giovedì 26 giugno 2008

DA UN BLOG


Carlo Muscatello sul “Piccolo” di Trieste ha stroncato l'ultimo disco di un sempre più supponente De Gregori. Stroncatura esemplare, cioè senza mezze misure: il disco è brutto e spiego perchè è brutto, affondando la lama della critica. Che brilla in quanto tale, cioè virtuosismo di antibuonismo motivato e dettagliato, ormai rimosso più che dimenticato. È raro trovare una critica in sé, ovvero una recensione negativa, in un sistema di sinergie commerciali che ha gettato la figura del giornalista, come quella del critico in una crisi d'identità irreversibile: vuoi perchè i giornalisti fanno i giornalisti in un mare di altre attività, vuoi perchè tutti gli altri, nel mare delle loro occupazioni, si dilettano pure di giornalismo. Il malvezzo dei giornali musicali di far scrivere gli stessi artisti che dovrebbbero poi “criticare”, è noto. Come è già storia la tendenza dei comici a fare i giornalisti, con l'effetto che poi i giornalisti fanno i comici. Altro fenomeno deleterio, i magistrati che si scoprono romanzieri. Oggi non si contano più, ad aprire la strada un disinvolto De Cataldo, che ha trasportato la Banda della Magliana dal fascicolo alla fiction, ottenendo i risultati migliori. Il che ha fatto di De Cataldo un uomo potente in molti modi: come giudice che può libertariamente farti passare brutti momenti; come scrittore di successo, inserito nella casta editoriale; come “giornalista”, ovvero informatore, che esalta ed è esaltato dai suoi pari. Quindi, su De Cataldo non si può. Che poi io debba gradire, o subire, l'invadenza di un magistrato capace di simile scioltezza, è un altro paio di maniche: la garanzia della sua equidistanza da tutti i mondi commerciali frequentati, a mio parere in conflitto d'interessi con la sua funzione, che è di giudicare, di più, di accusare, può darmela solo lui stesso, è autoreferenziale. E non mi consola il “così fan tutti” di prammatica, la scoperta che via via si sono aggiunti i Carofiglio ed altri colleghi sempre più sedotti dalla vanità: per me, cavar fuori romanzi dalle inchieste seguite non è discutibile: è eticamente sbagliato, per più di una ragione. Altro è scrivere un libro di o sul diritto, che rientra nelle competenze e nelle funzioni di un magistrato. Altro è trasformare in fiction, in finzione, inchieste, fatti reali e direttamente seguiti, e che diventano, tra l'altro, fonte di guadagno. Mi pare incredibile questa vena narrativa prorompente, quasi obbligatoria in chiunque indossi una toga.

C'è una crisi di identità che avvolge tutti. Il comico-informatore, alla Grillo, vive su questa ambiguità di fondo: quando fa comodo sono uno che informa, quando mi accorgo di averla fatta fuori dal vaso torno ad essere uno che scherza. Col risultato che le mie responsabilità non voglio prendermele mai. Più in generale, se il mercato impone opere buone per tutte le stagioni, come faccio a stabilire canoni etici di verità, di attendibilità, di responsabilità? Gomorra, ancora lei, è stato etichettato come inchiesta ma anche romanzo ma anche sceneggiatura: troppo comodo. E pericoloso: non si coglie più il limite tra ciò che è e cio che non è ma potrebbe essere. L'altra sera ad AnnoZero dove si glorificava il divo Sorrentino che ha fatto un film su Andreotti (per poi parlar male di Berlusconi). Gli argomenti suonavano a tratti deliranti: la Bonaiuto che spiegava di non avere idea di come fosse la moglie di Andreotti, proverbialmente riservata, e dunque d'essere andata a senso, “perchè un film è un'opera di invenzione”, insomma soccorrono le licenze poetiche. Altri con orgoglio informavano che molti episodi, come quello di Andreotti che tiene la mano alla moglie mentre guardano in televisione Renato Zero, sono inventati di sana pianta. Si rivendicava la prevalenza della fiction su un'opera di denuncia. In studio, dagli apostoli dei fatti nudi e crudi, alla Travaglio, nulla ostava. È giusto tutto questo? Per il mercato sì, perchè oggi un film non è più un film, è giusto un capitolo di una sinergia che prevede il massimo sfruttamento di un'opera intellettuale: libro-sceneggiatura, film, riduzione televisiva, versione teatrale, merchandising, figurine, fumetti e così via. Ma per la comprensione e l'attendibilità dei fatti? Il divo Sorrentino, in funzione di regista, ha spiegato: la cosa più gratificante è che il film lo vedano i giovani che di Andreotti non sanno niente. Sì, ma dopo il suo film ne sapranno davvero di più, oppure vivranno su un'idea mitizzata, sceneggiata? Forse non è un caso che i veri film di denuncia, come quellie di Giuseppe Ferrara, hanno avuto sempre vita maledetta, censure, ostracismi. Mentre le fiction alla Sorrentino o alla Garrone vanno a Cannes dove fanno incetta di tappeti rossi. Che, per un'opera di denuncia, coraggiosa, scandalosa, pare un ossimoro: davvero dovevamo attendere Il Divo e Gomorra per capire l'impatto di Andreotti e della Camorra nel nostro Paese? Davvero nessuno se n'era mai occupato prima? Ma su Andreotti, per dire, bastava riscoprire gli articoli, terribili, di Mino Pecorelli, giornalista scomodo fatto fuori (alla vigilia di nuove, compromettendi rivelazioni su Andreotti, che ha subito un processo per la sua morte, poi conclusosi con l'assoluzione). Sulla camorra i testi si sprecano, ma si è imposto il meno rigoroso, quello concepito fin dall'inizio per una sinergia, uno sfruttamento commerciale massificato.

Torniamo ai cantautori supponenti. Si può dire che Tal dei tali è ormai un pallone sgonfiato? Che questo o quel guru ha perduto lo smalto? Che De Gregori ha fatto un brutto disco? Che Ligabue con la sua raccolta “primo tempo” non ha venduto quattrocentomila copie ma le ha imposte ai negozianti che se le ritrovano tutte in magazzino, invendute, e adesso infierisce pure il secondo tempo? Si può dire che, dato un ascolto al nuovo disco di Vasco Rossi, si conferma una situazione inquietante: un brano, in apertura, bello, o anche molto bello, uno dei suoi; e il resto di una mediocrità imbarazzante, che avverti fatto appositamente per le pubblicità, per le sigle dei telefonini, che capisci assemblato da computer manovrati da burocrati della creatività informatizzata? No, non si può dire perchè come minimo ci rimetti il posto: i giornali su cui i critici scrivono, sono gli stessi che sponsorizzano le tournée degli artisti da criticare. D'altra parte, il livello di intimità con il potere sinergico, artistico, industriale, commerciale, pubblicitatio, è tale per cui nessun giornalista ha più voglia di complicarsi una vita che può benissimo essere splendida, con un minimo di elasticità e di entusiasmo.

Oggi i dischi si distinguono per non essere più niente di tutto, ed essere tutto di niente. Suoni, temi, proposte hanno da essere “internazionali”, cioè buoni per tutti i continenti, per i gusti globalizzati di un pubblico globalizzato. Gli artisti la spacciano per creatività senza confini, ma la vera ragione è che il prodotto deve vendere in ogni dove. Così ascoltiamo improbabili surrogati di ritmi e influssi culturali che non ci appartengono, come l'inverosimile terzomondismo social-musicale di un Jovanotti.

Ci sono sedicenti critici da blog, frustrati per non appartenere all'èlite della critica autentica, seria, culturalmente solida, oggi in via di estinzione, che si confondono con gli autori che dovrebbero recensire, ostentano una provinciale familiarità, li chiamano amichevolmente per nome, i loro spazi in pagina o in rete sono volgarissime vetrine, consigli per gli acquisti, annacquati da discussioni che degenerano nel gossip, nel tifo, nella diffamazione e l'anatema verso i miscredenti. Puntualmente questi pseudocritici da fumetto fanno libretti, che finiscono recensiti, cioè esaltati, dagli stessi autori che dovrebbero essere recensiti, cioè criticati, dai sedicenti critici in realtà loro amici, complici, sodali: così il cerchio della mafia pubblicitaria si chiude. Come fai a parlar male di uno che, alla fine è un collega, magari un compagno di scuderia, uno che fa quello che tu fai, mentre tu fai quello che fa lui e insieme vi reggete bordone? Difatti di critiche non si vede più neppure l'ombra. Quando ne capita una, chi si è permesso è indotto a vergognarsene, come di uno scandalo intollerabile; l'effetto generale, inoltre, è di spaesato scetticismo, come per certi misteriosi segnali provenienti dall'oltretomba.

Sì, oggi i giornalisti (e i critici) sono sull'orlo di una crisi d'identità. Se disgraziatamente si ricordano di chi sono, e di cosa stanno lì a fare, cioè criticare e non incensare, scatta subito la crisi di nervi. Per il criticato, giustamente offeso da tanta ingratitudine.


Massimodelpapa

domenica 22 giugno 2008

TEATRINO EX OPP


Il teatrino dell’ex manicomio di San Giovanni riapre stasera con una rappresentazione dell’Odissea. Titolo perfetto per celebrare la restituzione alla città di quell’edificio piccolo ma figlio di una storia grande e importante. Una storia che, pur limitando il nostro raggio di osservazione agli ultimi trent’anni, somiglia per davvero a un’odissea.

Effervescente culla della controcultura negli anni Settanta della chiusura dell’ospedale psichiatrico, malinconico deposito di detersivi dell’Azienda Sanitaria negli anni Ottanta, vittima delle lungaggini burocratiche e di un restauro ventennale che sembrava non dovesse aver mai fine.

Sì, perchè le vecchie tavole di quel periferico palcoscenico sono state calpestate attorno alla metà degli anni Settanta da un futuro Premio Nobel come Dario Fo, da un padre della canzone d’autore come Gino Paoli, da un futuro dominatore di classifiche come Franco Battiato. E ancora da protagonisti della nostra musica di allora come Peppe e Concetta Barra, i Saint Just di Jane Sorrenti, la compianta Dodi Moscati...

Ma non c’era soltanto il teatrino, a ospitare artisti grandi e piccoli nel manicomio che stava vivendo la rivoluzione basagliana di cui quest’anno si celebra il trentennale. Negli adiacenti spazi all’aperto (un campo sportivo che poi venne spazzato via da un’orrenda costruzione, un grande prato sul quale si affacciavano le abitazioni di alcuni degenti del vecchio frenocomio inaugurato nel 1908...), il 15 maggio 1974 suonò il grande profeta del «free jazz» Ornette Coleman, e subito dopo gli Area di Demetrio Stratos (di cui era appena uscito il disco «Caution Radiation Area», con dentro un brano intitolato «Lobotomia», dedicato a Ulrike Meinhof e caratterizzato da suoni ossessivi e lancinanti...), e poi il quartetto jazz di Giorgio Gaslini, con il friulano Andrea Centazzo alla batteria. E ancora, negli anni successivi, il milanese nato in Brasile Alberto Camerini, il cantautore gay Alfredo Cohen, il visionario Juri Camisasca assieme al citato Battiato...

I giovani triestini entravano nel grande comprensorio di San Giovanni richiamati dalla musica, dai laboratori teatrali, dalle proiezioni cinematografiche. Si mischiavano con i cosiddetti matti, sorpresi e felici di essere espropriati per una sera del loro parco-prigione. Entravano in contatto con il lavoro che Basaglia e i suoi collaboratori stavano portando avanti, restandone spesso affascinati.

Sono passati trent’anni. E oggi, nel giorno della festa dei Fuochi di San Giovanni, dopo una chiusura che sembrava dovesse diventare eterna, il teatrino riapre con una maratona di musica, teatro, danze, incontri, giochi che coinvolgerà tutto il parco. Alle 16 si parte, nel piazzale della chiesa, con le band giovanili di Georock 2008, il tradizionale evento di fine anno scolastico dell'istituto Max Fabiani, e i gruppi della Festa europea della musica organizzata dall’Arci. Alle 17 laboratori creativi per i più piccoli. Alle 19 monologo teatrale di Claudio Misculin da «La luce di dentro – W Basaglia» e inaugurazione del teatrino ristrutturato. Alle 21 «Omero Odissea», con le figure e le macchine di Antonio Panzuto, di cui riferiamo qui sotto. E alle 23, davanti al teatrino, fuoco al tradizionale falò di San Giovanni, con la musica di Quebra molas e Capoeira Uniao.

Poi, da domani, la città avrà di nuovo a disposizione uno spazio che le era stato sottratto.

giovedì 19 giugno 2008

AZZANO DECIMO


PORDENONE L’entusiasmo, a volte l’ostinazione di un drappello di appassionati. Assieme alla sensibilità di amministrazioni locali illuminate e al concreto sostegno di alcuni sponsor. È così che anche nella nostra regione alcune località riescono a ospitare, anno dopo anno, rassegne musicali di qualità che attirano pubblico (e turisti...) da tutto il Triveneto e spesso anche dal resto del Paese e dalle nazioni confinanti.

Stiamo parlando della Fiera della Musica di Azzano Decimo, arrivata quest’anno alla nona edizione, che è stata presentata ieri. Cast anche stavolta di qualità, con tre giornate - dal 4 al 6 luglio - dedicate ai grandi nomi, ma anche ai gruppi emergenti, a una mostra-mercato di vecchi dischi in vinile e ad altre iniziative.

Si parte venerdì 4 luglio alle 21.15, in piazza Libertà, con i torinesi Subsonica: rock, elettronica ed effetti scenografici sono gli ingredienti dello spettacolo che il gruppo porta quest’estate in giro nell’«Eclissi Tour».

Sabato sera doppio appuntamento, con il punk-rock degli inglesi Wire (Colin Newman voce e tastiere, Graham Lewis al basso, Robert Grey Gotobed alla batteria e Margaret Fiedler McGinnis alla chitarra) e con le canzoni rock del sanguigno toscanaccio Piero Pelù, l’ex leader dei Litfiba che ha pubblicato da poco l’album «Fenomeni».

E doppio appuntamento anche per il gran finale di domenica 6 luglio: a partire dalle 21.15, sempre in piazza Libertà, spazio prima all’acid jazz degli inglesi del James Taylor Quartet e poi alla dissacrante genialità di Elio e le Storie tese.

Ma si diceva anche delle iniziative collaterali. La Mostra del disco usato e da collezione apre sabato 5 luglio alle 15: un’occasione per tutti gli appassionati dei vecchi dischi in vinile, che stanno da qualche anno vivendo una nuova primavera, ma anche per gli amanti delle curiosità, dei memorabilia, dei gadget più o meno da collezione.

Sempre sabato, alle 16, all’Area Palaverde, parte la competizione del Concorso per gruppi emergenti. In programma l’esibizione di dieci formazioni, all’inseguimento di quel primo posto che spesso nelle edizioni passate ha rappresentato un buon viatico per cominciare l’avventura nel mondo della discografia. Si daranno metaforicamente battaglia davanti al pubblico e alla giuria i Banditi di Idrija (Slovenia), i CocKoo di Asti, i C-side di Staranzano, Dr Brown di Villanova di Guidonia (Roma), i MiniMa di Selvazzano Dentro (Padova), Nicola Lollino e i Musi Duri di Pinerolo (Torino), il Nima Quintet di Lavagna (Genova), gli Officina Francavilla di Padova, i Segnali di Ripresa di Colli del Tronto (Ascoli Piceno), gli Shape di Ivrea (Torino).

«Puntiamo - dicono gli organizzatori - a un rock festival di interesse assoluto, ma a misura d'uomo, capace di divertire, proporre, coinvolgere nel segno della colonna sonora della nostra storia. ”Fiera della Musica” si propone di trattare la musica nelle sue diverse forme e di realizzare degli eventi che uniscono al divertimento e al piacere di stare insieme, occasioni per poter entrare nel vivo di quest'arte tanto complessa quanto espressiva e universale».

Info su www.fieradellamusica.it, oppure www.myspace.com/fieradellamusica, o ancora 0434-636721.

mercoledì 18 giugno 2008

JEGHER


L’ambiente musicale triestino cela al suo interno tante storie, tanti personaggi che nel corso degli anni si sono fatti valere a livello nazionale e a volte anche internazionale. È il caso di Fabio Jegher, classe 1949, batterista e compositore e direttore d’orchestra che ha lavorato per tanti anni a Milano ma anche negli Stati Uniti, collaborando con grandi nomi della scena musicale internazionale, e che da diversi anni è tornato a vivere a Trieste. Non rinunciando a partire tutte le volte che i suoi impegni lo chiamano altrove. Come farà per esempio il 15 luglio, quando suonerà al Teatro Morlacchi di Perugia, nell’ambito di Umbria Jazz, assieme al Doug Webb Quintet e a Flavia Vallega.

«A Umbria Jazz - spiega Jegher - presenterò un programma vario, fatto di standard e brani miei, assieme al sassofonista e polistrumentista americano Doug Webb e alla cantante italo-egiziana Flavia Vallega. Ma ci saranno anche il trombettista e flicornista triestino Flavio Davanzo e l'organista-pianista Alberto Gurrisi. Parteciparvi è una grande soddisfazione, visto che è la rassegna jazz più importante d’Italia e fra le maggiori in Europa».

Della Trieste musicale dei suoi lontani esordi Jegher dice di ricordare poco. «Erano gli anni Sessanta, avevo quindici o sedici anni. Ricordo Axel Boch, la cui curiosità musicale fu per me di stimolo, confronto e conforto. Ricordo Gino D’Eliso, nel cui gruppo "The Children" suonai come batterista per un breve periodo. E poi, fra quelli della generazione precedente, il grande Franco Vallisneri, fisarmonicista e pianista che spesso suonava in sgangherati locali, dove molto spesso si genera la musica più autentica».

Di quell’ambiente - secondo Jegher - l’elemento di forza, la cultura mitteleuropea, era in realtà il suo elemento di debolezza. «Sebbene fossi un adolescente, sentivo che la cultura da cui ero attorniato peccava di un eccesso di intellettualismo». Voglia di scappare, di respirare aria nuova.

«Dopo la prematura scomparsa di mio padre, andai a Londra e Brighton a per approfondire le mie conoscenze musicali. Contemporaneamente, studiavo Scienze biologiche all’università, a Trieste. Il ’76 fu un anno cruciale: mi laureai e partii per Boston, dove mi trasferii per proseguire gli studi musicali. Con una borsa di studio andai poi a Los Angeles, alla prestigiosa Ucla, l’Università della California dove conseguii una laurea-master in composizione musicale e direzione d'orchestra, specializzandomi in musiche per film».

Un buon viatico per cominciare a lavorare. Concerti, album («Timezone» nell’83, «Chiaroscuri» nell’86, «Atmospheres» nel ’92, fino al recente «Life tones and film colors», uscito due anni fa), musiche per il cinema e per la televisione. «Tutti i grandi personaggi con cui ho collaborato mi hanno trasmesso il valore dell'umiltà, la convinzione che l'arte ricava la sua linfa vitale dalla concretezza della vita, dalle sue gioie, dai dolori e dalle noie».

Nomi? «Ricordo in particolare l’eclettico Shelly Manne; l’ironico Gunther Schuller, fra i primi a promuovere l’incontro fra classica, jazz ed etnica; David Raksin, vincitore di svariati Grammy e Oscar; Herb Pomeroy, uno dei padri della didattica dell'arrangiamento jazz; Jorge Calandrelli, premio Oscar per varie colonne sonore. E ancora il mio grande amico Tom Scott, compositore, sassofonista e direttore d'orchestra, noto per le colonne sonore di ”Taxi Driver”, ”Blade Runner”, la serie tv ”Starsky and Hutch”, che mi ha insegnato il grande valore della semplicità...».

Nella seconda metà degli anni Ottanta Jegher è tornato in Italia, prima a Milano e poi a Trieste. «Avevo avuto alcune offerte di lavoro nell'ambito didattico e musicologico. E desideravo ritrovare, per me e la mia famiglia, ritmi meno frenetici. Ora continuo a svolgere la mia attività didattica nell'ambito della composizione alla Fondazione Civica di Milano e al Conservatorio Santa Cecilia di Roma. E d’estate torno a Hollywood, dove proseguo la mia attività di compositore per i cortometraggi televisivi».

Fra i progetti, continuare a scrivere libri di divulgazione e didattica musicale, con progetti rivolti anche ai più piccoli. E proseguire l’attività discografica e concertistica. Come batterista, direttore d’orchestra e compositore.

Due anteprime a Trieste, prima dell’appuntamento del 15 luglio a Umbria Jazz: il 9 luglio al Music Bar Crispi, il 10 luglio al Cafè Rossetti.

ALLEVI


Musica totale, musica senza frontiere né steccati. Musica di Giovanni Allevi, il pianista e compositore marchigiano che l’altra sera ha aperto il concerto di Zucchero allo stadio milanese di San Siro. E ne ha ovviamente approfittato per presentare alcuni brani del suo nuovo disco «Evolution» (Ricordi SonyBmg), il primo in cui il nostro affianca al fidato pianoforte (per lui una sorta di coperta di Linus...) l'orchestra sinfonica, quella dei Virtuosi Italiani, nel tentativo di dar vita a una «nuova musica classica contemporanea».

Dopo cinque dischi di pianoforte solo («13 dita» uscito nel ’97 sotto l’egida e per l’etichetta di Jovanotti, «Composizioni» nel 2003, «No Concept» nel 2005, «Joy» nel 2006 e il disco dal vivo «Allevilive» pubblicato l’anno scorso) e anche un dvd («Joy Tour 2007»), che hanno raccolto uno straordinario successo di pubblico vendendo oltre 300 mila copie (di cui 135 mila «Joy», 80 mila «No Concept» e 75 mila «Allevilive»: tre dischi ancora presenti ai primi posti della classifica Fimi-Nielsen, nonostante siano stati pubblicati da tempo), e dopo il libro «La musica in testa» (edito da Rizzoli: sei edizioni e oltre 50 mila copie vendute), Allevi ha dunque dato spazio al suo inesauribile estro compositivo realizzando il suo nuovo album con un’orchestra sinfonica.

«Il classico rimanda a una tradizione, quella sinfonica, che - spiega l'artista - fa parte del nostro immaginario collettivo, ma il nostro tempo possiede degli elementi inediti rispetto al passato: la contemporaneità consiste in una struttura ritmica che ci è familiare dai Beatles in poi». Ecco allora la ritmica di oggi che irrompe nel linguaggio tradizionale, ma senza l'utilizzo di strumenti contemporanei: per rendere l'effetto di basso e batteria, la cosiddetta sezione ritmica di una band, sul fronte classico bastano contrabbasso, tuba e fagotto, così che «l'orchestra conquista il presente con i suoi soli mezzi, senza l'aiuto dell'elettronica».

La sfida di Allevi sembra essere quella di far entrare i brani di «Evolution» - «Foglie di Beslan», «Whisper», «Keep moving», «A perfect day»... - negli iPod dei ragazzi, dopo che le musiche dei dischi precedenti popolano da anni le programmazioni radiofoniche.

Ciò sull’onda di un’evoluzione, «emotiva e musicale», come dice lui stesso, che ha fra l’altro ispirato uno dei brani di punta del disco, «Angelo ribelle», sorta di manifesto musicale dell’attuale stato di grazia ma anche della poetica del musicista ma anche un po’ filosofo di Ascoli Piceno. Che spiega: «L'angelo ribelle è in ognuno di noi: con le mie note spero che spicchi il volo, librando le ali che la quotidianità ci ha fatto dimenticare di possedere».

Disco coraggioso, che ora Giovanni porterà in tour. Parte il 20 giugno dalla basilica di San Francesco d'Assisi, il 12 luglio fa tappa all’Arena Alpe Adria di Napoli.


X FACTOR


L’«X Factor» inglese ha lanciato artisti come Leona Lewis (quella di «Bleeding love», vista anche a Sanremo). La versione italiana non è a quei livelli, ma ha ottenuto un buon successo di pubblico. Grazie anche alla presenza di una esplosiva Mara Maionchi - che il critico tv Aldo Grasso ha definito «un mix tra Iva Zanicchi e Vanna Marchi» -, storica manager della discografia di casa nostra, reinventata come personaggio televisivo nel ruolo di giurata assieme a Morgan e Simona Ventura.

Dopo l’alto gradimento riscosso su internet – il giorno successivo alla finale era già al numero uno della classifica degli album più scaricati su iTunes – è arrivato anche nei negozi tradizionali il cd «X Factor Compilation» (SonyBmg): tredici cover in versione integrale raccolte in una sorta di «greatest hits» delle interpretazioni migliori che hanno animato il talent show di Raidue.

Il gruppo salentino Aram Quartet - che ha vinto la gara - apre l’album con una travolgente rilettura di «Per Elisa», il brano di Franco Battiato e Giusto Pio con cui Alice ha vinto Sanremo nell’81. Poi arrivano gli altri tre finalisti: Tony ed Emanuele rendono onore a Lucio Battisti rispettivamente con «Il tempo di morire» e «Con il nastro rosa», mentre la rivelazione Giusy omaggia Gabriella Ferri con la sua originale rivisitazione di «Remedios».

Gli altri nove artisti sono stati scelti fra quelli che avevano mostrato maggior personalità: dalla sofisticata Silvia di «Why» (Annie Lennox) ai raffinati Cluster («Don’t you worry ‘bout the thing» degli Incognito), dai SeiOttavi («Spiderman theme») al melodico Antonio («Di sole e di azzurro» di Giorgia), da Gino («Adagio» di Lara Fabian) alla grinta rock di Annalisa in «Mentre tutto scorre» dei Negramaro. E ancora un ricordo delle fugaci apparizioni di Vittoria («What’s up» delle 4 Non Blondes), Luna («Ti sento» dei Matia Bazar), l’eterea energia di Ilaria («Oceano» di Lisa), che si è consolata per l’eliminazione nella semifinale con il terzo posto su iTunes alle spalle di Aram Quartet e Giusy.

Saranno famosi? Chissà...


ALANIS MORISSETTE Ha avuto un periodo di gestazione molto lungo, ci ha messo dentro temi pungenti, momenti irrisolti della sua vita, altri in pieno divenire. Ma alla fine «Flavors of entanglement», il nuovo disco di Alanis Morissette, fotografa alla perfezione il momento che l'artista canadese sta vivendo. Dodici anni dopo il travolgente successo di «Jagged little pill», Alanis dimostra di avere ancora tanta grinta, altrettanto dolore, ma in tutte le sue sfumature. Fra le undici tracce brillano alcuni balzi melodici, come quello tra la lunare «Not as we», o la struggente «Torch», e la potente «Citizen of the planet», che apre il disco. Il sigillo di qualità lo ha messo il produttore di elettronica inglese Guy Sigworth, noto per avere lavorato anche con Bjork e che ha scritto l'album insieme alla Morissette. Che non ha messo da parte l'attivismo di un tempo: in «Versions of violence» parla di un lato «più insidioso e spesso trascurato della violenza, quello emotivo e privato».Alanis Morissette sarà domenica all'Heineken Jammin' Festival, a Venezia.


STATUTO  Gli Statuto sono stati i primi a portare lo ska nel nostro paese e continuano da 25 anni a tener fede alla loro impronta musicale. In controtendenza rispetto a quanto succede nel mondo della musica, e volendo mantenere vivo un supporto oggi in via d’estinzione, hanno anticipato l'uscita dell’antologia «Elegantemente rudi» pubblicando in vinile un estratto di quindici brani. Il doppio cd «Elegantemente rudi» (SonyBmg) festeggia i 25 anni di carriera del gruppo e contiene quaranta tra le canzoni più importanti degli Statuto e l'inedito «Qualcuna da mare». Sempre in perfetto stile mod, gli Statuto hanno percorso le strade di mezza Europa con le loro Vespe e Lambrette, eleganti ed effervescenti su qualsiasi palco, da quello di Sanremo al concerto per i licenziati della Lancia/Fiat di Chivasso, dal Festivalbar al Leonkavallo, dal Cantagiro al concerto in Plaza de la Revoluciòn, all’Avana, a Cuba, davanti a 200 mila persone. L'impegno sociale è stato sempre un loro punto fermo. Che li ha portati a scrivere «Ragazzo ultrà», brano riconosciuto come canzone ufficiale di tutte le curve degli stadi italiani e l’inno per la loro squadra del cuore, il Torino.

domenica 15 giugno 2008

CAMMARIERE 2


TRIESTE Gli elementi della natura tanto amati da Sergio Cammariere («il mio destino passa dal mare...») si sono messi ieri di traverso, per l’atteso debutto triestino del cantautore e musicista calabrese. Altro che metà giugno. Giornata e serata autunnale, con conseguente trasferimento dell’apertura del Festival Teatri a Teatro dalla sede originariamente prevista, il fascinoso Teatro Romano dove ogni pietra odora di storia, alla meno nobile ma più confortevole (e soprattutto al coperto) sede del vecchio Teatro Cristallo, da poco intitolato al ricordo del compianto Orazio Bobbio.

Ma il garbato Cammariere ci mette pochi minuti, per ricreare l’atmosfera giusta. Il tempo di sedersi al pianoforte, sussurrare due versi omerici davanti al microfono, buttar lì due accordi. <CF>Ed ecco che suggestioni, suoni e colori del suo mondo musicale diventano realtà. Una realtà fatta di bellezza, memoria, sobrietà. Una realtà in grado di scacciare, nella magia di una sola serata, tutto quel che non amiamo dei nostri malandati tempi moderni: dalla fretta al frastuono, dalla maleducazione alla superficialità, dalla cialtroneria al gusto per l’orrido.

Il pianista-crooner parte con «Spiagge lontane», dall’album «Sul sentiero», uscito nel 2004: il primo dopo il successo sanremese che l’anno prima ha concluso, a quarantatre anni, una gavetta che a quel punto sembrava non dovesse finir mai. Anche perchè in quei casi il pensiero va sempre a quel detto che ammonisce: quando una gavetta è troppo lunga, rischia di diventare un onorevole fallimento.

Per fortuna non è stato il caso del nostro, che ora si gode, tutto in una volta, un meritato successo di critica e di pubblico. Sorride quasi compiaciuto degli applausi che gli piovono addosso. Allarga le braccia, solleva gli occhi al cielo. Forse non gli sembra ancora vero, dopo tanti anni di attesa. Prosegue con «Sorella mia» e «Le porte del sogno», dall’album «Dalla pace del mare lontano», poi il caldo della sala lo convince ad abbandonare la giacca e restare in panciotto.

Ma la sezione ritmica (Amedeo Ariano alla batteria, Bruno Marcozzi alle percussioni, Luca Bulgarelli al contrabbasso) che lo ha accompagnato finora non basta più. Introduce il primo dei due solisti che si alterneranno, e a tratti suoneranno assieme, nel corso della serata: il violinista albanese Olen Cesari. Duettano assieme nel brano «Sul sentiero». E poi più avanti, persino in un giochino col pubblico (della serie: voi lanciate due note, noi continuiamo...), che da uno come Cammariere magari non ti aspetteresti.

Per far entrare l’altro solista, il trombettista Fabrizio Bosso, bisogna attendere quella suadente bossanova che è «L’amore non si spiega», Sanremo di quest’anno. Altri versi di Omero, sapore di Magna Grecia, di quella Crotone (che ritorna nella strumentale «Capocolonna») e di quella Calabria dove stanno le radici, le origini dell’artista. Che incassa anche un «Sergio, grazie di esistere...!» gridato dalle prime file.

A questo punto il nostro ci ha preso gusto. E dà il meglio di sé mischiando come forse solo lui sa fare in Italia sonorità jazz e canzone d'autore, tentazioni blues e sapori di bossanova. Il violino di Cesari aggiunge echi balcanici. La coesione della band fa il resto.

Tocca ad altri brani, che il caldo pubblico triestino (con l’aggiunta di un drappello di fan irriducibili, arrivati da «ogniddove», che seguono il loro idolo in tutte le tappe del tour) riconosce e apprezza: «Per ricordarmi di te», «Tempo perduto», «Cambiamenti del mondo»...

Ma è con «Dalla pace del mare lontano» che la serata tocca forse il suo punto più alto. Introdotta dai versi del filosofo e poeta goriziano Carlo Michelstaedter («I figli del mare»), suicida a ventitre anni, nel 1910, che l’hanno ispirata, la canzone comincia in un’atmosfera fra sogno e mito, leggenda e presenze oniriche, e poi finisce in una sorta di danza pagana, con tanto di assolo di batteria e percussioni.

E a quel punto «Tutto quello che un uomo», il brano portato a Sanremo nel 2003, terzo posto in classifica e Premio della critica, si trova dinanzi la strada spianata verso l’esito trionfale della serata, completato dalla verve di «Cantautore piccolino», dall’omaggio a Sergio Endrigo e da altri brani ancora.

Dopo l’anteprima triestina, il viaggio musicale di Sergio Cammariere prosegue nel tour estivo (debutto il 12 luglio a Cattolica), portando le sue suggestioni, i colori, le voci, i suoni, i ricordi in giro per l’Italia.

10.000...!

venerdì 13 giugno 2008

TOUR


TRIESTE Arriva anche Jovanotti. Lorenzo Cherubini è infatti la ciliegina sulla torta già ricca del cast dell’edizione 2008 di «No Borders». Il 27 luglio, in piazza Unità, a Tarvisio, presenterà il suo nuovo album «Safari». Il suo nome va ad aggiungersi a quelli già annunciati precedentemente: il pianista Ludovico Einaudi domenica 20 luglio alle 17 al Lago di Fusine; Sinead O’Connor venerdì 25 luglio in piazza Unità a Tarvisio; Macy Gray sempre a Tarvisio e sempre in piazza Unità il 29 luglio; il jazzista Stefano Bollani il 9 agosto alle 17 a Sella Nevea. E gli attesissimi Rem (con supporter gli Editors) il 24 luglio a Villa Manin, inseriti anche nel cast di «No Borders».

Intanto, ieri sera si è aperto, con il concerto di Jonathan Davis (voce di Korn), il «Sexto Unplugged 2008»< a Sesto al Reghena, in provincia di Pordenone. Il festival propone poi il 12 luglio ancora il pianista Ludovico Einaudi, accompagnato da un sestetto d’archi; il 19 luglio i Blonde Redhead, band di riferimento «per gli indie rocker alla ricerca di sonorità più fini e colte»; il 26 luglio i Marlene Kuntz, che presenteranno il nuovo disco «Uno»; il 2 agosto il cantautore comasco Davide Van De Sfroos, che ha da poco pubblicato il cd «Pica!» (informazioni su www.virusconcerti.it).

Alcune segnalazioni in ordine sparso. A Villa Manin - dopo Knopfler e Satriani, e oltre ai Rem - arrivano anche Pat Metheny il 15 luglio, Antonello Venditti il 26 luglio, Gianna Nannini il 3 settembre. Al Castello di Udine i Chieftains l’11, Loreena McKennitt il 12 e Paul Simon il 22 luglio. All’Arena di Lignano Sabbiadoro Fiorella Mannoia il 3, Giovanni Allevi il 12, Francesco De Gregori il 18 luglio, e poi Dionne Warwick il 9 agosto. Noa canta il 28 luglio a Spilimbergo, in piazza Duomo. I Pooh sono di scena il 2 agosto a Majano, al campo sportivo.

Veneto. Su tutti l’undicesima edizione dell’Heineken Jammin’ Festival, per la seconda volta al Parco San Giuliano di Venezia, dopo l’uragano che l’anno scorso ha interrotto la rassegna (e dopo le nove edizioni all’autodromo di Imola). Si parte venerdì 20 giugno con Linkin Park, Iggy Pop, Sex Pistols, Queens of the Stone Age, Linea 77. Si prosegue sabato 21 con Vasco Rossi e Marlene Kuntz. Si conclude domenica 22 con Alanis Morissette, Police, Counting Crows, Baustelle (informazioni su www.heineken.it e www.livenation.it).

Ma - sempre in Veneto - segnaliamo anche Neil Young lunedì 23 e Santana lunedì 30 giugno all’Arena di Verona, Jethro Tull venerdì 4 luglio a Schio, Elton John mercoledì 9 luglio in piazza San Marco a Venezia.

Slovenia. Domani alle 20, al Tivoli di Lubiana, arriva John Fogerty, già anima e leader dei leggendari Creedence Clearwater Revival. Il trombettista siciliano Roy Paci il 30 giugno a Lubiana, in piazza Prešeren. Ancora nella capitale slovena i rocchettari Status Quo mercoledì 2 luglio, i Massive Attack giovedì 10 luglio, Seal lunedì 14 luglio.

Croazia. Venerdì 13 luglio, per l’itinerante Radar Festival, arriva a Varazdin il «never ending tour» di Bob Dylan (aprono la serata gli inglesi Manic Street Preachers). Il 2 luglio a Zagabria suonano i Judas Priest, l’8 luglio all’Arena di Pola il battagliero Manu Chao, il 10 agosto a Spalato gli Iron Maiden.

Chiudiamo con Trieste. Per ricordare che Sergio Cammariere apre domani sera alle 21.30, al Teatro Romano, il Festival Teatri a Teatro, con un concerto che sarà l’anteprima del suo tour estivo. Il musicista calabrese ricorderà il filosofo e poeta goriziano Carlo Michelstaedter, suicida a ventitre anni nel 1910, i cui versi hanno ispirato la sua «Dalla pace del mare lontano». Con lui, sul palco, un gruppo jazz capitanato dal trombettista Fabrizio Bosso.

Nel capoluogo regionale vanno segnalati anche i concerti dello spagnolo Hevia il 13 luglio e di Pino Daniele (con i vecchi soci napoletani: Tony Esposito, James Senese, Tullio De Piscopo...) il 31 luglio, entrambi in piazza Unità.

Buona musica in arrivo anche grazie a due rassegne. «Trieste Loves Jazz», curata dalla Casa della Musica, che si terrà dal 16 al 27 luglio fra piazza Unità, piazza Verdi, piazza Hortis e via San Nicolò, con artisti triestini ma anche internazionali. Fra i quali venerdì 18 luglio il mitico Brian Auger (che con i suoi Oblivion Express suonò a Trieste nei primi anni Settanta, e più recentemente si è esibito anche al Teatro Miela) e martedì 22 luglio gli americani Yellow Jackets, con Mike Stern alla chitarra.

L’altra rassegna, «Trieste Rock Summer Festival», curata dall’Associazione Libera Musica e giunta alla quinta edizione, è stata ridotta a due sole sere in piazza Unità: Glen Hughes (ex Deep Purple) il 2 agosto; i napoletani Osanna con David Jackson (ex Van der Graaf Generator) e poi Ray Wilson (per un breve periodo con i Genesis) la sera del 3 agosto.

mercoledì 11 giugno 2008

CAMMARIERE


"E' la prima volta che vengo a Trieste. In assoluto. E dunque sono molto curioso, perchè è una città che mi ha sempre attirato e affascinato. Anche per la vicinanza con Gorizia, patria di Carlo Michelstaedter, che ha ispirato la mia ”Dalla pace del mare lontano”...».

Sergio Cammariere apre sabato alle 21.30, al Teatro Romano, il Festival Teatri a Teatro. Al telefono ha voglia di chiacchierare, di raccontare questa sua splendida avventura umana e musicale che lo ha portato a giocarsi, quattro anni fa, a Sanremo, quella che lui stesso chiama «l’ultima carta». E di vincere la partita.

«Diciamo subito - dice Cammariere, calabrese di Crotone, classe 1960 - che io fino al 2002 avevo il problema di come pagare l’affitto di casa. La musica è sempre stata la mia vita. Vengo da una famiglia di contadini del Sud, nessuno dei miei suonava, io ho cominciato con una melodica soprano, il mio primo strumento preso in mano che andavo ancora alle elementari».

Poi una fisarmonica in regalo, gli insegnamenti di un maestro di coro, quaranta bambini assieme ai quali andare a undici anni a Castrocaro Terme, al concorso «Ugoletta d’oro». E un giorno, a casa di una cuginetta, l’illuminazione del pianoforte. «Riuscii a trasportare sulla tastiera tutto quello che avevo imparato, dall’Ave Maria di Schubert alle cantate che proponevamo col coro al Teatro Apollo di Crotone. Ricordo che rimasero tutti a bocca aperta, che bravo, ma dove hai imparato, e perchè non lo mandate a studiare pianoforte...».

Il ragazzo intanto cresce. Nella Calabria degli anni Settanta, come in tutt’Italia, si formano e si disfano gruppi e gruppetti. «Giravo per la regione, suonavo nei villaggi turistici, insomma mi davo da fare. Con la consapevolezza che il mondo dei suoni era la mia vita, la vita che volevo vivere. Una rivelazione della realtà circostante, che era fatta di natura, di elementi spirituali, di mare. E anche quanto poi sono partito, lasciando la Calabria, sono rimasto convinto che il mio destino passasse proprio dal mare».

A diciotto anni va a Firenze, si iscrive all’università. «All’inizio scienze agrarie, avevo pur sempre un padre coltivatore diretto. Ma non feci nemmeno un esame. E c’era l’incubo della chiamata in marina, allora il servizio militare era obbligatorio, che incombeva. Allora passai a giurisprudenza: un esame all’anno, storia del diritto romano, canonico, per rinviare la chiamata...».

Nel frattempo la ricca vita musicale fiorentina lo avvolge. «In Calabria ascoltavo e suonavo musica leggera e rock. Ero capace di fare al pianoforte pezzi dei Genesis, dei Deep Purple. Ma la vita è l’arte dell’incontro, e in un gruppo con cui suonavo a Livorno - quante volte l’ho fatta in treno, quella tratta da Firenze a Livorno... - conobbi un musicista che mi introdusse al repertorio dei grandi standard, del jazz, della bossa nova. Cominciai a masticare John Coltrane e Stevie Wonder. E fu un’altra rivelazione...».

La storia continua. Nell’84 Cammariere si trasferisce prima per pochi mesi a Milano, poi (definitivamente, almeno per ora) a Roma. Suona in un locale alla moda, frequentato da quelli che lui chiama «i politici della prima repubblica». Vita da «pianista di pianobar». Fino all’incontro con Roberto Kunstler. «Quando l’ho conosciuto aveva già fatto quattro dischi, e stava per andare al Festival di Sanremo. Cominciamo a collaborare, a lavorare assieme. Da quel momento molte delle mie canzoni le abbiamo scritte assieme».

Ma la gavetta non è ancora finita. Cammariere scrive canzoni per Paola Turci e Gegè Telesforo, firma colonne sonore per il cinema («a oggi ne ho fatte dieci: la prima nel ’90, per un film di Pino Quartullo; la più fortunata per ”Uomini senza donne”, con Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi; la più recente, l’anno scorso, per Mimmo Calopresti, calabrese come me...»), fa il «pianista di servizio» («come diceva Arbore...») in tanti programmi televisivi.

«Nel ’92, Vincenzo Micocci ci dà la possibilità, a me e a Kunstler, di fare un album in coppia. Disco ormai quasi introvabile, rarissimo, mi sembra che su eBay ha una quotazione di settanta euro. Ma la mia situazione comincia a cambiare cinque anni dopo, quando mi chiamano al Premio Tenco, ai cui organizzatori mandavo già da un paio d’anni le cassette con le mie canzoni. Nel ’97 mi danno il premio per il miglior artista emergente, conosco De Andrè, Guccini, Paolo Conte, ricevo parole di apprezzamento da quelli che per me erano degli autentici miti».

È la spinta per continuare. Nel 2002 la Emi lo mette finalmente sotto contratto. Esce «Dalla pace del mare lontano» («canzoni che avevo scritto nel corso degli anni, le conoscevo talmente bene che il disco lo registrai in cinque giorni...»), la casa discografica gli propone di andare a Sanremo.

«Lì ero consapevole di giocarmi tutta la vita in tre minuti. Era l’ultima carta, mi rimettevo in gioco a quarantatre anni. Fosse andata male, ero pronto ad andarmene all’estero. In Brasile, dove ero già stato trovandomi molto bene. Oppure in Francia, in Olanda, in Germania, dove poi sono invece andato in questi ultimi anni a suonare, trovando un’ottima accoglienza».

Sì, perchè nel frattempo è successo che Sergio Cammariere, dopo quel Sanremo (terzo posto e premio della critica con «Tutto quello che un uomo»), è diventanto una sorta di fenomeno. Dischi (fino al recente «Cantautore piccolino»), tournèe, un altro Sanremo quest’anno. E ora un nuovo tour, che parte il 12 luglio da Cattolica e avrà sabato a Trieste l’anteprima.

«Sarà un concerto particolare - conclude Cammariere - anche in onore di Carlo Michelstaedter, il filosofo goriziano morto suicida a ventitre anni, nel 1910, che trovo sia il nostro poeta maledetto, il Baudelaire o il Mallarmè italiano. Me l’ha fatto conoscere Kunstler, che è l’anima intellettuale del duo, e ha usato i versi iniziali della poesia ”I figli del mare” di Michelstaedter per la nostra canzone ”Dalla pace del mare lontano”. Un brano evocativo, fra sogno, mito, leggenda, presenze oniriche. Per evocare anche il dramma dei nostri fratelli che si imbarcano e navigano giorni e notti per il mare nella speranza di un futuro più sereno».

Con Cammariere, sabato a Trieste, in scena un bel gruppo di jazzisti capitanato da Fabrizio Bosso alla tromba. Sarà un piccolo grande evento.


 

martedì 10 giugno 2008

JAGUAR


PRAIANO La costiera amalfitana, con i suoi tornanti stretti e mozzafiato, e senza tracce di munnezza, potrebbe sembra il luogo meno adatto per testare una berlina importante - già nelle dimensioni - come la nuova Jaguar XF. E invece, quasi a sorpresa, la seconda «beautiful fast car» (dopo la XK) della casa inglese, anche se ormai acquistata dagli indiani della Tata, sfoggia una maneggevolezza e un’agilità assolute persino sulla stretta e tortuosa provinciale con vista sui Faraglioni.

Per la Jaguar XF - che è stata presentata ufficialmente in Italia dopo aver già fatto la sua apparizione ai Saloni di Francoforte e Ginevra - la sfida è quella di fondere lo stile e le prestazioni di una vettura sportiva con la raffinatezza e lo spazio di una berlina di lusso. Moderna e tradizionale allo stesso tempo, la XF è in vendita a partire da 51 mila euro (nella versione che lo staff Jaguar non vuole chiamare base, «perchè - dicono - ha già tutto...») e sfiora gli 85 mila euro per il modello equipaggiato con la motorizzazione a benzina aspirata. Automobile che si rivolge dunque a un target piuttosto danaroso.

Il frontale è possente e muscoloso: una caratteristica delle vetture sportive inglesi trasferita in questo caso su una berlina.All'esterno la vettura rivela infatti un carattere dinamico da vera e propria coupè sportiva, mentre gli interni - in un ambiente blu fosforo - spaziosi e comodi richiamano fortemente una berlina di lusso. Una doppia anima, dunque. Presente anche nei materiali raffinati e nell'intelligenza della tecnologia che «resta nascosta finchè non serve», ovvero fino a quando non viene chiamata in causa dal guidatore stesso.

Il Jaguar Drive Selector permette di selezionare le funzioni del cambio automatico ruotando il comando con la punta delle dita. Il Bluetooth è capace di connettere fino a cinque cellulari. I livelli di impianto audio Bowers & Wilkins da 140 a 440 Watt sono tre. Il Jaguar Sense consente l'azionamento a sfioramento per il vano portaoggetti e l'illuminazione interna.

Per l'alimentazione a benzina sono previsti il 4.2 V8 sovralimentato, il 4.2 V8 aspirato e un 3.o V6. Il diesel è invece un 2.7 V6 capace di raggiungere una coppia massima di 435 Nm con consumi ridotti (10,4 l/km). Nel 2008 Jaguar conta di venderne 2.200 unità. Mercedes, Porsche e Bmw sono le sue rivali...

Ca.m

KNOPFLER 2


dall’inviato

CARLO MUSCATELLO




CODROIPO Eccolo, finalmente, il sultano dello swing. L’eroe della chitarra che trent’anni fa stregò il mondo della musica con i suoi Dire Straits, e che da quando si propone come solista ricrea le stesse atmosfere eleganti e fascinose di allora. Mark Knopfler appare sul grande palco di Villa Manin alle 21.30 e sembra quasi un signore capitato lì per caso, aria da turista inglese con digitale a tracolla per immortalare le bellezze dell’antica dimora dell’ultimo doge di Venezia. E invece a tracolla l’ex ragazzo di Glasgow (ad agosto ne fa cinquantanove) ha la sua fidata Fender rossa, quella che suona senza plettro, applicando la tecnica del fingerpicking nata per l’acustica. Gli anni passano, ma il suo modo di accarezzare le sei corde rimane lo stesso.

Due accordi, qualche verso sussurrato nel microfono con la caratteristica voce roca che a tanti, trent’anni fa, fece ricordare il riconosciuto maestro Bob Dylan, e la magia si ricrea come per incanto. La magia di una musica che rifugge caos, velocità eccessiva dei nostri tempi moderni, per recuperare il gusto della lentezza, della classe, della sobrietà.

Oggi il vecchio Mark esplora gusti e generi musicali lontani da quelli che lo hanno reso immortale con i Dire Straits. Arriva a mischiare ritmiche di valzer e sonorità irlandesi, tentazioni country e richiami al folk. Il suo ultimo lavoro solista, «Kill to get crimson», uscito l’anno scorso, è intimista, introspettivo, distante dall'energia rock sprigionata un tempo.

Ed è proprio dai lavori solisti che pesca i primi brani in programma: ”Cannibals”, ”Why aye man”, ”What it is”, ”Sailing to Philadelphia”... Ma l’uomo è saggio. Sa che il suo pubblico lo ama ma non ha ancora elaborato completamente il lutto dello scioglimento della storica band. Dunque propone una scaletta che sì, pesca a piene mani dai lavori solisti: l’ultimo ma anche i precedenti, da «Golden heart» a «Sailing to Philadelphia», da «Shangri-La» a «The ragpicker’s dream». Ma in mezzo ci infila gli antichi cavalli di battaglia: «Romeo and Juliet» (primo boato della serata, alle 22.10) e «Sultans of swing» (secondo boato), «Telegraph road» e «Brothers in arms». Giusto per scaldare la serata poco estiva. E consolare i nostalgici dell’epopea targata Dire Straits. Che infatti dimostrano di gradire assai.

Sul palco, sopra le teste dei nostri eroi, una sorta di enorme disco sembra essere messo lì a far da tetto alla scena. Poi, d’un tratto, il grande cerchio scende di traverso, quasi a novanta gradi, e si rivela per quel che è: la cassa di un’enorme chitarra stilizzata che resta lì, a ricordare al pubblico qual è l’oggetto, prim’ancora che lo strumento, che ha cambiato la vita al vecchio Mark e non soltanto a lui.

Fra un brano e l’altro, l’ex insegnante di inglese (e l’aria da prof gli è un po’ rimasta...) parla poco. Giusto due parole di circostanza. Con voce quasi flebile. Niente urla, niente grida. Nessuna concessione al rituale - e alla retorica - dei concerti rock. Capelli corti e sempre più radi, jeans e maglietta e camiciola (apparentemente) da poche sterline, mostra un approccio rilassato, quasi impiegatizio alla serata che conduce comunque in porto con mestiere e classe, oltre che sobrietà.

In un mondo della musica che vive da sempre di eccessi, il figlio dell’architetto ebreo ungherese e dell’insegnante inglese è l’antitesi delle star che popolano da mezzo secolo la scena pop e rock. Stravaganze, esagerazioni e chiassosità sono stati e sono l’emblema dei suoi colleghi, da Mick Jagger a Madonna, da Elton John a Robin Williams, da David Bowie a chi volete voi. La sua cifra stilistica sta all’opposto. Fuori da ogni moda e quasi fuori dal tempo, Knopfl</CF></CP></IP></EL><IP0>er è l’antidivo per eccellenza, l’emblema dell’uomo comune. Quasi un signore della porta accanto che, magari dopo una giornata di lavoro, prende in mano la chitarra e delizia gli ospiti con una tecnica sopraffina, con classe ed eleganza.

Racconta storie di gente comune, più sullo stile dei «looser» americani che delle pop song da classifica. Storie di vita, fatica, dignità. Storie di lavoratori stanchi ed emigranti nostalgici. Il tema del viaggio, della lontananza. Mettendo assieme passato e presente, pop e country, rock e blues, musica tradizionale e canzone. Lo faceva trent’anni fa, mentre in Inghilterra impazzavano new wave e disco, e il punk faceva piazza pulita di perbenismi e luoghi comuni. Lo fa oggi, rifuggendo una scena sempre più tecnologica, elettronica e digitale, e proponendo invece i suoi affreschi folk-rock con quell’approccio soffice e appassionato che non lascia indifferenti le menti e i cuori sensibili.

La notte scende sull’antica dimora ducale, le note salgono verso un cielo ormai nero. I settemila che affollano l’arena si gustano le due ore di country e rock, permeate di arrangiamenti blues, che il vecchio rocker gentile - con la band capitanata dal fido collega e amico Guy Fletcher - propone in questa sua seconda vita musicale. Con gli anni è diventato una sorta di menestrello che scava nelle tradizioni - percorso analogo a quello di Springsteen - e le mischia con i generi frequentati in passato.

A Villa Manin, due ore di grande musica diluita in una ventina di brani, vecchi e nuovi. Buon successo di pubblico, per il concerto - proposto da Euritmica - che ha aperto l’estate musicale del Friuli Venezia Giulia. Domani sera, sempre qui a Passariano, arriva un altro grande della chitarra: Joe Satriani. Insomma, la festa è cominciata. E può continuare.


 

sabato 7 giugno 2008

TOUR


Mark Knopfler apre stasera alle 21 a Villa Manin l’estate musicale regionale. Attesi oltre seimila appassionati, per una ventina di brani in due ore di musica. Con lui, sul palco, Richard Bennett alla chitarra, Danny Cummings alla batteria, Guy Fletcher e Matt Rollings alle tastiere, Glenn Worf al basso, John McCusker al violino e mandolino. Dalle 17 biglietti ancora disponibili alle casse, cancelli aperti alle 19.

Ma come si diceva, il programma dell’estate è ricco e cresce quasi di giorno in giorno. Mentre martedì, sempre a Villa Manin, arriva un altro mito della chitarra, Joe Satriani, il calendario si è appena arricchito del cast di «No Borders», la manifestazione che fa base nella zona di Tarvisio ed è giunta ormai alla tredicesima edizione. Il pianista Ludovico Einaudi, visto recentemente al Rossetti di Trieste, suonerà domenica 20 luglio alle 17 al Lago di Fusine. Venerdì 25 luglio, in piazza Unità a Tarvisio, la serata avrà come protagonista la grande cantautrice e musicista irlandese Sinead O’Connor (nella foto). Sempre a Tarvisio e sempre in piazza Unità, il 29 luglio sarà invece di scena l’americana Macy Gray. Un altro jazzista italiano, Stefano Bollani, suonerà il 9 agosto, alle 17, a Sella Nevea.

Nel programma di «No Borders», che nelle edizioni passate ha già portato in regione molti grandi nomi della musica italiana e internazionale, è stato anche inserito - in una sorta di «comproprietà» fra organizzatori, realizzata probabilmente per abbattere le spese - anche il già annunciato concerto dei Rem a Villa Manin, il 24 luglio (serata aperta dagli Editors).


 

venerdì 6 giugno 2008

MARK KNOPFLER


CODROIPO Oltre seimila biglietti già venduti. Altri ancora a disposizione nell’abituale circuito delle prevendite. E il popolo del rock pronto a mettersi nuovamente in marcia, per il primo grande evento musicale dell’estate 2008 nel Friuli Venezia Giulia. Stavolta si punta tutti su Villa Manin di Passariano, che anche quest’anno sta per diventare - anticiclone permettendo - una sorta di capitale estiva regionale delle sette note. Si comincia domani con Mark Knopfler, leggendario chitarrista inglese, già leader degli altrettanto leggendari Dire Straits, che ieri sera al PalaLottomatica di Roma ha aperto la seconda parte del suo tour italiano: stasera è all’Adriatic Arena di Pesaro, domani conclude il tris tricolore nella nostra regione.

Per lui, per l’ex ragazzo nato a Glasgow il 12 agosto 1949, che cominciò a suonare la chitarra a quindici anni, influenzato dalle canzoni del suo idolo Bob Dylan (che tanti anni dopo lo avrebbe chiamato a collaborare negli album «Slow train coming» e «Infidels»), domani si metteranno in viaggio appassionati di tutte le età. Provenienti da tutta la regione, ma anche dal vicino Veneto, dall’Austria, dalla Slovenia, dalla Croazia. «Abbiamo avuto richieste di biglietti da mezza Italia - dicono gli organizzatori -, anche dalle zone dove si svolgono gli altri due concerti del tour, perchè c’è sempre una fetta di fan irriducibili che, in queste occasioni, seguono tutte le date della tournèe del loro idolo...».

Vediamo, allora, come nasce una leggenda musicale che dimostra di essere ancora così solida e radicata. Padre di origini ungheresi, madre inglese, da ragazzo il giovane Mark studia giornalismo all'Harlow Technical College di Leeds, e per un anno lavora come cronista al quotidiano Yorkshire Evening Post. Poi si laurea in lingua e letteratura inglese alla University of Leeds, e per un periodo insegna inglese a stranieri e ragazzi svantaggiati.

Nel ’73 si trasferisce a Londra assieme al fratello minore David, anch'egli «malato» di musica. Suona nei Brewers Droop, gruppetto blues. Suona la chitarra col pensiero a Chet Atkins, Jimi Hendrix, Django Reinhardt... Nel ’77, col fratello e due amici (il bassista John Illsley e il batterista Pick Withers, che negli anni Sessanta suonava in Italia con Mal and the Primitives), mette assieme un gruppo.

All’inizio si fanno chiamare Cafè Racers, poi optano per Dire Straits, che significa «gravi difficoltà», forse per scherzare sulle ristrettezze economiche in cuii si arrabattano. Propongono rock’n’roll classico, con influenze blues, country e jazz: roba assolutamente fuori moda rispetto ai gusti dell'epoca (punk, new wave, disco...).

Nel ’78 esce il loro primo album, registrato in dodici giorni e intitolato semplicemente «Dire Straits». Dentro c’è quel gioiello di classe ed eleganza che rimane tuttora «Sultans of swing». Il disco fa il botto. Ripetuto l’anno dopo da «Communiqué», nell’80 da «Making movies», nell’82 da «Love over gold»... Ormai i Dire Straits sono delle star, il cui marchio di fabbrica sta proprio nei fraseggi e negli assoli chitarristici di Mark Knopfler. La sua Fender Stratocaster rossa e bianca diventa quasi un feticcio per milioni di appassionati.

Seguono anni di altri dischi («Brothers in arms», dell’85, vende da solo 29 dei cento milioni complessivi di copie vendute in carriera), tour in mezzo mondo, collaborazioni illustri, pause di riflessione. L’epopea dei Dire Straits si conclude nel ’95. L’anno dopo esce il primo album solista di Mark, «Golden heart», ricco di atmosfere che ricordano gli anni d’oro del gruppo. È l’inizio di una nuova carriera, fatta di altri dischi (il più recente è «Kill to get crimson», uscito l’anno scorso e arrivato a un anno di distanza da «All the roadrunning», a quattro mani con Emmylou Harris) e altre tournée. Come quella che domani arriva a Villa Manin. Seconda parte - come si diceva - di un tour italiano che ad aprile ha già toccato Milano, Mantova e Bolzano.

Ma si diceva che Knopfler è solo il primo big in arrivo. Già martedì, sempre a Villa Manin, c’è un altro mago delle sei corde: Joe Satriani. E sempre nella dimora ducale arrivano anche Pat Metheny il 15 luglio, i Rem (con gli Editors) il 24 luglio, Antonello Venditti il 26 luglio, Gianna Nannini il 3 settembre. Stavolta non c’è lo spazio per ricordare gli altri appuntamenti già fissati in altre località della regione. Sarà per la prossima volta.

domenica 1 giugno 2008

DE GREGORI È possibile scriver male dell’ultimo disco di Francesco De Gregori senza incorrere nel reato di lesa maestà? Dopo quattro decenni trascorsi a incensare il cantautore romano («Theorius Campus», a quattro mani con Venditti, è del ’72; il debutto solista, con «Alice con lo sa», dell’anno successivo), temiamo sia arrivato il momento di superare l’imbarazzo e interrompere una tradizione positiva. Dicendo chiaro e tondo che «Per brevità chiamato artista» (Columbia SonyBmg), già generosamente immortalato da una nota firma del Tg1 come «uno dei più belli e importanti della sua carriera», è in realtà un brutto disco.

Peggio: un disco inutile, nel quale il cinquantasettenne De Gregori - che in passato ha scritto alcune delle pagine, quelle sì, più belle e importanti ed emozionanti della canzone d’autore italiana - dà l’impressione di raschiare il fondo del barile. Lo si capisce già dal titolo, che lui stesso ammette di aver ripreso da un’espressione usata nel primo contratto discografico da lui firmato. «Credo di aver pensato fin da allora - ammette - che prima o poi l'avrei usata in una canzone...». Era l’alba degli anni Settanta, il momento è arrivato.

Eccola, allora, la canzone che apre e dà il titolo al disco. Una ninna nanna nel classico stile De Gregori, con tutti i suoi luoghi comuni (zoppi che camminano dritti, pittori senza mani...), che ti aspetti sempre stia per aprirsi su un inciso, un guizzo, insomma un qualche cosa, e invece prosegue per cinque minuti e mezzo, sempre uguale a se stessa, in un piattume ottimo solo per conciliare il sonno.

«Finestre rotte» ha il pregio di interrompere l’incipiente abbiocco, ma non va oltre. Un rockettino debole debole, che non lascia traccia. «Celebrazione» si fa ascoltare, è passabile, ci fa quasi credere di aver pensato male troppo presto, ma poi - già al quarto brano - arriva la mazzata finale: «Volavola» è un brano al di là del bene e del male, «vola il pavone e vola il cardellino, se vai cercando un sassolino d’oro vedi che nel mio cuore ce n’è uno...». Aleggia un’inquietante atmosfera tipo Heidi che fa temere di aver sbagliato disco da inserire nel lettore.

Si prosegue così, fra una «Ogni giorno di pioggia che Dio manda in terra», che ricorda da lontano la vecchia «Ballata dell'uomo ragno», e una quasi dignitosa «L’angelo di Lyon», firmata però dal fratello Luigi Grechi (cognome della madre, adottato tanti anni fa dal primogenito per non essere accusato di voler brillare di luce riflessa...). Concludono il disco «Carne umana per colazione», «L'imperfetto» e «L’infinito»: l’impressione è quella di un tentativo di rifare, a volte con indubbio mestiere e persino una punta d’ispirazione, canzoni che lo stesso De Gregori ha già scritto. Molto meglio.

Lo dimostrano anche i concerti e le rare comparsate televisive (l’ultima dinanzi all’adorante Fazio...), dove lo spazio per le cose nuove è ridotto allo stretto indispensabile. Poi, per alzare il livello qualitativo e magari tirare l’applauso, si punta sugli antichi capolavori. Tutti ormai vecchi di almeno un quarto di secolo. Peccato. Davvero peccato.


MAX PEZZALI Max Pezzali, prima come 883 (all’inizio sigla di un duo con Mauro Repetto, mantenuta per un periodo anche dopo l’uscita del socio) e poi da solista, racconta dal 1992 di un album come «Hanno ucciso l’uomo ragno» la vita dei ragazzi di provincia. Sogni, inquietudini, aspettative, miti, delusioni adolescenziali. A Pavia e non solo.

Nel suo percorso mancava un album registrato dal vivo. Lacuna colmata con la pubblicazione di questo «Max Pezzali Live 2008» (Warner): diciannove brani nel cd, con due inediti («Mezzo pieno o mezzo vuoto» e «Ritornerò», una ballata che è anche un'apologia dei grandi amori, capaci di segnare la vita), e venti nel dvd, registrato nel corso dell'ultimo tour. Da «La regola dell’amico» a «Come mai», da «La dura legge del gol» a «Nord Sud Ovest Est», da «Gli anni» a «Sei un mito»...

Pezzali lo spiega così: «L'album racchiude anni di tournée, centinaia di migliaia di chilometri, palazzetti dello sport, panini all'autogrill e hall di albergo semibuie a smaltire l'adrenalina, rivivendo con i musicisti la serata appena trascorsa. Sorrisi e urla e autografi con persone così diverse di città in città ma in fondo così uguali, che sono cresciute con me durante questo lungo tragitto. E calendari che sembrano interminabili all'inizio, ma che poi alle ultime date si vorrebbe non finissero più»

«Il live racconta più di qualunque altra testimonianza discografica la vita che facciamo, e perchè abbiamo deciso di farla. Era giunto il momento di lasciare una testimonianza di quel che facciamo dal vivo. Finora non l’avevo fatto perchè solo un disco nuovo mi emoziona, ma dopo quindici anni di carriera ho voluto testimoniare l'andare in giro inteso come emozione unica e irriproducibile».

Ancora Pezzali: «Quando ero piccolo la mia finestra sul mondo era l'edicola della stazione, che oltre alle solite riviste ne prendeva qualcuna di musica o di moto. Oggi la tecnologia ci mette tutti sullo stesso piano. Non c'è più l'impossibilità di cambiare le cose, è solo una questione di volontà».

Dal 14 giugno Pezzali è di nuovo in tour. Partenza da Monza.


MORGAN / BLUVERTIGO Dopo la consacrazione come personaggio televisivo grazie a «X-Factor», Morgan riscopre la sua vera vena di cantante e musicista. «È successo a Morgan» è una raccolta di 17 canzoni: 14 sono tratte dai suoi tre album da solista, «Canzoni dell'appartamento», «Non al denaro, non all'amore, nè al cielo» e «Da A ad A»; poi ci sono rarità:«Il nostro concerto» di Umberto Bindi, «23 Roses» e «L'oceano di silenzio», di Franco Battiato, da una raccolta tributo a lui dedicata. Ma Morgan, insieme ad Andy, Livio e Sergio, è anche Bluvertigo, una della band più innovative nel panorama italiano. Dopo un periodo di silenzio, il gruppo è tornato assieme per dare vita a un nuovo capitolo della loro carriera. Teatro di questa reunion sono stati gli studi di Mtv, dove è stato registrato «Storytellers». Le telecamere hanno catturato immagini e suoni di un loro concerto ora racchiuso in un cd con dvd, contenente dodici brani in versioni esclusive per il programma. Il dvd propone integralmente la serata, oltre al video «Fuori dal tempo».


CARMEN CONSOLI «Eva contro Eva - Il dvd» di Carmen Consoli documenta la registrazione di un disco, gli allestimenti di un tour, un concerto, un viaggio, ma è soprattutto un racconto: il racconto della vita quotidiana di una cantante e della sua band storica, amici di tutta una vita. Alle lunghe sequenze registrate dei backstage si alternano scene dal concerto registrato al DatchForum di Assago, Milano, il 22 maggio 2006, nell'ambito del tour intitolato «Dal Simeto al Tamigi». Attraverso l'Europa - partenza da Sant'Agata Li Battiati (Catania), arrivo a Londra - a bordo dello «sleeping bus», Carmen ha portato sui palchi la sua band più numerosa, arricchita da sonorità world grazie alla presenza di numerosi strumenti tradizionali. Anche le scenografie sono tra le più imponenti che la cantautrice siciliana abbia mai avuto: un palco maestoso dietro il quale scorrono grandi immagini di nuvole in fuga, superfici acquatiche, foglie secche e piccoli ricami. Le canzoni di Carmen fanno il resto.


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