mercoledì 27 aprile 2011

DISCHI - NOEMI + paul simon


Va di moda parlar male dei talent show. Ma va ammesso che, se non ci fosse stata per esempio la vetrina di “X Factor”, oggi la musica italiana non avrebbe fra le sue migliori protagoniste al femminile una certa Noemi.

Sopravvissuta felicemente a un nome d’arte tristemente noto ai tempi dei suoi esordi (dopo non aver vinto “X Factor” nel 2009, ha ben figurato a Sanremo nel 2010, mentre per mezza Italia Noemi era una biondina neomaggiorenne indicata come la causa del divorzio del presidente del Consiglio...), la ventinovenne Veronica Scopelliti con ogni probabilità oggi si arrabatterebbe ancora fra localini romani e concorsi per giovani di belle speranze, se non le si fosse presentata l’occasione del talent show di Raidue.

“RossoNoemi” (Sony Bmg) è il suo secondo album, che arriva un anno e mezzo dopo quello d’esordio, intitolato “Sulla mia pelle” e nobilitato dalla collaborazione con Francesco Bianconi dei Baustelle e dal duetto con Fiorella Mannoia in “L’amore si odia”, che è stato anche un singolo di successo.

Nelle nuove canzoni si nota un’ulteriore crescita a livello di personalità e di maturità interpretativa. Le sonorità richiamano esplicitamente gli anni Settanta, il periodo musicale dal quale la cantante ha sempre detto di esser stata influenzata. Persino la copertina è un omaggio a quegli anni fertilissimi per la musica.

Qualcuno ha già parlato di Noemi come di “una Vasco al femminile”. Ovviamente si tratta di un’esagerazione, dovuta probabilmente alla presenza nel disco del brano “Vuoto a perdere”, firmato proprio da Vasco Rossi e Gaetano Curreri. E figlio di una circostanza che merita di essere ricordata.

Noemi aveva infatti scherzosamente dichiarato un anno fa, in un’intervista a Repubblica, che sarebbe stata disposta a lavare i piatti per un anno al Blasco nazionale, pur di lavorare con lui. Il rocker di Zocca ha letto, ha ascoltato il disco e le ha regalato questo brano che ovviamente è finito dritto filato nel nuovo album.

Ma il disco non vive soltanto del pezzo firmato Vasco (che a un certo punto dice: ”Sono diventata grande senza neanche accorgermene...”). Fra i brani vanno segnalati anche “Fortunatamente”, “Sospesa”, “Dipendenza fisica”. Ma colpiscono anche l’atmosfera rhythm’n’blues di “Up!” e le tentazioni melodiche di “Poi inventi il modo”, firmata da Federico Zampaglione.

Per rendere speciale questo suo secondo album, Noemi è volata a San Francisco da Corrado Rustici, nello studio dove Santana registrò “Supernatural”. E visto che c’era, è andata a visitare la casa di Janis Joplin. Giusto per capire quali sono i suoi punti di riferimento.



- PAUL SIMON, “SO BEAUTIFUL OR SO WHAT” (Concord/Universal)

A ottobre compie settant’anni. Ma l’età non lo obbliga a vivere solo sui fasti passati. Sugli inizi londinesi da folk singer, sull’epopea di “The sound of silence” e “Mrs Robinson” con Art Garfunkel, sulle intuizioni world di “Graceland” e di tutto quello che è arrivato dopo. Paul Simon dimostra di aver conservato arte e genialità, dietro la voce inconfondibile e quell’aria da intellettuale newyorkese. E dopo alcune prove incerte torna ai vertici della sua miglior creatività con questa raccolta di canzoni nelle quali parla di vita e di morte, di bellezza e di guerra, sul filo di un bilancio esistenziale sempre difficile da stilarsi. Brani come “Getting ready for Christmas day” profumano di una leggerezza che è stata sempre la cifra stilistica del piccolo grande uomo del New Jersey. Ma vanno segnalati anche “Rewrite” e “The afterlife”, “Question for the angels” e “Love and the hard times”... Ballate eleganti, testi poetici, atmosfere rarefatte. Roba di classe, insomma.

sabato 23 aprile 2011

ELISA AL ROSSETTI (2)

 
Un mese fa l’acqua, ieri sera il fuoco. Ma sempre di natura si tratta. Che per Elisa - tornata al Rossetti per il secondo spettacolo del tour “Ivy I & II” - rimane fonte primaria di vita e di ispirazione. La pioggia e gli scenari nordici lasciano sul fondale il posto al sole mediterraneo, ai colori caldi, agli zampilli di fuoco che salgono verso il cielo.

Teatro nuovamente tutto esaurito. Apre con “I never came” e “Nostalgia”, entrambe dall'album "Ivy". Sarà per il tema o per la primavera ormai inoltrata, ma l’atmosfera sembra più calda rispetto a un mese fa. Soprattutto quando arriva “Eppure sentire (un senso di te)”, scritta per la colonna sonora del film “Manuale d’amore 2” e poi pubblicata in “Soundtrack ’96-’06". Dopo un'inedita cover di "Ho messo via", di Ligabue, i cori dei fan diventano quasi da stadio. La partita è vinta, forse lo era anche prima di cominciare. Da “Lotus”, l’altro album legato alla natura già nel titolo, del 2003, vengono riproposti “Broken”, e poi “Interlude”, e ancora “Prayer”. Alla fine del primo tempo, "Together" diventa una danza tribale a piedi nudi.

Elisa canta, suona chitarra e piano, balla, è a suo agio nella lunga tunica elegante. Con lei la fidata band, capitanata da Max Gelsi al basso e dal suo compagno Andrea Rigonat alle chitarre. E come un mese fa, per mezzo secondo tempo, il coro di voci bianche Artemia, di Torviscosa.

Arrivano brani da ”Pipes & Flowers" e "Then comes the sun", gli album da cui dieci e più anni fa è cominciata tutta l'avventura della piccola grande Elisa Toffoli da Monfalcone: una voce da favola alla conquista del mondo. C'è spazio anche per episodi meno noti, come “Swan”, uscita solo su singolo nel 2005 dopo essere stata inserita in una colonna sonora di un film non memorabile. Alcuni brani in scaletta sono gli stessi del primo concerto, ma il pubblico gradisce ugualmente. Soprattutto quando arriva una confessione personale, intima come "Qualcosa che non c'è".

Indipendentemente dalle immagini sullo sfondo, la natura è elemento molto presente, quasi palpabile, nel concerto. Che cade nell’Earth Day, la Giornata mondiale della Terra, dedicata quest’anno alle foreste che stanno morendo come tutto il pianeta. “Il mio rapporto con la natura è molto forte e intenso - ha detto Elisa al “Sette” del Corriere della Sera -.Da lei traggo energia e ispirazione, perchè la sua bellezza e la sua potenza mi colpiscono più profondamente di un paesaggio urbano”. Difficile darle torto.

venerdì 22 aprile 2011

PATTI SMITH E CARMEN CONSOLI




ROMA La Terra chiama, Patti Smith e Carmen Consoli rispondono. E con loro rispondono almeno ventimila giovani e meno giovani che l'altra sera hanno gioiosamente affollato Villa Borghese per il concerto dell'Earth Day, la Giornata Mondiale della Terra che in realtà si celebra oggi (e proprio stasera SkyUno trasmette una sintesi della kermesse romana).

Il rock è sempre stato sensibile alle tematiche ambientali, dai tempi dei grandi raduni degli anni Sessanta. Si pensi a una manifestazione come No Nukes, che nel '79 - dunque trentadue anni prima dell'apocalisse giapponese - raccolse molti artisti sotto le bandiere dell'antinucleare. Si pensi a icone del calibro di Bob Dylan, Joan Baez, Neil Young, che hanno spesso scritto e cantato di ambiente nel corso delle loro lunghe carriere.

A Roma, l'altra sera, apertura con la rock band Rain (fra i brani, "Il ponte di Mostar"), ma anche con Adriano Bono e Roberto Angelini. Fra centinaia di palloncini verdi, l'imprimatur più autorevole arriva con un videomessaggio di Peter Gabriel, da sempre attento ai temi dell'ambiente. «Ciò che abbiamo fatto all'atmosfera, al clima, al nostro pianeta è drammatico - dice l'artista inglese -. Dobbiamo impegnarci tutti. Potremmo fare molto di più. Se vogliamo tenere il pianeta in vita affinchè possa dare un futuro ai nostri figli, ai nostri nipoti e alle prossime generazioni, è arrivato il momento di agire. Tocca a noi farlo con decisione. Noi possiamo fare la differenza».

Ma l'attesa è tutta per Patti Smith e Carmen Consoli, due signore del rock diverse per storia ed età ma al tempo stesso in qualche modo simili, che con la loro presenza hanno voluto testimoniare concretamente il loro impegno su questo fronte. La poetessa e rockstar americana, nota per l'impegno ecologista, è un vero e proprio simbolo per il popolo della musica più attento alle tematiche sociali e ambientali. E come tale viene accolta ogni volta che mette piede in Italia, paese che ama moltissimo. Per lei, a Villa Borghese, un set breve con una formazione ridotta all'osso: giusto una manciata di brani, fra i quali non possono ovviamente mancare classici senza tempo come "Because the night" e "People have the power". Sufficienti a creare magia nell'aria.

Il vero concerto è però quello di Carmen Consoli. Accompagnata da band e sestetto d'archi, la "cantantessa" siciliana ha proposto alcuni cavalli di battaglia ("Venere" e "Non molto lontano da qui", "In bianco e nero" e "Fiori d'arancio", "L'ultimo bacio" e nei bis "Amore di plastica"), ma anche "Madre terra", in duetto virtuale con l'africana Angelique Kidijo sullo schermo, e la recente, splendida "Guarda l'alba". Elegante nell'abito nero e con la chitarra a tracolla, una Carmen mai così bella è sembrata perfettamente a suo agio in quella che dovrebbe essere la sua unica data italiana dell'anno. Alternando parole d'ordine contro le spese militari e le testate nucleari a battute in siciliano rivolte ai componenti del suo gruppo.

Per quanto riguarda l'Earth Day, Roma ospita l'evento ormai dal 2008. La prima edizione, in piazza del Campidoglio. ebbe come protagonisti Cesaria Evora, Vinicio Capossela e i Sud Sound System. L'anno dopo, in piazza del Popolo, fu la volta di Ben Harper e dei Subsonica. Nell'edizione dell'anno scorso il verbo dell'ambiente fu invece affidato a Pino Daniele e ai Morcheeba. Quest'anno, in concomitanza con la celebrazione dell'anno mondiale delle foreste, è arrivata quanto mai opportuna la decisione di spostare l'evento a Villa Borghese, il più popolare e importante polmone verde della capitale. Con la forza simbolica affidata alla musica, mai così importante come quando diventa testimonianza. «Se non ne avremo cura - è ancora Peter Gabriel che parla - la Terra sarà distrutta per sempre. Spero che prendiate tutto questo molto sul serio. Spero che tutti assieme riusciamo a trovare il modo per fare la differenza». E tanto per dare il buon esempio, visto che a volte anche i concerti rock consumano energia che potrebbe illuminare paesi interi, la manifestazione romana ha aderito al progetto Impatto Zero di Life Gate: le emissioni di anidride carbonica prodotte dal concerto saranno infatti compensate contribuendo alla salvaguardia e alla tutela di oltre 70 mila metri quadrati di foreste in Costa Rica. E noi cominciamo a spegnere le luci che non servono.

martedì 19 aprile 2011

BACCINI A TRIESTE


«Di Luigi Tenco è rimasto nell’immaginario collettivo un ricordo triste, malinconico. Un po’ per le sue canzoni più note, molto per la sua fine tragica. Ma rimettendo le mani nelle sue canzoni, ho scoperto un uomo e un artista dalle varie facce: quella intimista, sì, ma anche quella politica e sociale, persino quella ironica...».

Parla Francesco Baccini, che stasera porta al Teatro Bobbio il suo spettacolo “Baccini canta Tenco”, sottotitolo “Porto a spasso Luigi nei teatri...”.

«Il mio incontro artistico con lui - spiega il cantautore genovese, classe 1960, oltre vent’anni di carriera sulle spalle di ex camallo - è stato casuale. Certo, l’ho sempre conosciuto e ascoltato. Anche per me era e rimane un mito assoluto. Ma un paio d’anni fa mi capita, mentre ero in sala d’incisione per registrare la mia raccolta “Ci devi fare un goal”, che in una pausa mi metto a cantare “Vedrai vedrai”, da solo al pianoforte. Il fonico registra, il risultato piace e finisce nell’album. Poi, nei concerti, la facevo nei bis e il pubblico la gradiva molto».

Arriva dunque l’idea di questo spettacolo.

«Sì, anche perchè mi rendo conto che Tenco non ha fatto concerti nè tantomeno tour. Le sue canzoni rimangono ferme a incisioni di quarantacinque anni fa, con arrangiamenti e suoni vecchi, con vestiti musicali antichi. La mia scommessa, dunque, è quella di rileggere le sue splendide canzoni con la mentalità e i suoni di oggi. Ed è in questo frangente che ho scoperto le tante anime di Luigi. Lui era uno che voleva cambiare il mondo, non era assolutamente una persona depressa. E i racconti che mi aveva fatto su di lui Fabrizio De Andrè lo confermavano...».

Rifare Tenco: impresa da far tremare i polsi.

«Impresa difficile, certo. Mi ci sono avvicinato con i piedi di piombo, avendo ben presente che non volevo fare delle cover, la mia voleva e vuole essere una rilettura dell’opera di un grandissimo artista. Nello spettacolo spazio dalla bossanova al jazz, dalla ballata confidenziale al rock, ma tutto in acustico. E presto lo spettacolo diventerà un disco. Anche se non so quando uscirà, prima o dopo l’estate».

Il suo “Dalla parte di Caino” nel 2007 fu premiato per il valore musicale e letterario con il Premio Lunezia.

«Vero, ma il pubblico non l’ha nemmeno sentito. Oggi per la discografica è un vero disastro. Vendite bassissime. E a parte i pochi grandi nomi, non esiste promozione né la possibilità di una programmazione radiofonica degna di questo nome. Anche Vecchioni, che ha vinto Sanremo, quante volte è passato nei network radiofonici più importanti?»

Il web?

«E’ una giungla. Prima navigavamo in un laghetto. Ora siamo passati all’oceano, pieno di mille rivoli. Una realtà dispersiva e non comunicante. Penso a un giovane cantautore...».

Dica.

«Che possibilità ha? Nessuna. I talent show vanno bene per gli interpreti. Ma se un ragazzo che scrive e canta le sue canzoni vuole cominciare non ha molte possibilità dinanzi. Una volta c’era il Premio Tenco, da dove anch’io ho cominciato. Ma ormai non lo segue nemmeno la stampa, oltre alla tivù. E dunque è come se non esistesse. Peccato. Oggi la gente sa cos’ha mangiato a cena Belen, ma non conosce la nuova musica...».

ELISA TORNA VEN. AL ROSSETTI


L’avevamo lasciata giusto un mese fa, sulle note del bis “Luce, tramonti a Nordest”, in un Politeama Rossetti tutto esaurito per il ritorno a casa della nostra piccola grande Elisa. Sotto gli occhi orgogliosi di parenti (mamma e nonna in testa...) e amici, oltre che del suo pubblico, cresciuto anno dopo anno. Ora ritorna, venerdì alle 21, sempre al Rossetti, per quella che a tutti gli effetti è stata concepita come la seconda parte dello spettacolo.

Per la verità, nelle altre città toccate dal tour, cominciato trionfalmente il 4 marzo da Roma, questo “Ivy I & II” va in scena una sera dopo l’altra. E’ successo anche due settimane fa al “Nuovo” di Udine: la prima sera la popstar monfalconese presenta lo spettacolo dedicato all’acqua, la sera successiva quello dedicato al fuoco. A Trieste, per problemi di disponibilità di date del tour e del teatro, i due appuntamenti vanno invece in scena a distanza di un mese l’uno dall’altro.

Ma non è un problema, visto che si tratta di due concerti comunque diversi per scaletta, strumentazione e scenografia, all’interno di un unico viaggio musicale. Un doppio show che ruota attorno agli elementi primari della natura cioè l’acqua e il fuoco: prima l’acqua e il Nord e le canzoni del recente “Ivy”, poi il fuoco e il Mediterraneo e l’Africa e i brani dell’album ”Lotus”, uscito nel 2003.

Il primo, quello visto a Trieste un mese fa, era caratterizzato da atmosfere nordiche e sognanti (nel secondo tempo con l’ausilio del coro di voci bianche Artemia, di Torviscosa...), con una radice “rock celtica” e una scaletta incentrata maggiormente sui brani di “Ivy”, il disco pubblicato il 30 novembre scorso. Quello scenario lascerà il posto, nel concerto che arriva venerdì al Rossetti, a suggestioni più calde e terrene, quasi soul, con una matrice che la stessa Elisa definisce “afro-tribale” e una scaletta per gran parte occupata dai brani di “Lotus”.

“Ivy” (termine inglese che si pronuncia “aivi” e che in italiano significa edera) è una sorta di concept-album quasi autobiografico nel quale ogni canzone racconta un frammento di vita reale. Con cover che spaziano da “1979” degli Smashing Pumpkins a “Ho messo via” di Ligabue, da “I never came” dei Queens of the Stone Age a “Pour que l’amour me quitte” di Camille («la cantavo sempre alla mia piccola Emma Cecile per farla addormentare, e successivamente ho cominciato a cantarla anche ai concerti...»), fino a duetti con Fabri Fibra e Giorgia. Ma ci sono anche brani inediti della stessa Elisa e dieci rivisitazioni di suoi grandi successi, tra i quali “Lullaby” e “Ti vorrei sollevare”, “Una poesia anche per te” e “Rainbow”, “Gli ostacoli del cuore” e “Forgiveness”.

Al cd è allegato anche un docu-film di cinquanta minuti nel quale l’artista parla della sua musica, delle canzoni, dello stesso album, delle emozioni che hanno caratterizzato il suo percorso artistico, in un viaggio che ripercorre le tappe dell’opera. La regia è affidata a Danni Karlsson, che ha inserito dei brevi set registrati in mezzo alla natura.

A proposito di cover. Nel nuovo singolo dei Negramaro, “Basta così”, la voce di Elisa torna a duettare con quella di Giuliano Sangiorgi, il cantante della band salentina. Ricreando la magia di “Ti vorrei sollevare”, risentita un mese fa anche a Trieste, che i due artisti avevano cantato assieme nel 2009.

“Basta così” è il terzo singolo estratto dall’album “Casa 69”, con cui i Negramaro sono recentemente ritornati in scena: una ballata densa di poesia e musicalità, arricchita dall’orchestra di Mauro Pagani, che descrive come il senso di vera libertà si possa raggiungere solo assieme agli altri, e non in solitudine. E chissà se Elisa avrà voglia di farla sentire anche al pubblico triestino di venerdì sera...

domenica 17 aprile 2011

NEK GIOVEDI' AL ROSSETTI


«Per festeggiare i miei vent’anni di carriera sono tornato alle origini. Formazione classica: chitarra, basso e batteria. Suoni ruvidi, essenziali, rock. E ho anche ripreso a suonare il basso, che avevo abbandonato da tempo. Ora mi sento davvero parte del mio gruppo...».

Nek torna giovedì a Trieste, in concerto al Politeama Rossetti, nell’ambito del nuovo tour che in queste settimane sta attraversando l’Italia, a maggio va in Europa (Germania, Svizzera, Austria, Francia, Spagna, Olanda...) e poi attraversa l’oceano per toccare Canada, Stati Uniti e Sud America.

«A Trieste torno sempre volentieri - dice colui che per l’anagrafe di Sassuolo si chiama Filippo Neviani, classe 1972 -, dopo i concerti al palasport, a teatro, in piazza Unità per i Mtv Trl Music Awards. Ma ricordo con particolare piacere di avervi girato due anni fa il video di “Semplici emozioni”: sul molo, vicino al mare, con sveglia alle quattro di mattina per cogliere le luci uniche dell’alba...».

Che carriera, quella di Nek. Comincia nel '91, con un secondo posto a Castrocaro. L'anno dopo esce l'album d'esordio “Nek”, fino ad allora suo nomignolo e da quel momento nome d'arte. Ma è nel '93 che il grande pubblico si accorge di lui, con un terzo posto a Sanremo Giovani, con “In te” (titolo anche del secondo album), che suscita polemiche per il modo in cui tratta il tema dell'aborto. Il '94 è l'anno del terzo disco, «Calore umano», e del Premio Europeo come miglior cantante giovane italiano.

Il botto arriva con “Lei, gli amici e tutto il resto”, album del '96, e soprattutto con “Laura non c'è”, Sanremo '97. L’album vende 600 mila copie in Italia e poi alla conquista del mondo: Spagna, Portogallo, Francia, Germania, Finlandia. E Sud America: Perù, Colombia, Brasile, Argentina, Messico...

«Il bilancio di questi primi vent’anni - prosegue Nek - è ovviamente molto positivo. Ho un seguito internazionale e un repertorio ormai ricco che il pubblico conosce. In questo tour sto sperimentando nuovi arrangiamenti dei pezzi più vecchi. Il mio motto? Resistere, magari per altri vent’anni...».

Questo tour segue la pubblicazione della raccolta “E da qui, Greatest hits 1992-2010”, già disco di platino. «La mia prossima sfida riguarda il prossimo album di inediti: vorrei suonarlo tutto da solo. E poi c’è il cinema: le colonne sonore mi hanno sempre attirato. Ci sono dei progetti al riguardo».

Sanremo? «L’ho fatto due volte, da debuttante e da big. Per ora non è nei miei piani futuri. Anche se... mai dire mai. E anche se Morandi ha fatto un ottimo Festival».

Il prossimo duetto? «Deve crearsi un feeling particolare con qualcuno. Com’è avvenuto con Laura Pausini e Craig David. Di definito non c’è ancora nulla, ma dovrei fare qualcosa con L’Aura. Con o senza apostrofo, evidentemente quello è un nome che sta scritto nel mio destino...».

domenica 10 aprile 2011

THE WALL


I muri hanno sempre diviso qualcosa, qualcuno. Quelli del Novecento separavano, nel caso di Berlino anche fisicamente, l’Occidente dal comunismo. Oggi rimangono quelli che tentano di tracciare una linea fra povertà e ricchezza, fra lotta quotidiana per sopravvivere e abbondanza, fra miseria e spreco.

Roger Waters, già leader dei Pink Floyd, dice che su un graffito a Gerusalemme una volta gli è capitato di leggere: «La paura alza i muri». Un’immagine, una frase che evidentemente lo ha ispirato, prima di decidere di portare in giro per il mondo “The Wall live”, di nuovo dopo vent’anni, nel trentennale dello storico album dei suoi Pink Floyd.

Un tour che è partito il primo giorno di primavera a Lisbona, ha già toccato Milano (sei repliche tutte “sold out” al Forum di Assago, dove tornerà il 6 e 7 luglio), mercoledì sera è all’Arena di Zagabria, e fra le altre tappe - in Olanda, Ungheria, Repubblica Ceca, Russia, Finlandia, Inghilterra, Francia, Svizzera, Germania - sarà anche il 20 giugno all’Olympiahalle di Monaco di Baviera.

Che intuizione, quella di “The Wall”. Con quel “concept album” la band inglese anticipò di ben dieci anni, nel ’79, il crollo del muro per antonomasia, quello di Berlino. Dove il 21 luglio del ’90, nel primo anniversario della caduta del muro, fu presentata una colossale messinscena dello spettacolo, dieci anni dopo le trentuno repliche andate in scena fra l’80 e l’81. Ora lo spettacolo ritorna, rivisto e corretto per il nuovo millennio, con Waters orfano degli originari compagni d’avventura.

«Il mondo - ha ricordato il musicista quando ha presentato il tour europeo, che segue quello statunitense, ricco di un incasso di 89,5 milioni di dollari in 56 serate, che ha già abbondantemente ripagato i costi dello show - è ancora pieno di muri. C’è un muro che separa i ricchi dai poveri, un muro tra il primo, il secondo e il terzo mondo, ci sono muri che dividono la gente a causa del loro credo e della loro ideologia».

Lo spunto iniziale di “The Wall” è il ricordo del padre di Waters morto in guerra (nel ’44, ad Anzio, quando il musicista era un bimbo di quattro mesi), ma lo spettacolo poi diventa il racconto della crisi di una rockstar - crisi che l’artista ha vissuto per davvero -, che lo porta a calarsi nei panni di un dittatore che si chiude dietro a un muro, cercando nell’infanzia le origini della sua alienazione.

Ma oggi, riflette il musicista, «chi ha alle spalle una storia come la mia non scrive “The Wall”, va a raccontarla nei reality show, in cerca di quindici minuti di celebrità. Si diventa famosi senza saper far nulla, non c’è più bisogno di saper recitare, cantare o che so io. Al contrario, è la totale mancanza d’immaginazione a creare il personaggio».

Già, i reality. La televisione, la necessità di apparire, i quindici minuti di notorietà che, diceva Andy Warhol, non si negano a nessuno. «La tv - è sempre il pensiero di Waters - è il vero oppio dei popoli. Foraggia consumismo e propaganda. Crea dipendenza. Nonostante i social network, la gente non riesce a comunicare e a scambiarsi le idee. Nazionalismo, razzismo, sessismo e religione generano le stesse paure che hanno paralizzato la mia infanzia».

Fino alla notazione finale: «Oggi quando canto “Another brick in the wall - Part II” penso all’inutilità delle guerre. Mi chiedo: che stiamo a fare in Afghanistan? Cosa siamo andati a fare in Iraq? Tutto gira sempre intorno alla conquista, al potere, ai soldi. Dagli antichi romani a oggi, passando per l’imperio britannico. La guerra è sempre stata una droga».

Quello che l’ex Pink Floyd sta portando in giro per l’Europa è uno degli show più monumentali ed emozionanti della storia del rock. Riletto grazie alle tecnologie più avanzate, con un impianto scenografico che - assieme a musiche ormai diventate classici - ogni sera lascia gli spettatori a bocca aperta.

Il muro immaginato oltre trent’anni fa da Waters evocava la Germania divisa. Oggi torna a parlarci di nuove barriere culturali, dei simboli del potere e della religione che dividono anzichè unire, dei conflitti storico-culturali di ieri e di oggi. Ma anche di muri interiori che ognuno di noi erige dentro se stesso, di nuove tecnologie che privilegiano realtà virtuali a scapito di mondi e conoscenze reali, di un’incomunicabilità individuale che chiude ogni essere umano in una sorta di microcosmo.

Lo show che arriva a Zagabria comincia con il sessantasettenne bassista entrare in scena nerovestito. Un mantello, una fascia rossa sul braccio a evocare una divisa militare, il saluto al pubblico. Poi fuochi artificiali, figuranti in divisa militare, bandiere e aerei (che non sganciano bombe ma crocifissi, stelle di David, mezzelune, simboli della Shell e della Mercedes), suoni e scenari di guerra, atmosfere drammatiche e messaggi di pace, i volti dei caduti nelle guerre recenti (e Waters ha chiesto di mandare altre foto al suo sito), mentre un grande muro - the wall - di 743 metri quadrati prende forma mattone dopo mattone, fila su fila. Dinanzi a uno schermo circolare alto ottantacinque metri.

Su questo schermo vengono proiettate, in uno scenario da grande fratello (quello originale, orwelliano...), le immagini di mastodontici pupazzi. Mentre le musiche dell’album scandiscono con toni a tratti violenti la storia dei Pink Floyd, la vita e i ricordi di Waters: la morte del padre, la madre iperprotettiva, una scuola troppo autoritaria, la salvezza attraverso la musica, ma poi anche la vita dorata ma alienante da rockstar. E fu proprio quel senso di alienazione per la vita da star, unito a una mancanza di comunicazione con il pubblico, ad ispirare un tormentato Roger Waters, nel 1979, nel comporre “The Wall”.

Alla prima milanese, introducendo il brano ”Mother”, il musicista inglese ha detto: «Sembra strano siano passati trentadue anni dall’inizio di “The Wall”, è strano come il tempo passi in fretta. Adesso vedrete parte di un video del 1980 tratto dal nostro concerto a Londra. E farò un duetto a doppia voce assieme al povero piccolo disperato Roger che ero in quegli anni...».

Per poi aggiungere alla fine, dopo aver ringraziato il pubblico: «Una volta non ero così, ero una persona misera, ma è passato tanto tempo e adesso sono cambiato». I muri, le guerre che ci racconta, invece, sono terribilmente uguali a quelli che trent’anni fa gli avevano ispirato “The Wall”.

mercoledì 6 aprile 2011

ORME


Accade in tanti matrimoni. E tocca anche alle band che hanno fatto la storia del pop italiano. Che cosa? Di non andare più d’accordo, di fare baruffa, di far volare gli stracci. E di finire davanti a un giudice per mettere le mani, non sulla casa o sull’affidamento dei figli, ma sul nome della ditta. E’ successo anche alle Orme, che domani sera tornano in concerto a Trieste, al Teatro Miela.

«Due anni fa - spiega Michi Dei Rossi, batterista e unico superstite della formazione originaria del gruppo -, al termine di un tour in Canada, il bassista Aldo Tagliapietra ha deciso di uscire dal gruppo. Io ho scelto invece di continuare, con il tastierista Michele Bon, che è con noi dal 1990, da quando cioè era uscito l’altro componente originario, Tony Pagliuca, e con gli altri nostri nuovi compagni».

Divorzio consensuale? Macchè. Tagliapietra chiede al giudice di inibire a Dei Rossi e compagni l’uso del nome Le Orme, registrato al cinquanta per cento fra i due. Ma la richiesta viene respinta. «E dunque noi continuiamo a chiamarci così - prosegue Dei Rossi -, mentre Tagliapietra ha formato un nuovo gruppo con Pagliuca e Tolo Marton (altro musicista veneto che ha fatto parte del gruppo - ndr). E fanno anche loro il repertorio delle Orme».

Come dire: due gruppi per rifare le stesse, storiche musiche. Ma uno solo dei quali con il diritto di usare il vecchio nome della ditta. Ditta, anzi, gruppo che era nato in Veneto alla fine degli anni Sessanta. Inizialmente avevano scelto di chiamarsi “Le Ombre”, in omaggio agli inglesi Shadows, ma poi cambiarono idea per evitare ironie e doppi sensi (“ombra” in veneto è il bicchiere di vino...).

Al Disco per l’estate del ’68 cantano “Senti l’estate che torna”. Ed è un successo. Ma il botto arriva nel ’71, all’alba del nascente pop italiano, con l’album “Collage”. «Sì, quel disco ci ha cambiato la vita - dice Dei Rossi -. Siamo passati dai garage dove facevamo le prove, nel nostro Veneto, ai palasport, ai teatri, ai grandi raduni all’aperto. A proposito di raduni, nell’estate del 1970 partimmo con il loro furgone per l’Isola di Wight, dove assistemmo all’ultima grande esibizione dal vivo di Jimi Hendrix, che poco dopo morì. C’erano anche i Doors con Jim Morrison, Who, Joni Mitchell, Miles Davis, Jethro Tull, Ten Years After, tanti altri. Fra i quali Emerson Lake & Palmer, di cui eravamo dei fan».

Al ritorno in Italia, fa capire l’artista, nulla fu più come prima. Se ne accorsero i giovani triestini, che nel febbraio ’72 affollarono il Dancing Paradiso di via Flavia per il primo di una lunga serie, in questi quarant’anni, di concerti delle Orme.

Ancora Dei Rossi: «Eravamo partiti con il vecchio beat nelle orecchie, tornammo ebbri di suoni, sensazioni, idee nuove. Insomma, eravamo pronti per gli anni Settanta e per il pop italiano. Il pubblico fu subito dalla nostra parte. Cominciava un decennio speciale, c’era un fermento che oggi non c’è più, noi che stavamo sul palco avevamo la stessa età del nostro pubblico, assieme eravamo protagonisti di una rivoluzione musicale e al tempo stesso culturale».

Oggi, invece? «Oggi queste cose non esistono. La globalizzazione ha avuto conseguenze positive ma anche negative. Fra queste, la completa standardizzazione dei prodotti, dei gusti, delle idee. A Marghera trovo le stesse cose che ci sono nelle città di mezzo mondo. Di positivo c’è solo il fatto che razze e culture si mischiano, alla faccia di chi predica la non tolleranza».

Dal vivo, domani a Trieste le Orme - che in questi anni hanno suonato in mezzo mondo - presentano il nuovo album “La via della seta”, senza dimenticare classici come “Felona e Sorona”, “Cemento armato”, “Gioco di bimba”, “Collage”. Aprono il concerto, organizzato dall’Associazione Musica Libera, i triestini Proteo.

venerdì 1 aprile 2011

DISCHI - VASCO + mannarino

 Dedicato a tutti quelli che stanno scappando, scriveva vent’anni fa Gabriele Salvatores in epigrafe al suo “Mediterraneo” premiato con l’Oscar. Oggi Vasco Rossi riprende idealmente quella dedica, spiegando che un artista “deve fuggire dagli stereotipi, dalla grettezza e dalla mediocrità, dalle bugie e dall’ipocrisia, dalla superficialità, dai posti di blocco del conservatorismo, dall’omologazione, dai poteri che non lo vogliono far parlare, lo controllano, lo limitano...”.

Grandissimo Vasco, la cui vena creativa non si è mai esaurita, la cui libertà di pensiero non conosce restrizioni, la cui onestà intellettuale dovrebbe essere d’esempio per tanti.

“Vivere o niente” (Emi) è il suo nuovo album, sedicesimo in studio in trentatre anni di carriera discografica, a tre dal precedente “Il mondo che vorrei”. Alla vigilia dei sessant’anni (è nato nel febbraio ’52), il rocker di Zocca si mette a nudo con sincerità disarmante. Ammette che non credeva nemmeno di arrivare a quest’età, lui che a 35 anni pensava di bruciare tutto, «non credevo che sarei mai arrivato all’età di mio padre, ho sempre pensato che sarei finito presto, sennò forse non avrei scritto ciò che ho scritto». Come dire: «Sembrava la fine del mondo e invece io sono ancora qua. E non c’è niente che non va, non c’è niente da cambiare», scandisce quasi beffardo in “Eh... già”, singolo apripista.

Nel primo brano, “Vivere non è facile”, canta: «Proprio non bastano le mie scuse, ormai mi annoiano. Io sono qui e vivo come pare a me. Sarebbe tutto semplice se avessi almeno un complice, col quale condividere quest’avventura inutile. Che mi facesse ridere di tutte queste favole...».

Il tema della fuga salvifica è ovunque, sin dalle foto di copertina. Altri indizi sono seminati fra i solchi. «Prendi la strada che porta fortuna, prendi la via che fa più paura, prendi le cose così. La vita è dura! Non ti fermare davanti a niente, non ascoltare nemmeno la gente, non ti distrarre perchè la vita è tua. Non ci sono vie di mezzo per una generazione di sognatori, illusi e disillusi, non c’è spazio per l’indifferenza» (“Prendi la strada”).

L’insofferenza, il mal di vivere, l’autoironia sono ovunque. Anche in una canzone d’amore come “Dici che”. Anche in brani come “L’aquilone” e “Stammi vicino”, “Il manifesto futurista della nuova umanità” e “Sei pazza di me”.

L’album, registrato fra Bologna e Los Angeles, è uscito da due giorni ed è già primo in classifica. Previsione semplice semplice: ci rimarrà a lungo. Quest’estate il Blasco torna dal vivo: l’11 giugno a Venezia, all’Heineken Jammin Festival, poi 16, 17, 21 e 22 giugno a San Siro, 26 giugno a Messina, 1 e 2 luglio a Roma, all’Olimpico. Altra previsione facile: appendice quasi sicura a settembre, magari con la possibilità di vederlo dalle nostre parti.



- MANNARINO

A Roma e dintorni, Alessandro Mannarino è già un mito. Da quando appare su Raitre, dalla Dandini, la sua fama si sta progressivamente allargando al resto del Paese. Questo è il suo secondo album (il primo, “Bar della rabbia”, è uscito nel 2009). Racconta “un viaggio, dal tramonto all’alba, dove si intrecciano vicende e si incontrano personaggi tutti legati a un filo, quello della fine del mondo”. E lo fa proponendo un’unione di “ritmi forsennati, gonne al vento, vino e lanterne, festa a crepacuore, ballate struggenti, lamentazioni funebri, cantautorato e world music”.

Mannarino è nato a Roma nel ’79. A vent’anni suona nei locali del rione Monti, due anni fa è tra i finalisti del Premio Gaber e del Premio Tenco nella categoria “album artisti emergenti”. In questo disco si smarca dalle tentazioni esterofile ma anche dalla lezione vetero cantautorale. Meglio la sua verve anarchico insurrezionalista, i suoi spunti folk, la sua vena anticlericale. Fra i brani: “Rumba magica”, “Serenata lacrimosa” ma anche “Serenata silenziosa”, “L’ultimo giorno dell’umanità”.