domenica 30 novembre 2003

IVANO FOSSATI ALLA TRIPCOVICH

È un Ivano Fossati nuovo, diverso, inedito, quello visto ieri sera alla Sala Tripcovich, nella tappa triestina del suo tour teatrale. Un Fossati che parla, scherza, ride, si prende addirittura bonariamente in giro. Un Fossati che a mezzanotte, dopo due ore e mezzo di grande musica, all’ennesimo bis lascia tutti a bocca aperta tirando fuori dal cilindro una versione un po’ blues e un po’ jazzata de «Il ragazzo della via Gluck». Roba di Adriano Celentano, roba del ’67, canzone geniale a suo avviso, che nessuno avrebbe mai creduto di sentirgli un giorno cantare dal vivo.
Cose che succedono in questo mondo. Un mondo, ti viene in mente vedendo il cinquantaduenne artista genovese illustrare le caratteristiche di una mandola orientale, nel quale a Oriente non c’è soltanto il presunto nemico dell’Occidente. C’è anche la culla della civiltà da cui discendiamo tutti. Verità cui non sembra pensare più nessuno. Dall’«altipiano barocco d’Oriente, sagrato immenso» arrivano oggi donne e uomini in cerca di un futuro fatto anche di «Pane e coraggio», titolo del brano che ha aperto la serata. Canzone intensa, struggente, figlia di «Italiani d’Argentina», di quando gli emigranti eravamo noi. Canzone popolata di anime salve, immigrati dagli occhi neri, che «ci vuole coraggio a trascinare le nostre suole da una terra che ci odia a un’altra che non ci vuole».
Man mano che prosegue la serata, al posto del solito Fossati, intellettuale impegnato (quasi) a tutti i costi, a volte difficile da seguire, si scopre un artista nuovo. Che non rinuncia all’impegno da poeta civile, ma sembra aver per la prima volta dopo tanto tempo recuperato una certa qual leggerezza, una nuova semplicità, quasi una gioia di vivere. Non sta per tutta la sera nascosto dietro al pianoforte, parla con il pubblico, ricorda episodi del passato più o meno lontano, la sua infanzia, l’amore per i burattini. Si prende insomma anche la libertà di sorridere. E lo fa all’interno di uno spettacolo acustico, rinunciando quasi interamente alla tecnologia: strumenti veri, lui e la sua maiuscola band (col figlio Claudio alla batteria), come se fossero in una bottega artigiana ricca di idee, circondati da oggetti quotidiani che si trasformano in macchine sonore. Ecco allora - in una scenografia assolutamente teatrale, con quattro enormi abat-jour di tulle - una ruota di bicicletta che «suona» come si faceva da ragazzini infilando un cartoncino fra i raggi, ecco i bicchieri di cristallo da suonare con le bacchette, ecco una vecchia radio a valvole che gracchia.
Dopo «Pane e coraggio», che sta nell’ultimo «Lampo viaggiatore», un salto indietro di oltre dieci anni, per ripescare da «Lindbergh» un brano come «La barca di legno e di rosa». E poi subito l’omaggio a De Andrè, con «Smisurata preghiera», e quello a Chico Buarque de Hollanda (e alla saudade sudamericana cui il nostro è sempre stato sensibile), con «Oh che sarà».
Il viaggio nella memoria, in bilico fra tempo perduto e presente, sceglie poi i toni minimalisti di «C’è tempo» (dal nuovo disco), le suggestioni di «L’uomo coi capelli da ragazzo», i ricordi bambini di «La casa», la magia di «Una notte in Italia», l’allegria contagiosa di «Buontempo». Geografia dell’anima, percorsa con sguardo emozionato e attento alle ragioni del cuore e della mente.
Secondo tempo. Subito gli afrori forti de «La pianta del tè», e poi un gioiello sentimentale come «Il bacio sulla bocca» («la mia unica canzone d’amore a lieto fine...»), e ancora la raffinata semplicità di «Cartolina». Prima del crescendo finale che veste gli abiti sgargianti di «Discanto», di «Mio fratello che guardi il mondo» («e il mondo non somiglia a te...»), di «Terra dove andare».
I bis, stavolta, non sono una formalità. E fra i bis, aperti da «I treni a vapore», arriva la citata sorpresa del «Ragazzo della via Gluck». E ancora «La musica che gira attorno». Con Fossati che imbraccia ridendo la chitarra. Roba da non credere. A chiusura di un concerto assolutamente trionfale.

venerdì 28 novembre 2003

...fini è arrivato alpunto di sostenere di essere antifascista. è il colmo, è come se d'alema dicesse di essere anticomunista. cosa? l'ha già detto?
(jena - il manifesto)
...quando uomini piccoli fanno ombre lunghe, siamo già al tramonto...
(antico detto cinese)

sabato 22 novembre 2003

DISCHI DE GREGORI E LIGABUE

Francesco De Gregori e Luciano Ligabue hanno scelto lo stesso giorno, oggi,
per far uscire i propri nuovi dischi. S’intitolano rispettivamente «Mix» e
«Giro d’Italia». In entrambi i casi si tratta - oltre che di cd doppi - di
materiale quasi interamente già noto, riproposto dal vivo o in nuove
versioni. A dimostrazione del fatto che, quando si hanno alle spalle
carriere ormai lunghe (trenta e più anni per il cantautore romano, quindici
per il rocker emiliano), il fatto di rimettere le mani nella produzione
passata, e tirarne fuori nuove proposte discografiche, diventa un’attività
importante quasi quanto quella di dedicarsi alle nuove composizioni. Si
entra insomma nella categoria dei classici, che vengono riletti, magari
vestendoli di nuovi abiti musicali. Anche a beneficio delle nuove
generazioni, che non avevano fatto in tempo a conoscerli al tempo delle
pubblicazioni originali.
De Gregori propone trentuno canzoni per due ore e mezzo di musica, aperte da
un’originalissima (e «sporchissima»...) versione blues di «A chi», classico
di Fausto Leali negli anni Sessanta, che a sua volta era una cover di
«Hurt». Poi si alternano capolavori di ieri («Alice», «Rimmel», «Generale»,
«Bufalo Bill», «La donna cannone»...) e di oggi («Il cuoco di Salò»), la
friulana «Stelutis Alpinis», le due cover dylaniane «Non dirle che non è
così» e «Come il giorno» (che «traducono» rispettivamente «If you see her
say hallo» e «I shall be released»), ma anche l’inedito «Ti leggo nel
pensiero», che chiude la doppia raccolta.
L’unico criterio di compilazione del disco sembra essere quello di... non
aver nessun criterio: i brani sono frammenti di vita musicale mescolati,
«curve della memoria» fotografate dal vivo o in studio, senza pretese di
organicità o di raccontare una storia. Ma avendo l’artista in questione
scritto negli anni molte belle canzoni, il disco (di cui esiste anche una
versione dvd, intitolata «Mix Film») si fa ascoltare e apprezzare.
Discorso diverso e al tempo stesso analogo per Ligabue. Il nuovo album
ripropone i momenti migliori del particolarissimo tour dell’inverno scorso,
passato un anno fa anche da Trieste: in ogni città il rocker di Correggio
suonava la prima sera in teatro, in versione acustica, affiancato fra gli
altri da Mauro Pagani, anche proponendo brani meno noti al grande pubblico,
e la seconda sera al palasport, in versione elettrica che più elettrica non
si può, chitarre a tracolla e «greatest hits» a disposizione di un pubblico
impaziente di cantare in coro.
Sotto quindi con «Piccola stella senza cielo» e «Sogni di rock’n’roll»,
«Questa è la mia vita» e «Una vita da mediano», «Eri bellissima» e «Tra
palco e realtà», «Tutti vogliono viaggiare in prima» e «Ho messo via»...
Insomma, ballate da fiammelle accese e rock tiratissimi: le cose migliori di
un artista che in pochi anni, quando ha debuttato, è stato capace di
diventare una delle pochissime rockstar italiane. Oltre al cd doppio, esiste
una versione limitata e numerata con un terzo cd, con altri brani e
interventi parlati del Liga.

RENZO MAGGIORE AL CET DI MOGOL

Uno dei (tanti) dubbi che pesano sul prossimo Festival di Sanremo
riguarda il ruolo di Mogol e del suo Cet. Al Centro Europeo di Toscolano, in
Umbria, dovrebbero infatti essere scelti, dopo una prima scrematura, i
dodici o più cantanti, giovani e big assieme, che gareggeranno sul palco
dell’Ariston.
Ma che cos’è il Cet? Chi lo ha visitato riferisce che si tratta di un
confortevole complesso residenziale che Giulio Rapetti, in arte Mogol, ha
messo su una decina d’anni fa ad Avigliano Umbro, nelle campagne vicino
Terni. L’obbiettivo: farne un centro di lavoro sulla cultura e la musica
popolare, che in questi anni ha già diplomato un migliaio di allievi.
Il triestino Renzo Maggiore, in arte Joel, 31 anni, professionista nel campo
della comunicazione ma anche autore di canzoni, poesie (è in uscita la sua
prima raccolta, «Aurora spirituale») e fiabe, è da poco tornato dalla sua
seconda esperienza nello spazio di pochi mesi al Cet. «Ho scritto un
centinaio di testi - spiega Maggiore - ma mi rendevo conto che mi mancava
qualcosa. Allora sono andato alla scuola di Mogol. Lì si parte dalla musica
e dalla musica si traggono le parole, rispettando la metrica. Musica e
poesia in fondo sono sorelle gemelle: entrambe nascono dalla vibrazione
dell'anima, sono legate a un ritmo e, per essere veramente forme d'arte,
devono esplodere da un'emozione, dar voce e note a un sentimento sincero».
Ma torniamo a Mogol. «Lui dice: siamo qui per farvi diventare numeri uno. E
insegna ai suoi allievi (autori, ma anche interpreti, compositori,
arrangiatori...) a non proporre aria fritta per non creare ulteriore
confusione in un mondo che ne è già travolto. Lui punta sul racconto di
fatti veri, sulla trasmissione di emozioni autentiche, sul principio base
della comunicazione: la credibilità. Troppo spesso i giovani tendono a
imitare i big invece di proporre se stessi: pur se bravissimi tecnicamente,
non ottengono il successo perché finiscono per essere dei cloni».
«Al Cet - prosegue Maggiore - nessuno ti lusinga: la schiettezza è regola,
pane al pane e vino al vino. Lì si fa un lavoro di introspezione, oltre che
di preparazione tecnica. In particolare, gli autori lavorano sulla metrica
(il numero di sillabe e accenti che si ricavano dalla melodia) che secondo
lui è ”la rotaia su cui viaggia il treno”, al fine di automatizzarla e
trasformarla da limite tecnico a occasione di spunto creativo. Viene
richiesto molto allenamento su brani editi e inediti, l'unico modo per
interiorizzare il metro fino a eliminare vincoli mentali».
«I docenti - conclude - sono chiamati a un lavoro in fondo psicologico: il
messaggio principale è ”siate originali”. Nel corso delle lezioni sono state
frequenti le citazioni di filosofi come Schopenauer e scrittori come Rilke:
un approfondimento culturale a sostegno della convinzione che occorre
guardare in profondità dentro di sé per poter esprimere se stessi».
Ma un drappello di (aspiranti) cantanti sanremesi saranno disposti a
immergersi in questo «mondo ideale» per essere ammessi alla kermesse
festivaliera?

domenica 16 novembre 2003

...beato il paese che non ha bisogno di eroi... (bertoltbrecht)
...in un mondo che è in mano a chi non sa, o finge di non sapere, che guerra chiama guerra, morte chiama morte, violenza chiama violenza...
...se laggiù, sottoterra, invece del petrolio, ci fossero patate o barbabietole, forse bush non direbbe a Ciampi che gli americani lasceranno l'Iraq soltanto "a lavoro completato"... (enzobiagi)

mercoledì 12 novembre 2003

...hey mister bush, hey berlusca, how do you sleep tonight...?
...ragazzi mandati a morire, da chi pensa ancora - nel 2003 - di poter risolvere con le guerre i complessi problemi di un mondo sempre più complesso...

SANREMO

Sanremo, la montagna ha partorito ancora una volta il topolino. Come sempre più spesso accade. La Rai e Tony Renis (amico o non amico di mafiosi a ’sto punto poco importa: in questo contesto conta molto di più il particolare che è vecchio amico e compagno di merende di Berlusconi...) dicono di voler rilanciare il Festival ma si apprestano a fare le classiche nozze con i classicissimi fichi secchi.
Senza la Fimi, che raccoglie le case discografiche più importanti e di fatto gran parte dei cantanti più amati dal pubblico. Con la gara unica fra cosiddetti big e sedicenti giovani (come quella volta, nell’83, che finì per vincere Tiziana Rivale; seconda tale Donatella Milani...). E con il rischiosissimo voto telefonico, che si presta - organizzalo come vuoi, con tutti i paletti che vuoi - a evidenti manipolazioni da parte dei diretti interessati, con codazzo di case discografiche, agenzie, giù giù fino ad amici e parenti... Quasi a mo’ di ciliegina sulla torta, il Dopofestival trasformato nell’ennesimo «Porta a Porta» con l’onnipresente cardinal Bruno Vespa.
Mogol ha accettato di rappresentare la foglia di fico di un tal guazzabuglio, forse - dicono i maligni - per la sua storica vicinanza al centrodestra. Ma rischia di ritrovarsi con una macchia sulla sua onoratissima carriera di grande autore.
Il più astuto Bonolis, forte dei successi di ascolto del suo recente ritorno alla Rai, ha invece annusato per tempo l’aria e si è tirato indietro. Lasciando Rai e organizzatori con la gatta da pelare non da poco di trovarsi alla svelta un altro conduttore credibile.
Ora prepariamoci al solito, estenuante rito delle conferenze stampa di presentazione. Dei cantanti, del conduttore, delle vallette-che-non-si-possono-chiamare-vallette, degli ospiti... Tutto per tentare disperatamente di attirare interesse su un Festival che nasce morto, al di là dei proclami e delle altisonanti dichiarazioni d’intenti. L’inevitabile e ulteriore crollo degli ascolti, unito alla confermata incapacità di incidere sulle vendite dei dischi, ne saranno la desolante riprova.

martedì 11 novembre 2003

LIBRO GUCCINI

Parla un po’ anche di Trieste, del Carso, di Banne e ovviamente del «tram de
Opcina», il nuovo libro di Francesco Guccini. «Cittanòva Blues» (Mondadori,
pagg. 217, euro 15) conclude l’ideale trilogia, lo zibaldone autobiografico
avviato nell’89 con «Cròniche epifaniche» e proseguito nel ’93 con «Vacca
d’un cane». Sì, perchè il lungagnone di Pàvana, appennino tosco-emiliano (ma
lui è nato a Modena, nel 1940), cantautore e da qualche tempo narratore fra
i più amati dal pubblico, quarant’anni fa o giù di lì fece il militare
proprio in una caserma a Banne, sul Carso triestino, a un tiro di schioppo
da Opicina.
E quell’«eskimo innocente dettato solo dalla povertà», cantato in una delle
sue canzoni più applaudite ai concerti, poi sostituito da «un ricco e
imbottito McGregor di velluto a coste», l’aveva comprato proprio a Trieste,
subito dopo il servizio militare, quando il suddetto capo d’abbigliamento
«non aveva ancora quel significato simbolico che avrebbe avuto in seguito».
«A Trieste - aveva raccontato una volta Guccini - facevo il fighetto. Un
signore, altro che. Novantamila lire al mese più altre cinquemila di
frontiera orientale, quindi zona disagiata. In realtà, la zona non era
disagiata per niente. La città era bella, d’inverno tirava la bora ma con la
bella stagione si andava anche al mare. Allora Trieste aveva due caserme in
città, una su in altopiano a Poggioreale del Carso e un’altra ancora a
Banne, molto lontana. Quando ci assegnarono le sedi, pregai di essere
mandato in città o quantomeno di evitare Banne e bestemmiai a lungo quando
mi dissero che, naturalmente, era lì che sarei finito».
Ancora Guccini: «In realtà, già pochi giorni dopo il mio arrivo mi resi
conto che non solo non era una sventura, anzi, mi era andata di lusso. Il
nostro comandante di battaglione, il maggiore Giacchini di Pesaro, non amava
che i suoi soldati girassero per la città in divisa, così quasi ci
costringeva, per la nostra gioia, a uscire in borghese. Solo le ragazze più
belle per i miei ragazzi, diceva. Era un patito delle bisbocce e quindi
organizzava lui stesso spettacolari cene cosiddette ”di calotta”,
associazione nominale che unisce gli ufficiali cosiddetti inferiori -
sottotenenti, tenenti e capitani - di uno stesso gruppo. Erano balle a non
finire, balle nel senso di ubriacature, con il maggiore in testa a dare
l’esempio».
Se «Cròniche epifaniche» raccontava l’infanzia pavanese e «Vacca d’un cane»
l’adolescenza nella Modena degli anni Cinquanta, ora siamo nella Bologna
vivace e curiosa e un po’ alcolica dei Sessanta. Anzi, per l’esattezza,
dalla fine degli anni Cinquanta ai primissimi Settanta. I ragazzi e le
ragazze di allora, i loro luoghi, le passioni, i sogni. Ecco la prima
Cinquecento, le immancabili osterie, la mitica chitarra Carmelo Catania, i
primi complessi (che non si chiamavano ancora gruppi e tantomeno band...),
il sesso assai parlato e pochissimo praticato. Sullo sfondo, i primi vagiti
della contestazione. Dietro l’angolo, sempre, l’eterno sogno americano. E
poi la naia, a Lecce, a Roma e infine a Trieste. E poi ancora, al ritorno,
la ripresa degli studi universitari. E le canzoni.
Quasi un romanzo di formazione, insomma, in una prosa caratterizzata e in
qualche modo impreziosita da gerghi dialettali e preziosismi letterari. Il
gergo di Guccini, che sa imprimere anche alle pagine un ritmo quasi
musicale. Per cantare in prosa la sua città e l’epoca dei suoi vent’anni
(«perché a vent'anni è tutto ancora intero, perché a vent'anni è tutto chi
lo sa, a vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a
quell’età...»: «Eskimo», appunto). Per cantare la provincia italiana degli
anni Sessanta, diversa ma simile sotto ogni latitudine.
I primi due capitoli della trilogia erano usciti per Feltrinelli. Ora il
passaggio a Mondadori. Dopo un decennio di «pausa autobiografica», occupato
dalla collaborazione con il giallista Loriano Macchiavelli, foriera del
libro «Macaroni» (uscito nel ’97) e di altri tre titoli.
«Cittanòva Blues» (in coda c’è anche un utile glossarietto, eredità di
un’altra pubblicazione del nostro: il Dizionario del dialetto di Pàvana,
curato e pubblicato nel ’98) conclude la trilogia dei ricordi. Dopo la
quale, ha detto Guccini in un’intervista, «ho pronte cinque canzoni per un
nuovo album, ma so che non bastano. Sto anche pensando a una specie di saga
familiare sulla storia d’Italia: dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni
nostri».
«Poi vorrei parlare di mondi lontani, luoghi visitati come turista per caso.
Ho già pronti tre racconti, ambientati rispettivamente in Argentina, Brasile
e Sicilia. E ne ho in mente uno sulle isole Mauritius. Dovrò trovare una
lingua unica, uno stile in grado di omologare realtà così diverse...».
Insomma, sempre più scrittore, sempre meno cantautore.
Ma torniamo ancora per un attimo al soldato Guccini nella caserma di Banne.
«Io ero inoltre coccolato da tutti - aveva raccontato il cantautore - perchè
sapevo suonare uno strumento. E quando arriva una chitarra in caserma, tutti
fanno festa. Il maggiore Giacchini divenne il mio primo fan. Alle cene di
calotta, quando era oramai prossimo a crollare riverso sul tavolo, si
rivolgeva a me ad alta voce: Guccini, una bottiglia di cognac per il tuo
tavolo se ti ricordi questa canzone. Io magari non la sapevo, ma al mio
tavolo per una bottiglia di cognac l’avrebbero anche scritta lì sul momento,
la canzone...».
...se fossimo un paese normale, alle elezioni politiche il centrosinistra presenterebbe candidato premier Veltroni (alleato a sinistra con Bertinotti) e il centrodestra presenterebbe Casini (alleato a destra con Fini). Ma noi non siamo un paese normale, baby...

domenica 9 novembre 2003

...si possono ingannare tante persone per poco tempo, oppure poche persone per tanto tempo, ma è impossibile ingannare tante persone per tanto tempo: chissà se berlusconi lo sa...

venerdì 7 novembre 2003

DISCO TIZIANO FERRO

Il nuovo Ramazzotti ha ventitré anni, è nato a Latina, da bambino era un
grassone. La nuova grande realtà del pop italiano da esportazione, dopo
Eros, la Pausini e Nek, è insomma Tiziano Ferro. Di lui si sa che è amato da
giovani e giovanissimi. E che a sedici anni, dopo studi di chitarra
classica, batteria e pianoforte, entra nel coro gospel della sua città. A
diciotto (dopo aver mancato l’obiettivo l’anno precedente) è fra i finalisti
dell’Accademia della Canzone di Sanremo. Lì viene notato dai produttori
Alberto Salerno e Mara Majonchi, che cominciano a lavorare su di lui. Nel
luglio 2001 esce il primo singolo, «Xdono», ed è il botto: prima in Italia,
poi in Europa, poi in mezzo mondo. Tanto che nella classifica dei singoli
più venduti in Europa nel 2002 (senza i numeri dell’Italia e
dell’Inghilterra, dove il cd singolo - rispettivamente - è uscito l’anno
precedente e non è stato pubblicato) ottiene un clamoroso terzo posto,
dietro Eminem e Shakira. Nell'ottobre 2001 esce l'album d'esordio, «Rosso
relativo», che in Italia resta fra i dieci più venduti per oltre sette mesi
e viene pubblicato in quarantadue paesi. Scalando le classifiche in
Svizzera, Spagna, Germania, Francia, Olanda, Belgio, Turchia... Intanto, i
singoli «Imbranato» e «Rosso relativo» contribuiscono alla consacrazione del
cantante, popolarissimo in Italia (premio al Festivalbar) e all’estero: i
singoli vengono registrati in spagnolo, francese e portoghese («Xdono» anche
in inglese), l'album in spagnolo esce negli Stati Uniti e in Sudamerica,
«Imbranato» è numero uno in Brasile e numero tre in Argentina, «Xdono» è
terzo in Messico, dove l’album è fra i dieci più venduti. Dopo i tour in
Centro e Sud America, arriva anche il maggior riconoscimento: Tiziano è in
lizza - unico italiano - per i Latin Grammy 2003 di Miami come «miglior
esordiente». Ora, fra due giorni, anticipato dal singolo «Xverso», esce il
secondo album. S’intitola «111 Centoundici». Un mix di vocalità italiana e
ritmi neri. Atteso in Italia, Europa e America.

RENATO ZERO

Sabato lo rivedremo da Giorgio Panariello, su Raiuno. A presentare il nuovo
disco «Cattura» ma anche a perpetuare il gioco, che piace tanto alle folle
mediatiche, dell’imitato che s’incontra con l’imitatore. Gioco che funziona
alla meraviglia quando Teo Teocoli diventa Cesare Maldini, quando Maurizio
Crozza si trasforma in Josè Altafini (o in Marzullo, o in Cannavò...),
quando Sabrina e Corrado Guzzanti dardeggiano i loro tanti bersagli. E
quando Panariello, appunto, fa Renato Zero quasi meglio dell’originale.
Anche questo, in fondo, è un segnale della «normalizzazione» di Renato
Fiacchini in arte Zero. Partito come un David Bowie «de noantri», arrivato
nell’immaginario collettivo alla stregua di un Claudio Villa rivisto e
corretto da qualche decennio di cultura pop. Classe 1950, «romano de Roma»,
comincia a cantare da bambino. Nel ’66 al Piper, in pieno beat italiano,
viene notato dal coreografo Don Lurio che lo porta in tv (assieme a Loredana
Bertè), nel gruppo di ballo di Rita Pavone «Collettoni e Collettine».
Seguono i programmi di Arbore e Boncompagni, le comparsate nei Caroselli
televisivi, i primi dischi («Non basta mai» è del ’69), la particina nel
«Satyricon» di Fellini (’70), l'edizione italiana del musical «Hair», la
rock-opera di Tito Schipa jr. «Orfeo 9». Il primo album come cantautore, «No
mamma no», è del ’73. E la «maschera Renato Zero» diventa protagonista della
canzone italiana. Cipria, cerone, mascara, travestimenti e imbellettamenti
vari servono all’artista per comunicare già con l’immagine, prim’ancora che
con parole e musica. Per parlare a schiere di «sorcini» di disagio, di
emarginazione, di omosessualità, di droga, di tabù vecchi e nuovi.
Una volta, tanti anni fa, della sua maschera disse: «Non è assolutamente un
fatto scenico. Ora sono completamente senza trucco, ma nulla vieta che tra
un po' vada a casa e mi trucchi per poi andare a prendere un gelato. Mi si
può dire che è puro infantilismo, io rispondo che è una dimensione di vita
tutt'altro che lontana dalla realtà. Fuga? Mai. Schizofrenia? Neanche.
Ridicolizzare le frustrazioni e le paranoie: questo sì».
Chissà se lo pensa ancora, il normalizzato signore cinquantatreenne Renato
Fiacchini in arte Zero. Di cui ultimamente si è parlato, più che per la
musica, per tre fatti. Aver adottato legalmente un giovanottone trentenne di
nome Roberto Anselmi. Esser stato coinvolto (con ogni probabilità senza
colpa) in una denuncia per maltrattamenti da un suo ex domestico cingalese.
E ovviamente per l’azzeccatissima imitazione che ne regala Panariello.