domenica 25 gennaio 2004

CLAUDIO MATTONE

«Nella mia carriera ho avuto tante soddisfazioni. Ma quelle che sto ottenendo con ”C’era una volta... Scugnizzi” (il musical che debutta mercoledì al Rossetti, repliche fino al primo febbraio - ndr ), beh, stanno superando le più rosee aspettative...».
Claudio Mattone, classe ’43, napoletano di un paese vicino Caserta, trapiantato a Roma da oltre un trentennio, è autore di musica leggera di quelli che hanno lasciato il segno. «Ma che freddo fa» (Nada, ’69), «Il cuore è uno zingaro» (ancora Nada con Nicola Di Bari, prima a Sanremo ’71), «Ma chi se ne importa» (Morandi), «Un grande amore e niente più» (Di Capri), «Ancora» (De Crescenzo) sono solo alcuni dei titoli delle sue canzoni, scritte con o senza Migliacci. Ora è in giro per l’Italia con questo musical di cui è al tempo stesso autore e produttore.
«Tutto è cominciato nell’87 - ricorda - quando Nanni Loy mi chiese di scrivere la colonna sonora di ”Scugnizzi”, film musicale ambientato nel carcere minorile di Nisida. La colonna sonora vinse molti premi e io cominciai a pensare che mi sarebbe piaciuto, partendo da quelle canzoni, che nel film erano un po’ sacrificate, scrivere un musical».
«Con l’aiuto prezioso di Enrico Vaime e Gino Landi, dopo diversi anni, quel sogno è diventato realtà. Abbiamo scritto la storia, che è di emarginazione ma anche di riscatto, abbiamo fatto i provini a Napoli, e lì c’è stata la prima bella sorpresa: si sono presentati millecinquecento ragazzi, moltissimi dei quali bravi ed entusiasti, fra i quali abbiamo selezionato i venti che fanno parte del cast, affiancati da tre o quattro attori professionisti».
Lo spettacolo ha debuttato nel 2000 a Napoli, dove è rimasto in cartellone per un anno, poi è andato in scena a Roma e ora, da un paio d’anni, gira con successo per l’Italia. «I ragazzi - prosegue Mattone - sono stati la vera sorpresa, con la loro bravura, con la loro voglia di imparare. Oggi c’è tutta questa corsa ad apparire in tivù, a prescindere da qual che si fa. Si è ribaltato il meccanismo: una volta andavi in televisione perchè sapevi fare qualcosa, ora prima sgomiti per avere uno strapuntino, poi qualcosa da fare, dopo che ti sei fatto vedere un po’ di volte, te lo trovano... Ebbene, questi ragazzi dimostrano che c’è ancora una generazione che ha voglia di avvicinarsi al mondo dello spettacolo nella maniera giusta».
«Sanremo? Ho seguito poco la vicenda. Noto che dopo aver sparato su Renis ”a prescindere”, ora c’è in giro una certa curiosità su come sarà questo Festival. Lui ha scelto di puntare sulle canzoni e sui giovani, ma non dimentichiamo che è stata la Fimi, che raggruppa le maggiori case discografiche, a chiudere la porta in faccia al Festival. Quella di Renis è dunque quasi una scelta obbligata. Comunque staremo a vedere. Io trovo che quando hai una proposta valida - conclude Claudio Mattone - a Sanremo devi andarci. Mi è successo anche pochi anni fa, con i Neri per Caso. E non escludo possa capitarmi ancora».

giovedì 22 gennaio 2004

GRANDE FRATELLO

Guardoni di tutta Italia, unitevi. Barricatevi in casa, staccate i telefoni, impugnate il telecomando. E date libera soddisfazione alla vostra galoppante sindrome del buco della serratura. Una volta ve ne vergognavate. Spiare il vicino, origliare le telefonate, farvi in buona sostanza gli affari altrui. Che orrore. Roba da praticare in privato e condannare in pubblico, come nella miglior tradizione dell’essere umano. Poi è arrivato il Grande Fratello. E nulla è stato più come prima. Messi rapidamente a tacere i sensi di colpa nei confronti del povero George Orwell, titolare di copyright che da tempo si rigira vorticamente nella tomba, abbiamo assistito al progressivo sdoganamento della citata sindrome. Di più: nei tre anni e mezzo trascorsi dal settembre 2000 del debutto (l’edizione di Taricone, do you remember?) abbiamo assistito a una lenta ma inesorabile grandefratellizzazione - si può dire? - della tv italiana. Con l’alibi del reality show il duopolio Rai-Mediaset ha aperto le stalle. Non solo e non tanto per la rilettura in chiave vip (o aspirante, o sedicente vip...) del format elaborata con «L’isola dei famosi», al cui successo ha contribuito non poco il gusto di vedere il personaggio noto alle prese con problemi di sopravvivenza. E nemmeno per la versione geriatrica di «Super Senior» e per le mille candid camera, vere o finte che siano, ormai piazzate ovunque. Piuttosto perchè quel barlume di buona educazione e buone maniere che ancora sopravvivevano - a fatica - nei vari palinsesti è stato spazzato via dall’irrompere in video di questi manipoli di ragazzotti e ragazzotte nullafacenti, senz’arte né parte, chiusi per mesi in case zeppe di microfoni e telecamere, pronti per carriere a base di comparsate tivù, spiati golosamente da milionate di persone maltrattate da anni di dittatura televisiva.
Da stasera si ricomincia, dunque. Non ci sarà l’annunciato prete, l’arredamento sarà «stile classico Luigi XVI ma rivisitato in chiave moderna», invece della suite con la Jacuzzi hanno preparato un tugurio spartano assai («L’isola dei famosi» ha lasciato il segno...). Ma nella casa-bunker si allestiranno ancora amorazzi, si ordiranno trame, si farà baruffa per chi lava i piatti, si disquisirà di funzioni fisiologiche... Verrebbe da dire che squallore, ma forse non si può.

venerdì 16 gennaio 2004

MONI OVADIA, MITTELFEST

C’è di nuovo un Orient Express, nella vita di Moni Ovadia. Il primo fu quello che nel ’49 lo portò in Italia - passando fra l’altro da Trieste, stazione oggi malinconicamente dismessa di Campo Marzio - dalla natia Plovdiv, Bulgaria, dov’è nato nel ’46. Oggi, da neo direttore artistico del Mittelfest, l’attore e regista sceglie di nuovo il leggendario treno per permettere alla manifestazione di sfondare e radicarsi anche nei paesi del Centro-Est europeo.
«Con il presidente Paolo Maurensig - spiega Ovadia - abbiamo pensato a questo treno che nei giorni del festival va e viene da Cividale verso le terre della Mitteleuropa. Portando passeggeri, spettatori, addetti ai lavori. Diventando sede di piccoli eventi di teatro, letteratura, poesia, musica».
Oggi che l’Europa si allarga, esiste ancora un teatro mitteleuropeo?
«La funzione di un festival come il Mittelfest è proprio quella di pensare un’unione diversa. Unione e uguaglianza si fanno nel rispetto delle specificità, della pari dignità dei soggetti che si uniscono. Altrimenti è soggezione, subordinazione».
Il gusto occidentale non ha già «contaminato» il teatro dell’Est?
«Direi di no. Quando vediamo certi artisti della scena polacca, o un grandissimo come Nekrosius, che viene dalla Lituania, beh, non possiamo non riconoscerne la fibra, le capacità, l’originalità. Nel teatro esiste, è sempre esistita una cultura mitteleuropea. Ora c’è un futuro da costruire, sfruttando la ricchezza di quest’ultima all’interno di una più ampia e unitaria cultura europea».
Pericoli in agguato?
«L’unione, se democratica e rispettosa delle specificità, rifiuta due estremi che si toccano: l’omologazione ma anche l’isteria localistica. Le varie voci dell’Europa si devono incontrare, scambiare, rispettare, facendo germinare nuovi cammini identitari».
A teatro ciò che cosa significa?
«Per esempio il formarsi di compagnie con attori di diverse provenienze nazionali, facendo incontrare le diversità, nel teatro ma anche nel cinema, nella musica, nella letteratura. Bisogna opporsi all’imperialismo della cultura anglosassone, sapendo salvaguardarne la parte buona ma senza viverla in maniera passiva».
Le lingue minoritarie?
«I teatranti italiani più famosi del mondo sono il napoletano Eduardo De Filippo, il veneziano Goldoni e Dario Fo con il suo grammelot lombardoveneto. Il Friuli ha una grande ricchezza, la sua lingua, che noi vogliamo continuare a valorizzare. Ho chiesto per esempio a Fabio Vacchi, grande compositore e musicologo, di lavorare sul Cantico dei Cantici in friulano».
Sarà un Mittelfest più popolare?
«La mia ambizione è coniugare qualità e respiro popolare. Sono convinto che le due cose non siano in contraddizione. Questo vecchio mito secondo il quale le cose di qualità debbano essere necessariamente d’élite non regge. Bisogna avere fiducia nel pubblico e sollecitarlo, senza ovviamente essere corrivi ai gusti bassi».
Festival multidisciplinare?
«Sempre. Musica e teatro per parlare del tempo, il tempo che scorre, che ci viene rapinato. Dimostreremo che anche i tempi brevi possono essere tempi alti e non solo commerciali».
Nomi?
«Uno spettacolo di Pressburger, a dimostrazione del fatto che il passaggio delle consegne è nel segno della continuità e di una grandissima stima nei suoi confronti. Tre operine di Darius Milhaud. Una piccola cosa mia. E tanti nomi di cui dobbiamo ancora verificare la disponibilità».
Ce ne faccia uno.
«Soeur Marie Keyrouz, questa straordinaria suora libanese che rappresenta a mio avviso il più grande fenomeno di vocalità liturgica».
Con Maurensig?
«Scrittore di grandissima qualità, che punta al rilancio del festival come ponte di legame culturale e politico. C’è sintonia di intenti».
Si rafforza il legame di Moni Ovadia con queste terre...
«Io qui mi sento a casa, sono sempre stato accolto bene, prima che in altre parti d’Italia. Forse quella prima tappa a Trieste dell’Orient Express, nel ’49, era un segnale...».

ADDIO DELIA SCALA

Oggi c’è Simona Ventura. Ieri c’era Raffaella Carrà. Ma l’altro ieri la donna in televisione era innanzitutto - e soprattutto - Delia Scala. L’archetipo della showgirl e della soubrette televisiva, rapportato ovviamente agli anni Cinquanta e Sessanta nei quali si svolge gran parte dei fatti di cui stiamo parlando. E il destino vuole che proprio nei giorni in cui la televisione italiana festeggia (pomposamente?) il suo cinquantesimo compleanno, se ne vada una protagonista di primissimo piano di quegli esordi rigorosamente in bianco e nero.
Odette Bedogni, questo il suo vero nome, era nata nel 1929 a Bracciano, in provincia di Roma. Da ragazza la sua famiglia si trasferisce a Milano, lei studia alla scuola di danza della Scala (da cui prende poi lo pseudonimo, che le trova - si narra - nientemeno che Italo Calvino), compare anche in vari balletti, da «La bottega fantastica» di Rossini a «La bella addormentata» di Ciajkovskij. La sua versatilità e il suo faccino acqua e sapone le valgono, giovanissima, nel ’47, il debutto nel cinema in «Anni difficili», di Luigi Zampa.
La ragazza funziona. E la Lux le fa un contratto. Di lì a poco seguono «Napoli milionaria» con Eduardo, «Bellezze in bicicletta» con Silvana Pampanini, «Signori si nasce» con Totò, «Vita da cani» di Steno e Monicelli. Trenta film in dieci anni, ma è la rivista «Giove in doppiopetto», di Garinei e Giovannini, che nel ’54 la consacra come una delle nuove stelle dello spettacolo leggero italiano, a cavallo tra varietà e commedia musicale.
Nella rivista, che poi diventerà anche un film, accanto a Carlo Dapporto la biondina canta «Ho il cuore in paradiso», di Gorni Kramer. Arriva la popolarità, Delia Scala diventa per il pubblico l’anti-Wanda Osiris, il nuovo contrapposto al vecchio, l’opposto della donna fatale, della soubrette elegantissima e inarrivabile. Una sorta di ragazza della porta accanto.
A teatro la troviamo ancora nel ’56, al fianco di Walter Chiari, in «Buonanotte Bettina». E poi in «Un trapezio per Lisistrata» con Nino Manfredi, in «Rinaldo in campo» con Domenico Modugno, ma anche con uno spettacolo dedicato esclusivamente a lei: il «Delia Scala Show». Con Renato Rascel fa «Il giorno della tartaruga». Arrivano proposte anche dagli Stati Uniti, ma lei si dichiara «troppo pigra» per imparare l’inglese.
Nel ’64, da segnalare la versione italiana del musical «My fair lady». È un altro grande trionfo, ma da qualche anno la televisione è ormai esplosa, troneggia nel salotto di tutte le case degli italiani. Delia Scala ne è quasi dal principio la regina. Nel ’56 con il varietà «Lui e lei», di Marcello Marchesi. Nel ’59 a «Canzonissima», fra Nino Manfredi e Paolo Panelli, nel primo vero varietà del sabato sera. Gli anni Sessanta la vedono grande protagonista femminile del piccolo schermo, assieme a Mina e alle Gemelle Kessler. Indimenticabile nel ’70, con Lando Buzzanca («ciccino» e «ciccina»...), in «Signore e signora», piccolo dizionario della vita di coppia.
Poi sparisce. E riappare dopo tanto tempo, in una televisione ormai completamente mutata. La ritroviamo infatti nello sceneggiato «Casa Cecilia» dall'82 all'87 (che segna il ritorno sulle scene dopo un decennio di assenza) e nella sit-com «Io e la mamma», con Gerry Scotti, nella stagione ’97-’98.
L'ultimo appuntamento con il piccolo schermo è stato purtroppo soltanto virtuale. Pochi giorni fa, nel gala per i cinquant’anni della televisione, Pippo Baudo l'ha infatti salutata con gli occhi lucidi, ricordandone la vitalità, la simpatia, la carica umana.
«L’avevo invitata - ha ricordato ieri Baudo - un mese fa e lei mi aveva detto che voleva esserci. Le faceva piacere che qualcuno la volesse ricordare. Mi chiese soltanto un'automobile con l'autista e ovviamente acconsentimmo. Ma qualche giorno dopo mi chiamò il nipote, gentilissimo, per dirmi di non insistere perchè Delia era molto malata. Non avevo capito quanto, ma mi aveva fatto tenerezza quella sua voglia di esserci a tutti i costi, di voler essere celebrata mentre la tv era così radicalmente cambiata: forse era anche la forza della disperazione».
Altre reazioni. Carlo Azeglio Ciampi: «Un’artista fra le più amate e popolari della storia dello spettacolo italiano». Sandra Mondaini: «Va ricordato come sia stata una figura di rottura rispetto alla vecchia soubrette come Wanda Osiris». Maurizio Costanzo: «Me la voglio ricordare mentre canta, con la sua gran voglia di vivere». Walter Veltroni: «Un nome e un volto che richiamano anni importanti della televisione italiana e che ha riscosso successi nel cinema e nel teatro, cimentandosi in ruoli ed esperienze importanti e innovative». Lucia Mannucci e Virgilio Savona del Quartetto Cetra: «Abbiamo lavorato con lei nel ’58 nel ”Trapezio per Lisistrata” e ne abbiamo ancora un ricordo bellissimo». Lorella Cuccarini: «Un'icona dallo stile inimitabile per tutte le showgirl che, venute dopo, hanno cercato di ispirarsi a lei». Paolo Limiti: «È stata la rivoluzione nel mondo delle soubrette. Dalle magliarde tutte lustrini, come Wanda Osiris, a quella argento vivo, ragazza scatenata con il capello corto che rappresentava la nuova gioventù». Lando Buzzanca: «Una grande professionista, una donna ricca di talento, di inventiva, di spirito». Rita Pavone: «Un vero e proprio mito. Voglio diventare come lei, mi dicevo. Un faro per la mia generazione e soprattutto una showgirl completa».
La vita sentimentale di Delia Scala era stata segnata dai lutti: nel ’56 era morto in un incidente stradale il suo compagno Eugenio Castellotti, nell’82 il secondo marito Piero Giannotti, tre anni fa Arturo Fremura, sposato nell’86. Lei stessa era stata operata anni fa per un cancro al seno.
Una volta aveva confessato di «non aver mai avuto il sacro fuoco del teatro, che amavo sì, ma anche odiavo perchè non mi permetteva quella vita normale che avrei tanto voluto: in verità aveva fatto tutto mia mamma, un vero manager...». E poi, ancora, quel suo grande rammarico: non aver avuto figli.

venerdì 9 gennaio 2004

...gli investitori v...

...gli investitori vogliono indietro i soldi dal cav tanzi...
...è come se gli elettori volessero indietro i voti dal cav banana...
(altan - repubblica)

giovedì 1 gennaio 2004

BILANCIO 2003

Te lo ricordi il 2003? Che anno spettacolare, quell’anno. Fu quando tutti assistemmo attoniti e curiosi all’inversione di tendenza: i comici costretti a occuparsi di cose serie, gli altri impegnati a dire - ma quel che è peggio, fare - cose che avrebbero potuto far ridere, se non avessero fatto piangere.
Le avvisaglie si erano già notate alla fine del 2002, con l’interpretazione dantesca di Benigni. Poi si ruppero gli argini. Dario Fo e Beppe Grillo, ma anche le «Iene» e «Striscia la notizia», Maurizio Crozza ed Enrico Bertolino. E Paolo Rossi. Sì, l’attor comico monfalconese di nascita e milanese d’adozione fece uno spettacolo sulla Costituzione, parlando di Pericle e dell’antica democrazia ateniese. E confidando: «Io come comico avevo una certa credibilità. Ma quando arriva uno più bravo di te, e conquista la platea internazionale, non puoi che prenderne atto...».
Inutile ricordare che quello più bravo, secondo Rossi, era ovviamente Silvio Berlusconi, di gran lunga il più importante uomo di spettacolo prestato alla politica, dopo Ronald Reagan ma prima di Arnold Schwarzenegger.
La frecciatina a qualcuno sembrò impertinente. Il piccoletto che si chiamava come il campione della pedata di vent’anni prima la pronunciò a teatro, perchè in tivù (a lui come a Daniele Luttazzi, a Michele Santoro, persino a Enzo Biagi...) non lo facevano più andare. Via, sciò. Aveva provato a invitarlo persino Paolo Bonolis, l’uomo catodico dell’anno, colui che prima aveva chiesto e ottenuto un trasferimento interno da Mediaset a Rai, e poi aveva battuto i suoi ex colleghi di «Striscia», ma il permesso non era arrivato.
Non era andata meglio a Sabina Guzzanti, minacciata di censura prima di andare in onda, cancellata dai palinsesti dopo la puntata d’esordio del suo «Raiot». Anche lei - sorella di Corrado, geniale inventore di tanta satira televisiva, e figlia del senatore forzista Paolo, giornalista progressista da tempo pentito - aveva osato parlare di cose serie.
Meglio uccidere il vitello grasso per il ritorno di Panariello, non più emblema di una tv deficiente forte ormai di ben altri testimonial. E soprattutto per il trionfo dell’«Isola dei famosi», sorta di «Grande fratello» per sedicenti o aspiranti vip in disarmo e/o in cerca di rilancio, nuova ma non ultima frontiera della sindrome detta del buco della serratura. Come reality show, molto meglio i poveracci mostrati senza ipocrisie dagli «Invisibili», il programma dell’ex «Iena» Marco Berry su Italia 1.
Chiaro allora che l’affresco sofferto su trent’anni di vita italiana, tratteggiato da Marco Tullio Giordana con «La meglio gioventù» (due spanne meglio dei «Dreamers» di Bertolucci), sia rimasto per un anno chiuso nei frigoriferi di Viale Mazzini. E sia stato restituito all’originario destino di film per la televisione soltanto dopo il trionfo nelle sale italiane e francesi.
Che anno, quel 2003. Fu anche quello in cui si posero le basi per la definitiva liquidazione del già glorioso Festival di Sanremo. Sopravvissuto all’ennesima e incolore edizione baudiana, vinta per la cronaca da Alexia, nulla potè quando fu affidato alle grinfie di Tony Renis: forse - secondo i maligni - «amico di mafiosi» nei suoi lunghi anni americani, sicuramente «amico di Silvio» nelle dorate estati sarde. L’uomo giusto per cambiare santo di riferimento: Sant’Arcore, secondo la definizione di Giorgia. Brava cantante pronta per l’esilio...
Il resto? In ordine sparso, e dimenticando sicuramente tante cose. La riapertura della Fenice risorta dalle proprie ceneri. Il pasticciaccio brutto della Biennale. L’ennesimo Harry Potter. Le vendutissime fantasie erotiche di un’inquieta adolescente catanese, pubblicate anche negli States. I Beatles (meglio: chi gestisce il marchio) che raschiano il fondo del barile, con «Let it be... naked» e il libro di Ringo Starr con le riproduzioni delle cartoline ricevute tanti anni fa dagli ex soci. Le accuse di pedofilia a Michael Jackson. Il tormentone estivo insostenibile, «Chihuahua», e quello colto dei Tribalistas. La riscoperta di Rino Gaetano. I ventenni che, in Italia e all’estero, s’ispirano al miglior rock di trent’anni fa. I tre concerti estivi di Vasco Rossi a San Siro: 240 mila spettatori in tutto, per uno show immortalato su dvd. Dvd che fanno da argine alla perenne crisi della discografia, mentre impazzano i lettori Mp3 e si attende già il prossimo supporto ipertecnologico capace di mandare d’un botto in pensione quelli appena arrivati. E poi la morte di Alberto Sordi e Giorgio Gaber. Grandi italiani, loro sì. Davvero.