Trenta milioni di dischi venduti. E una mezza dozzina (abbondante) di successi che hanno segnato la storia della canzone italiana degli ultimi trent’anni. Tutta roba che si cela dietro agli occhialini azzurri, al pizzetto e ai basettoni di un ragazzone di cinquantatre anni, il cui tour ha fatto tappa ieri sera in un’affollata (e sudatissima...) Sala Tripcovich.
Lui si chiama Umberto Tozzi. Sarà perchè è nato a Torino, o perchè ci tiene a far bella figura davanti al figlio udinese che se lo mangia con gli occhi dalla prima fila (occhialini, barba e capelli rossi come l’illustre genitore: praticamente il suo ritratto da giovane...), fatto sta che il nostro comincia lo show con una puntualità da orologio svizzero. Anzi, sabaudo.
Maglia verde, bragoni scuri, aria rilassata. Attacca con tre brani dal nuovo album, intitolato «Le parole» come la canzone che non gli ha portato fortuna all’ultimo Sanremo, dove l’hanno cacciato fuori la prima sera. «Schiuma», «Anch’io in paradiso» e «Amandoci» servono a rompere il ghiaccio.
Il pubblico è amico, conosce a memoria anche i testi di queste nuove canzoni. Ma poi esplode come un sol uomo quando partono quelle tre inconfondibili note («Ti-a-mo...») che nel lontano 1977, anno di indiani metropolitani e di pitrentotto, ma anche di complici juke-box ed eterni amori sulla spiaggia («fammi abbracciare una donna che stira...), trasformarono un ragazzo pieno di sogni e buone intenzioni in un’autentica star.
L’uomo sul palco - che più tardi dirà: «La mia è stata una carriera anche divertente, non mi aspettavo tanto all’inizio, ma penso che in ogni cosa è importante la passione...» - intanto ha mollato il chitarrone acustico per l’elettrica. In rapida successione arrivano «Roma Nord» (roba dell’81), «Se non avessi te» (’87), «Gli innamorati» (’91)... Quasi un medley, punteggiato da cori da stadio.
Bisogna riprendere fiato. Sul palco e in platea. Allora il nostro depone le chitarre e impugna un semplice tamburello, per altre due canzoni dal nuovo cd: «Aria» e «E vinci ancora tu». Che peraltro non sembrano all’altezza dei suoi storici cavalli di battaglia. Come «Notte rosa», che si fa largo alzando nuovamente la temperatura. Dai lontani anni Settanta delle origini arrivano anche «Dimentica dimentica» (con Tozzi che si siede dietro alla tastiera Roland) e «Qualcosa qualcuno». Il tempo di presentare la già citata «Le parole» alla maniera degli interpreti puri, col microfono in mano, e il viaggio nel passato prosegue: «Mammamaremma» («ma dove sei, estate del ’56...»), «Perdendo Anna» (per un attimo da solo, di nuovo con la chitarra acustica), «Io camminerò», scritta nel ’76 per Fausto Leali, quando Umberto era solo il fratello minore di quel Franco Tozzi che aveva azzeccato un successo negli anni Sessanta (per gli storici: «I tuoi occhi verdi»).
Nel secondo tempo Tozzi si mette più comodo: fa caldo, sopra i bragoni ora ha un’immacolata maglietta della salute. Dà spazio ai suoni pop della band. Poi apre con «Sopra l’oceano», dal nuovo cd. Da un disco dell’87, anno in cui vinse Sanremo con Morandi e Ruggeri, riesuma «Immensamente». Poi si dà all’archeologia e canta (dice: per la prima volta...) «Un corpo un’anima», scritta a diciannove anni per Wess e Dori Ghezzi, che ci vinsero «Canzonissima» nel ’71. La discesa verso i bis comincia con «Gli altri siamo noi» («i muri vanno giù al soffio di un’idea...»), «Gente di mare», «Io muoio di te»... Quando parte «Tu» il teatro è tutto in piedi, e rimane bello caldo anche con «Stella stai». I bis, a questo punto, sono un’accaldata formalità. Arriva «Si può dare di più» e poi si finisce in... «Gloria». Ovviamente.
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