sabato 26 agosto 2006

«Anche Moravia, e Calvino, e lo stesso De Felice hanno regalato le loro biblioteche. Ma a delle fondazioni, e senza arrivare a questi numeri. E comunque le donazioni sono avvenute sempre post mortem...».

Giovanni Giovannini si gode l’ultimo scampolo di vacanze nel buen retiro di Forte dei Marmi e commenta così la notizia che stavolta lo vede protagonista. Domani gli verrà intitolata la biblioteca comunale di Bibbiena, il paese in provincia di Arezzo dov’è nato nel 1920 («ma ci ho passato solo l’infanzia...»). Un segno di riconoscenza per il giornalista e scrittore, che ha donato negli ultimi anni oltre trentamila volumi (letteratura, storia, scienza, storia della comunicazione...) che hanno arricchito il patrimonio librario del paese toscano. E che sono tutti citati nella terza ristampa del libro «I volumi del Fondo Giovannini».

«Per la verità non erano tutti libri miei - rimarca l’ex presidente della Fieg, che ha presieduto anche la Federazione internazionale degli</IP> editori - ho cominciato donando tremila volumi miei, poi ho continuato rompendo le scatole a tutti, amici, colleghi, giornalisti, editori... Ho ricevuto molti libri da Repubblica, da Mondadori, dalla Stampa, e un po’ alla volta li ho trasferiti alla biblioteca del mio paese. Che ora ricambia intitolandomi addirittura la biblioteca...».

«Una cosa un po’ fra l’avanguardia e lo strapaesano - prosegue Giovannini -, ma io che da venticinque anni sono profeta del futuro, della mutazione portata nel nostro mondo dalle innovazioni tecnologiche, da Internet, sono più che mai convinto che bisogna lavorare sui libri, per far progredire il nostro grado di cultura, in un paese dove esiste ancora l’analfabetismo e dove si leggono così pochi giornali...».

Già, impossibile discutere con Giovannini e non finire a parlare di giornali, che sono stati e sono la sua vita. «Sì, ho visto anch’io - dice - che l’Economist fissa al 2043 la data dell’ultimo quotidiano, chiedendosi provocatoriamente chi l’ha ucciso. Ma penso siano dibattiti estivi, nei quali si può dire quasi tutto. Prima sembrava che la radio dovesse uccidere i giornali, e non è successo nulla. Poi è stato il turno della televisione, che in effetti ci ha fatto soffrire un po’ di più, per problemi pubblicitari ma anche culturali. Ora è il turno di Internet, della Rete, ed è decisamente ancora più dura per i giornali...».

«Il problema - prosegue - è che ormai non abbiamo più a che fare solo con l’informazione, ma con una più complessiva comunicazione, che si estende a tutti i campi. Pensiamo alle potenzialità che ha la fusione fra computer e telefonino, fra televisione e Internet, all’interno di un sistema integrato dallo sviluppo sempre più veloce».

La forza dei giornali - è sempre stato un chiodo fisso di Giovannini - dev’essere l’approfondimento, perchè se ci si ostina a sfidare la televisione sul suo campo la partita è persa in partenza. Ci vuole una cultura della mutazione: saper capire i cambiamenti e adeguarsi. «La mia formula è sempre quella dell’unica W. Si sa che un articolo ben fatto deve rispondere nelle prime righe a queste cinque domande: who, where, when, what e why. Ovvero: chi, dove, quando, cosa e perchè. Ecco, i giornali ormai si devono concentrare sulla W di why, sul perchè: alle altre domande le risposte sono già state date prima che il giornale arrivi in edicola...».

In attesa di giornali diversi, che sappiano attrarre i giovani che oggi li frequentano ben poco, il grande vecchio dell’editoria italiana detta la sua ricetta: «Ci vorrebbe una politica di sviluppo della comunicazione, un piano complessivo, capace di metter assieme tutte le cose di cui si parlava e saperne estrarre un fenomeno di crescita. Partire dal numero record di telefonini che abbiamo in Italia e arrivare alla spesa per le biblioteche che nel nostro Paese è bassissima. Altro che le solite polemiche d’agosto...».

Sarà un argomento per il prossimo numero di Media 2000, la sua rivista. Ma domani, intanto, nella sua Bibbiena è giorno di festa.

giovedì 17 agosto 2006

Andavano col treno giù nel Meridione

per fare una grande manifestazione

il ventidue d'ottobre del 'Settantadue

in curva il treno che pareva un balcone

quei balconi con la coperta per la processione

il treno era coperto di bandiere rosse

slogans, cartelli e scritte a mano

da Roma-Ostiense mille e duecento operai

vecchi e giovani e donne

con i bastoni e le bandiere arrotolate

portati tutti a mano sulle spalle

il treno parte e pare un incrociatore

tutti cantano Bandiera Rossa

dopo venti minuti che siamo in cammino

si ferma e non vuole più partire

si parla di una bomba sulla ferrovia

il treno torna alla stazione

tutti corrono coi megafoni in mano

richiamano «andiamo via Cassino

compagni da qui a Reggio è tutto un campo minato

chi vuole si rimetta in cammino»

dopo un'ora quel treno che pareva un balcone

ha ripreso la sua processione

anche a Cassino la linea è saltata

siamo tutti attaccati al finestrino

Roma Ostiense Cisterna Roma Termini Cassino

adesso siamo a Roma Tiburtino

il treno di Bologna è saltato a Piverno

è una notte è una notte d'inferno

i feriti tutti sono ripartiti

caricati sopra un altro treno

funzionari responsabili sindacalisti

sdraiati sulle reti dei bagagli

per scrutare meglio la massicciata

si sono tutti addormentati

dormono dormono profondamente

sopra le bombe non sentono più niente

l'importante adesso e' di essere partiti.

ma i giovani hanno gli occhi spalancati

vanno in giro tutti eccitati

mentre i vecchi sono stremati

dormono dormono profondamente

sopra le bombe non sentono più niente

famiglie intere a tre generazioni

son venute tutte insieme da Torino

vanno dai parenti fanno una dimostrazione

dal treno non è sceso nessuno

la vecchia e la figlia alle rifiniture

il marito alla verniciatura

la figlia della figlia alle tappezzerie

stanno in viaggio ormai da più di venti ore

aspettano seduti sereni e contenti

sopra le bombe non gliene importa niente

aspettano che è tutta una vita

che stanno ad aspettare

per un certificato mattinate intere

anni e anni per due soldi di pensione

erano venti treni più forti del tritolo

guardare quelle facce bastava solo

con la notte le stelle e con la luna

i binari stanno luccicanti

mai guardati con tanta attenzione

e camminato sulle traversine

mai individuata una regione

dai sassi della massicciata

dalle chine di erba sulla vallata

dai buchi che fanno entrare il mare

piano piano a passo d'uomo

pareva che il treno si facesse portare

tirato per le briglie come un cavallo

tirato dal suo padrone

a Napoli la galleria illuminata

bassa e sfasciata con la fermata

il treno che pare un balcone

qualcuno vuol salire attenzione

non fate salire nessuno

può essere una provocazione

si sporgono coi megafoni in mano

e un piede sullo scalino

e gridano gridano quello che hanno in mente

sono comizi la gente sente

ora passa la notte e con la luce

la ferrovia è tutta popolata

contadini e pastori che l'hanno sorvegliata

col gregge sparpagliato

la Calabria ci passa sotto i piedi ci passa

dal tetto di una casa una signora grassa

fa le corna e alza una mano

e un gruppo di bambini

ci guardano passare

e fanno il saluto romano

Ormai siamo a Reggio e la stazione

è tutta nera di gente

domani chiuso tutto in segno di lutto

ha detto Ciccio Franco "a sbarre"

e alla mattina c'era la paura

e il corteo non riusciva a partire

ma gli operai di Reggio sono andati in testa

e il corteo si è mosso improvvisamente

è partito a punta come un grosso serpente

con la testa corazzata

i cartelli schierati lateralmente

l'avevano tutto fasciato

volavano sassi e provocazioni

ma nessuno s'è neppure voltato

gli operai dell'Emilia-Romagna

guardavano con occhi stupiti

i metalmeccanici di Torino e Milano

puntavano in avanti tenendosi per mano

le voci rompevano il silenzio

nelle pause si sentiva il mare

e il silenzio di quelli fermi

che stavano a guardare

e ogni tanto dalle vie laterali

si vedevano i sassi volare

e alla sera Reggio era trasformata

pareva una giornata di mercato

quanti abbracci e quanta commozione

"il Nord è arrivato nel Meridione"

e alla sera Reggio era trasformata

pareva una giornata di mercato

quanti abbracci e quanta commozione

gli operai hanno dato una dimostrazione.


I treni per Reggio Calabria

Giovanna Marini

TRIESTE La storia recente d’Italia è punteggiata da tanti misteri. Uno si chiama Enrico Mattei, fra i maggiori artefici dello sviluppo economico dell’Italia del dopoguerra, padre della nostra politica energetica, esploso nell’ottobre del ’62 con l’aereo privato che lo portava da Catania a Milano, e di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Domani se ne parla a Trieste, all’Auditorium del Museo Revoltella, su iniziativa dell’assessorato alla Cultura del Comune. Alle 11 verrà proiettato il documentario «Processo al silenzio: il mistero della morte di Mattei», di Claus Bredenbrock e Bernard Pfletschinger; alle 16 il film di Francesco Rosi «Il caso Mattei»; alle 18 il dibattito, con gli interventi di Maurizio Cabona, critico cinematografico del «Giornale», e Nico Perrone, docente all’Università di Bari e studioso di Mattei, su cui ha scritto vari libri.

«Enrico Mattei rappresenta un punto alto della storia italiana del dopoguerra - sostiene Perrone -, anzi, lui e De Gasperi sono a mio avviso accomunati dalla capacità di rendere protagonista a livello mondiale un Paese sconfitto, con un sistema economico e industriale a pezzi, ponendo le basi per il suo ingresso in quello che sarebbe stato il G7».

«De Gasperi - argomenta ancora Perrone - ebbe il merito di far rientrare l’Italia sconfitta fra i partner degli Stati Uniti e dell’Occidente, operando scelte anche a lungo termine. La Germania era sconfitta più di noi, ma aveva le forze per riprendersi. L’Italia quelle forze se le inventa. Per esempio con Mattei, con la sua politica nel campo dell’energia. Lui scava in Val Padana cercando il petrolio ma trova il metano, che permette l’industrializzazione del Paese a prezzi ragionevoli, permette di riscaldare le case, di far ripartire le industrie. E poi il petrolio che in Italia non c’era lo trova comunque fuori, rompendo un precedente equilibrio che ci escludeva...».

Ma facciamo un passo indietro. Nell’aprile del ’45 il trentanovenne Enrico Mattei è l’ex capo dei partigiani cattolici cui il Cln affida l’incarico di commissario straordinario dell’Agip. L'Italia è in condizioni talmente disastrate da far pensare a una sua dipendenza economica di lunga durata, forse irreversibile.

Nel giro di quindici anni Mattei mette in piedi l’Eni e la Snam. Ci mette dentro passione, intuito, modernità, idee innovatrici. Lavora per assicurare un'autonomia energetica al Paese, puntando con larghissimo anticipo sul gas naturale come principale fonte di energia e intraprendendo rapporti coraggiosi con i paesi produttori di petrolio. E all’alba degli anni Sessanta l’Italia è ormai diventata una delle maggiori fornitrici mondiali di manufatti e know-how per l'industria petrolifera.

«Sul fatto che Mattei sia stato ammazzato - sottolinea Perrone, che all’epoca dei fatti lavorava nello staff centrale dell’Eni - oggi non esistono più dubbi. L’inchiesta ha trovato tracce di esplosivo nei resti dell’aereo abbattuto. Sull’autore dell’attentato si possono fare soltanto delle ipotesi, tante ipotesi, ma non c’è nessuna certezza. Mattei dava fastidio a molti. Innanzitutto a quelle che allora erano le sette grandi compagnie petrolifere, per il ruolo che era riuscito a ritagliarsi nell’approvvigionamento della materia prima».

Ancora Perrone: «Ma l’uomo aveva un ruolo importante anche nella politica estera italiana. Corrompeva tutti, governo e opposizione, e grazie al denaro aveva voce anche nella politica, fra i partiti. La sua era una corruzione indirizzata sempre a dare all’Italia sconfitta un ruolo, quindi aveva nemici anche nei governi stranieri. E non dimentichiamo che muore nei giorni della crisi di Cuba...».

Torniamo allora alla storia. La sera del 27 ottobre 1962 l’aereo privato partito da Catania e diretto a Milano, dopo un ultimo contatto radiofonico con la torre di controllo di Linate, precipita nella campagna pavese, provocando la morte di Mattei, del pilota e di un giornalista americano. Quella stessa notte la stazione della Cia in Italia compila un dossier, del quale non si seppe mai niente.

Fanfani, che all’epoca era presidente del Consiglio, anni dopo dichiara che «forse l'abbattimento dell'aereo di Mattei è stato il primo gesto terroristico del nostro Paese, il primo atto della piaga che ci perseguita». Il ministro Taviani, riferendosi alla crisi dei missili a Cuba, disse che «la mattina di quel 28 ottobre siamo stati a due ore dalla guerra, se non avesse fortunatamente funzionato il telefono diretto tra Kennedy e Kruscev».

Il ruolo dell’Italia, in quella crisi, poteva essere molto delicato. «E Mattei - dice sempre Perrone - influiva molto sul nostro governo, spingendolo su posizioni neutraliste...». Gioco grosso e rischioso, dunque. Gli Stati Uniti e la Nato non gradivano certe scelte. Qualcuno parlò dell’Oas, l’organizzazione clandestina francese fautrice della presenza coloniale in Algeria. Qualcuno della mafia, infastidita dall'indipendenza di Mattei nel conferire gli appalti per i lavori in Sicilia. Qualcuno delle Sette sorelle, le grandi multinazionali del petrolio. «Ma non ci sono elementi - conclude lo studioso - né tantomeno indizi seri per dire se l’hanno ucciso questi o quelli...». Misteri d’Italia, appunto.