martedì 31 maggio 2005

«Mi diverto molto a prendermi in giro, a denudarmi davanti a tutti e a confessare le mie debolezze e i miei errori. Trovo una solidarietà che mi entusiasma e mi consola. Siamo esseri inutili e imperfetti, travestiti da saggi e arroganti artefici del nostro destino. Ci raccontiamo balle tutto il giorno...».

Parole di Vasco Rossi. Scritte nell’introduzione al libro-dvd «Le mie canzoni», pubblicato da Mondadori, uscito due settimane fa e subito schizzato ai vertici delle classifiche dei libri più venduti. Davanti a Coelho, a Dan Brown, a Camilleri, a Piperno: campioni vecchi e nuovi, italiani e stranieri, di un mercato editoriale che muove numeri nemmeno lontanamente paragonabili a quelli che mette in circolo il Vasco nazionale.

Un libro di canzoni «da sfogliare come un romanzo della sua vita», si legge nella presentazione. I testi di centotrentadue canzoni, da «Jenny è pazza» a «Un senso», in ordine cronologico, dal ’78 a oggi. Alcune delle quali precedute da commenti autobiografici che aprono squarci inediti sul Vasco che conosciamo, o crediamo di conoscere.

«Ricordo la domenica a Zocca. Era il dì della festa. Si cominciava con la messa mattutina, alla quale non assistevo ormai più da tempo, e poi si andava al bar in piazza. E ancora in giro fino a sera, quando si finiva nell’unica discoteca. Che apriva solo di domenica (non il sabato!) per antica tradizione. E il giorno dopo a scuola con il mal di testa...».

Anni Settanta, nel paese natale, appennino tosco emiliano, metà strada fra Modena e Bologna. Il ragionier Vasco Rossi vuole iscriversi a psicologia, ma a Bologna la facoltà non c’è, e lui ripiega su economia e commercio. Per i primi due anni frequenta e fa pure tutti gli esami. Seguendo la raccomandazione del padre camionista, «per non perdere il presalario». Poi passa a pedagogia, dove arriva a una manciata di esami dalla laurea.

Nel frattempo sale su quello che lui chiama «il treno della musica». Fa il disc-jockey a Zocca in una delle prime radio private, a Modena in alcune discoteche. A Bologna entra nel giro dei cantautori. Arrivano i primi spettacoli dal vivo, le prime canzoni, il primo 45 giri...

«Conobbi Alan Taylor grazie a Gaetano Curreri. Che riconobbe in lui il personaggio giusto per farci fare il salto da Bologna a Milano, capitale della musica. Per me era un salto epocale: il mio primo 45 giri, ”Jenny/Silvia”, lo avevo inciso con la Borgatti Records, un’etichetta di Bologna che si occupava prevalentemente di liscio, grazie ai buoni uffici di Stefano Scandolara. Per questo gli regalai la metà dei diritti d’autore: gli feci firmare la Siae, come si dice in gergo. Ma le canzoni ”Jenny” e ”Silvia” sono tutte e due mie...».

Ancora Vasco: «Alan ci portò a Milano, alla Saar, una rinomatissima e importante casa discografica nazionale. Lui era un chitarrista inglese, era arrivato in Italia con un gruppo che aveva avuto un momentaneo successo. Possedeva una Martin, la chitarra acustica per eccellenza, la più bella del mondo, quella che aveva un suono straordinario e che, per noi amanti dello strumento, rappresentava il sogno. Ma costava molto e io non potevo certo permettermela. In cambio di quel prezioso strumento gli offrii il cinquanta per cento dei diritti d’autore di tutte le canzoni del mio nascente album ”Ma cosa vuoi che sia una canzone”, e lui... me la diede! Ecco perchè appare alla Siae come coautore. E sono ancora convinto di aver fatto un buon affare...».

Quel primo album esce nel ’78, ma non se lo fila quasi nessuno. Stessa sorte per «Non siamo mica gli americani», che vende poco nonostante la presenza di una perla assoluta come «Albachiara», spiegata così dal suo autore: «Dalla finestra di casa mia, durante le lunghe e noiose ore di studio, vedevo una ragazzina scendere dalla corriera e... ”coi libri di scuola” avviarsi verso casa».

Con «Colpa d’Alfredo», uscito nell’80, e subito dopo con «Siamo solo noi», le cose cominciano a cambiare. Anche se il botto arriva con Sanremo. Nell’82 «Vado al massimo». Nell’83 «Vita spericolata». Ultime in classifica, ma ormai, fra polemiche e legioni di fan, Vasco è ormai personaggio da prima pagina. Nasce la leggenda - suffragata da ottime basi nella realtà - del «rocker dalla vita spericolata». Anticonformismo, ribellione, trasgressione, droga, anche il carcere... Gli ingredienti per entrare nel mito ci sono tutti. E infatti il signor Rossi ci entra. Per non uscirci più.

«Trattato agli inizi - scrive Ranieri Polese nella prefazione al libro - come un provinciale naif, senza letture, in realtà Vasco èl’autore italiano che più si interroga sul come scrivere le canzoni, quale linguaggio usare, quali parole. Un lavoro costante che lo accompagna lungo tutto il suo canzoniere. E che lui racconta in molte canzoni, volutamente alternando una assoluta sincerità con le immagini dell’ispirazione che, se non la fissi subito, rischia di sparire...».
Vasco Rossi è già a Grado da lunedì sera. Prove e un po’ di relax, in attesa di venerdì. Quando nel pomeriggio, alle 15, al Palacongressi, si terrà il raduno del fanclub «Il Blasco». Mentre la sera, con inizio alle 21, al campo sportivo dell’Isola della Schiusa, andrà in scena il concerto. Anzi l’anteprima, anzi la cosiddetta «tappa zero» del «Buoni o Cattivi Tour 2005», che comincia il 7 giugno a Torino, allo Stadio delle Alpi, e si conclude il 9 luglio a Udine, allo Stadio Friuli. Un tour che è la ripresa di quello trionfale dell’anno scorso - un milione di presenze, una sfilza di diciassette stadi tutti esauriti - che ha fatto tappa anche a Trieste, l’11 settembre, allo Stadio Rocco.

Un tour che prende il nome da un album da record: basti pensare che a più di un anno dalla pubblicazione è ancora fra i venti più venduti, sessanta settimane di classifica ininterrotte, oltre ottocentomila copie vendute che alla fine dell’estate - proprio sull’onda della tournèe - potrebbero diventare un milione tondo.

Il 2005, per il Vasco nazionale, è l’ennesimo anno un po’ speciale. Che ha portato l’altro giorno il Corriere della Sera a proporre una «fenomenologia di Vasco Rossi», un po’ sulla falsariga di quella che quarant’anni prima era stata la «fenomenologia di Mike Bongiorno» firmata da un giovane Umberto Eco. A marzo il rocker è tornato come superospite in quel Festival di Sanremo che lo aveva di fatto lanciato, in teoria «per restituire il microfono preso ventitrè anni prima...», in pratica per ricevere l’ennesima consacrazione, stavolta anche da una platea - diciamo così... - nazionalpopolare. A maggio prima la laurea honoris causa in Scienze della comunicazione, a Milano, poi la pubblicazione del libro di cui riferiamo qui sotto.

Ora la ripresa del tour, con un’altra lista annunciata di stadi tutti esauriti. E poi c’è in arrivo un altro dvd (oltre a quello «live» allegato al libro), intitolato «È solo un rock'n roll show»: è la favola lunga un’ora - punteggiata dai videoclip dell’ultimo disco - di una ragazza, Andrea, dei suoi sogni e delle sue peripezie per arrivare a un concerto del suo mito. Il Blasco, naturalmente. Che aveva in testa questa idea e l’ha messa giù con la collaborazione alla sceneggiatura di Carlo Lucarelli e la regia di Stefano Salvati.

La band è la stessa vista a Trieste: Claudio Golinelli al basso, Mike Bairds alla batteria, Stef Burns e Maurizio Solieri alla chitarra, Riccardo Mori alla chitarra acustica, Alberto Rocchetti alle tastiere, Andrea Innesto al sax, Frank Nemola alla tromba, Clara Moroni ai cori. <IP9>Anche la scaletta del concerto è quella dell’anno scorso, ritoccata per lasciar posto ad alcune «sorprese».

«La scaletta - aveva detto Vasco Rossi al ”Piccolo” prima del concerto triestino del settembre scorso - deve avere un suo equilibrio perfetto; è sempre una sfida affiancare nuove canzoni a quelle vecchie e cercare di farle stare bene assieme. Credo che nello spettacolo la scaletta crei una bella onda emotiva in cui ogni canzone, vecchia o nuova che sia, valorizza quella successiva. <IP9>Le emozioni crescono, si condividono, si propagano e tutto questo dà la carica a noi che stiamo sul palco...».

Sì, perchè Vasco Rossi «è quello che sta sul palco, la rockstar, quello che i fan seguono di concerto in concerto un po’ come la madonna che appare. Oggi - confessa il rocker - lui è molto più grande di me, tanto che per strada ho sempre paura che mi dicano: no, non sei tu Vasco, tu hai l’aria di uno sfigato, lui no. Vasco non si annoia mai, io sì, invece. Perchè alla fine ho scoperto che la vita non è quella dei film, senza tempi morti, che non si fa mai tardi. Insomma, che l’età delle illusioni è finita...».

Anche se... «Io cambio sempre ma in fondo sono rimasto lo stesso: provocatorio, soprattutto nei confronti delle coscienze addormentate. Sono uno che smaschera le ipocrisie, un provocatore, ma non un profeta, né un eroe. Piuttosto una persona piena di dubbi. Io non dò risposte, faccio solo domande. E non sono neanche un cattivo maestro. Cattivo forse, ma sicuramente non un maestro. Non so perchè mi affibbiano questa definizione. Io non sono un esempio, casomai la voce di chi non ha voce...».

Altri elementi per la «fenomenologia vaschiana»: «Io sono sempre insoddisfatto, è una cosa innata, una sfida continua con me stesso. Il che non vuol dire che non mi senta sicuro di quel che faccio. Ho sempre dei momenti di sconforto, non solo dovuti alla realizzazione di un disco, o alla capacità di farlo, ma proprio nella vita. La mia vita è complicata, ho una vita artistica da una parte, poi una familiare con Laura e mio figlio Luca a cui tengo moltissimo, e spesso non è difficile conciliarle. Ma io credo nelle promesse, se faccio una promessa devo mantenerla, su entrambi i fronti. È una questione di orgoglio. Se ci credi, alla fine, le cose riesci a farle...».

Conclusione: «Io sto sempre dalla parte degli ultimi, dei più deboli, dalla parte di quelli che non ce la fanno. In Italia c’è gente che conduce una vita terribile. Per loro la musica può fare qualcosa, è una via d’uscita, una possibilità di scaricare i nervi. Di più: un’alternativa alla violenza, alla guerra che ci circonda, un codice di civiltà».

sabato 21 maggio 2005

Inverno 1925. Nel villaggio Nome, sul mare di Bering, in Alaska, un’epidemia di difterite rischia di non lasciare superstiti. Una staffetta di venti corrieri postali con slitte e cani parte da Nenana, l’ultimo luogo raggiungibile in treno, e dopo cinque giorni e mille chilometri di viaggio porta il vaccino a destinazione, salvando la comunità di Nome. L’ultima muta di cani (in tutto centosessanta) protagonisti dell’impresa era guidata da Balto, un umile sanguemisto poi immortalato da una statua al Central Park, a New York. E celebrato dall’omonimo cartone animato di Steven Spielberg.

Poco meno di ottant’anni dopo, quell’impresa è stata ripetuta, da un «musher» (il conducente di slitte trainate da cani) di nome Ararad Khatchikian. Che ora racconta la sua incredibile avventura nel libro «Sulle orme di Balto - 1200 chilometri in Alaska - Da Tarvisio a Nome sul Mare di Bering» (Rai Eri, pagg. 112, euro 14, cd musicale allegato). Una sorta di diario del viaggio fra Nenana e Nome, alla guida di una muta di dodici cani.

Ma facciamo un passo indietro, per conoscere il protagonista di questa avventura. Nella Gorizia degli anni Settanta, Ararad era un ragazzone biondo che si portava sempre appresso la chitarra. Gestiva un negozietto di dischi, ritrovo e punto di riferimento per gli appassionati locali di musica inglese e americana. Quasi un segno distintivo, la passione per rock e pop, assieme a quel cognome impronunciabile ed esotico. Retaggio delle sue origini: nato in Sudan (a Khartoum, nel deserto del Sahara), da padre armeno e madre italiana.

Ararad - che in lingua armena significa: dove nasce il sole - aveva all’epoca anche un gruppo, i Fairfield, con cui incise un album oggi quasi introvabile. Se l’era praticamente autoprodotto, andandoselo a incidere fino a Copenhagen. E lo vendeva, oltre che nel suo negozio, anche in occasione dei tanti spettacoli che teneva in giro per la regione.

Nell’84, in un viaggio in Alaska al seguito del fratello Armèn, che concorreva alla Iditarod, una gara di quasi duemila chilometri con slitte trainate da cani, Ararad scopre un mondo nuovo («il richiamo della foresta...», come dice lui) e quella che di lì a poco diventerà l’altra grande passione - oltre alla musica - della sua vita. Si lascia affascinare dalle culture indiane ed eschimesi, forse rimette in discussione il senso stesso della vita occidentale come l’aveva intesa fino a quel momento.

Passa un anno, siamo nel dicembre dell’85, e la famiglia Khatchikian (oltre ad Ararad e Armèn c’è anche la sorella Arminè) fonda a Ponte di Legno la prima scuola italiana di Sleddog/Mushing, lo sport delle slitte trainate da cani. Dal ’92, con la moglie Monica e i loro quaranta cani, Ararad è a Fusine, a un tiro di schioppo da Tarvisio.

Lì, all’ideale crocevia fra i confini italiano, sloveno e austriaco, fonda la Scuola Internazionale Mushing. Per comprendere l’importanza e il radicamento sul territorio della quale, è forse sufficiente un particolare: i centoventi bambini delle scuole elementari di Tarvisio sono gli unici in Italia a seguire regolarmente, d’inverno e in orario scolastico, lezioni di «sleddog» invece delle normali lezioni di educazione fisica in palestra.

«Sulle orme di Balto», che è appena stato presentato alla Fiera del libro di Torino, è un vero e proprio diario di questa impresa - durata ventuno giorni - che non era mai stata portata a termine da un europeo. L’organizzazione logistica, il momento della partenza dall’Italia, il volo fino ad Anchorage, in Alaska, l’emozione della vigilia, la partenza da Nenana (con trenta gradi sotto zero di temperatura...), gli accorgimenti per resistere al gelo e alla fatica, le provviste, il cibo, gli incontri lungo il tragitto, l’arrivo a None, il ritorno in Italia...

Anche in questo viaggio Ararad non ha dimenticato la passione per la musica. E nelle varie tappe ha suonato spesso nelle scuole dei tanti villaggi incontrati lungo la strada. Alcune delle canzoni proposte, assieme ad altre dei tempi dei Fairfield, sono ora comprese nel cd che è allegato al libro.

Nel quale è riportata anche la «Tavola dei valori Athabascan», una delle comunità dei «nativi» incontrate in Alaska. Parla di «autosufficienza e lavoro duro, cura e approvvigionamento per la famiglia, relazioni familiari e unità, amore per i bambini, cooperazione e responsabilità per il villaggio, senso dell’umorismo, onestà e rettitudine...». E ancora: «Condivisione e cura reciproca, rispetto per gli anziani e per gli altri, rispetto per la conoscenza e saggezza dalle esperienze di vita, rispetto per la terra e la natura, pratica delle proprie tradizioni native, onore per gli antenati, spiritualità...». Serve altro?

giovedì 12 maggio 2005

Ancora un paio di lunedì. Poi la banda del Pupkin Kabarett va in ferie. Ma per l’anno prossimo «i ragazzacci» meditano una sorpresa. Non più appuntamento fisso «alle 21.21» di ogni lunedì al Teatro Miela - dove nel corso degli anni, con l’aumento esponenziale degli spettatori-fan, si sono trasferiti dalla piccola sala video al teatro vero e proprio - bensì in giro per l’Italia. Sì, praticamente in tournèe. E Trieste, se li vorrà ancora, forse dovrà mettersi in fila...

«Sì - conferma Alessandro Mizzi, attore nonchè una delle anime del Pupkin - nella prossima stagione la nostra piccola compagnia “del lunedì sera” intende portare fuori Trieste i personaggi e le invenzioni migliori fra quelli sperimentati settimana dopo settimana al Miela. Il tutto inserito in uno spettacolo teatrale comico-satirico più strutturato, senza dimenticare però lo spirito particolare che anima ogni serata e il fresco rapporto col pubblico che ne hanno fatto una nuova realtà del teatro regionale».

Il Pupkin Kabarett nasce infatti da un’esperienza e da «un progetto di nicchia» - oppure «off», come si sarebbe detto una volta, più o meno negli anni Settanta - cresciuti appunto al Teatro Miela.

«Nel febbraio del 2001 - spiega Mizzi - su un’idea di Stefano Dongetti e mia, prese il via la prima stagione di quella che all’epoca chiamavamo solo la Sala Pupkin. L’intento era quello di proporre uno spazio alternativo alle proposte teatrali cittadine. Una via di mezzo tra il laboratorio teatrale, il localino di cabaret e altro ancora. Il pubblico, all’inizio solo gli amici, poi una platea vera e propria, recepì presto lo spirito nuovo e insolito della proposta e prese la buona abitudine di riempire la sala ogni lunedì sera».

A dimostrazione forse del fatto che a Trieste, nonostante i vari teatri e le varie stagioni, c’era e c’è l’esigenza di uno spazio per qualcosa di diverso dal solito.

«Per quasi tre anni - ricorda ancora Mizzi - ogni settimana la Sala Pupkin è stata l'unico luogo in città dove assistere nella stessa serata a concerti, reading, performance d'attori o danzatori, fino a tarda notte. Le “ospitate” hanno visto succedersi sul piccolo palco Giorgio Ganzerli, Bebo Storti, Antonio Cornacchione e tanti altri ancora».

Dall'esperienza in quello che viene chiamato «il ridotto» del Miela si forma un gruppo stabile di attori e musicisti: oltre a Mizzi e Dongetti, Massimo Sangermano, Laura Bussani, la Niente Band di Riccardo Morpurgo, Piero Purini e Luca Colussi, i video del Trio Lamentela... Ma anche tanti giovani esordienti.

Fino a che gli ottanta posti della saletta diventano insufficienti. E arriva la «promozione» in teatro. Dove nelle ultime due stagioni ha preso progressivamente forma il Pupkin Kabarett. Con la solita banda e altri ospiti «illustri»: Vinicio Capossela e Gigio Alberti, Renato Sarti e Vitaliano Trevisan, Fulvio Falzarano e Mauro Serio...

L’anno prossimo - conclude Alessandro Mizzi - porteremo in giro le nostre storie, i nostri personaggi, le nostre gag. Evitando i moduli dell’inflazionatissimo cabaret televisivo ”trasportato a teatro”. Non vogliamo perdere la nostra vocazione di spettacolo leggero, ma noi fuggiamo dalle logiche della macchietta subito riconoscibile e della battuta mordi e fuggi. Puntiamo invece a un moderno varietà comico, che ogni tanto si permette anche di offrire letture diverse e inconsuete della realtà. Pur sempre in una chiave comica...».

martedì 10 maggio 2005

L’estate musicale 2005 del Friuli Venezia Giulia si arricchisce (quasi) ogni giorno di un nuovo tassello. Quello di oggi si chiama Joss Stone, la giovanissima cantante inglese che con due soli album, «The soul sessions» e «Mind, body and soul», ha conquistato il pubblico e la critica di mezzo mondo. Ebbene, colei che è già stata definita la «Aretha Franklin bianca» terrà un breve tour in Italia a metà luglio, e il primo dei tre concerti previsti è in programma il 14 luglio a Tarvisio, in piazza Unità, nell’ambito dell’edizione 2005 della rassegna «No Borders».

Successivamente, Joss Stone - di cui si è parlato recentemente anche perchè il colosso della moda Gap l’ha ingaggiata come testimonial, preferendola all’attrice Sarah Jessica Parker - canterà anche il 15 luglio a Roma, nell’ambito della manifestazione «Fiesta» e il 17 luglio a Napoli, in piazza del Plebiscito, al «Cornetto Freemusic Festival». Informazioni e biglietti su www.ticketone.it e su www.clearchannel.it

Ma si diceva dell’estate musicale che via via prende forma. Sulla piazza triestina, dopo che è stato presentato con congruo anticipo il concerto che i redivivi Duran Duran terranno in piazza dell’Unità martedì 21 giugno, si aspetta di conoscere gli altri nomi della stagione. Udine propone - oltre a Vasco Rossi, di cui diremo più avanti - Pat Metheny il 16 giugno e B.B.King l’11 luglio, rispettivamente apertura e chiusura di «Udin&Jazz». Imminenti anche le presentazioni dei cartelloni di «Folkest», «Rototom Sunsplash» e del già citato «No Borders».

Stamattina a Grado verrà presentato in municipio il concerto che Vasco Rossi terrà al campo sportivo della Schiusa venerdì 3 giugno. Un appuntamento che è stato annunciato un po’ a sorpresa nei giorni scorsi, e che va ad aggiungersi - a mo’ di anteprima - al nuovo tour del rocker. Anzi, alla seconda parte del «Buoni o cattivi tour», quello che ha già fatto tappa l’11 settembre dell’anno scorso allo Stadio Rocco di Trieste e che il 9 luglio sarà allo Stadio Friuli di Udine (biglietti già tutti esauriti).

Ebbene, sul sito ufficiale dell’artista il concerto di Grado è presentato come una «data zero» del tour, con «entrata garantita e gratuita per tutti i soci del fansclub Il Blasco», che sono diverse migliaia, e ai quali è richiesto di arrivare a Grado «con un documento di identità e la tessera del fansclub». Considerato allora che il campo sportivo dell’Isola d’Oro è una struttura piccola, che non può nemmeno essere paragonata ai grandi stadi da 50-100 mila spettatori che ospitano il tour, sorge il dubbio su quanti non iscritti al fansclub potranno effettivamente vedere il concerto. E su come saranno garantiti, in una struttura piccola e non facilmente raggiungibile, i diritti degli acquirenti dei biglietti (già disponibili in prevendita) e quelli degli iscritti al fansclub.

domenica 8 maggio 2005

C’è un’attrazione quasi fatale fra il tango e alcuni fra i migliori musicisti del Friuli Venezia Giulia. Innamorati soprattutto del «poeta del tango» Astor Piazzolla. E proprio «Astor Piazzolla - Orchestral works» s’intitola il cd della Concordia Chamber Orchestra che esce in questi giorni (distribuzione Sinfonia Milano).

Un lavoro importante, appassionato, se vogliamo persino ambizioso, che se da un lato fa risaltare l'arte del grande maestro argentino in una dimensione orchestrale, dall’altro è preziosa testimonianza del lavoro svolto e del livello raggiunto in anni di lavoro (con numerosi concerti in Italia e all’estero) da questo ensemble regionale.

Quattordici perle tratte dal repertorio del musicista scomparso nel ’92, per un’ora di grande musica popolare, fra cui spiccano «Oblivion» (secondo alcuni uno dei brani in assoluto più belli scritti da Piazzolla, noto quasi quanto «Libertango») e «Balada par un loco», «Romanza del duende» (con il pianoforte di Mariarosa Pozzi a condurre magistralmente la danza) e «Allegro tangabile» (con il godibile duetto fra la chitarra di Marko Feri e la fisarmonica di Sebastiano Zorza). Ma i brani andrebbero citati tutti, senza dimenticare ovviamente «Se potessi ancora», canzone del cosiddetto «periodo italiano», con il testo firmato da Sergio Bardotti.

Nata nel ’92 (nello stesso anno, dunque, della morte di Piazzolla), la Concordia Chamber Orchestra ha un organico variabile che va da un minimo di otto elementi a un massimo di 25/30 a seconda dei programmi che vengono presentati.

Diretta da Giorgio Tortora, in questo lavoro si avvale della voce del mezzosoprano Manuela Marussi, della fisarmonica di Sebastiano Zorza, della voce recitante di Tullio Svettini, del flauto di Ettore Michelazzi, della chitarra di marko feri, del pianoforte di Mariarosa Pozzi, delle percussioni di Giorgio Fritsch e Barbara Tomasin, dei violini di Elia Vigolo, Roberta Nitta, Mariko Masuda, Annalisa Clemente, Simone D’Esaunio, Davide Bertoni, Licia Ellero, Barbara Tosolini, Lucia Premerl, Laura Duranti, Gabriele De Anna, Nicola Mansutti, le viole di Cristina Verità e Daniela Bon, i violoncelli di Antonio Galligioni, Andrea Musto ed Elisa Corti, il contrabbasso di Aleksandar Paunovic.
Ron nonostante la pioggia, che ieri sera sulle Rive ha dichiarato guerra a metà concerto, per ritirarsi in buon ordine solo nel finale. Giusto in tempo per i fuochi d’artificio.

Per il cinquantaduenne Rosalino Cellamare - col suo vero nome debuttò adolescente al Sanremo del ’70, cantando «Pa’ diglielo a ma’» in coppia con Nada - debutto del tour, dopo l’anteprima della sera precedente nella sua Pavia. Il violino del triestino Alessandro Simonetto (che poi si alternerà fra sax, chitarra, tastiere, mandolino, fisarmonica...) introduce «Una città per cantare», mitica versione datata 1980 di «The road», all’epoca cantata da Jackson Browne.

«Simonetto è un grande talento - riconosce Ron - e sono contento di lavorare nuovamente con lui. Ed è anche grazie a lui, alla sua versatilità musicale, ai suoi tanti strumenti, che il mio nuovo spettacolo è ambientato in un mondo acustico. Abbiamo voluto rispolverare il legno, i suoni veri, gli arrangiamenti che amo di più...».

Dopo «Le foglie e il vento», che dava il titolo a un album del ’92, il concerto è una sfilza di successi: «Cosa sarà» (scritta per Dalla e De Gregori nel ’79 ai tempi del tour «Banana Republic») e «Anima», «Bambolina» (regalo di Jovanotti) e «Il mondo avrà una grande anima» (Sanremo ’88), «Io ti cercherò» (da solo al pianoforte) e «Per questa notte che vola via».

Da un disco dell’85 recupera una misconosciuta «Caterina», poi ancora classici con «Piazza grande» (lui da solo alla chitarra con Simonetto alla fisa), «Il gigante e la bambina», «Joe temerario»... Ha anche smesso di piovere e il pubblico pretende giustamente i bis: arrivano «Non abbiam bisogno di parole» e «Vorrei incontrarti fra cent’anni», vincitrice a Sanremo del ’96.

Ron è reduce da un disco particolare, «Le voci del mondo», ispirato al romanzo di Peter Schneider, uscito l’anno scorso ma passato un po’ sotto silenzio. «Quel libro mi aveva colpito molto - ricorda - ne è venuto fuori un disco che racconta anche la mia storia, attraverso la vicenda di Elias e al suo amore per Lisbeth, che nel disco diventa Lisa. Intorno, come in un dramma scespiriano, circolano i grandi temi dell'esistenza umana: il dolore, il mal di vivere...».

«Insomma, un disco diverso dagli altri, che considero fra i miei migliori, anche se non è stato adeguatamente presentato. Molti non sanno nemmeno che è uscito. Tanto che mi piacerebbe ripubblicarlo, magari assieme al libro di Schneider. Perchè promuovere un'idea del genere è difficile. In tv dicono che la musica non fa ascolti, le radio trasmettono solo certe cose».

«”Le voci del mondo” è una storia di grande malinconia e tristezza. Non so se Schneider scriverà più un'opera del genere, nata in un momento di grazia. Dentro ci sono un'energia grandissima e una persona che ama immensamente. Il linguaggio del romanzo è bello e ironico. All'inizio non credevo di trarne un disco. Pensavo a uno spettacolo teatrale. Anche se ambientato ai primi dell'Ottocento, il romanzo affronta temi sempre più importanti per la nostra sopravvivenza. Credere in qualcosa innanzitutto, in un momento in cui tutto sembra un gioco».

Ancora Ron: «Anche vincere Sanremo nel ’96 è stata un’arma a doppio taglio: il Festival ti dà una grande popolarità, ma nel contempo ti trasmette una strana euforia, forse ti fa sedere, ti fa impegnare di meno. Per questo, dopo, ho vissuto per un po’ in una specie di zona d’ombra. Ora credo di essermi liberato della follia delle classifiche, ho cominciato a vivere una vita diversa, anche musicale. E mi piaccio di più

«Dopo trentacinque anni di carriera - conclude l’artista - a volte mi domando come faccio a essere ancora qui. Ho attraversato varie epoche, musicali e non solo musicali. All’inizio ero solo un interprete, un giovanissimo interprete. Non ero pronto a scrivere testi, tanto meno a inserirvi messaggi politici, come sembrava obbligatorio negli anni Settanta».

Dopo l’estate, uscirà un nuovo disco. Sarà un album di duetti: alcune delle sue più belle canzoni interpretate con colleghi del calibro di Lucio Dalla, Claudio Baglioni, Laura Pausini, Jovanotti, la nostra Elisa...

mercoledì 4 maggio 2005

Trenta milioni di dischi venduti. E una mezza dozzina (abbondante) di successi che hanno segnato la storia della canzone italiana degli ultimi trent’anni. Tutta roba che si cela dietro agli occhialini azzurri, al pizzetto e ai basettoni di un ragazzone di cinquantatre anni, il cui tour ha fatto tappa ieri sera in un’affollata (e sudatissima...) Sala Tripcovich.

Lui si chiama Umberto Tozzi. Sarà perchè è nato a Torino, o perchè ci tiene a far bella figura davanti al figlio udinese che se lo mangia con gli occhi dalla prima fila (occhialini, barba e capelli rossi come l’illustre genitore: praticamente il suo ritratto da giovane...), fatto sta che il nostro comincia lo show con una puntualità da orologio svizzero. Anzi, sabaudo.

Maglia verde, bragoni scuri, aria rilassata. Attacca con tre brani dal nuovo album, intitolato «Le parole» come la canzone che non gli ha portato fortuna all’ultimo Sanremo, dove l’hanno cacciato fuori la prima sera. «Schiuma», «Anch’io in paradiso» e «Amandoci» servono a rompere il ghiaccio.

Il pubblico è amico, conosce a memoria anche i testi di queste nuove canzoni. Ma poi esplode come un sol uomo quando partono quelle tre inconfondibili note («Ti-a-mo...») che nel lontano 1977, anno di indiani metropolitani e di pitrentotto, ma anche di complici juke-box ed eterni amori sulla spiaggia («fammi abbracciare una donna che stira...), trasformarono un ragazzo pieno di sogni e buone intenzioni in un’autentica star.

L’uomo sul palco - che più tardi dirà: «La mia è stata una carriera anche divertente, non mi aspettavo tanto all’inizio, ma penso che in ogni cosa è importante la passione...» - intanto ha mollato il chitarrone acustico per l’elettrica. In rapida successione arrivano «Roma Nord» (roba dell’81), «Se non avessi te» (’87), «Gli innamorati» (’91)... Quasi un medley, punteggiato da cori da stadio.

Bisogna riprendere fiato. Sul palco e in platea. Allora il nostro depone le chitarre e impugna un semplice tamburello, per altre due canzoni dal nuovo cd: «Aria» e «E vinci ancora tu». Che peraltro non sembrano all’altezza dei suoi storici cavalli di battaglia. Come «Notte rosa», che si fa largo alzando nuovamente la temperatura. Dai lontani anni Settanta delle origini arrivano anche «Dimentica dimentica» (con Tozzi che si siede dietro alla tastiera Roland) e «Qualcosa qualcuno». Il tempo di presentare la già citata «Le parole» alla maniera degli interpreti puri, col microfono in mano, e il viaggio nel passato prosegue: «Mammamaremma» («ma dove sei, estate del ’56...»), «Perdendo Anna» (per un attimo da solo, di nuovo con la chitarra acustica), «Io camminerò», scritta nel ’76 per Fausto Leali, quando Umberto era solo il fratello minore di quel Franco Tozzi che aveva azzeccato un successo negli anni Sessanta (per gli storici: «I tuoi occhi verdi»).

Nel secondo tempo Tozzi si mette più comodo: fa caldo, sopra i bragoni ora ha un’immacolata maglietta della salute. Dà spazio ai suoni pop della band. Poi apre con «Sopra l’oceano», dal nuovo cd. Da un disco dell’87, anno in cui vinse Sanremo con Morandi e Ruggeri, riesuma «Immensamente». Poi si dà all’archeologia e canta (dice: per la prima volta...) «Un corpo un’anima», scritta a diciannove anni per Wess e Dori Ghezzi, che ci vinsero «Canzonissima» nel ’71. La discesa verso i bis comincia con «Gli altri siamo noi» («i muri vanno giù al soffio di un’idea...»), «Gente di mare», «Io muoio di te»... Quando parte «Tu» il teatro è tutto in piedi, e rimane bello caldo anche con «Stella stai». I bis, a questo punto, sono un’accaldata formalità. Arriva «Si può dare di più» e poi si finisce in... «Gloria». Ovviamente.
«Il Mittelfest va benissimo. Ma io sostengo da tempo che la rassegna non dev’essere soltanto palcoscenico per presentare spettacoli teatrali e musicali, peraltro sempre di ottimo livello. Bensì diventare occasione di scambi e incontri politici, economici, commerciali...».

Lorenzo Pelizzo è presidente del Mittelfest da poco più di un mese, ma sta interpretando il suo ruolo in maniera decisamente propositiva. Dimostrando di conoscere piuttosto bene la realtà di cui si deve occupare.

«Non dimentichiamo che tanti anni fa - spiega infatti Pelizzo - l’allora ministro De Michelis aveva immaginato il Mittelfest come momento non solo di spettacolo ma anche e nelle sue intenzioni forse soprattutto politico, per entrare in dialogo con Paesi a noi geograficamente vicini, ma che all’epoca stavano al di là della cortina di ferro. Oggi siamo tutti in Europa, alcuni Paesi vi sono già entrati mentre altri lo faranno nei prossimi anni, ma la verità è che con questi nostri vicini ci si conosce ancora molto poco...».

Ecco allora, nell’idea del presidente della rassegna di Cividale, la cui edizione 2005 si svolgerà a fine luglio, l’opportunità di pensare a «momenti di incontro, di dibattito, di scambio politico ma anche economico e commerciale».

Ma Pelizzo non si ferma qui. «Ho molto apprezzato l’ultima edizione del festival e anche quelle precedenti. Riconosco dunque a Moni Ovadia e al suo predecessore, Giorgio Pressburger, il merito di aver portato a Cividale proposte culturali e artistiche di altissimo livello. Chiarito ciò, non posso non ricordare che il Mittelfest dev’essere anche palcoscenico per le nostre compagnie, per i prodotti culturali e spettacolari che nascono e vengono realizzati nel Friuli Venezia Giulia...».

A stretto giro di posta arriva la replica del direttore artistico. «Sono assolutamente d’accordo con la proposta del presidente - dice Moni Ovadia - ma è chiaro che non può essere compito nostro. Sarebbe infatti bello che lo stesso Pelizzo, con il sostegno dei politici regionali e non solo regionali, riuscisse a far convergere sul Mittelfest quel tipo di interessi che lui auspica. Immagino per esempio un dibattito con il ministro della cultura ungherese il giorno in cui presentiamo uno spettacolo ungherese...».

«Io ho sempre detto che bisogna unire i progetti culturali e quelli economici. Quando l’economia capirà che la cultura è un buon investimento, avremo fatto un bel passo avanti. Ma ci vogliono i fondi e le strutture. Cividale è un gioiello che va preservato. Io ho proposto di trasformare l’ex cementificio in un grande centro culturale e anche commerciale. Un altro esempio? Fra le eccellenze del Friuli Venezia Giulia c’è quella enogastronomica. Ebbene, valorizziamola anche all’interno del Mittelfest... La verità è che bisogna osare».

Per quanto riguarda la presenza delle realtà regionali, Ovadia risponde con il più classico dei «già fatto!». «Già l’anno scorso - ricorda infatti il direttore artistico - nel cartellone c’erano molte presenze regionali. Quest’anno faremo di più. Cito soltanto gli spettacoli con il Verdi di Trieste, con lo Stabile del Friuli Venezia Giulia, con La Contrada, con il Css, con il Teatro Club, con l’Accademia Nico Pepe... Non mi sembrano presenze di poco conto».

«Comunque un festival è una realtà in movimento - conclude Moni Ovadia - per la quale sarebbe necessaria una strategia di respiro almeno quinquennale. Io sono arrivato l’anno scorso e l’anno prossimo concludo la mia esperienza a Cividale. Spero che la prossima direzione, facendo tesoro di quanto realizzato da quelle precedenti, sappia aprirsi costruttivamente a una valida prospettiva futura...».