domenica 29 marzo 2015

VERDENA sab28-3 Pordenone, 27-4 trieste

«Che significa “Endkadenz”? È un termine - dice Alberto Ferrari dei Verdena - che nasce da un gesto che abbiamo visto ritratto su un libro sulle percussioni, dove un musicista, alla fine di un concerto di una musica classica piuttosto strana, dopo un’ultima rullata si gettava fisicamente dentro a un timpano. Nel silenzio più totale. Rappresenta l’ultimo colpo, in un’atmosfera teatrale fra lo scherzoso e il serio, alla fine quasi catastrofico...». I Verdena stasera suonano al Deposito di Pordenone, poi tornano in regione lunedì 27 aprile al Teatro Miela di Trieste. Nell’ambito del tour seguito alla pubblicazione dell’album “Endkadenz vol.1”, pubblicato a gennaio, quattro anni dopo il precedente “Wow”. Al trio “titolare” (con Alberto c’è suo fratello Luca e Roberta Sammarelli), in questi concerti si aggiunge Giuseppe Chiara (tastiere, chitarra e cori). «Dal vivo - prosegue Alberto Ferrari - presentiamo l’album nuovo e ci diamo accorti subito che mancava qualche chitarra. Dunque, per essere fedeli al disco, stavolta siamo in quattro, con un polistrumentista in più che ci dà una grossa mano. Per la verità, a volte ci sembra che per fare le cose al meglio, dal vivo, avremmo bisogno di un quinto, persino di un sesto elemento...». Perchè il disco diviso in due volumi? «Abbiamo finito di registrare a fine dicembre. E all’inizio volevamo fare un doppio. Ma la casa discografica ha preferito puntare su questa nuova formula: due volumi con pubblicazione a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Il secondo uscità entro l’estate. Lo viviamo come un parto a metà, speriamo che la seconda parte esca prima possibile». Com’è il vostro rapporto con le major? «Andiamo abbastanza d’accordo, siamo liberi di fare quello che vogliamo a livello creativo, dunque bene così. Gli unici problemi che emergono riguardano le uscite, il marketing, che comunque sono problemi loro». Vi capita ancora, come agli esordi, di aver paura di non essere seguiti dal pubblico? «La paura c’è sempre, ed è giusto che sia così, soprattutto se si rimane fermi per tanto tempo. Passano gli anni e le mode, succedono tante cose, non sai mai se la tua musica interessa alla gente. Ma la prima parte del tour è andata bene, c’erano molti giovani, questo ci ha rassicurato. Significa che c’è ancora voglia di rock». Suonare all’estero è diverso? «Fuori dall’Italia non conoscono la nostra storia, a volte vengono a sentirci solo per curiosità. Anche se fra il pubblico poi ci sono molti italiani, dunque è come suonare a casa nostra. Una cosa che notiamo è che all’estero, durante i concerti, c’è molto silenzio, forse c’è più rispetto per chi in quel momento sta suonando. Ma anche in Italia, negli ultimi tempi, siamo migliorati sotto questo aspetto». Non amate i social network. «Ma non abbiamo niente contro. Il punto è che noi suoniamo, e se abbiamo qualcosa da dire lo facciamo attraverso la musica. La nostra comunicazione passa attraverso i dischi e i concerti. Il resto non ci appassiona. Il messaggio è la musica». È vero che all’inizio vi chiamavate Verbena? «Sì, come la pianta. Ma abbiamo subito scoperto che era lo stesso nome di un gruppo grunge americano, prodotto da Dave Grohl dei Nirvana, e abbiamo cambiato la consonante. Il nostro primo demo, del ’96, è firmato Verbena...». E il fatto che agli esordi vi chiamassero i “Nirvana italiani”? «All’inizio ci ha dato un po’ fastidio, anche perchè non ci sembrava di esserlo. Forse il nostro unico disco “nirvaniano” è stato “Requiem”, ma gli altri...».

venerdì 27 marzo 2015

DE GREGORI ven 27 PORDENONE

A una settimana dal debutto nella sua città, arriva domani alle 21, al palasport di Pordenone, il “Vivavoce Tour” di Francesco De Gregori. Una lunga serie di concerti con la quale il sessantaquattrenne cantautore romano presenta dal vivo le canzoni del doppio, recente album nel quale rivisita con arrangiamenti inediti ventotto canzoni tra le più significative della sua ormai ultraquarantennale carriera. Ma ci sono due appuntamenti, in questo 2015, che per l’artista assumono un significato particolare. Forse più importanti dello stesso tour. Innanzitutto la serata del primo luglio a Lucca, quando dividerà il palco con un certo Bob Dylan (che aprirà il tour italiano, come già annunciato, il 27 giugno a San Daniele del Friuli). Il programma prevede prima il concerto del cantautore romano e poi l’esibizione del menestrello statunitense. Che è stato notoriamente - e per sua stessa ammissione - il massimo ispiratore del nostro: dunque non è da escludere, o forse è addirittura probabile, che quella sera i due artisti incrocino voci e chitarre almeno per qualche minuto. E poi c’è il 22 settembre, quando De Gregori sarà protagonista all’Arena di Verona di “Rimmel 2015”, un unico concerto evento nel quale per la prima volta il cantautore suonerà integralmente - assieme ai suoi maggiori classici - l’album che lo rese popolare nell’ormai lontano 1975, in occasione del quarantennale della sua pubblicazione. Ospiti della serata saranno tanti artisti italiani, amici e colleghi che si alterneranno con lui sul palco. I primi nomi confermati sono Malika Ayane, Caparezza, la nostra Elisa, Fedez e Ambrogio Sparagna. Su “Rimmel”, va raccontato un anedotto che riguarda anche Trieste. Nella primavera ’75, per lanciare l’album, l’allora ventiquattrenne ed emergente De Gregori tenne un tour come spalla di un supergruppo che all’epoca richiamava evidentemente più pubblico di lui: si chiamava Il Volo (sì, proprio come i tre vincitori dell’ultimo Sanremo...), ed era formato da Alberto Radius, Mario Lavezzi, Vince Tempera, Gabriele Lorenzi, Bob Callero e Gianni Dall’Aglio. Ai tempi, nomi di spicco provenienti da gruppi come Formula 3, Camaleonti, Osage Tribe, nonchè collaboratori fra gli altri di Battisti e Celentano. Avvenne però che, concerto dopo concerto, l’album scalava le classifiche e il successo di De Gregori superava quello del supergruppo. E se all’inizio era lui ad aprire la serata in attesa delle star, verso metà tournèe gli organizzatori presero atto del cambiamento di gradimento da parte del pubblico, e invertirono l’ordine di uscita. Dicevamo di Trieste, perchè il tour fece tappa anche al Rossetti, il 16 aprile ’75. Ma torniamo al presente e vediamo le date complete del tour. Dopo Roma e Milano nei giorni scorsi, Firenze ieri sera e Pordenone domani, De Gregori sarà sabato a Bologna, il 3 aprile a Napoli, il 19 a Cesena, il 20 ad Ancona, il 23 ad Avellino, il 24 a Bari, il 25 a Matera, il 27 a Palermo, il 28 a Catania, il 30 a Catanzaro. E poi il 2 maggio a Torino, il 6 a Cremona, l’8 a Venezia, il 9 a Mantova, il 12 a Ferrara, il 13 a Brescia, il 14 a Bergamo, il 16 a Parma, il 19 a Reggio Emilia, il 20 di nuovo a Torino, il 23 a Sanremo, il 25 a Genova, il 26 a Varese, il 28 a Bassano del Grappa e il 29 a Bolzano.

lunedì 23 marzo 2015

ADDIO A DANILO SOLI

Il giornalismo e la musica: le sue due grandi passioni. Danilo Soli ci ha lasciato a 87 anni dopo una vita spesa soprattutto fra il lavoro nell’informazione e l’amore per le sette note. Storico caposervizio della redazione triestina del Messaggero Veneto, che diresse fino alla chiusura negli anni Novanta, era iscritto all’Ordine dei giornalisti dal 1951: uno dei decani della professione in regione. Dopo la pensione aveva continuato la sua attività di critico musicale. Grande appassionato dell’operetta, fu fra i fondatori dell’Associazione internazionale dell’operetta, di cui fu presidente e poi presidente onorario. Stesso “cursus” nel sindacato regionale dei giornalisti: per vent’anni presidente, poi presidente onorario. «È stato presidente dell’Assostampa - ricorda Fulvio Gon, che gli succedette al vertice del sindacato regionale - in un periodo meno difficile per la categoria di quello attuale. Fra gli anni Settanta e Ottanta fu rafforzato l’impianto normativo del nostro contratto. Danilo era un collega di grande intelligenza ed equilibrio: dietro la pacatezza era molto determinato, sapeva come affrontare le cose e le persone». «La critica musicale e teatrale - ricorda il musicologo Gianni Gori - è stata per lui l’esercizio di una passione continuamente rigenerata, di cui era intrisa la sua rigorosa professionalità nell'informazione. Nell'acuminata intelligenza, nello stile dei suoi articoli il “mestiere del cronista” spaziava nelle più ampie panoramiche culturali. Lo accompagnava la curiosità e la sensibilità raffinata con le quali frequentava i teatri. In particolare, del teatro musicale leggero, tra operetta e musical, è stato, fin dagli anni Cinquanta il più attento (e forse il primo) osservatore. Non a caso condivideva l'amicizia di un testimone illustre di questo mondo: il critico viennese Marcel Prawy». «Lo ricordiamo con affetto - dice Rossana Poletti, dell’Associazione dell’operetta - per la sua profonda conoscenza nel repertorio lirico, dell'operetta e del musical. Nel ’92 fu lui a far nascere l’associazione. È stato uno dei massimi esperti italiani dell’operetta, per le presentazioni lo chiamavano dalla Scala e da altri importanti teatri italiani. Per me è stato un maestro, di musica e di giornalismo». Il tenore Andrea Binetti: «Perdiamo una figura importante che negli ultimi quindici anni mi ha accompagnato nella mia formazione e crescita professionale, donando a tutti noi il suo grande sapere sul mondo musicale in genere e soprattutto sull’operetta». Il direttore d’orchestra Romolo Gessi: «Mi ha visto nascere, prima come collega di mio padre al Messaggero Veneto, poi nella mia attività musicale. Ho imparato da lui l’amore per la scrittura, per la musica, per la precisione e il rigore. Era un grande perfezionista. Grazie a lui sono arrivati a Trieste grandi personaggi, da ultimo Renè Kollo». Sono vicini alla famiglia gli amici e colleghi dell’Assostampa e dell’Ordine regionale dei giornalisti.

TARCHI, libro su POPULISMO

Populismo, pericolosa patologia o elemento connaturato alle democrazie del nostro tempo? Bella domanda, a cui dà una serie di circostanziate risposte Marco Tarchi, docente di Scienza della politica all’Università di Firenze, nel suo libro “Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo” (il Mulino, pagg. 380, euro 20), nuova edizione aggiornata di un volume uscito nel 2003. Il suo excursus parte da alcuni personaggi e fatti storici. Nel dopoguerra c’erano Guglielmo Giannini con il suo movimento dell’Uomo qualunque ma anche l’armatore napoletano Achille Lauro, creatore del voto di scambio (la scarpa sinistra prima, quella destra dopo il voto...). In anni più recenti Umberto Bossi e la sua Lega e Antonio Di Pietro con l’Italia dei valori. In mezzo anche la rivolta di Reggio Calabria al grido di “Boia chi molla” con Ciccio Franco, le esternazioni di Cossiga, i referendum radicali contro il finanziamento pubblico dei partiti, gli show televisivi di Berlusconi, il movimento dei girotondi con Nanni Moretti fino ai “vaffa” di Beppe Grillo. Ebbene, secondo Tarchi - romano, classe 1952, un passato nelle organizzazioni giovanili del Msi e un presente di studioso - discendono tutti, chi più chi meno, chi in una maniera chi in un’altra, dalla grande madre del populismo... Professore, dove e quando nasce il populismo italiano? «In quanto mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche e ne contrappone tutta una serie di virtù - il realismo, la laboriosità e l'integrità - ad altrettanti vizi - l'ipocrisia, l'inefficienza, la corruzione - che attribuisce a quelle che chiama oligarchie (politiche, economiche, sociali o culturali che siano) e di questo popolo rivendica il primato, come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione, se ne possono trovare le tracce molto lontano nel tempo. Senza risalire ai tempi più antichi, basta pensare a taluni filoni dell'epopea risorgimentale e della retorica fascista. Ma il suo vero terreno di coltura sono stati i settant'anni di vita repubblicana». Come si è sviluppato fino ai giorni nostri? «Incarnandosi in una varietà di forme, che si sono nutrite del disagio che ha costantemente pervaso gli umori di buona parte della popolazione italiana, scontenta dell'azione dei politici di professione e portata a ritenerli responsabili di tutto quello che in Italia non va. I dati dei sondaggi condotti nei paesi della Comunità europea dal 1972 a oggi hanno quasi sempre mostrato un tasso altissimo di insoddisfazione per il modo in cui, da noi, funziona la democrazia. Questo sentimento ha alimentato reazioni populiste». Fra Giannini e Grillo c'è “un filo rosso”, o almeno “grigio”? «Certamente, perché si tratta, rispettivamente, del primo e del più recente tentativo di canalizzare gli umori critici dell'uomo della strada in un contenitore politico, confidando in un legame diretto fra il fondatore-portavoce del movimento e i seguaci e nella capacità di presa di una protesta espressa con i toni, i modi e il linguaggio popolare, mettendo alla berlina i potenti e i corrotti e promettendo di spazzarli via». In che cosa il nostro è diverso dai populismi di altri paesi europei o sudamericani? «Nelle forme, talvolta, ma non nella sostanza. Ogni espressione di questa mentalità necessariamente si adatta al contesto in cui si trova ad agire, ma tutte puntano allo stesso risultato: dare voce agli umori diffusi nella base della società e sbarazzarsi dell'establishment per ricostituire la vagheggiata unità del popolo, che secondo loro sarebbe stato diviso da insidiosi nemici: i partiti, gli intellettuali, gli stranieri e via dicendo». C'è un populismo di destra e di sinistra? E se sì, in che cosa si differenziano? «In linea di principio, la mentalità ricompositiva, cicatrizzante, del populismo punta a scavalcare tutte le divisioni politiche interne al popolo e quindi respinge la distinzione sinistra/destra. Di fatto, però, i movimenti che esprimono questa mentalità devono conquistarsi uno spazio politico. Se lo trovano a destra, accentuano l'attaccamento all'identità culturale del popolo e gli atteggiamenti xenofobi. Se lo trovano a sinistra, cavalcano piuttosto il tema del riscatto delle classi più disagiate, abbandonate da politici e sindacati». Bossi, Di Pietro, Grillo: tre populismi diversi? «Diversi ma, nel contempo, complementari e in concorrenza. Tutti e tre esaltano le qualità dei "piccoli" e dichiarano di volersene fare paladini contro le sopraffazioni dei "grandi". I dati elettorali, del resto, dimostrano che in varie occasioni c'è stato un travaso di consensi fra Lega Nord e Italia dei Valori e fra queste due formazioni e il Movimento 5 Stelle. Anche se, in quest'ultimo caso, è il discorso politico di Grillo ad essere pienamente populista - e ad attirare voti -, mentre in molti eletti delle liste pentastellate prevale un'impostazione da "sinistra 2.0" che guarda all'ecologia, alla democrazia diretta, al giustizialismo in modo quasi esclusivo. Questa distanza spiega molte delle diatribe interne al Movimento 5 Stelle». Berlusconi è - o è stato - a modo suo un populista? «Nello stile, certamente sì: si pensi al suo continuo ribadire "sono uno di voi", al descriversi come un tipico uomo medio che, semplicemente, ha saputo meglio sfruttare le occasioni che si è trovato di fronte, al martellante attacco al "teatrino della politica", all'ostentato disprezzo delle mediazioni istituzionali. Ma in lui c'è anche l'aspetto dell'uomo ricco e potente, che non rifugge dai piaceri del lusso, che ne fa un populista a metà». In Renzi vede un'anima almeno in parte populista? «Un'anima, no: è figlio della politica partitica, a cui ha sempre appartenuto fin da ragazzino, e in questa continua a muoversi. Ma nel linguaggio, sì, eccome: da esemplare uomo di marketing, sa che il modo di pensare populista è diffuso e gli si adatta fortemente. Così si spiegano le frequente esibizioni di insofferenza verso le lentezze e le mediazioni del processo politico e le sfuriate contro i "professoroni", gli intellettuali "mangiatartine", "l'Europa dei banchieri" e così via: bersagli contro cui si scagliano i Salvini, i Grillo, le Marine Le Pen…». L'antipolitica è parente del populismo? «Ne è una componente essenziale. I populisti vedono la politica come il regno della corruzione e dello sperpero, delle chiacchiere inutili e ipocrite, degli accordi sottobanco, delle lentezze e delle furbizie. Se potessero, se ne libererebbero. Sapendo che è impossibile farlo, ne coltivano un'immagine ipersemplificata e vorrebbero che venisse gestita come si fa con una famiglia, a suon di decisioni immediate e trasparenti». E l'euroscetticismo? «Oggi è un tema molto cavalcato dai movimenti populisti, che nell'Unione europea vedono quasi il regno del male, dove trionfano i banchieri, i rapaci finanzieri, i burocrati, i politici preoccupati solo dei propri interessi e delle ragioni della gente comune non ci si cura minimamente...». Salvini può essere considerato “un populista 2.0”? «Salvini ha capito che la natura della Lega, la radice della sua sintonia con i potenziali elettori, è populista. Applica la ricetta di Bossi adattandola ai tempi».

venerdì 20 marzo 2015

DISCHI / NOEL GALLAGHER, Chasing Yesterday

NOEL GALLAGHER “CHASING YESTERDAY” (Sour Mash) Grande successo la settimana scorsa a Milano per l’unica tappa italiana di “Noel Gallagher’s High Flying Birds”, tour europeo dell’ex leader degli Oasis. Che, in attesa di fare la pace con il fratello Liam, sforna questo nuovo album. Bella raccolta di brani gradevoli, con le solite melodie della casa e varie tentazioni che affondano le radici nel vecchio buon rock degli anni Settanta. Niente di originale, per la verità, con vari brani che hanno un sapore di già sentito. “Riverman”, “In the heat of the moment”, “Ballad of the mighty I”, “Lock all the doors”: tutta roba molto godibile, ritornelli che restano in testa, in un raggio di atmosfere che va dal rock classico fino al punk, passando per la psichedelia. Ma in fondo alla memoria si ha come l’impressione che si tratti dell’ennesima, buona rimasticatura del “brit pop” che anni fa ha fatto parlare degli Oasis come dei “nuovi Beatles”. A luglio torna in Italia: Milano, Padova e Roma.

DISCHI / JOVANOTTI, Lorenzo 2015 cc

Dal 1988 di “Jovanotti for president”, Lorenzo Cherubini ha fatto davvero di tutto: dal cantore sciocchino dei party e delle moto al guru esistenzialista con la barba lunga e lo zaino in spalla di ritorno dalla Patagonia. Musicalmente, dal rap al rock’n’roll, dalla dance ai suoni del sud del mondo, fino a tante belle canzoni d’autore, ben scritte e benissimo interpretate con quella sua particolare “erre” moscia. Ora, con questo “Lorenzo 2015 cc” (pubblicato da Universal in cd, doppio cd, triplo vinile, digital download e streaming), il nostro erige un monumento a se stesso. Alla sua curiosità, alla sua sensibilità, diciamo pure al suo genio artistico che gli ha permesso di trasformarsi, lungo un percorso di crescita non indifferente, da dj almeno apparentemente svampito in uno dei maggiori protagonisti della scena musicale di casa nostra. Anticipato dal singolo “Sabato” e realizzato tra la sua casa di Cortona, Milano e Parigi, New York e Los Angeles, l’album comprende trenta brani inediti: dal pop al rock, dalla canzone d’autore all’hip hop, dal tango alla samba, dal funk alla dance, passando per le sonorità africane e le più moderne tentazioni della musica elettronica. Di tutto e di più, verrebbe da dire. Oppure tutto e il contrario di tutto, come ha azzardato qualcuno. Spiccano l’iniziale “L’alba”, una ballad come “Le storie vere”, un brano solare come “Ragazza magica”, l’assai elettrica e pure orecchiabile “L’estate addosso” (testo scritto con Vasco Brondi, alias Le Luci della Centrale Elettrica, per un film di Gabriele Muccino che poi è stato rimandato). Ma anche “È la scienza bellezza”, “L’astronauta”, “Il cielo immenso”, “Un bene dell’anima”, “Si alza il vento”... Che poi si finirebbe per doverle citare tutte, o quasi, le canzoni di questo disco, perchè ognuna aggiunge un frammmento importante a una storia completa. Un concentrato di musica. Batteria e chitarre in primo piano. «Non mi piace tenere le canzoni da una parte. Questo album - ha spiegato Lorenzo alla presentazione del lavoro - è come una “cloud”, una nuvola da cui ti piove musica se lo vuoi. Un volta la forma del disco era quella, rotonda. Oggi le possibilità sono infinite e io le apprezzo. Un giorno vorrei fare un disco con la forma di una campana disegnata sull’asfalto, che tiri il sasso, salti e ascolti. Mi sono chiesto se trenta tracce andassero bene, poi mi sono detto che il disco è questo, anche perchè, appena toglievo qualcosa, si sbilanciava tutto...». Dal 20 giugno il lungo tour negli stadi: Ancona, poi tre volte San Siro, Padova, doppio concerto a Firenze, ancora Bologna, Roma, Messina, Pescara, Napoli e Bari.

mercoledì 18 marzo 2015

Stasera in tv JOE BASTIANICH con musica TS e FVG

. «Tutte le puntate del programma mi hanno appassionato. Ma quella dedicata a Trieste e al Friuli Venezia Giulia ha mosso in me delle emozioni particolari. È ovvio: è stato un ritorno a casa, fra i suoni e gli accenti delle mie terre d’origine. Un’esperienza davvero particolare...». Parla Joe Bastianich, che concluso l’ennesimo successo con “MasterChef”, ora si dedica all’altra passione della sua vita: la musica. Stasera alle 21.10 su Sky Arte Hd, seconda puntata della seconda serie di “On the road - Joe Bastianich Music Tour”. Dopo aver raccontato musiche e sonorità di Puglia, Sardegna, Campania e Sicilia, ora tocca al Friuli Venezia Giulia. E alla “sua” Trieste. «Stavolta gioco in casa - dice Joe, nato nel ’68 a New York, anzi, nel quartiere Astoria, Queens, “casa” degli emigrati istriani nella Grande Mela - ed è stato un grandissimo piacere. Vengo da una famiglia di musicisti, mio padre e mio zio suonavano la fisarmonica, per me è stato quasi naturale dedicarmi alla chitarra e al canto». Prosegue: «Le tradizioni di queste terre sono molto presenti in me, ricordo quand’ero bambino le feste in casa dei parenti. I miei nonni stavano in Istria, ma allora c’era la vecchia Jugoslavia e la situazione non era molto buona. Trieste era per me, per noi un’isola felice, con i suoi aromi, il caffè, il vino, gli accenti familiari...». Bastianich ha anche vissuto per un periodo nel capoluogo giuliano. «Sì, fra il ’90 e il ’91 - ricorda - vi ho trascorso quasi un anno. Ero giovane, avevo cominciato un viaggio in cerca delle mie radici, ancora non sapevo cosa avrei fatto da grande: partire da Trieste è stata una cosa naturale. Stavo a casa di amici, ho lavorato con il ristoratore Bruno Vesnaver, un amico di famiglia che mi ha ospitato e dal quale ho imparato tante cose». Ma torniamo alla musica del programma di stasera. «Abbiamo messo assieme - dice il versatile manager della ristorazione e conduttore televisivo - un bel mix di tradizione e cose moderne. Mi hanno colpito molto Les Babettes, reduci dalla sfortunata partecipazione a “X Factor”, dove avrebbero meritato di più: con le tre ragazze siamo diventati amici, collaboriamo, faremo delle cose assieme anche dopo questo programma». Lorenzo Pilat? «È l’artista che apre la puntata, trovo che la sua sia una storia molto triestina, dal successo nel Clan di Celentano, alla grande carriera come autore, fino alla scelta di dedicarsi alla canzone dialettale. Trasmette un’innata nostalgia per la storia, la cultura, il popolo di questa straordinaria città». Gli altri? «Mi è piaciuto molto il friulano Lino Straulino, una sorta di folk singer che viaggia ai confini del country-rock. In certe cose, in certi momenti mi ricorda il grande Bob Dylan. Ma raccomando ai telespettatori anche le melodie balcaniche dei Kraski Ovcarji, il rock contadino degli Arbe Garbe, la voce multietnica di Gabriella Gabrielli...». «Insomma - conclude il severo giudice del programma dedicato agli aspiranti chef -, davvero una puntata speciale che vuole rappresentare anche musicalmente la sua posizione storica e geografica così particolare, al centro dell’Europa, al confine fra le tre principali realtà etniche e linguistiche del continente: quella latina, la slava e la germanica. Stavolta lo abbiamo fatto in musica». Storie che l’uomo conosce assai bene, essendo figlio di Felice Bastianich e Lidia Matticchio Bastianich, che nel ’56 lasciarono l’Istria natìa per scappare a Trieste e poi nel ’58 proseguirono il loro viaggio con destinazione Stati Uniti: per loro e i loro figli, la terra della fortuna. Come si diceva, la prima puntata di questa serie è stata trasmessa la scorsa settimana ed era dedicata alla Sicilia: da Avola a Catania, da Enna a Messina, con artisti come la cantante Rita Botto, il percussionista di tamorra Alfio Antico, il cantastorie Mario Incudine, le Malmaritate e i Matrimia. Prossima settimana si chiude in Emilia Romagna, con un viaggio che va dalla tradizione del liscio ben rappresentata dall’Orchestra Casadei fin o al pop delle nuove generazioni, il cui campione è Cesare Cremonini.

martedì 17 marzo 2015

BOBBY SOLO, 70 anni

Bobby Solo raccontò anni fa al nostro giornale: «Mia madre, Maria Pettener, abitava a Trieste ma era di Monfalcone (la nonna era istriana - ndr). Mio padre si chiamava Bruno Satti, un cognome probabilmente d’origine austriaca. Viveva a Trieste, in centro. Ho ancora un cugino che abita in Largo Barriera Vecchia e una zia, Emma, che ha 95 anni ed è molto in gamba. La nonna è sepolta a Castelvenere, un paesino croato. Siamo triestini da dieci generazioni...». Parte dunque dalle nostre terre la storia di uno dei più importanti protagonisti della musica leggera italiana dell’ultimo mezzo secolo, che domani gira la boa dei settant’anni. Roberto Satti - questo il suo vero nome - è infatti nato il 18 marzo 1945 a Roma, dove la sua famiglia si era trasferita per motivi di lavoro del padre, che faceva il pilota per l’Alitalia. E fu sempre a causa della professione del papà, che all’inizio degli anni Sessanta, con il ragazzo ancora adolescente, che la famiglia di trasferì a Milano. Ma nonostante gli anni trascorsi nelle due capitali, l’artista non ha mai dimenticato Trieste. Della quale in quella vecchia intervista ebbe modo di dire: «Ricordo le piazze, i piccioni, quei due..., Mikeze e Jakeze. E poi l’odore del porto, del mare, Grignano e Sistiana, le osterie. Guardavo questi signori che bevevano vino bianco. Sono cose dell'infanzia, avrò avuto otto anni». Ancora Bobby: «A Trieste sono tornato dopo aver fatto “Una lacrima sul viso”. È una città molto elegante, molto bella, molto romantica. Ma nessuno è profeta in patria. Finora ho fatto poche cose a Trieste, forse perché non si è mai saputo di queste mie radici. Sono disposto anche a venire ospite di qualche associazione, a scopo di beneficenza...». Da quella canzone, “Una lacrima sul viso”, per l’allora diciannovenne artista cominciò tutto. Sanremo del ’64, il cantante aveva debuttato l’anno prima con il 45 giri “Ora che sei già una donna” e “Valeria”, grazie al fiuto del discografico Vincenzo Micocci. Al momento della firma del contratto il ragazzo scelse di chiamarsi Bobby, senza cognome - pare - per rispetto del padre. “Bobby solo” (nel senso di “solamente”...) disse Micocci al momento della stipula: ma la segretaria che stava scrivendo capì male, e nacque così il suo nome d’arte. Ma il caso aveva appena cominciato a scrivere il copione della sua carriera. Al Festival propone in coppia con Frankie Laine quello che sarebbe diventato un grandissimo successo: testo di Mogol e musica sua, ma non può firmarla in quanto minorenne (all’epoca la maggiore età era a ventuno anni) e non ancora iscritto alla Siae. Solo tanti anni dopo, nel ’91, riesce a riaverne i diritti. La sera della sua esibizione si presenta con un filo di rimmel sulle ciglia (piccolo scandalo: erano altri tempi...). Ma un calo di voce gli impedisce la diretta, canta allora in play-back, cosa vietata dal regolamento. Forse anche per questo non vince, ma solo nel ’64 vende due milioni di copie del disco e comunque viene “risarcito” l’anno dopo, quando trionfa con “Se piangi se ridi”, in coppia con i New Christy Minstrels. E poi vincerà anche nel ’69 con “Zingara”, in coppia con Iva Zanicchi. La sua carriera brilla di successo, in Italia ma anche all’estero, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta. Periodo in cui divide con Little Tony il titolo di “Elvis Presley italiano”. Poi soprattutto revival, senza rinunciare a qualche comparsata a Sanremo, ad altri dischi e a tantissime serate. Ora, padre di un bambino di due anni (ha già quattro figli grandi e otto nipoti), vive ad Aviano con moglie e bimbo. Dice: «Non mi importa nulla di compiere settant’anni...». E si regala un nuovo disco: “Meravigliosa vita”, composto di nove inediti, tre di Mogol, quattro riletture blues dei suoi classici: “Se piangi se ridi”, “Non c'è più niente da fare”, “Gelosia” e ovviamente “Una lacrima sul viso”. Buon compleanno, Bobby...

domenica 15 marzo 2015

RADIO CITY TRIESTE, sul web da TS al mondo

Quarant’anni dopo le prime radio private (o “libere”, come si diceva allora, in tempi di monopolio radiotelevisivo...), una nuova emittente web è nata a Trieste. E sfruttando le meraviglie della tecnica, viene ascoltata e raccoglie consensi in mezzo mondo: dal Canada a Israele, dagli Stati Uniti all’India, dal Giappone alla Russia, dalla Bulgaria alla Polonia, dall’Inghilterra alla Scandinavia, dalla Germania all’Argentina, dalla Spagna alla Grecia, dalla Francia fino alle vicine Slovenia e Croazia. Stiamo parlando di Radio City Trieste (www.radiocitytrieste.it), che in soli tre anni di vita ha visto aumentare in maniera importante la propria popolarità. «Siamo partiti - dice Andrea Sivini, da anni regista di tutte le immagini di Claudio Baglioni, fra i fondatori della radio e conduttore di uno dei programmi più seguiti - con l’idea di trascorrere un’oretta proponendo gli album delle nostre collezioni private, con l’ambizione semmai di raggiungere parenti e amici. Rapidamente, il giocattolo ci è letteralmente esploso tra le mani, e oggi la crescita di ascolti, interesse e amici, salita esponenzialmente, sembra non avere fine. I messaggi ci arrivano in diretta da tutto il mondo, tramite i moderni mezzi di comunicazione e i social network». Il programma condotto da Sivini (alias “Andrea Mr. Rock”) con Massimo Barzelatto (“Maxx Double X”), già diventati per tutti i “Rock Brothers”, s’intitola “Rock on” e va in onda ogni martedì sera, con inizio alle 21. Propongono delle autentiche “maratone rock”: Sivini più attento alla musica degli anni Settanta, Barzelatto più legato alle sonorità heavy e prog-metal, in mezzo anche tanto rock melodico e reminescenze anni Ottanta, senza ovviamente dimenticare quel che propone l’attuale scena rock internazionale. Il programma prevede interviste (spesso via Skype) a protagonisti del rock, presentazioni di nuovi artisti italiani, esibizioni “unplugged” di musicisti locali emergenti. E la radio è diventata l’emittente ufficiale dell’associazione Trieste is Rock, da qualche anno impegnata nell’organizzazione di concerti in città. Per la primavera/estate c’è in programma di seguire vari eventi, concerti e festival in giro per l’Europa: dal Frontiers Rock Festival a Trezzo sull’Adda (dal 10 al 12 aprile) allo Sweden Rock Festival a Solvesborg, in Svezia, dai “Metal days” di Tolmino, in Slovenia, fino al “Bang your head” a Balingen, Germania. Sempre a tutto rock.

lunedì 9 marzo 2015

SILENCIO, mafie e giornalisti fra Messico e Calabria / da Articolo 21

"Mi dicono che all'inaugurazione dell'anno giudiziario si parla sempre di Trieste come di un'isola felice. Quasi un'operazione di copia-incolla anno dopo anno. Ebbene, mi sembrerebbe molto strano che questa città fosse l'unica al mondo senza mafia. Chissà, forse è solo un problema di magistrati e investigatori disattenti...". Attilio Bolzoni, scrittore e giornalista, firma storica di Repubblica su cose di mafia e di Sicilia, ha chiuso con queste parole - accompagnate da un sorriso malizioso - il dibattito seguito alla presentazione triestina del docu-film "Silencio", che ha realizzato con Massimo Cappello. Una proiezione organizzata all'Auditorium del Museo Revoltella dall'associazione triestina di "Libera", con la collaborazione del Comune di Trieste (la vicesindaca e giornalista Fabiana Martini ha condotto il dibattito finale, al quale hanno partecipato anche Cappello e don Tonio Dell'Olio, responsabile del settore internazionale di "Libera") e con il patrocinio dell'Assostampa del Friuli Venezia Giulia. Il docu-film, prodotto dall'Associazione stampa romana e dalla Fondazione Musica per Roma, è un'opera di grande valore civile. Parla di Messico e di Calabria, di narcos e di 'ndrangheta. Ma parla anche di decine di giornalisti seviziati, uccisi, fatti sparire nel nulla senza che venisse mai identificato un colpevole, nelle terre dove sorgono i lussuosi resort di Playa del Carmen, dove un italiano su tre ha a che fare con la malavita. E parla di altrettanti giovani cronisti calabresi finiti nel mirino della criminalità organizzata perchè hanno cominciato a dare fastidio al capoclan o al potente di turno. O semplicemente perchè hanno smesso di fare da cassa di risonanza ai potenti e hanno scelto di fare il loro lavoro con onestà. O ancora perchè hanno cominciato a chiedersi "perchè?". "Porqué?", ovvero la regola più importante di quella anglosassone delle "5 W", che i "reporteros" messicani hanno insegnato a Bolzoni nel viaggio compiuto nella primavera dell'anno scorso, dal quale ha avuto origine "Silencio". "Da tempo - dice il giornalista - volevo dedicare un servizio ai giornalisti uccisi in Messico. Prima di partire ho studiato a lungo le storie di queste persone apparentemente ingoiate dal nulla, ma la situazione che ho trovato laggiù è decisamente più grave di quella che mi ero immaginato. Ne hanno uccise ottantuno negli ultimi quattordici anni. E altre sedici sono scomparse. E non c'è mai un colpevole. La cosa più grave è che nel 65 per cento dei casi, i killer non sono i narcos". E poi la nostra Calabria, terra splendida e sfortunata. "C'è un collante - prosegue Bolzoni - tra queste due realtà distanti geograficamente ma non per mentalità: la presenza di una criminalità radicata, ramificata, che condiziona la vita delle persone. Fare il giornalista in alcuni luoghi è pericoloso. Perchè se solo si osa rompere il muro di omertà, si finisce male. A causa delle verità che scrive, Anabel Hernàndez è costretta a vivere sotto scorta. In Calabria ci sono colleghi giovanissimi che raccontano quotidianamente la 'ndrangheta, le storie dei preti che resistono e di chi cede. Vivono con il fiato sul collo". Nel Messico di Anabel Hernàndez e Diego Enrique Osorno, nella Calabria di Michele Albanese e di Giovanni Tizian, nelle terre di tanti cronisti coraggiosi che vengono intimiditi e a volte uccisi e fatti sparire. Perchè la mafia, anzi, le mafie sono ovunque. Anche nei luoghi, nelle città che soltanto a un occhio distratto possono sembrare delle isole felici, delle oasi di tranquillità e legalità. Carlo Muscatello

domenica 8 marzo 2015

JOAN BAEZ stasera udine, teatro nuovo

Ieri a Bologna, stasera alle 21 al Nuovo di Udine (tutto esaurito), poi ancora due tappe a Roma e Milano. Joan Baez manca dall’Italia da tre anni. E ogni volta che torna è una festa per chi ama la musica ma i diritti civili. «Ho un rapporto speciale con l’Italia - ha detto l’artista, nata nel 1941 a Staten Island, New York -. Mi sono innamorata del vostro paese la prima volta che sono venuta, negli anni Sessanta: ero giovanissima ed era impossibile non restare affascinati dal posto, dalla gente». Che storia, la sua. Ha appena diciotto anni quando viene notata al Newport Folk Festival nel ’59. L’anno dopo pubblica il primo lavoro, intitolato semplicemente “Joan Baez”, ben accolto da pubblico e critica, anche se sono gli album successivi quelli che la rendono popolare nell’America che si prepara alla grande stagione della protesta: “Joan Baez Vol. 2”, uscito nel ’61, e “Joan Baez in concert, part 1”, del ’62. Quei due album sono altrettante pietre miliari, rimangono nelle classifiche di vendita per due anni. E per due anni, dal ’62 al ’64, la ragazza diventa il volto della musica folk, partecipando a concerti e festival, cantando a importanti eventi politici, come la Marcia su Washington nell’agosto ’63, quando Martin Luther King pronunciò il suo leggendario “I have a dream”. Sono anche gli anni del sodalizio con Bob Dylan. Pian piano il suo repertorio si sposta dalla tradizione verso la politica, verso quella maggiore coscienza sociale che si fa strada fra i ragazzi degli anni Sessanta. «In tutti questi anni - ha detto - il mio rapporto con la musica non è cambiato: è la mia vita, non solo il mio lavoro, non sarei me stessa senza la musica. Ma sono passata attraverso molte fasi, all’inizio amavo andare in scena sola con la chitarra, poi la musica si è fatta più complessa e ricca. Nel nuovo show con me ci sono un percussionista e la mia assistente che è anche una brava cantante. E un polistrumentista che suona sette strumenti diversi. Sul palco accadono molte cose». Ancora Joan Baez: «Ho 55 anni di repertorio a disposizione. Faccio i miei classici, ma non mi basta confermare le certezze del pubblico. E poi ci sono le cose che il pubblico vuole sentire. Soprattutto le mie storie: parlo tanto durante i concerti e quando sono in Italia mi piace farlo in italiano, per avere un rapporto più diretto con chi mi ascolta...».

VERDENA 27-4 trieste, teatro miela

I Verdena tornano a Trieste, per un concerto che si terrà lunedì 27 aprile al Teatro Miela, nella seconda parte del tour italiano seguito alla pubblicazione del loro nuovo album “Endkadenz - volume 1” (il secondo capitolo uscirà entro l’estate). Nei quindici anni trascorsi dal loro debutto (era il ’99, fecero capolino con il singolo “Valvonauta” e l’album “Ver- dena”, e prodotto da Giorgio Canali dei Csi), questi tre ragazzi bergamaschi all’inizio erano considerati “i Nirvana italiani”. Una curiosità: originariamente si facevano chiamare Verbena, dal nome di una pianta, ma dovettero cambiare una consonante dopo aver scoperto l’esistenza di un gruppo statunitense con lo stesso nome, prodotto fra l’altro da Dave Grohl, ex batterista dei Nirvana. Ma i fratelli Alberto e Luca Ferrari (chitarra, voce e batteria), assieme a Roberta Sammarelli al basso, sono riusciti negli anni a scrollarsi di dosso riferimenti e paragoni pur importanti, identificando una propria strada originale attraverso album come “Solo un grande sasso”, “Il suicidio dei samurai”, “Requiem”, “Wow”... «Il titolo del nuovo album - dicono i Verdena - nasce da un gesto che abbiamo visto ritratto su un libro, dove un musicista, alla fine di un concerto, si gettava fisicamente dentro a un timpano...». «Quando entriamo in studio l’obiettivo è sempre quello di uscirne alla fine con qualcosa di nuovo rispetto a quello che abbiamo sempre fatto. Chi si aspetta un nuovo “Wow” rimarrà deluso perche quello è un esperimento che appartiene al nostro passato. Ad ogni nostro disco capita che inizialmente il pubblico si divida, ma ci annoieremmo senza cambiare le cose». Nel corso degli anni, il trio “titolare” è stato affiancato nei concerti da altri musicisti. Attualmente, solo dal vivo, il quarto è Giuseppe Chiara (tastiere, chitarra e cori). Prima del concerto triestino, saranno il 28 marzo al Deposito di Pordenone.

venerdì 6 marzo 2015

CONTRATTO DI SOLIDARIETA' AL PICCOLO DI TRIESTE

Il Comitato di Redazione del Piccolo di Trieste ha firmato ieri a Roma, affiancato dall'Assostampa Fvg e dalla Fnsi, un contratto di solidarietà per il prossimo biennio. L'azienda aveva fatto richiesta di accedere al meno penalizzante degli ammortizzatori sociali per l'esigenza di ridurre ulteriormente il costo del lavoro giornalistico, in presenza di indicatori di crisi economica anche per l'anno in corso, dopo i risultati in calo degli anni passati. Ciò è avvenuto mentre il Gruppo Espresso Repubblica Finegil (di cui il Piccolo fa parte, assieme al Messaggero Veneto di Udine) ha presentato e sbandierato sui propri giornali il raddoppio degli utili nel 2014. La firma di ieri è arrivata dopo una lunga trattativa, nel corso della quale il sindacato ha contestato la scelta dell'editore di scaricare sempre e comunque sui giornalisti il costo di crisi vere o presunte. Una possibilità, questa, che purtroppo la legge permette alle aziende e che le nuove normative sul lavoro del governo Renzi non faranno che accentuare. Ricordiamo che il Piccolo nel 2011 poteva contare su una redazione di 48 giornalisti. In concomitanza con il passaggio al tabloid, al nuovo sistema editoriale, al full color e al centro stampa goriziano comune ai due quotidiani regionali del gruppo, una serie di pensionamenti (con blocco del turn over) ed esodi incentivati ha portato la redazione a 40 giornalisti. Fra la fine del 2014 e questo inizio del 2015 altri cinque colleghi sono andati in pensione e ovviamente non sono stati sostituiti, portando la redazione a 35 giornalisti. Alla fine di questo percorso biennale, nel quale l'azienda chiede anche dei prepensionamenti, la redazione del Piccolo potrebbe scendere a 32 giornalisti (direttore compreso). Un terzo della redazione in meno di cinque anni. Il contratto di solidarietà sottoscritto, approvato dalla redazione con un voto sofferto ma a larghissima maggioranza, segno anche questo di grande responsabilità del corpo redazionale, prevede 1,41 giorni al mese a testa di solidarietà, 17 all'anno a testa: meno della metà di quanto richiesto inizialmente dall'azienda. Una penalizzazione dunque piccola, soprattutto se confrontata con quella ben più pesante che da tre anni stanno vivendo sulla propria pelle i colleghi del Primorski Dnevnik, anche loro in solidarietà ma con numeri decisamente superiori. Una penalizzazione accettata dalla redazione del Piccolo perché considerata una sorta di male minore, dinanzi al rischio di ammortizzatori sociali ben peggiori, come la cassa integrazione. Rimane però lo schiaffo alla redazione. Alla quale tutti i direttori che si sono succeduti in questi anni a Trieste hanno sempre fatto grandi complimenti. Vien da pensare allora che le responsabilità della crisi, del calo delle vendite e di tutti i conti economici vadano ricercate altrove. Ma a pagare sono sempre e comunque i giornalisti. I risultati, però, sono sotto gli occhi di tutti quelli che li vogliono vedere. E la realtà, per il presente e per il futuro, parla di un Piccolo sempre più piccolo, con pochi redattori, tanti collaboratori malpagati e tantissime pagine sinergiche prodotte a Roma dall'agenzia del gruppo che lavora per tutti i quotidiani locali Finegil. Trieste sta perdendo, o forse ha già perso, il suo storico quotidiano. Alla città interessa?

martedì 3 marzo 2015

ARES TAVOLAZZI con Danilo Rea e David King domani a Udine

Ha suonato nei tumultuosi Settanta con l’immenso Demetrio Stratos negli Area e qualche anno prima con Carmen Villani (ve la ricordate?). Ma anche con Mina e Francesco Guccini, con Paolo Conte ed Eugenio Finardi, con Gil Evans e Steve Lacy. Ancora: con Max Roach e Lee Konitz, Enrico Rava e Phil Woods, Stefano Bollani e Franco D'Andrea, Gianni Basso e Paolo Fresu... Domani sera (e non oggi come annunciato, per alcuni problemi sopraggiunti nel tour) alle 20.45, al Palamostre di Udine, suona con Danilo Rea - tra i pianisti più apprezzati del jazz italiano ed europeo - e David King, batterista americano per anni con la band The Bad Plus. A questo punto manca solo rivelare il nome del musicista di cui stiamo parlando, anche se gli appassionati del genere lo hanno ovviamente già capito: lui è Ares Tavolazzi, contrabbassista nato a Ferrara nel ’48, jazzista di valore ma anche turnista apprezzato nelle sale di incisione. «Con Danilo Rea - spiega il musicista - suoniamo assieme da tanto tempo. In realtà ci eravamo conosciuti alla fine degli anni Settanta, quando suonavo con gli Area. Ma all’epoca le nostre strade musicali non si incrociarono. Poi una decina di anni fa è successo che ci siamo ritrovati. Abbiamo suonato prima in trio con Ellade Bandini alla batteria, ora suoniamo con questa formazione: standard, classici dei Beatles, arte varia. Andiamo a memoria, a volte non sappiamo nemmeno che cosa suoniamo. Si parte e via...». Gli Area? «Sono entrato nel ’74, sono passati quarant’anni e non mi sembra neanche vero. Fui chiamato per sostituire Jan Patrick Djivas che se n’era andato nella Pfm. A quei tempi facevo il turnista a Milano, suonavo nei dischi dei cantanti ma ero mosso da grande curiosità. Gli Area mi hanno permesso di scoprire che si poteva fare altro nella musica: il jazz, la musica popolare, quella etnica... Un universo che successivamente è diventato il mio interesse principale, musicalmente direi l’unico». Demetrio? «Ero un grande musicista ma anche un vero amico. Con lui si lavorava bene, nel gruppo c’era una grande democrazia musicale. Lui era molto aperto culturalmente, anche lui mosso da incredibile curiosità. E poi aveva quelle eccezionali doti vocali. Non ha inventato nulla, le sue tecniche vocali arrivavano dall’Asia, dalla Mongolia. Ma ha il merito di averle scoperte e portate da noi, nel panorama musicale italiano degli anni Settanta». Quando il jazz è diventato il suo unico verbo? «Prima e dopo gli Area, la musica pop e leggera mi hanno aiutato a vivere. Si sa che nel jazz non girano tanti soldi, alcuni fanno letteralmente la fame. Diciamo che suonando nei dischi e nei concerti di vari cantanti e gruppi ho potuto dedicarmi al jazz, all’improvvisazione. Poi, quando me lo sono potuto permettere, diciamo una quindicina di anni fa, ho mollato tutto il resto per dedicarmi soltanto alla mia passione». Guccini? «Un amicone, oltre che un grande artista. Ci sono arrivato tramite Vince Tempera, che conoscevo dagli anni Sessanta, quando suonavo con Carmen Villani. E nel suo gruppo storico ho ritrovato un altro vecchio amico e collega, ferrarese come me: Ellade Bandini. Pensi che da ragazzi, negli anni Sessanta suonavamo assieme in un complesso beat, gli Avengers. Con Guccini sono stati anni molto belli. Ma ha fatto bene a mollare: era stanco, voleva dedicarsi interamente alla scrittura. E poi c’è un’età per tutto, quand’è ora è ora...». Un nome fra i jazzisti con cui ha collaborato. «Gil Evans. Ho avuto il privilegio di suonare con la sua orchestra in occasione di alcuni concerti che ha tenuto in Italia, attorno all’82. Un grandissimo musicista, un eccellente direttore d’orchestra. Musicalità assoluta». Negli anni Settanta la musica era anche politica. Come si trova in questa Italia? «Se devo dire la verità, mi ci ritrovo molto a fatica. Non seguo molto, ammetto un certo disinteresse. Allora si credeva di poter cambiare il mondo anche con la musica. Volevamo fortemente cambiare il mondo. Ma con il senno di poi era un sogno, non era una cosa reale, anche se lo abbiamo creduto...».