto il mondo. Prima di tornare per ricevere il giusto tributo dal Festival e al tempo stesso restituirlo.
Lo stesso moderato ottimismo suscitato nella serata precedente, quella dedicata ai duetti, quando si è avuta la riprova che se ai cantanti viene chiesto e permesso di fare il loro mestiere, quando alla musica viene restituito un minimo di centralità, i risultati - e le emozioni - si vedono, eccome.
Dove si va, verrebbe allora da chiedersi, mutuando il titolo della canzone dei Nomadi, messaggio di pace e di speranza che è anche un’orgogliosa bandiera ideologica. Di certo da nessuna parte, se si sceglie di insistere sul Festival-monstre, senza contatto con la realtà, affidato a comici che non fanno ridere, a cantanti che escono fuori una volta all’anno, un Festival peraltro allestito dilapidando milioni di euro per strutture faraoniche e compensi scandalosi a conduttori e ospiti.
Se invece, sfruttando la debacle di quest’anno, si osasse una sorta di rifondazione, di anno zero da cui ricominciare, si potrebbe finalmente allestire una vetrina della musica italiana e internazionale, sull’impronta delle grandi rassegne cinematografiche. Col marchio di Sanremo e tanto spazio per i giovani. E fregandosene bellamente dei numeri, degli ascolti, di quella madre di tutte le disgrazie che è l’Auditel...
Altrimenti, meglio chiudere baracca e burattini. Davvero. In cinquantasei anni è cambiato tutto: la musica, l’Italia, il mondo. Si può vivere anche senza Festival di Sanremo. Probabilmente meglio.
Sanremo: siamo alla finalissima. Ieri sera ultime eliminazioni. Sono usciti dalla gara Simona Bencini, Nicky Nicolai (Donne), Ragazzi di Scampia e Sugarfree (Gruppi), Ron e Alex Britti (Uomini). Fra i Giovani non ce l’hanno fatta Monia Russo, Tiziano Orecchio, Helena Hellwig, L’Aura. Gli otto finalisti fra i quali stasera saranno proclamati i vincitori di categoria e quello finale sono dunque Dolcenera, Anna Tatangelo, Nomadi, Zero Assoluto, Povia, Michele Zarrillo, Simone Cristicchi e Riccardo Maffoni.
Ma eliminazioni e finalisti a parte, quella di ieri può essere considerata la serata della rivincita della musica. Paradossale che ciò avvenga alla penultima curva, quasi in chiusura di Festival, dopo tante polemiche, tante parole inutili, tanta noia... Ma tant’è, ieri sera Sanremo è sembrato veramente il Festival della canzone italiana.
C’è una vecchia convinzione, fra i dirigenti della televisione pubblica e privata di casa nostra. Si crede che la musica, sul piccolo schermo, non funzioni, non faccia ascolti, vada comunque mischiata e mascherata con qualcos’altro. Tanto che Dolcenera, che stasera parte favorita, dopo la vittoria a Sanremo Giovani nel 2003, non seguita dall’invito fra i big l’anno successivo, è dovuta passare per un reality, «Music Farm», per riprendere la rincorsa e guadagnare nuovamente le luci della ribalta.
Convinzione sbagliata. Perchè a volte basta lasciare che i cantanti facciano il loro mestiere, e può accadere il miracolo. Com’è successo ieri sera. Ci sono volute quattro dirette dall’Ariston, quattro lunghe e snervanti maratone, ma alla fine la canzone, la musica è riuscita a farsi strada.
Intendiamoci: i limiti e i difetti dello show rimangono tutti. Le canzoni di quest’edizione non sono di quelle che passeranno alla storia. Panariello è sempre Panariello (ieri solito pietoso monologo sull’invasione dei cinesi...), Victoria Cabello dopo l’inizio frizzante della prima sera è sempre più petulante e anche un po’ insopportabile (vedi l’intervista di ieri sera al bell’Orlando Bloom...), Ilary Blasi fa la sua particina senza infamia e senza lode. Ma il gioco dei duetti ha restituito centralità alla musica, almeno per una sera. E alcune canzoni, sarà stato per l’ennesimo ascolto o per gli ospiti che le hanno nobilitate, hanno acquistato un fascino nuovo, sono sembrate migliori di com’erano apparse in precedenza.
Il discorso vale per Michele Zarrillo, che ha aperto la serata cantando «L’alfabeto degli amanti» con Tiziano Ferro, al suo debutto assoluto sul palcoscenico sanremese. Vale per Povia, che ha chiamato Francesco Baccini per condividere con lui «Vorrei avere il becco», ed è finita che i due si sono pure emozionati. Vale per Alex Britti, che nonostante alcuni problemi tecnici alla pedaliera da cui comanda la sua chitarra, ha cantato «Solo con te» assieme alla sua vecchia Blues Band, completa di Max Gazzè al basso.
Uno che ha giocato alla perfezione la carta dei duetti è Ron. «L’uomo delle stelle», che già poteva contare sull’arpa di Cecilia Chailly, ieri si è ulteriormente arricchita delle voci di Tosca, con cui aveva vinto Sanremo nel ’96, cantando «Vorrei incontrarti fra cent’anni», e di Loredana Bertè. La presenza della quale si è aggiunta all’ultimo momento, dopo che la stessa non era stata ammessa al Festival - pare - per un problema di un ritardo di appena quindici minuti sulla presentazione della sua canzone, «L’araba fenice».
E ancor meglio hanno fatto i Nomadi. «Dove si va», il loro forte messaggio di pace e di speranza, contro tutte le guerre, ha acquistato ulteriore forza grazie alla presenza di Roberto Vecchioni, che per una volta è tornato sul palco dell’Ariston per il Festival e non per la rassegna del Club Tenco di cui è un veterano. Assieme, il professore della canzone e i vecchi-giovani Nomadi, hanno emozionato tutti.
Un’altra che ha sfruttato bene la chance dei duetti è Nicky Nicolai, che per l’occasione si è fatta raggiungere dal marito sassofonista jazz Stefano Di Battista, con cui aveva condiviso l’anno scorso l’affermazione al Festival, e da Giovanni Allevi, stella del piano jazz conosciuta e apprezzata anche negli Stati Uniti.
Gli altri duetti: Zero Assoluto con Niccolò Fabi, Sugarfree con il comico Flavio Oreglio, i Ragazzi di Scampia di Gigi Finizio con Tullio De Piscopo (che proprio ieri ha perso la madre ma ha voluto onorare ugualmente il suo impegno), Anna Tatangelo con i chitarristi Alberto Radius (Formula 3) e Ricky Portera (già con Dalla), Dolcenera anche lei con un chitarrista, Maurizio Solieri (quello di Vasco), Simona Bencini con la talentuosa Sarah Jane Morris.
Dopo mezzanotte, spazio finalmente ai giovani. Alcuni dei quali (Simone Cristicchi, Helena Hellwig, L’Aura, Riccardo Maffoni...) convincono più dei sedicenti big. Tra gli ospiti della serata, oltre al citato Orlando Bloom, Dolce & Gabbana, Arnoldo Foà e Gavin De Graw (all’una di notte...). Stasera gran finale.

venerdì 3 marzo 2006

Stretto fra le polemiche per i costi e massacrato dagli ascolti in caduta libera, il 56.o Festival di Sanremo continua nella strada verso la finale di domani. Ieri sera la pattuglia dei cantanti in gara si è ulteriormente ridotta. Sono stati infatti eliminati Luca Dirisio («Sparirò», categoria Uomini), Spagna («Noi non possiamo cambiare», Donne), Noa con Carlo Fava & Solis String Quartet («Un discorso generale», Gruppi). Fra i Giovani, passano L’Aura, Riccardo Maffoni e Tiziano Orecchio.


Ma ieri sera si è avuta anche la riprova che buona parte delle responsabilità di questo brutto Sanremo ricadono sulle spalle di Giorgio Panariello. E di chi ha deciso di affidare a lui conduzione e direzione artistica della 56.a edizione della massima rassegna canora di casa nostra. Come dire: il direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce.
Si può discutere a lungo sull’opportunità di chiamare un comico alla conduzione di un Festival della canzone. Ma un comico deve comunque e innanzitutto far ridere. Anche a Sanremo. E Panariello, con i suoi doppi sensi di bassa lega, con le sue battute piccole piccole, con la sua comicità casereccia e innocua, non fa ridere. Annoia. Al massimo può fare la spalla di qualcuno.
E ieri sera, si diceva, se ne è avuta la riprova. Prima con Leonardo Pieraccioni, poi con Carlo Verdone. Entrambi attori e comici popolari, che di certo non possono essere tacciati di intellettualismi o di atteggiamenti snobistici, ma che vivaddio quando partono non li ferma più nessuno... Proprio com’è successo ieri sera al Festival.
L’arrivo di Pieraccioni ha avuto un antefatto. Panariello intervistato dal Tg1 di mezza sera, che con fare serio annuncia: «Stasera non sarò sul palco. So di dare qualche dispiacere a qualcuno, ma per un comico che deve far ridere, le polemiche di questi giorni sono un grave ostacolo psicologico e non ho nessuna intenzione di salire sul palco di Sanremo...».
L’intervistatore ha la faccia perplessa. Qualcuno abbocca. Ma è solo una gag per lanciare Pieraccioni, che infatti apre la serata. Ed è in serata di grazia. Fresco, veloce, scoppiettante. Una a caso: «È uno scandalo che sia stata eliminata la canzone di Anna Oxa, era la preferita mia e di mia mamma: a casa quando la sentivamo facevamo il trenino...». Niente de che, però ha un’altra marcia. Dopo aver introdotto Ilary Blasi, chiama «mio fratello Cateno», cioè il personaggio balbuziente che lo affiancava nel suo ultimo film «Ti amo in tutte le lingue del mondo». Cioè lo stesso Panariello, che come spalla funziona perfettamente.
Stessa scena un’ora e mezzo dopo. Quando il conduttore introduce tale Assunta de Senis, presunta vecchia gloria del Festival che parla di Nunzio Filogamo come di una «mia carissima amica», di Nunzio Gallo «grande amante», di Natalino Otto «dalla fantasia sfrenata che lo faceva nei garage», di Claudio Villa «un flirt di sei-sette settimane ma era troppo romano, sempre in canottiera dentro casa...». Ovviamente si tratta di Carlo Verdone, truccato da vecchia signora, anche lui in serata di grazia, che alla fine della gag viene raggiunto da Silvio Muccino, suo partner nel film in uscita «Il mio miglior nemico».
Strano Festival. Stretto fra gli ascolti in caduta libera e le polemiche per i suoi costi (finora si era parlato di tre milioni di euro, «Panorama» oggi in edicola parla di una cifra vicina ai nove...), per i compensi imbarazzanti del conduttore, delle vallette, degli ospiti: dal milione per Panariello ai 400 mila per la breve comparsata di Travolta... Un Festival costretto dunque a chiedere aiuto, pur di non naufragare definitivamente, oltre che ai due citati campioni della risata, anche agli olimpionici freschi di medaglia a Torino 2006 e al campione di wrestling John Cena. «Affrontato» da un Panariello travestito da Pippo Baudo.
Tutte cose che con un festival di canzoni non dovrebbero aver nulla a che fare. Ma a Sanremo, si sa, le canzoni sono da tempo diventate la cosa meno importante. Poco più di un pretesto. Ciononostante, quasi per dovere di cronaca, ne riferiamo. Ieri sera il ghiaccio è stato rotto da Simona Bencini con la sua «Tempesta» cui la melodia scritta da Elisa non basta per uscire dalla mediocrità che non lascia traccia. Altro discorso per i vecchi Nomadi, rinati attorno all’unico componente originario, Beppe Carletti. Hanno una personalità forte, la loro «Dove si va», messaggio di pace e di speranza, convince ascolto dopo ascolto. Che è poi quel che avviene anche con Alex Britti, col suo blues all’amatriciana in odore di podio.
Spagna, lontana mille miglia dalle origini dance, sembra essere ormai diventata uno di quegli strani personaggi che sbucano fuori solo per Sanremo: «Noi non possiamo cambiare» non aggiunge nulla al suo campionario melodico moderno. Situazione simile per Michele Zarrillo, che con «L’alfabeto degli amanti» è lontano dalle cose migliori. Meglio gli Zero Assoluto (uno dei quali è figlio di quel Mario Maffucci che fu per tanti anni il potentissimo capostruttura Rai delegato al Festival), che non sfigurano con il loro pop fresco, sussurrato, per adolescenti inquieti.
Luca Dirisio è nullo. Noa, Carlo Fava & Solis String Quartet hanno classe e originalità: praticamente degli alieni, in questo Festival. Dolcenera si comporta ormai da vincitrice annunciata, anche se dice che a lei la vittoria non interessa. La canzone è costruita per vincere, lei la interpreta con piglio ruffiano. Quasi quasi meritererebbe che le giurie le preferissero qualcun altro...
Restano i Giovani. Ieri sera i migliori erano L’Aura, Riccardo Maffoni e Ivan Segreto (quest’ultimo eliminato dalle giurie). Costretti alle ore piccole, come anche Maria Grazia Cucinotta e l’ospite straniera Shakira. Chissà, forse si tira l’una di notte solo per inseguire qualche punto di «share» in più...

giovedì 2 marzo 2006

Il 56.o Festival di Sanremo ha emesso i suoi primi verdetti. Ieri sera le giurie hanno infatti eliminato dalla gara Anna Oxa («Processo a me stessa», categoria Donne), Gianluca Grignani («Liberi di sognare», categoria Uomini), Mario Venuti con gli Arancia Sonora («Un altro posto nel mondo», categoria Gruppi) e ben tre dei sei Giovani ascoltati nella seconda serata: Deasonika, Virginio e Antonello. Fra i Giovani restano dunque in gara Simone Cristicchi, Helena Hellwig e Monia Russo.


Ma la seconda serata del Festival è stata quella in cui ci siamo persi anche Victoria Cabello. L’ex Iena, che aveva portato l’unico pepe del debutto, ieri non ha dato cenni di vita. Encefalogramma quasi piatto. Alla stregua di una Ilary Blasi qualsiasi, senza peraltro poter nemmeno contare sulle fattezze della signora Totti.
E proprio Totti ha rappresentato la sorpresa peraltro ampiamente annunciata della serata. L’infortunato Pupone, con tanto di stampelle, è arrivato in elicottero nel pomeriggio. Quando è apparso in platea, la moglie ha finto sorpresa e si è seduta al suo fianco, mentre Panariello lo ha intervistato un po’ alla maniera del vecchio Costanzo, seduto su uno sgabello. Il capitano giallorosso e della nazionale ha accennato al suo infortunio e alla visita in clinica di Berlusconi (qualche fischio dalla galleria...), che «mi ha raccontato due o tre barzellette, ma non me le ricordo». Il discorso è poi scivolato sul figlio Christian, sui pannolini, la cacca del neonato e altre facezie.
L'apertura era stata invece riservata al monologo di Panariello sulla par condicio. «Un festival dei fiori in par condicio è un inferno, perchè quasi a ogni fiore corrisponde un nome di partito - ha detto il comico - immaginate una vita in par condicio: non potrebbero esistere neanche i cartelli che indicano se andare a destra o a sinistra».
Ancora: «Non trovo il nome di un partito che non contenga un fiore: garofano non si può dire, rosa (nel pugno) non si può dire, la margherita esiste ma non la si può citare, ma neanche ”benvenuto”, il cantante più ”amato”, ”casini”, perfino due ”maroni” non si può dire...».
Anna Oxa ha aperto metaforicamente le danze. Dopo i misteri e le polemiche dei giorni scorsi, ha eseguito la sua discussa e discutibile «Processo a me stessa» in versione più breve rispetto a lunedì, tagliando la prima strofa e rientrando così nella lunghezza massima prevista dal regolamento. Alla fine dell’esecuzione si è pure emozionata.
Del regolamento, che in un altro articolo prevede che le canzoni in gara devono essere in italiano, invece continuano tranquillamente a infischiarsene Gigi Finizio e i suoi Ragazzi di Scampia. Cantano ovviamente in napoletano, ma il fatto più grave è che la «Musica e speranza» scritta per loro da Mogol e Gigi D’Alessio è sempre più irritante, ascolto dopo ascolto.
Mogol deve attraversare un brutto periodo, perchè anche un altro testo, quello che ha scritto per Anna Tatangelo, «Essere una donna», è decisamente imbarazzante. I Sugarfree dovrebbero rappresentare un'apertura del Festival ai gusti dei più giovani, ma la loro «Solo lei mi dà» è debole assai e non regge il confronto con quella «Cleptomania» che li ha fatti conoscere dal pubblico. Altro mistero quello di Gianluca Grignani: «Liberi di sognare» vorrebbe inserirsi sul solco di Vasco, cui il ragazzo si ispira da sempre, ma brano e interpretazione non decollano.
Meglio Mario Venuti, che aveva uno dei brani più interessanti del Festival ed è stato puntualmente eliminato. E meglio anche Ron, tra i favoriti per il podio con «L'uomo delle stelle», cantautorato nobile con l’ausilio dell’arpa di Cecilia Chailly. Su un livello accettabile anche il piglio teatrale di Nicky Nicolai, con la storia della sua bella di notte, e la ballata animalista di Povia.
Ma ieri era anche la serata dei Giovani, il settore più bistrattato del Festival ma quello da cui sono arrivate sempre le cose migliori. Senza tornare ai tempi delle Pausini, dei Ramazzotti e dei Bocelli - che saranno fra i protagonisti della finale di sabato - basti pensare che l’anno scorso i Negramaro sono stati eliminati dal Festival ma poi sono diventati il fenomeno musicale dell’anno. Ieri sera, hanno ben impressionato Simone Cristicchi, Helena Hellwig e la giovanissima Monia Russo, che per fortuna sono quelli che poi hanno passato il turno.
Ospiti musicali. Con i giovanissimi americani Jesse McCartney e Hilary Duff, il Festival ha tentato di strizzare l’occhio ai ragazzi, che però difficilmente guardano Sanremo. E poi, ennesima ospitata sanremese del solito Riccardo Cocciante: con le solite «Bella senz’anima» e «Margherita», le solite facce, le solite espressioni, i soliti complimenti, i soliti premi, la solita standing ovation... Della serie: bravo ma basta. Un po’ la stessa cosa che verrebbe da dire per il Festival di Sanremo.