lunedì 29 dicembre 2008

CAPODANNO BLUES


È un Capodanno a tutto blues, quello organizzato per stanotte dal Comune di Trieste. In piazza dell’Unità saliranno infatti sul palco prima della mezzanotte il duo formato da Stefano Franco e James Thompson, e nel primo giro di lancette del 2009 Andrea Mingardi con la sua Rossoblues Brothers Band.

Una scelta musicale assolutamente di qualità, che fra l’altro interrompe una tradizione ormai pluriennale che vedeva sempre la piazza triestina orfana di artisti di livello nazionale - pur nel rispetto dovuto a tutti i lavoratori dello spettacolo - nella fatidica notte fra il 31 dicembre e il primo gennaio.

Con Mingardi siamo in presenza di un protagonista di primo piano della musica italiana da oltre un trentennio. Bolognese, classe 1940, esordi negli anni Sessanta in bilico fra rock, blues e canzoni più o meno demenziali nel dialetto della sua terra, deve aspettare il ’74 per dare alle stampe il suo primo album. Una certa popolarità gli arriva con «Datemi della musica», pubblicato nel ’76. Molti invece lo scoprono con il brano «Un boa nella canoa», con cui partecipa al Festivalbar dell’83.

A Sanremo invece lo troviamo per la prima volta nel ’92, al fianco dello sfortunato Alessandro Bono (che sarebbe poi morto di Aids, a soli trent’anni, nel ’94), con la canzone «Con un amico vicino». E altre quattro volte fra il ’93 e il 2004, quando ha proposto il brano «È la musica».

Ma il valore di Andrea Mingardi - che è stato per molti anni nel giro della nazionale cantanti, con Mogol, Morandi e tanti altri colleghi - è dimostrato anche dalla recente collaborazione con Mina. Prima il brano «Mogol e Battisti», scritto da Mingardi e cantato da Mina assieme a lui nell’album «Bau», nel 2006. Quest’anno lo abbiamo ritrovato autore di «Amiche mai», per lo storico duetto di Mina con Ornella Vanoni.

Da segnalare ancora che lo scorso anno è uscito l’album «Andrea Mingardi canta Ray Charles - Tribute to the Genius». E che soprattutto dal vivo, </EL>con la sua Rossoblues Brothers Band che lo accompagnerà anche stanotte a Trieste, l’artista bolognese rilegge il suo repertorio e alcuni classici della musica nera.

Ma il Capodanno a tutto blues, come si diceva, non vivrà solo della musica di Mingardi. Prima della mezzanotte il compito di riscaldare temperatura e atmosfera toccherà a The Dukes of Rhythm Duo. Ovvero: il pianista triestino Stefano Franco e il sassofonista statunitense James Thompson, da anni presenza costante della scena «live» cittadina ma anche in giro per l’Italia e all’estero.

Il primo ha un brillante passato anche di «one man band» a Umbria Jazz e in altri importanti festival blues italiani ed europei. Il secondo, originario di Cleveland (Ohio), vive da anni in Italia, dove ha collaborato fra gli altri con Zucchero, Paolo Conte, Stadio e lo stesso Mingardi. Assieme, Franco e Thompson propongono un repertorio che spazia dai classici di Duke Ellington a riletture di brani di Jimi Hendrix, passando per una produzione originale di qualità. Insomma, stanotte in piazza Unità grande musica prima e dopo mezzanotte. Giusto per finire bene e subito dopo ripartire alla grande.

domenica 28 dicembre 2008

...da non perdere CHECCO ZALONE che rifà JOVANOTTI, a Zelig (8-12-2008), davanti allo stesso, via via senza parole...


su:


http://www.youtube.com/watch?v=OxYaa59Xn-I

venerdì 26 dicembre 2008

ANTONACCI A TS


C’è anche Biagio Antonacci, nel 2009 musicale triestino. Le cui prime settimane a questo punto schierano nell’ordine: Patty Pravo lunedì 5 gennaio, poi un tris formato Biagio Antonacci il 12 febbraio, Franco Battiato il 13 e 14, Vinicio Capossela il 15. Il tutto al Politeama Rossetti, che sceglie dunque di cominciare il 2009 proponendo la grande musica italiana.

Per quanto riguarda l’ex ragazza del Piper, al secolo Nicoletta Strambelli, si tratta in realtà del tradizionale concerto «Buon anno Trieste», nell’ambito del quale l’Associazione Commercianti ha portato nel corso degli ultimi anni vari protagonisti di primo piano della musica italiana. Stavolta tocca a Patty Pravo, che nel 2008 ha compiuto i sessanta (complimenti...) e ha proposto una versione «alla Amy Whinehouse» del suo antico classico «La bambola». E ora si prepara a partecipare al Sanremo 2009.

Sì, perchè ci sono vari modi per avvicinarsi al Festival di Sanremo, la cui 59.a edizione si terrà fra il 17 e il 21 febbraio (vedi articolo qui a destra). L’artista veneziana ha scelto di continuare il tour quasi fino alla vigilia. Il Rossetti ha invece pensato bene di proporre il tris di cui si diceva - a mo’ di «disintossicazione preventiva»... - nelle sere immediatamente precedenti alla kermesse, quest’anno allestita e presentata da Paolo Bonolis.

Aprirà dunque il bell’Antonacci, da anni idolo canoro di ragazze e donne di ogni età, che ha appena pubblicato l’album «Il cielo ha una porta sola». L’annesso tour teatrale comincerà il 26 gennaio dal Teatro Augusteo di Napoli, e prima di arrivare a Trieste (dove ultimamente si era fatto vedere al palasport), toccherà alcune città del Sud, poi Varese, Ascoli Piceno, Livorno e Milano, e dopo la tappa al Politeama e alcuni altri concerti in giro per la penisola, si concluderà il 21 febbraio a La Spezia.

Per il pubblico triestino l’occasione per sentire i brani nuovi e gli storici cavalli di battaglia del cantautore di Rozzano, paesotto vicino Milano. Gli uni e gli altri sono compresi nel nuovo disco, che dà il titolo a questo tour. Da segnalare che i vecchi ma sempre validi successi, riletti per l’occasione, sono stati scelti attraverso un sondaggio dai fan (oltre 900 mila contatti) che hanno potuto votare e quindi scegliere la composizione definitiva del cd: inserendo «Pazzo di lei» e «Quanto tempo e ancora», «Iris (fra le tue poesie)» e «Sappi amore mio», «Convivendo» e «Se è vero che ci sei». Senza dimenticare «Angela», «Mio padre è un re», «Fiore», «Quell’uomo lì», «Lo conosco poco»...

Completano il tris, come si diceva, Franco Battiato e Vinicio Capossella. L’artista siciliano dovrebbe tenere al Rossetti ben due concerti: il 13 e 14 febbraio. Reduce dalla pubblicazione di «Fleurs 2», terzo capitolo di cover (nonostante l’inconsueta numerazione...), che brilla soprattutto per l’unico inedito: «Tutto l’universo obbedisce all’amore», a due voci con la compaesana Carmen Consoli.

Per quanto riguarda Capossela, il suo tour «Solo Show» riparte il 26 gennaio da Torino, per uno spettacolo che riprende l’impostazione del suo recente album «Da solo». Che parla di temi importanti e universali come l'unione, la guerra, la distanza, il cielo, il silenzio, l'America, la clandestinità, la verità...

Ultime segnalazioni «trivenete»: domenica al Nuovo di Udine concerto di fine anno con Antonella Ruggiero, domenica primo febbraio al palasport di Pordenone suonano i Sonohra, venerdì 13 febbraio al Nuovo di Udine si esibisce Mango, sabato 21 febbraio al Palaverde di Treviso fa tappa il tour degli Oasis, martedì 31 marzo al palasport di Pordenone concerto dei Nightwish.

mercoledì 24 dicembre 2008

So this is Christmas

And what have you done

Another year over

And a new one just begun



And so this is Christmas

I hope you have fun

The near and the dear one

The old and the young



A very merry Christmas

And a happy New Year

Let’s hope it’s a good one

Without any fear



And so this is Christmas

For weak and for strong

For rich and the poor ones

The world is so wrong



And so happy Christmas

For black and for white

For yellow and red ones

Let’s stop all the fight



A very merry Christmas

And a happy New Year

Let’s hope it’s a good one

Without any fear



And so this is Christmas

And what have we done

Another year over

And a new one just begun



And so this is Christmas

I hope you have fun

The near and the dear one

The old and the young



A very merry Christmas

And a happy New Year

Let’s hope it’s a good one

Without any fear



War is over

If you want it

War is over

Now…


(happy xmas, war is over - john lennon, 1971)

martedì 23 dicembre 2008

SANREMO / ARCIGAY


Sanremo, c’è già la prima polemica. È bastato che nell’elenco dei partecipanti annunciato l’altra sera spuntasse Povia con il titolo «Luca era gay», ed ecco che ieri l’Arcigay si è detta pronta a bloccare il Festival, in programma fra il 17 e il 21 febbraio. Il motivo: quel titolo «sembra già non lasciare dubbi sul tema trattato e sulle posizioni dell'autore; non si può nel 2008 arrivare su un palcoscenico nazionale a sostenere che gay e lesbiche sono malati, sbagliati o immaturi», si legge in una nota dell’associazione. Che ha immediatamente lanciato su Facebook il gruppo «Non lasciamo che Povia canti di ex-gay a Sanreme», al quale sono arrivate oltre duecento adesioni in poche ore. Della serie: fino a febbraio ne sentiremo delle belle.

Per quanto riguarda il cast, si nota il solito effetto macedonia. Cambiano gli ingredienti (l’anno scorso quelli graditi da Baudo, quest’anno scelti da Bonolis), ma la sostanza non cambia. Si contenderanno dunque la vittoria al 59.o Festival gli Afterhours e Al Bano, Alexia (con ospite Mario Lavezzi) e Marco Carta, Dolcenera e i Gemelli Diversi, Fausto Leali e Marco Masini, Nicky Nicolai con Stefano Di Battista e Patty Pravo, il trio Pupo/Paolo Belli/Youssou N’Dour e Francesco Renga, Sal da Vinci e Tricarico, Iva Zanicchi e appunto Povia. Un occhio al rock e uno alla tradizione, una spruzzata di jazz e un buon drappello di ex vincitori. Giusto per non scontentare nessuno.

La vera novità di quest’anno - oltre alla formula che prevede eliminazioni anche fra i big - sta nell’arrivo di un nutrito drappello di grandi della canzone italiana, chiamati a fare da tutor ai giovani. Dunque sul palco saliranno Pino Daniele, Zucchero, Lucio Dalla, Roberto Vecchioni, Riccardo Cocciante, Gino Paoli, Massimo Ranieri, persino Burt Bacharach, ognuno con la sua brava nuova proposta da sponsorizzare. Fra le quali c’è Iskra Menarini, classe 1946, bravissima corista di Dalla ma «giovane» per modo di dire...

lunedì 22 dicembre 2008

ELISA "AMERICANA"


Stavolta pare che la nostra Elisa abbia davvero fatto il botto. Sentite qua: la popstar monfalconese piace agli americani più dei Guns'N Roses, più di Beyoncè, più di Anastacia. A rivelarlo è un sondaggio effettuato tra gli utenti del sito Billboard.com, articolazione internettiana di quella che da sempre è considerata la «bibbia» della musica statunitense.

Nella classifica dei dieci album migliori del 2008, «Dancing» - che è il primo album «americano» di Elisa, pubblicato nel luglio scorso e pensato appositamente per il difficile mercato a stelle e strisce - risulta infatti al quinto posto. Che sarebbe come dire: prima di «Chinese Democracy» dei Guns N'Roses, prima di «I am... Sasha Fierce» di Beyoncè, prima di «Heavy rotation» di Anastacia. Meglio dell'artista originaria del Friuli Venezia Giulia, secondo questo sondaggio, hanno fatto soltanto Mariah Carey, David Cook, David Archuleta e Britney Spears.

È un risultato di grandissimo rilievo. Basti pensare che nell’ultimo mezzo secolo soltanto Domenico Modugno con «Volare» ha scalato per davvero le hit parade statunitensi. Ma era per l’appunto il 1958. Negli anni Settanta fu la Pfm a suscitare un certo interesse oltreoceano, rimanendo però in un circuito abbastanza di nicchia. E in tempi più recenti, il successo di artisti come Laura Pausini ed Eros Ramazzotti, Zucchero e Tiziano Ferro ha sempre interessato più il Centro e Sud America - oltre che l’Europa - che gli Stati Uniti.

Per tutti questi motivi è importante il risultato ottenuto da Elisa, che segue quello già incassato dal vivo. Fra ottobre e novembre la cantante ha infatti tenuto un lungo tour, a cavallo fra gli Stati Uniti e il Canada, toccando ben diciassette città. E suonando al Bowery Ballroom di New York, al Roxy di Los Angeles, al Mod Club di Toronto, a Le Savoy di Montreal, e ancora a Pittsburgh, San Francisco, Seattle e Boston. Ovunque pare sia stata accolta con interesse, simpatia e a tratti con entusiasmo.

Se ne sono accorti anche gli osservatori americani, quando il talent show televisivo «So you think you can dance?» ha proposto un balletto realizzato proprio sulle note di «Dancing». Risultato: un po’ grazie al balletto e un po’ grazie al tour, la canzone è schizzata nella Top 20 della classifica dei singoli più scaricati da iTunes America, grazie alla bellezza di oltre 75 mila acquisti in poche settimane. Di lì a poco è entrato in classifica anche l’album.

Per la monfalconese Elisa Toffoli, che pochi giorni fa ha compiuto trentuno anni (è nata il 19 dicembre ’77), il sogno insomma continua. Era cominciato nei localini dell’isontino e soprattutto con quell’incontro, appena sedicenne, con Caterina Caselli. Poi tutto ha cominciato a filar via velocissimo: il contratto discografico, i mesi in California a preparare l’album d’esordio, il successo, la vittoria a Sanremo, la consacrazione come popstar...

Ora l’ex ragazzina che lavorava nel negozio da parrucchiera della madre ha fatto un altro salto. Quello più difficile. E la cosa bella è che le sta riuscendo perfettamente. Una regione intera fa il tifo per lei...

martedì 16 dicembre 2008

MAGRIS SU CARACCIOLO


«Un uomo che ha saputo unire l’efficienza imprenditoriale, fra l’altro in un campo delicato come quello dell’editoria, a una grande dirittura morale. Un uomo dell’Italia migliore, quella che sta perdendo un tassello dopo l’altro. Di lui il nostro Biagio Marin avrebbe detto: un aristòcrata...».

Anche Claudio Magris ricorda Carlo Caracciolo con parole di grande affetto e sincera ammirazione. Nati sin dal primo incontro. «L’ho visto a Trieste, a Torino, ma la prima volta a Roma. Ricordo che dovevo andare a casa sua, davanti all’Isola Tiberina, e non ricordavo il numero civico. Piuttosto che fare la figuraccia di telefonargli, suonai a un sacco di campanelli sbagliati, prima di trovare quello giusto...».

Con l’acquisto del «Piccolo», nel ’98, qualche occasione di incontro in più. «Sì, mi è capitato di incontrarlo anche qui a Trieste. Nella sede del giornale, a casa di amici, in un ristorante vicino alle Rive, ovviamente al Caffè San Marco. Ricordo soprattutto momenti di spensieratezza, di allegria, anche di sane risate. Ne era scaturita, se non un’amicizia, sicuramente un sentirsi e ritrovarsi su un’analoga lunghezza d’onda. Aveva un’intelligenza ironica, chiara, bella come la sua fronte alta e i suoi capelli bianchi».

Nel ricordo, Magris ne parla qualche volta ancora al presente. «Sì, fa malinconia parlarne già al passato. Per questo mi viene spontaneo usare ancora il presente. Perchè lui è un rappresentante dell’Italia civile che forse, avrebbe detto ancora Marin, era solo una nostra esigenza. L’Italia democratica, liberale, progressista senza essere demagogica. L’Italia migliore, appunto».

Quella che ogni giorno diventa più povera. «La morte prima o poi tocca a tutti. Ma davanti alla scomparsa di un uomo come Carlo Caracciolo, mi sento di dire che non vedo in giro dei possibili ricambi di questi ”quadri alti” della società italiana. È come quando un generale lascia il suo esercito e non c’è nessuno all’altezza di prenderne il posto».

«Si badi bene: non è, non vuol essere un discorso nostalgico. E spero ovviamente di sbagliarmi. Ma assisto da anni a un complessivo cambiamento di stile nella classe dirigente del nostro Paese. Non bisogna mai prescindere dal senso che si dà al proprio lavoro e al legittimo perseguimento dei propri interessi. Nessuno di noi lavora gratis. Ma c’è modo e modo, c’è stile e stile, in quel perseguimento dei propri interessi».

C’è modo e modo anche di essere classe dirigente. «Sì, Caracciolo sapeva di far parte della grande elite del nostro Paese. Un’elite da non intendere in senso snobistico, ma da riconoscere e rispettare per la sua funzione trainante nei confronti della società in cui si trova a operare».

Negli ultimi anni assistiamo a una progressiva volgarizzazione della classe dirigente italiana? «Non voglio cadere nelle generalizzazioni. Lungi da me affermare che tutti gli appartenenti a un dato gruppo o a una data categoria sono in una maniera o in un’altra. E si sa che una classe dirigente cambia di qualità anche col cambiare dei tempi. Ciò valeva ai tempi dell’impero romano e vale certamente anche oggi».

Ma...? «Ma con tutte le cautele del caso, mi sento di ammettere che sì, forse in questi nostri tempi viviamo proprio una fase di involgarimento di quanti dovrebbero avere invece quella funzione trainante di cui dicevo. Per stile di vita, per modo di essere, per livello di civiltà».

«Carlo Caracciolo è stato invece un esempio mirabile della miglior classe dirigente. Quella che, nel rispetto del proprio ruolo e dei propri interessi, sa dare un’impronta alla società in cui vive. L’appartenere a una famiglia di antica nobiltà non c’entra: di per sé non è un merito né un demerito. E in lui non c’era mai nemmeno l’ombra di civetteria demagogica, nello schierarsi dalla parte dei più deboli. Esattamente l’opposto del Berlusconi del 2001, quello con pullover blu che si atteggiava nei manifesti elettorali a ”presidente operaio”...».

Un momento di silenzio. Un attimo di pausa. Quasi a riordinare le idee prima di consegnare gli ultimi ricordi dell’uomo e dell’editore che non c’è più. «Mi interessa comunque - dice Claudio Magris - ricordare il grande, illuminato editore. Al di là della fondazione dell’Espresso e di Repubblica, e per noi dell’acquisizione del Piccolo, Caracciolo ha saputo fare politica in senso lato. È stato uno degli ultimi editori puri, senza altri interessi che non fossero quelli dei giornali».

«E ciò in un mondo - conclude lo scrittore e saggista triestino - in cui tutti fanno tutto ma nessuno fa più il proprio mestiere. Un fenomeno che trovo molto grave, che porta innanzitutto allo scadimento della qualità. E a un progressivo allontanarsi da quel capitalismo legato al mondo delle cose».

Forse il capitalismo migliore, quello di uomini come Carlo Caracciolo.

domenica 14 dicembre 2008

DE ANDRE'/PFM/BUBOLA


Due album ci ricordano che presto saranno già dieci anni dalla prematura e dolorosissima scomparsa di Fabrizio De Andrè (Genova 18 febbraio 1940 – Milano 11 gennaio 1999). Il primo si intitola «Pfm canta De Andrè» (Aereostella/Edel), un doppio composto da un cd e un dvd che rinnova e rafforza il rapporto fra la band milanese e il grande poeta e cantautore. Un rapporto che era cominciato nel lontano ’78/’79, quando Di Cioccio e compagni affrontarono con successo - in tempi in cui i cantautori si esibivano spesso «chitarra e voce» - l'ardua sfida di regalare abiti musicali nuovi e più complessi ad alcune delle canzoni più belle e importanti di De Andrè. Ne vennero fuori una tournèe (passata anche da Trieste, al Politeama Rossetti) e due album dal vivo, premiati dal successo che meritavano. Da notare che quegli arrangiamenti «firmati Pfm» furono poi usati dal vivo dall’artista fino alla fine della sua carriera.

Trent’anni dopo quell’incontro, questo disco - testimonianza «live» di un concerto registrato il 29 marzo di quest'anno al Teatro Caniglia di Sulmona - arriva a chiudere idealmente un percorso. Le canzoni di ieri, il ricordo di quella collaborazione, la sensibilità di oggi.

Le voci di Franz Di Cioccio e Franco Mussida non provano nemmeno a «rifare» De Andrè perchè sanno che sarebbe impossibile («Abbiamo metabolizzato il maestro, ne siamo diventati gli interpreti. Ed è bello immaginare che dove finiscono le nostre dita, ricomincia Faber...»), ma fanno la loro parte con affetto e onestà.

Il resto è musica. La grande musica di «Bocca di rosa» e «La guerra di Piero», «Giugno 73» e «Volta la carta», «La canzone di Marinella» («aveva la cadenza di un funerale, noi la trasformammo in una fiaba leggera...») e «Amico fragile», «Il pescatore» e «Un giudice»...

L’altro disco è «Dall’altra parte del vento» (Eccher/Edel), firmato da quel Massimo Bubola che con De Andrè ha scritto alcune delle canzoni più belle del repertorio di Faber: da «Rimini» (’77) a «Volta la carta», da «Andrea» a «Fiume Sand Creek», da «Don Raffaé» (’90) a «Hotel Supramonte»...

Il titolo è dato dalla canzone (inedita) scritta dal veronese Bubola, che immagina un incontro in un bar con De André. L’altro brano che non fa parte della produzione a quattro mani fra i due artisti è «Invincibili», scritto invece col figlio di Fabrizio, Cristiano. L’intento sembra essere quello di un omaggio sincero, riportando i brani alla loro ispirazione e dimensione originaria, dunque acustica.

Da segnalare infine che a Bubola - l’artista con cui De Andrè ha collaborato più a lungo: tredici anni, nei quali furono scritte ventuno canzoni - ha recentemente dedicato un bel libro il giornalista padovano Matteo Strukul: «Il cavaliere elettrico», sottotitolo «Viaggio romantico nella musica di Massimo Bubola» (edizioni Meridiano Zero). Una lunga intervista che diventa un ritratto completo di un artista che forse, nonostante la lunga carriera (19 album, trecento canzoni, chissà quanti concerti), non ha avuto quel che meritava.


STRENNE


Di dischi ne girano sempre meno. Ma lo scorso anno a dicembre sono stati venduti oltre cinque milioni tra cd e dvd musicali: oltre il 20% dell’intero fatturato annuale dell'industria discografica. Quest’anno i numeri complessivi caleranno ancora, ma quella percentuale forse è destinata ad aumentare. Anche per colpa di una crisi che trasforma il cd in regalo «economico».

Ce n’è ovviamente per tutti i gusti. In perfetto tema natalizio è «A Swingin' Christmas» di Tony Bennet, raccolta di classici natalizi prodotta da Phil Ramone e realizzata con la leggendaria formazione di Count Basie. Idem per «The Priests», raccolta di brani d'ispirazione spirituale con arie classiche e motivi della tradizione irlandese.

Oltre a «Canzoni per Natale» di Irene Grandi, di cui abbiamo scritto nelle settimane scorse, da segnalare anche la riedizione di «And so this is Christmas», dei Neri per caso, che comprende anche la versione di «Give peace a chance» di John Lennon. Ma tra le strenne non possono mancare Giorgia («Spirito libero», 3 cd e un dvd con tutto il meglio dell'artista romana in 44 canzoni), i due album di inediti di Fiorella Mannoia e di Laura Pausini (rispettivamente «Il movimento del dare» e «Primavera in anticipo»).

E poi «Re: Versions» di Elvis Presley (primo remix del re del rock’n’roll), «L’animale» di Adriano Celentano (il doppio di cui abbiamo già scritto), «Zero infinito» di Renato Zero (triplo cd con il meglio delle sue cose anni 70), il cofanetto di Giovanni Allevi (tre cd e un dvd che raccontano la carriera del pianista marchigiano).

Sul versante internazionale: box in metallo a tiratura limitata per l'album degli AC/DC, che contiene anche un dvd con il «making of» e il video del singolo «Rock'n'roll train»; cofanetto deluxe in edizione limitata con triplo cd per Bob Dylan «Tell tale signs» (completo di bonus disc con dodici brani aggiuntivi); cofanetto «Motown 50 - Yesterday, Today, Forever» (tre cd con oltre 60 successi di artisti storici della mitica etichetta americana). E ovviamente un sacco di altre cosucce...


TAKE THAT Ricominciare senza Robbie Williams. È l’impresa che tentano di Take That, usciti con l’album «The Circus», anticipato dal singolo «Greatest Day». Il quinto album in studio della band inglese è stato scritto da tutti i membri - Mark Owen, Jason Orange, Howard Donald e Gary Barlow - e prodotto da John Shanks. L'Observer Music Monthly lo ha già definito come uno dei loro migliori album. In Gran Bretagna i Take That sono tuttora una band da record nel panorama della musica pop: oltre seicentomila copie in prenotazione fanno di «The Circus» uno dei dischi più attesi dell'anno, con una previsione di un milione di copie vendute appena entro la fine del 2008. Lo stesso vale per il tour che prenderà il via dall'Inghilterra a giugno 2009 e che comprende quattro date a Wembley: oltre settecentomila biglietti sono già andati a ruba tra i fan inglesi. Ascoltando i brani, l’impressione però è che tali aspettative si basino soprattutto sui fasti passati. Forse anche per questo lasciano aperte - anzi, spalancate... - le porte all’amico che se n’è andato...


DE SCALZI Vittorio De Scalzi, ovvero: non solo New Trolls. L’artista genovese propone una Liguria di pietre, di mare, di spicchi di limone, di storie che escono fuori da un baule come vecchi fazzoletti. «Mandilli» (fazzoletti, appunto), prodotto con il fratello Aldo per Croeza-Aereostella, «è un disco nato quattro anni fa, registrato d'inverno in uno stabilimento balneare di Genova-Quinto e poi rimasto lì - ha spiegato il fondatore dei New Trolls -. Nostro padre ha prodotto quasi tutti i dischi in genovese, da Franca Lai ai Trilli, ma quarant'anni fa ai tempi dei Rolling Stones al genovese non ci pensavamo. Adesso lo vedo come un disco d'amore dedicato alla mia città».I dieci pezzi, tutti rigorosamente in dialetto, raccontano storie come quella di un barbone che cerca quel che resta della sua vita su una spiaggia («ma quando saero a man m'accorzo che no me resta che sabbia e vin»: chiudo le mani e m'accorgo che non rimane che sabbia e vino), oppure della Liguria «una fetta di luna coricata sul mare, una fetta della mia vita, uno spicchio di limone aspro».


 


 

martedì 9 dicembre 2008

GUCCINI


«Se ricordo quell’eskimo comprato a Trieste? Come potrei dimenticarlo. Anche se ormai sono passati più di quarant’anni...». Parli con Francesco Guccini - il cui tour venerdì alle 21 fa tappa al palasport di Pordenone - e ti sembra veder scorrere mezzo secolo di storia della canzone e del costume italiani. Compreso quell’«eskimo innocente dettato solo dalla povertà» (da «Eskimo», canzone del ’78), che il soldato Guccini acquistò «su una bancarella in un mercato all’aperto, mi sembra vicino al mare (con ogni probabilità in piazza Ponterosso - ndr)», mentre prestava il servizio miliare a Trieste.

«La mia naja triestina - ricorda il cantautore, nato a Modena nel ’40 - durò dal gennaio all’ottobre del ’63. Speravo di essere assegnato a una delle caserme in città, bestemmiai a lungo quando seppi che la mia destinazione era sul Carso, a Banne. Invece mi andò di lusso. Faceva freddo, questo sì. Ecco perchè acquistai quell’eskimo, che non aveva ancora quel significato simbolico che avrebbe assunto in seguito. Ma i collegamenti con il centro città era buoni. E il nostro comandante di battaglione, il maggiore Giacchini di Pesaro, non amava che i suoi soldati girassero per la città con la divisa, così quasi ci costringeva a uscire in borghese. Prendevo novantamila lire al mese, più cinquemila di frontiera orientale, considerata zona disagiata. Che poi disagiata non era per nulla...».

Cantava già?

«Sì. A Banne ero coccolato da tutti perchè sapevo suonare la chitarra. Nelle festicciole che si facevano in caserma, il maggiore Giacchini mi diceva: Guccini, una bottiglia di cognac per il tuo tavolo se ti ricordi questa canzone... Gli accordi magari me li inventavo, ma la bottiglia arrivava sempre».

Ma la musica allora era solo una passione.

«Certo, ma scribacchiavo già delle canzoni, e gli amici mi venivano ad ascoltare. Mi ispiravo a una specie di cabaret alla francese, in stile chansonnier fra satira e discorsi seri. Del resto all’epoca i riferimenti erano quelli, arrivavano da oltralpe. Poi arrivò Bob Dylan e cambiò tutto. Fu come una ventata di idee nuove. Dalla Francia passammo agli Stati Uniti, al sogno americano. Sullo sfondo i primi vagiti della contestazione».

Due anni fa, all’elezione del Presidente della Repubblica, su una scheda c’era il suo nome...

«In realtà le schede erano due, me l’ha detto Prodi. Ma una fu annullata. E quindi non venni citato nel verbale dello scrutinio, per entrare nel quale bisogna avere almeno due voti. Fa nulla. Sì, la cosa mi ha sorpreso e divertito. Ma non ho mai scoperto chi fossero i miei due ”grandi elettori”: di certo due buontemponi, magari parlamentari dell’Emilia Romagna...».

Il suo rapporto col computer è migliorato?

«Le canzoni le scrivo sempre a mano, su un foglio di carta. Il computer lo uso per i libri: è molto più comodo. Ma lo utilizzo come una macchina per scrivere, non ho approfondito le mille altre funzioni, da internet alla posta elettronica. Sarei anche curioso delle sue potenzialità, ma poi non approfondisco. Peccato, perchè mi è arrivato anche un computer nuovo, ma l’amico che lo deve installare si fa attendere».

Colpa della sua storica pigrizia?

«Ma no, è che non sono un uomo tecnologico. Mi sento di appartenere al secolo scorso, in fondo sono del ’40, dunque la mia storia sta tutta nel Novecento. Anche i concerti: ne faccio pochi perchè devi avere voglia di andare sul palco, e se ci vai ogni sera diventi un impiegato della canzone. Vale per me, ma sicuramente anche per il pubblico».

Diciamo che preferisce fare altre cose.

«Oh certo. Ho appena tradotto tre commedie di Plauto in dialetto pavanese, che un gruppo teatrale si è preso anche la briga di rappresentare. E poi, quando la stagione lo permette, qui vicino casa mia c’è un lago, dove nuoto o vado in canoa. Me ne hanno rubate tre, di canoe, ora ne ho una nuova: tento di starci più attento, se no mi fregano anche questa...».

Dunque ha ripreso a stare nella Pàvana della sua infanzia?

«Sì, non abito più a Bologna dal 2001, anche se la casa in via Paolo Fabbri 43 (titolo dello storico album del ’76 - ndr) ce l’ho ancora. Ci vado spesso nei fine settimana. In fondo è solo un’ora di automobile. Pàvana è sull’Appennino, a metà strada fra Bologna e Pistoia, anzi, Pistoia è più vicina, basta mezz’oretta...».

Le piace la vita di paese?

«Sì, anche perchè quando mi stufo prendo la macchina e parto. Da questo punto di vista sono un privilegiato. Qui ho amici di vecchia data, alcuni anche di idee diverse dalle mie. Si discute, magari si litiga amichevolmente. Io sono un po’ fazioso: non capisco ma accetto...».

Com’è il dialetto pavanese?

«Intanto è praticamente estinto, visto che il paese ha meno di novecento abitanti. È una sorta di dialetto toscano diciamo così emilianizzato. Qui siamo sul confine, fai due o tre chilometri e gli accenti cambiano. Comunque è un dialetto abbastanza comprensibile, non lo parlano più in tanti, dunque mi ha fatto piacere farlo un po’ rivivere. Anni fa ho scritto anche un vocabolario...».

Dalla tivù sta sempre a distanza di sicurezza.

«Di sicuro. Anzi, con gli anni la mia idiosincrasia è peggiorata. Trovo la televisione inutile. E volgare. Alla radio invece ci andrei più volentieri. Comunque non sono un fondamentalista. La tivù la guardo anch’io: i tg, qualche film, Annozero, Ballarò... I reality mai».

Nei suoi concerti, nelle chiacchiere fra una canzone e l’altra, lei pesca a piene mani dall’attualità.

«Diciamo che ironizzo, ma non faccio mai discorsi seri. Non è il mio mestiere. Del resto le cronache ci offrono del materiale così ampio, certe frasi bastano da sole per scatenare una risata. Quella storia di Obama abbronzato, per esempio, era davvero incredibile. Il problema magari è che, dopo due/tre giorni, tutto passa nel dimenticatoio...».

A libri come andiamo?

«Con Loriano Macchiavelli stiamo pensando a un nuovo giallo. Ma siamo solo alla fase del progetto: il maresciallo Santovito ormai è andato in pensione, dunque dobbiamo inventarci un nuovo personaggio. Ma l’atmosfera dell’Appennino, quella vorremmo mantenerla...».

«Ritratti» è del 2004. Poi solo un «live» e una raccolta. Il disco nuovo?

«Forse nel 2009. Ma non ho fretta. Alcune canzoni nuove le canto nei concerti di queste settimane. E sono già su YouTube. ”Su in collina” parla della Resistenza, ”Canzone di notte n.4” è dedicata a Pàvana, ”Il testamento di un pagliaccio” racconta delle ultime volontà di un clown giunto alla fine dei suoi giorni. Laddove è abbastanza chiaro che si tratta di un’ironica autocritica: quel pagliaccio sono io, siamo noi...».

Diceva che non ha fretta: dunque il rapporto con la sua casa discografica, in questi tempi di crisi, è abbastanza libero...

«Sì, ho la mia bella libertà. Al punto che, oltre ai cd, ultimamente faccio stampare anche mille copie nel vecchio e caro vinile. Così, perchè mi fa piacere. Comunque la discografia, come l’abbiamo conosciuta noi, ormai sta finendo. I dischi, intesi come supporti discografici, non sono più necessari per ascoltare musica. Meglio allora i concerti, anche il pubblico preferisce vederti e ascoltarti dal vivo...».

E lì lei detiene un primato: saranno più di trent’anni che comincia e conclude i concerti sempre con le stesse due canzoni...

«Sì, apro sempre con ”Canzone per un’amica” e concludo con ”La locomotiva” perchè ormai sono le mie sigle, i miei biglietti da visita. Una sorta di rituale al quale anche il pubblico ormai è abituato. Ma credo di detenere altri due primati: stessa casa discografica e stessi musicisti da un sacco di tempo. Del resto, squadra che vince non si cambia...».

Della squadra, venerdì a Pordenone, unica tappa regionale del tour, fanno dunque sempre parte Ellade Bandini alla batteria, Antonio Marangolo al sax, Vince Tempera al pianoforte, Pierluigi Mingotti al basso, Roberto Manuzzi (sax, tastiere, fisarmonica) e Juan Carlos «Flaco» Biondini alle chitarre. Biglietti ancora disponibili nel circuito delle prevendite e alle casse del palasport.

lunedì 1 dicembre 2008

MUMBAI


L'attentato di Mumbai aveva di certo lo scopo di alzare la tensione fra India e Pakistan. Ma indirettamente anche quello di rendere più difficile il lavoro di Barack Obama. È la tesi di Peter Popham, attualmente corrispondente da Roma dell'Independent, ma che per il giornale britannico ha lavorato per cinque anni, dal '97 al 2002, proprio a Nuova Delhi, viaggiando a lungo per tutta l’India e nel vicino Pakistan.

«La strategia dichiarata del prossimo presidente degli Stati Uniti - spiega Popham - è quella di concentrare in Afghanistan lo sforzo occidentale volto a sconfiggere il terrorismo. Per fare questo gli serve l'appoggio anche del Pakistan, ma è chiaro che tutto diventa molto più difficile, nello scenario venutosi ora a creare».

Ieri l'India ha protestato formalmente con Islamabad per le stragi di Mumbai, accusando «elementi pachistani» di essere dietro gli attacchi e chiedendo al governo di Islamabad di «agire energicamente». E le tv pachistane riferiscono che Nuova Delhi ha messo in stato di massima allerta la difesa aerea, alzando i sistemi di sicurezza «a livello di guerra».

«A Mumbai - dice Popham -, dove ci sono stati molti attentati negli ultimi vent’anni, e dove vivono molti musulmani, abbiamo assistito nei giorni scorsi a un modello nuovo di terrorismo, caratterizzato da elementi classici dell’attentato mischiati ad azioni tipiche della guerra civile. Dieci persone arrivate in gommone sulla spiaggia, una cosa mai vista. Sicuramente la vigilanza è stata debole, anche se l’azione era difficile da evitare. Ma quel che mi ha colpito maggiormente è stato l’incredibile ritardo con cui sono arrivate in zona le teste di cuoio dell’antiterrorismo. È stata una mancanza di prontezza, di velocità che ha pesato nel bilancio delle vittime».

Ancora il giornalista: «Per quanto riguarda gli attentatori, si sa che venivano da Karachi e appartenevano al Lashkar-e-Taiba, un gruppo fondamentalista nato una decina di anni fa con l’appoggio dell’Isi, i servizi segreti pachistani. Lo scopo inizialmente era quello di intralciare l’azione dell’esercito indiano in Kashmir, ora sono collegati con Al Qaida. Gli Stati Uniti li considerano infatti un’organizzazione terroristica, ma fino al 2002 lavoravano apertamente, alla luce del sole. Poi sono entrati in clandestinità».

E ora che succede? «Chi lo sa. Quella fra India e Pakistan - riflette Popham - è la storia di una guerra lunga ormai settant’anni, cominciata sotto l’impero britannico, e proseguita in un alternarsi di tregue e momenti di grande tensione. Che non sempre, per fortuna, lasciano la parola alle armi. Ricordo per esempio l’attentato del 2001 al parlamento indiano, a Nuova Delhi. La tensione era salita a livelli talmente alti che noi giornalisti inglesi e i nostri colleghi americani fummo invitati a lasciare il paese. La tensione durò per un paio di settimane, ma per fortuna poi si tornò alla normalità».

«Il fatto - conclude il corrispondente dell’Independent - è che soprattutto l’India, che fra i due è il paese più grande e più ricco, non può permettersi una nuova guerra, se vuole sviluppare ulteriormente la propria economia. Il fatto poi che entrambi i paesi siano dotati di armi atomiche rende la questione ancor più delicata e pericolosa. Mi sembra che la diplomazia occidentale, e quella statunitense in particolare, si stia già impegnando al fine di attenuare le forti tensioni in atto...».

 

domenica 30 novembre 2008

CELENTANO


Adriano Celentano è da mezzo secolo protagonista assoluto della canzone - e non solo della canzone - italiana. Basta questo dato per riservare l’attenzione che merita al suo nuovo album, un doppio, intitolato «L’animale» (Clan/SonyBmg). L’ex Molleggiato, settantuno anni a gennaio, ha voluto dividere il lavoro in due parti ben distinte, ognuna con un suo titolo: il primo cd «Canzoni d'amore», il secondo «Canzoni contro». Quasi a voler distinguere le sue due anime: quella più tradizionale, dedicata all’amore, al sentimento, alla spiritualità (da «Storia d'amore» a «Una carezza in un pugno», fino ai più recenti «L'emozione non ha voce», «L'arcobaleno», «Acqua e sale» e «Dormi amore»...), e quella di protesta, attenta ai temi sociali, alla difesa dell’ambiente, in un certo qual modo politica («Il ragazzo della via Gluck» e «Un albero di trenta piani», «Il mondo in mi settima» e «Svalutation», «I want to know» e «Io sono un uomo libero», e ancora un remix di «Prisencolinensinainciusol»...).

Fra le ventotto canzoni, equamente divisi fra i due cd, ci sono anche due inediti: il primo è la sua personalissima versione di «La cura», di Franco Battiato (al quale ha anche chiesto il permesso di cambiare in alcuni punti la melodia), il secondo è «Sognando Chernobyl», che ha anticipato la pubblicazione del disco di un mese, con la diffusione in rete del video. Sorta di apocalittico monito - molto alla maniera di Celentano, soprattutto quello degli ultimi show televisivi - affinchè gli uomini rinsaviscano, e smettano di distruggere se stessi e l’intero pianeta.

Celentano dice di averla scritta «un anno fa, perchè temo che le cose siano peggiorate, lo stato del pianeta è disastroso. È un grido disperato. Sono sempre stato ottimista ma oggi è difficile rimanerlo. Il momento che stiamo vivendo è talmente fragile che non riguarda soltanto l'Italia ma tutto il mondo. Oggi si rischia una vera catastrofe umana a causa di scelte scellerate dei governi di gran parte del mondo». La versione integrale del brano, sempre su internet, è un filmato di dieci minuti con immagini molto forti sulla pena di morte e sugli effetti di Chernobyl sugli esseri umani.

Nel secondo cd, quello dedicato all’impegno sociale, ci sono anche episodi meno conosciuti, come «L'ultimo degli uccelli», tratto da un disco del ’72, e «Uomo macchina», che nel ’76 affrontava il tema dell'alienazione dell'individuo nella società moderna. E brani di ultima produzione come «I passi che facciamo» e «La situazione non è buona», che lo scorso anno dava anche il titolo all'ultimo show televisivo di Adriano (il suo ritorno su Raiuno è previsto per l'autunno dell’anno prossimo).

Le due anime - dell’artista e del disco - sono presenti anche in copertina, con una foto di Celentano e un suo autoritratto in versione «molto animalesca». L’idea del titolo pare invece sia di Jovanotti, che «forse ha visto in me l'istinto della "salvaguardia" della specie e del territorio...».


IRENE GRANDI


L’hanno fatto tutti, soprattutto all’estero, e allora perchè non io? Questo deve essersi detta Irene Grandi, prima di sfornare - a un anno di distanza dal suo «greatest hits» - questo «Canzoni per Natale» (Warner). L’idea le girava in testa da tempo, ma la spinta - dice - le è arrivata dalla riscoperta del vecchio «Feed the world», di Bob Geldof. Ecco allora il progetto di una raccolta dedicata a un «Natale universale, basato su spiritualità e introspezione». A fianco di classici come «Happy Christmas» e «Silent Night», il disco propone anche titoli italiani come «Buon Natale a tutto il mondo» di Domenico Modugno, «Canzone per Natale» di Morgan e «O è Natale tutti i giorni» di Luca Carboni e Jovanotti.

Nell'album ci sono anche brani che non appartengono alla tradizione natalizia, come «Qualche stupido ti amo», cantata assieme all'attore Alessandro Gassman: si tratta della cover di «Somethin' stupid», vecchio classico che Frank Sinatra ha cantato anche assieme alla figlia. «Nel mio immaginario - quasi si giustifica l’ex rockettara - è un brano molto natalizio e per il duetto mi sono ispirata a quello fra Robbie Williams e Nicole Kidman...».

Fra le altre tracce non tradizionalmente natalizie anche la cover in chiave soul di «Wishing on a star», di Rose Royce, e una versione corale di «Oh happy day», con la partecipazione del pianista jazz Stefano Bollani.

Ma in un disco di canzoni natalizie non poteva mancare «Happy Xmas», di John Lennon: nell’inno pacifista dell’ex Beatles l’artista toscana ha scelto di rallentare leggermente la ritmica originale ma ha mantenuto il coro di bambini che invocano la fine della guerra.

Irene Grandi proporrà dal vivo, con l’orchestra, alcuni brani del disco nel tradizionale concerto di Natale del 24 dicembre all'Auditorium di Roma.


NEGRAMARO Sono stati il primo gruppo italiano a riempire San Siro. E ora quel loro concerto del 31 maggio è diventato un cofanetto con cd e dvd, progetto di Caterina Caselli. Con tredici tracce audio e ventuno tracce video «Negramaro San Siro Live» racconta per immagini e musica il suggestivo spettacolo che la band salentina ha portato nello stadio milanese (ma anche in tour in giro per l’Italia e all’estero). Il cd propone anche quattro inediti: «Meraviglioso», cover del classico di Domenico Modugno, presente anche nella colonna sonora del film «Italians» di Giovanni Veronesi, con Carlo Verdone e Riccardo Scamarcio (e lo stesso Veronesi ha firmato la regia del videoclip, con la partecipazione dei due attori); «Your eyes», versione inglese de «La finestra», con il contributo dei Mattafix; «Solo per te» in versione elettrica e infine «Blu cobalto», in versione elettrica e acustica. Fra gli ospiti anche i Solis String Quartet, Jovanotti e Mauro Pagani. Nel dvd immagini della band in tour europeo in bus e nella loro casa-factory di Parma.


TATANGELO A Sanremo ha cantato i turbamenti del suo parrucchiere gay, stavolta sposta l’obiettivo sull’universo femminile. Al quarto album Anna Tatangelo si lancia in un viaggio all'interno dell'universo femminile, un racconto interamente dedicato alle donne e ai chiaroscuri delle loro vite: dalla gioia della maternità alla delusione per la fine di un amore, dalla disperazione dell'anoressia («Adesso») e della violenza all'emozione di un nuovo incontro. Fragilità ma anche forza, senza perdere mai di vista la speranza. L'album comprende undici canzoni che spaziano tra generi e stili diversi, ed è stato anticipato dal singolo «Profumo di mamma», un pezzo allegro, colorato di samba, firmato dal fidanzato e produttore Gigi D'Alessio. Che porta in dote, grazie alla recente riappacificazione, anche la chitarra di Pino Daniele in «Sarai», brano scritto dallo stesso Daniele con D'Alessio e presente anche nel nuovo album di quest’ultimo. Fra i brani anche due cover: «Il posto mio» di Domenico Modugno (scritta nel ’68 da Alberto Testa e Tony Renis) e «Anna verrà», altro omaggio al Pino Daniele di «Mascalzone latino».


 




martedì 25 novembre 2008

SABINA GUZZANTI


di CARLO MUSCATELLO

UDINE «Il problema vero non è la satira, ma la mancanza di informazione. Viviamo in un regime autoritario, nel quale non è possibile esprimere dissenso. Mancano gli spazi liberi per i punti di vista diversi. Che dunque chiedono ospitalità al teatro, al cinema, alla satira, appunto...».

Sabina Guzzanti - il cui «Vilipendio Tour» fa tappa stasera alle 21 al «Nuovo» di Udine - è il solito, antagonista fiume in piena. Ce l’ha con Berlusconi («anticostituzionale»), con il centrosinistra che «non fa l’opposizione», con i giornalisti che «non fanno le domande», ovviamente con la Carfagna («il fatto che sia ministro è una vergogna»), persino con il Papa che «non può interferire nella vita politica italiana». Ci fermiamo qui, anche se la lista - se ne accorgeranno stasera gli spettatori friulani - è ancora molto lunga.

Piazza Navona: «la madre» di tutti i vilipendi?

«Forse. Quella manifestazione è stata un’esperienza per me molto importante, che ha costretti molti gruppi di potere a gettare la maschera, a far vedere a tutti come reagiscono dinanzi a espressioni legittime di dissenso».

Si spieghi.

«Quando dico che avere la Carfagna come ministro (con sotto la firma di Napolitano) è una vergogna, o che il Papa non può interferire con la vita politica italiana, le piazza si entusiasmano. Ma com’è allora che i giornali di sinistra, ”Repubblica” in testa, mi attaccano quasi più di quelli della destra?».

Appunto: com’è?

«È la prova del regime. E che c’è una vera e propria oligarchia contro il dissenso, gruppi di potere che come risultato ultimo permettono al manovratore di agire indisturbato».

Ammetterà che il regime era un’altra cosa.

«Quello fascista sì. Infatti non ho mai detto che siamo in un regime fascista. Quello che Berlusconi ha creato è piuttosto un regime autoritario. C’è un Parlamento formato da persone che non sono state elette ma nominate, visto che non si possono esprimere le preferenze. Alla magistratura stanno mettendo il bavaglio. E l’informazione non è libera».

Giornalisti complici?

«Non tutti, certo, ma è un dato di fatto che nelle redazioni non c’è democrazia. Se non scrivi quello che va bene al tuo editore non hai più spazio, ti mettono da parte, vieni sostituito. Magari da un precario che è più ricattabile. Chi avrebbe il potere per fare vero giornalismo accetta di non farlo per salvare se stesso e i suoi».

Eppure lei è appena tornata in tivù.

«Io in televisione non posso fare un programma mio ormai da anni. Posso fare solo l’ospite, e Santoro ha dovuto battagliare non poco per potermi invitare. Eppure per il chiacchiericcio dei politici in tivù c’è sempre spazio. Ormai sembrano una compagnia di giro».

Gli studenti?

«Lì il discorso cambia. Intanto basta con questa storia che sarebbero una minoranza. In ogni città dove porto lo spettacolo mi invitano ai dibattiti nelle università, e ho sempre trovate aule strapiene. Proprio come le loro manifestazioni. E poi sono vivi, senza esperienza politica ma capaci di organizzarsi, ricchi di entusiasmo e buona volontà, ancora fiduciosi nella razionalità del sistema. Della serie: abbiamo ragione, dunque ci ascolteranno».

Invece...

«Invece non è così facile. Le cose non vanno in questa maniera. Devono anche capire i meccanismi perversi dei media: all’inizio tanto spazio, poi stop, vieni cancellato dai titoli di testa. E vai in crisi, perchè credi di non esistere più. Invece il primo strumento di censura è proprio quello: non darti più spazio».

Cosa ha consigliato loro?

«A loro ho detto: continuate finchè non avrete ottenuto quel che volete, state uniti e non stancatevi, perchè hanno paura di voi.</CP></CF></IP> Studiate, leggete, approfondite periodi come il Sessantotto. Sono due cose diverse, certo, ma un paragone può servire per capire come usare la propria forza. Bisogna reimparare a fare politica con passione, lottando con le proprie forze».

È un riferimento a Obama?

«Se vuole. Di certo se lui è diventato presidente è perchè, negli otto anni di Bush, una parte degli americani ha sofferto e ha lottato. Gli Stati Uniti hanno attraversato una grande crisi con l’ultimo presidente, ma evidentemente hanno un senso della democrazia più radicato del nostro. E il risultato si chiama Obama».

In Italia?

«Forse sarebbe necessario lo stesso percorso degli americani. Bisogna ricominciare a guardarsi nello specchio, capire a che punto siamo arrivati. In giro vedo molta rassegnazione, mancanza di autostima».

Dunque?

«I ragazzi che incontro nelle università - conclude Sabina Guzzanti - oggi vorrebbero vivere da un’altra parte, magari andare a vivere all’estero. Ciò dimostra che c’è molta delusione. Ma non è vero che esiste un’anomalia italiana: bisogna crederci, bisogna ripartire...».

lunedì 24 novembre 2008

MORIRE DI CLASSE / BASAGLIA


Era il 1968. E i manicomi esistevano ancora. I fotografi Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin entrarono prima nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, poi in quelli di Parma e Firenze. L’idea di farne un libro - che sarebbe uscito l’anno dopo - era di Franco Basaglia, che proprio a Gorizia stava avviando quella rivoluzione innanzitutto di civiltà poi realizzata a Trieste. Di quel «Morire di classe», Einaudi stampò all’epoca soltanto mille copie. Era il primo libro che documentava l’orrore del manicomio e dava idealmente il «la» a tutto quel che sarebbe successo dopo e avrebbe avuto nella Legge 180 il suo quadro normativo.

Ora Duemilauno Agenzia Sociale - concretizzando l’idea del giornalista e fotografo Claudio Ernè, che firma la prefazione - pubblica la ristampa anastatica di quel volume, nell’ambito delle celebrazioni del trentennale della Legge 180, che cade quest’anno. La presentazione si terrà domani alle 18, alla Stazione Rogers (Riva Grumula 14).

«Il progetto del libro - ricorda Carla Cerati - fu di Basaglia, che in precedenza aveva pensato a un libro fotografico su tutte le istituzioni repressive: il manicomio, la caserma, la scuola, il riformatorio, la famiglia. Però, visto nell’immediato lavorava per l’eliminazione dei manicomi, decise di fermarsi a questo: un’inchiesta complessiva avrebbe richiesto troppo tempo. Poi la richiesta di realizzare il reportage è partita da me, dopo aver letto i libri che Basaglia stava pubblicando con Einaudi. Tramite la casa editrice mi sono messa in contatto con lui che immediatamente si è detto disponibile e si è dato da fare per aiutarci e entrare anche negli altri manicomi».

Com'è stato il rapporto con Basaglia?

«Splendido: come avrebbe potuto non esserlo? Con lui tutto diventava semplice. Era un geniale rivoluzionario, provvisto di humour e al tempo stesso di pietas».

Le foto come sono state scelte?

«In una riunione alla casa editrice, a Torino. Non ricordo se era presente anche Franca Ongaro Basaglia, ma mi pare di no. Con Basaglia c’era Giulio Bollati, editor dell’Einaudi, oltre a me e Berengo. Noi avevamo presentato una scelta di stampe nel formato 30x40. Per le riprese io avevo lavorato con la Nikon e Berengo con la Leica. La scelta finale, per volontà dei Basaglia e di Tommasini, all’epoca assessore e membro dell’Associazione contro la malattia mentale, venne realizzata in pannelli di due metri ciascuna per una mostra agli ex-gabinetti pubblici di Parma. Si trattò di un evento a cui Franco e Franca Basaglia lavorarono personalmente. Così come per il libro: loro fu anche la scelta dei testi».

Quali difficoltà avete avuto nel realizzare le fotografie?

«Nel manicomio di Parma gli infermieri che ci accompagnavano, quando hanno capito che cosa stavamo facendo, cioè che non ci limitavamo a fotografare gli ambienti, ci hanno intimato di consegnare i rullini. Ma Berengo, che aveva previsto questo rischio, li ha fatti sparire in un ombrello. E abbiamo consegnato dei rullini vergini».

Scattando aveva la consapevolezza di realizzare un lavoro "storico"?

«No, forse non l’ho percepito subito. Certo, il fatto di lavorare per la causa di Basaglia mi era sembrato di per sé importante».

Perchè all'epoca sono state stampate solo mille copie?

«Io con gli zeri sbaglio sempre, ma mi pare di ricordare che la prima tiratura fosse in realtà di 10 mila copie a un prezzo “politico”, perché sia Basaglia che la casa editrice volevano che il libro avesse diffusione tra gli studenti. Poi, per un buon numero di anni, sono state ristampate mille copie all’anno».

Quelle foto poi hanno fatto il giro del mondo.

«Sì, e continuano a girare».

Lei poi ha seguito il lavoro di Basaglia anche a Trieste?

«Sono stata a Trieste nel ‘77, invitata personalmente da Basaglia, per il Reseau Internazionale della Psichiatria. È stata un’altra esperienza importante».

Ha seguito anche la chiusura del manicomio triestino? Ed è tornata in quelli di Gorizia, Parma e Firenze?

«No. Con l’appoggio di Basaglia abbiamo lavorato sul tema per sei mesi fotografando a Gorizia, Parma, Firenze e Ferrara. Lo scopo era fare un’azione di rottura, scuotere le coscienze, mostrare qualcosa che i più non conoscevano e inconsciamente non volevano conoscere. Questa consapevolezza, almeno per me, è venuta dopo essere entrata per la prima volta in un ospedale psichiatrico. Prima c’era soltanto l’idea di fotografare qualcosa di estremo, una realtà drammatica e sconosciuta che ci veniva concesso di avvicinare».

Quelle foto hanno influenzato la sua attività di fotografa e poi di scrittrice?

«Non credo. Ma è stata sicuramente un’esperienza umana e professionale importantissima, non foss’altro perché mi ha dato l’occasione di conoscere persone straordinarie come Basaglia e sua moglie Franca Ongaro, Mario Tommasini, Leo Nahon e tanti altri che sarebbe lungo elencare».

giovedì 20 novembre 2008

RAMPINI


C'è un Paese che sembra sul punto di crollare. Zavorrato da un’economia malata, una politica mai all’altezza, una scuola disastrata, una ricerca su cui non si investe, un sistema bancario inefficiente, una burocrazia che... Si potrebbe continuare a lungo, enumerando i mali alla base della crisi italiana. Ma c’è chi preferisce parlare di ricette per batterla, la crisi. Con «Centomila punture di spillo» (Mondadori, pagg. 318, euro 17), l’editore Carlo De Benedetti e il giornalista Federico Rampini - assieme a Francesco Daveri - raccontano come, secondo loro, è possibile uscire dal tunnel.

«Le centomila punture di spillo che ognuno di noi può fare - spiega Rampini, corrispondente di ”Repubblica” da Pechino, ma nelle settimane scorse inviato negli Stati Uniti per seguire la crisi finanziaria e l’elezione di Obama - sono tante: ciascuna dipende dalla nostra situazione, dall’attività, dal fatto se uno è giovane o no...».

Cominciamo dai giovani.

«Nelle scelte di studio devono fare uno sforzo per aprirsi sul resto del mondo. È importante integrare nel percorso di studio l’apprendimento di varie lingue straniere, con esperienze di studio e lavoro all'estero. Devono allungare lo sguardo verso nuove frontiere di sviluppo».

Una riforma dal basso è davvero possibile?

«È dimostrato che si può fare. Ci sono paesi che hanno conosciuto fasi di forte declino e poi sono ripartiti, in una sorta di rinascimento della loro storia. Lo hanno fatto perchè hanno avuto classi dirigenti migliori delle precedenti, ma anche grazie a uno sforzo della società civile. Un po’ come il miracolo della ricostruzione del nostro dopoguerra: anche allora c’era mediocrità nel ceto politico, ma lo sforzo corale della società, partendo da una situazione più difficile dell'attuale, è stato fondamentale».

Quali sono i pesi che zavorrano la nostra economia?

«Da decenni una scarsa modernizzazione delle infrastrutture, il decadimento della scuola e dell’università, il peso della burocrazia, una giustizia civile che non funziona».

Anche quella penale non scherza.

Certo, ma incide più sul senso di sicurezza che non c’è. C’è invece una logica mafiosa che non è solo quella di Gomorra, che ha pervaso tanti settori della vita italiana: strade e carriere vengono decise secondo logiche di clan e obbedienza. I mediocri avanzano, e i migliori vanno all'estero».

La scuola?

«Occorre un esame di coscienza collettivo. Gli errori del governo sono evidenti, ma le colpe vanno distribuite fra insegnanti, famiglie e studenti. C’è una complicità di sistema. E con la logica delle promozioni facili non si va da nessuna parte».

Il crollo finanziario è arrivato a libro scritto.

«Sì, ma confermo tutto: avevamo chiaro da un anno cosa stava succedento, i segnali c'erano tutti, il libro include già la crisi finanziaria e quel che è successo. Guardiamo già al mondo di domani. Mi stupisce piuttosto lo stupore di certi dirigenti e ministri, che fanno finta che tutto sia successo negli ultimi mesi. Ma a Davos, a febbraio, già si parlava di recessione mondiale, di banche che potevano fallire».

Il libro si chiude con una nota di ottimismo: da dove lo trae?

«Dalla vita che faccio all'estero, da cinque anni a Pechino e prima in California. In Asia ho visto un miglioramento in quantità e qualità della presenza italiana: dalle imprese che trattano energie verdi e risparmio energetico fino a chi ha lo ”know how” per il restauro dei centri storici. L’immagine dell’Italia è sempre forte nel mondo, anche nei paesi emergenti».

I mali italiani?

«Assistenzialismo, statalismo, dirigismo e protezionismo. Ma nel libro non c’è polemica con la politica italiana: indichiamo le cose che possiamo fare nella vita quotidiana per preparare la rinascita del Paese».

Su cosa puntare?

«Sulla tutela dell’ambiente, che è un dovere ma anche un’opportunità e un investimento altamente redditizio, creatore di posti di lavoro. E poi dobbiamo guardare alla sponda sud del Mediterraneo come alla nostra Cina. Le economie emergenti più vicine sono ricche di opportunità per noi. La società multietnica è un arricchimento...».

E Obama?

«Ha alcune emergenze da affrontare, deve tamponare la crisi. Ma ha in mente cantieri di riforma di lungo termine: modernizzazione delle infrastrutture, investimento in energie rinnovabili, istruzione, sanità. Può farcela, può invertire la tendenza. Obama è un catalizzatore di energie individuali, lui stesso è già il risultato di centomila spunture di spillo».

mercoledì 19 novembre 2008

BATTIATO A TS


Franco Battiato per due sere al Politeama Rossetti, il 13 e 14 febbraio. Sognando un ritorno nel maggior teatro triestino di Ligabue in versione acustica. E persino il debutto - almeno per quanto riguarda il Rossetti - nientemeno che di Claudio Baglioni.

Ma andiamo per ordine. Di sicuro, per ora, nella programmazione musicale dello Stabile regionale, c’è solo la doppia data del cantautore e musicista siciliano, che ha appena pubblicato «Fleurs 2», il suo secondo album di cover dopo «Fleurs» e «Fleurs 3». Sì, avete letto bene: il terzo capitolo, nel 2002, era arrivato prima del secondo ed era destinato a chiudere un immaginario trittico, saltando un gradino, perchè, spiegava Battiato, «assecondando la consequenzialità dei numeri si apre una serie infinita».

L’uomo deve evidentemente aver cambiato idea, visto che ora ha realizzato questa nuova raccolta, che comprende cover come «Sitting on the dock of the bay» di Otis Redding, «Il carmelo di Echt» di Juri Camisasca, «Era d’estate» di Sergio Endrigo, «It’s five o’clock» degli Aphrodite’s Child, «Bridge over troubled water» di Simon & Garfunkel e «Il venait d'avoir 18 ans» di Dalida. Unico inedito: «Tutto l’universo obbedisce all’amore», duetto con Carmen Consoli.

Il disco sarà presentato il 12 dicembre al Teatro dell'Opera di Roma. Con Battiato, sul palco, ci saranno Manlio Sgalambro, Carlo Guaitoli (pianoforte), Davide Ferrario (chitarre), Angelo Privitera (tastiere e programmazione) e il Nuovo Quartetto Italiano, formato da Alessandro Simoncini e Luigi Mazza (primo e secondo violino), Demetrio Comuzzi (viola) e Luca Simoncini (violoncello). Probabilmente la stessa formazione con cui si presenterà nel tour italiano che a febbraio farà tappa a Trieste.

Ma come si diceva, il 2009 potrebbe portare al Rossetti altri due pezzi da novanta. Innanzitutto Ligabue, già visto negli anni scorsi sia al PalaTrieste che nello stesso Politeama, rispettivamente in versione elettrica e acustica. Il rocker di Correggio - l’unico che insidia al Vasco nazionale numeri da record negli stadi della penisola - si è un po’ innamorato della dimensione teatrale, più raccolta e dunque più meditata, per proporre al pubblico i suoi spettacoli. Dunque d’estate negli stadi, d’inverno nei teatri. Ecco allora in arrivo un tour teatrale invernale, che però si scontra con problemi di date: il management del Liga chiede la disponibilità del teatro (per almeno due serate) fra febbraio e marzo, periodo in cui la programmazione dello Stabile lascia pochissimi spazi vuoti. Da viale XX Settembre c’è stata un’offerta per aprile o maggio. Si vedrà.

Discorso analogo per Baglioni, che ha cantato diverse volte, anche recentemente, a Trieste, ma mai al Rossetti. Lo Stabile sta trattando per organizzare quello che sarebbe un vero e proprio debutto teatrale triestino, ma le difficoltà - dal poco che è dato sapere - sembrano notevoli. Superiori a quelle legate alla venuta di Ligabue.

In attesa di saperne di più, ricordiamo quali sono i maggiori appuntamenti dal vivo nella nostra zona per le prossime settimane. Sabato 6 dicembre a Padova e domenica 7 a Conegliano concerto di Zucchero, mercoledì 10 dicembre sempre a Conegliano arriva Jovanotti, venerdì 12 dicembre al palasport di Pordenone ritorna Francesco Guccini, giovedì 18 dicembre al Palaverde di Treviso tocca ai Negramaro, domenica 28 dicembre al Nuovo di Udine concerto di fine anno con Antonella Ruggiero, domenica primo febbraio al palasport di Pordenone suonano i Sonohra (che il giorno prima, sabato 31 gennaio, sono al palazzo del turismo di Jesolo), venerdì 13 febbraio al Nuovo di Udine si esibisce Mango, sabato 21 febbraio al Palaverde di Treviso fa tappa il tour degli Oasis, martedì 31 marzo al palasport di Pordenone concerto dei Nightwish.

domenica 16 novembre 2008

GIUSY FERRERI Questa è la storia di una fiaba. La fiaba di una cassiera di supermercato con la passione per la musica - ma dotata anche di una voce coi controfiocchi - che nello spazio di una sola stagione debutta in televisione a «X Factor», non vince ma in certi casi arrivare primi o secondi non fa molta differenza, poi firma con «Non ti scordar mai di me» il tormentone dell’estate musicale 2008 (autore Tiziano Ferro, tre dischi di platino con il mini-cd) e ora arriva nei negozi con il suo primo, a questo punto attesissimo, album.

Per vivere il suo sogno musicale Giusy Ferreri - vero nome Giuseppa, nata a Palermo nel ’79 e trapiantata al nord - si era messa in aspettativa dal lavoro al supermercato Esselunga di Corbetta, provincia di Milano. Il periodo di assenza dal lavoro scadeva nei giorni scorsi, praticamente in concomitanza con l’uscita del disco. E lei, ormai una piccola grande star con tanto di copertine dei settimanali a lei dedicate in bacheca, mica firma la lettera di dimissioni... No, va dal datore di lavoro e contratta l’allungamento del periodo di aspettativa. Altri sette mesi, fino a giugno, non si sa mai. «Il mercato discografico è in crisi - riflette a voce alta la cantante -, di dischi se ne vendono sempre meno. E metti che il mio ne venda pochi, che faccio? Meglio tenersi aperta una via di fuga. Magari non più come cassiera ma con un lavoro in ufficio...».

Questo per capire la persona, equilibrata e umile e con i piedi ben piantati per terra, di cui parliamo. Una senza grilli per la testa, nonostante il successo appena assaporato. Una che intitola «Gaetana» (Sony Bmg), dedicandolo alla nonna siciliana (settantaquattro anni ma con un grande spirito rock: jeans e stivali, e continui viaggi a Milano per incontrare la nipote...), il suo primo album.

Quando è apparsa a «X Factor» - raro esempio di televisione utile per la musica, non fosse altro per il fatto che ci ha fatto scoprire Giusy e altri giovani promettenti - la ragazza ha colpito tutti, oltre che per la voce, per la grinta e la personalità, che hanno spinto alcuni a paragoni con Amy Winehouse.

Ora la Ferreri si rivela anche autrice poetica e ironica di quattro delle canzoni dell’album. Tiziano Ferro non l’ha abbandonata: è produttore artistico del disco, firma il testo di «Il sapore di un altro no», su musica di Sergio Cammariere, ed è l’autore anche di «L’amore e basta» («...e sfido la vita sempre a testa bassa, perchè per me conta solo l'amore e basta...»), in cui duetta con la cantante.

Fra gli altri brani «Novembre», singolo di lancio dell’album, con annesso video ad alta programmazione, ma anche «Cuore assente» e «La scala», firmate dalla cantautrice e produttrice americana Linda Perry (il sogno di Giusy era lavorare con lei: Tiziano Ferro lo ha realizzato...). E ancora «Pensieri», «In assenza»,«Piove» e «Il party», che Giusy Ferreri aveva già inciso tre anni fa proprio col nome d'arte Gaetana. Canzoni nelle quali l’artista alterna il lato intimista e quello trasgressivo. Convincendo con entrambi.


TIZIANO FERRO Ma in queste settimane Tiziano Ferro non si limita ovviamente a tenere a battesimo la sua protetta Giusy Ferreri. È appena uscito anche il suo quarto album, intitolato «Alla mia età» (Emi Capitol): dodici canzoni nuove, due delle quali scritte con Ivano Fossati e Franco Battiato (rispettivamente «Indietro» e «Il tempo stesso»), per tratteggiare una personalità giovane ma già ben definita. Non dimentichiamo che in pochi anni (il suo primo album è del 2001) Ferro è passato dallo status di sconosciuto emergente di belle speranze a star della musica italiana e internazionale. Fa infatti parte del ristretto drappello di cantanti di casa nostra che godono di notorietà anche fuori dai confini nazionali.

Ora il ventottenne cantante e autore nato a Latina - da qualche tempo con residenza a Londra - sforna un lavoro dal taglio dichiaratamente autobiografico, quasi un'autoanalisi in bilico fra intimismo ed emotività. «L'album - dice l’artista - è certamente la fotografia più coerente di quello che sto scrivendo. Le insicurezze ma anche le sicurezze, i timori e le gioie. Insomma è un lavoro in equilibrio. Di una cosa sono certo, però: voglio dare un messaggio positivo, se c'è un aspetto interiore non c'è tristezza. Sono stato ispirato dalla mia vita, ho sentito l'urgenza di scrivere forte del quotidiano».

L’album è uscito in contemporanea in 42 paesi: praticamente mezzo mondo. E fra i brani c’è anche «La paura non esiste», titolo regalato a Tiziano Ferro dall’amica Laura Pausini.

Dal 18 aprile, partenza da Rimini, l’artista sarà in tour. «Vorrei riuscire a realizzare uno spettacolo che intrattenesse in maniera ilare gli spettatori. Non voglio riempirlo di ”poesia”. Desidero sia un momento di distrazione e che chi è venuto possa dire di essersi divertito per un paio d'ore. Non vorrei essere frainteso ma mi piacerebbe fare un pò un circo, essere un circense, e che poi i fan cantino e ballino...».


DOORS Un inedito disco «live» dei Doors, estratto da due concerti che il gruppo tenne al Matrix di San Francisco nel marzo del 1967, poche settimane prima dell'uscita del singolo «Light my fire», che li rese famosi in tutto il mondo. È il regalo per tutti i fan di Jim Morrison e compagni che arriva nei negozi in questi giorni. L'album è composto da un doppio cd, nel quale sono presenti gran parte dei brani dell’album «The Doors», che segnò esordio del gruppo di Jim Morrison, e alcune tracce del secondo album, «Strange days». Ray Manzarek, membro fondatore della band, racconta così quei lontani concerti: «Li abbiamo fatti nei primi mesi del 1967, quando i Doors stavano per entrare nella coscienza della nazione». E il produttore del «Live at the Matrix», Bruce Botnick, aggiunge:«Questo disco è probabilmente il miglior documento che abbiamo prima che tra i Doors iniziassero i contrasti». Una stagione breve, ma che segnato profondamente la storia della musica rock.


MANNOIA Dieci canzoni che comunicano la necessità di aprirsi all'altro, la bellezza dell'essere diversi, le emozioni che la musica è ancora in grado di suscitare. È «Il movimento del dare», il nuovo disco di inediti di Fiorella Mannoia, che arriva a ben 7 anni di distanza dal precedente studio album. Scritto dalla coppia Battiato/Sgalambro, il brano che dà il titolo al disco è un invito esplicito a imparare dagli altri per capire la realtà che ci circonda: «È necessario comprendere - dice la cantante - che non esiste solo il pensiero occidentale o quello cattolico. Oggi il mondo ci impone il confronto con altre culture e bisogna considerare la società multirazziale come qualcosa che può arricchirci invece che penalizzarci. Non si possono insomma discriminare gli stranieri in quanto tali, perchè si rischia di ripetere gli episodi di razzismo che, in passato, sono stati costretti a subire anche gli emigranti italiani in paesi come la Germania». Le canzoni del cd sono state scritte da alcuni dei più importanti musicisti italiani: da Ligabue a Pino Daniele, da Battiato a Tiziano Ferro (anche in duetto con la cantante), dall'amico di sempre Ivano Fossati fino a Jovanotti.


 

sabato 15 novembre 2008

FILM ZAMPAGLIONE


TARVISIO Federico Zampaglione come Ligabue, diviso fra rock e cinema. Il leader dei Tiromancino è infatti da qualche giorno in Friuli, impegnato nelle riprese del suo secondo film da regista. Dopo l’esordio dietro la macchina da presa due anni fa con «Nero familiare», ora l’artista sta girando «The shadow», assieme alla sua compagna, l’attrice Claudia Gerini.

Dopo aver svolto il casting e il primo ciak negli Stati Uniti, ora la troupe è a Tarvisio, dove si stanno girando alcune scene del film. Una storia che mescola thriller e horror, racconto di guerra e azione. Sulla trama tutti stanno piuttosto abbottonati. Pare comunque che sia la storia di un giovane americano, reduce dall’Iraq, che parte per l’Europa per cercare un misterioso percorso di biking. Lo scontro con due cacciatori per difendere una ragazza dà il via a un inseguimento nelle zone più oscure del bosco, dove aleggiano antiche leggende e segreti inquietanti. A un certo punto i protagonisti si perdono in questo bosco, che è quello millenario di Tarvisio. «Un messaggio contro la guerra», dicono i produttori. E temi molto duri e attuali, che vogliono far riflettere lo spettatore. Quasi una sfida, rispetto ai canoni del cinema italiano, che ha ottenuto l’interesse degli americani.

Il film, una coproduzione italoamericana con un budget elevato, viene girato in lingua inglese e ha un cast internazionale. Per Zampaglione - che a Sanremo quest’anno ha cantato la precarietà del lavoro con «Rubacuore» - un rilancio cinematografico.

lunedì 10 novembre 2008

MIRIAM MAKEBA


CASERTA La cantante sudafricana Miriam Makeba è morta nella clinica Pineta Grande di Castel Volturno dove era stata trasportata l’altra notte dopo essere stata colta da un malore, al termine della sua esibizione al concerto anticamorra e contro il razzismo dedicato allo scrittore Roberto Saviano, tenutosi a Castel Volturno. Aveva 76 anni. L'artista aveva accusato un malore subito dopo aver concluso il concerto.


Mama Africa è spirata nell’ospedale dove da anni si registra il maggior numero di nascite di figli di extracomunitari. Se n’è andata sul campo di battaglia, in prima linea, proprio come aveva sempre vissuto. Un’esistenza intera spesa sul fronte della lotta per i diritti civili, contro l’apartheid e ogni razzismo. Un’esistenza il cui ultimo atto è stato cantare a un concerto organizzato per esprimere solidarietà a uno scrittore che vive braccato dalla criminalità organizzata. Un concerto contro tutte le ingiustizie. In una città dove due mesi fa la camorra ha ucciso per strada sei extracomunitari.

Nelson Mandela l’ha definita la «madre» della nazione sudafricana. «Era la first lady sudafricana della canzone e merita il titolo di Mamma Africa: è stata la madre della nostra lotta e della nostra giovane nazione», ha scritto il Premio Nobel per la Pace in un messaggio. Di certo è stata un’artista sempre al fianco dei più deboli, dei quali è stata capace di essere la voce. Ha usato la musica e la canzone per esprimere messaggi di libertà e sostenere battaglie di civiltà.

Miriam Zenzi Makeba era nata a Johannesburg il 4 marzo del 1932, quando in Sudafrica imperava la segregazione razziale più dura. Musicalmente è stata a lungo considerata una grande anticipatrice. All’inizio della carriera assieme al primo marito, il musicista Hugh Masekela (nel ’68 avrebbe poi sposato l’ex leader delle Pantere Nere, Stokely Carmichael), in un secondo momento al fianco del grande Harry Belafonte. Seppe coniugare la musica tradizionale dell’amato Sudafrica assieme al jazz e al pop, ben prima che il mondo conoscesse le nuove tendenze che vanno sotto il nome di world music.

«Pata Pata» è rimasto, a distanza di tanti anni, il suo successo più grande e popolare. Ma tutta la sua discografia è ricca e piena di perle rare. Nel ’66 è stata premiata con il Grammy Award per l'album «An evening with Belafonte/Makeba». All’epoca viveva già negli Stati Uniti, e il governo del suo paese - mentre Mandela stava in carcere - nel 1960 le aveva revocato la cittadinanza e ritirato il passaporto. La sua colpa? Aver denunciato alle Nazioni Unite la situazione di apartheid e la politica razzista che toglievano pace e libertà e giustizia al Sudafrica. In quel ’60 la cantante partecipò con il documentario anti-apartheid «Come back, Africa» alla Mostra del Cinema di Venezia. E decise di non tornare più a casa.

Negli anni successivi la Makeba ha vissuto in Europa, negli Stati Uniti e in Guinea. Musicalmente ha sempre mantenuto la sua carriera a ottimi livelli qualitativi, con dischi e concerti in tutto il mondo. Nell’87 ha partecipato alla tournèe «Graceland» con Paul Simon, nel ’90 ha partecipato al Festival di Sanremo in coppia con Caterina Caselli, nel ’92 ha fatto parte del cast del musical «Sarafina». Nell’aprile di quest’anno aveva cantato anche a Pordenone, a chiusura della rassegna «Dedica» per Nadine Gordimer.

Nel suo Sudafrica è tornata dopo trent’anni di esilio nel 1990, invitata da Nelson Mandela - che come lei appartiene all'etnia xhosa per parte di padre: la madre della cantante era invece una sangoma di etnia swazi - ormai uscito dalla galera e diventato presidente. Per l’occasione ebbe un’accoglienza degna di una regina. Anzi, di più. Quella che si doveva a Mama Africa.

venerdì 7 novembre 2008

OBAMA


Obama primo leader politico figlio della new economy. Obama che oggi non sarebbe il primo presidente nero degli Stati Uniti se non ci fosse stato il web. Obama aiutato nell’ascesa dal suo indubbio carisma da rockstar. Obama il cui programma politico è la storia della sua vita...

Tutte sfaccettature che da quarantotto ore vengono rilanciate e analizzate sui giornali e dai commentatori di mezzo mondo. Giuliano da Empoli, trentacinquenne di talento con sette libri già in bacheca, è forse il massimo conoscitore italiano di Barack Obama. Gli ha anche dedicato un libro, uscito per Marsilio due mesi fa: «Obama, la politica nell’era di facebook» (pagg.160, euro 12). Nel quale ricostruisce l’ascesa di colui che cinque anni fa era un semplice membro dell’assemblea statale dell’Illinois («l’equivalente di un consigliere regionale del Piemonte...», chiosa lo scrittore) e che col voto dell’altro giorno, oltre a diventare capo della massima potenza mondiale, è entrato nella Storia.

«Obama l’ho scoperto tre anni fa in tivù - ricorda Giuliano da Empoli, che nel ’96, quando esordì con «Un grande futuro dietro di noi, fu accolto come un autentico enfant prodige - grazie a un mio amico che fa il curatore d’arte a Chicago, e che mi aveva segnalato l’ascesa di questo nuovo leader politico. Nel 2004 lui aveva già tenuto il discorso di apertura alla convention dei democratici che aveva candidato Kerry, ma in Italia non lo conosceva nessuno. Forse nemmeno Veltroni...».

Si aspettava un successo di queste dimensioni?

«Via via che ci si avvicinava al voto, sì. Da noi è stato percepito come un ufo. Un nero presidente degli Stati Uniti? Non ci credeva nessuno, nemmeno a sinistra. Lui invece ha vinto perchè ha portato in politica le trasformazioni della società americana dell’ultimo quarto di secolo. La sua vittoria non nasce solo dalla delusione per Bush, ma ha radici più profonde».

Figlio della new economy. Perchè?

«Analizzandolo con le vecchie categorie della politica americana, è un fenomeno che non si comprende. Negli Usa ci sono i partiti, le lobby, le grandi famiglie. La new economy ha invece prodotto negli ultimi anni fenomeni come Google, l’avventura di due ragazzi partiti da un garage che hanno costruito un impero. È da quel mondo, da quel tipo di avventure velocissime che nasce il fenomeno Obama. Un perfetto sconosciuto, un outsider che in pochi anni si fa conoscere, trova i fondi necessari, assembla le intelligenze e le professionalità giuste. E diventa presidente».

Senza internet sarebbe stato impossibile.

«Certo. Ma gli Stati Uniti ci hanno abituati all’irrompere dei nuovi media: un tempo la radio, poi la tivù, oggi la rete. Che viene usata da tutti. Lo stesso McCain, nonostante l’età, ne fu un precursore, quando nel 2000 contese la nomination a Bush. La novità con Obama è che non usa internet solo per comunicare qualcosa agli altri: lui ha permesso ai suoi sostenitori di comunicare fra loro, creando un movimento dal basso che è stato fondamentale, a lui che viene dal volontariato, per reperire i fondi economici. Poi ha lasciato lo strumento nelle mani della base: un rischio che un politico tradizionale non avrebbe mai corso».

Quanto ha contato il carisma da rockstar?

«Molto. Nello show business le barriere razziali sono cadute da un pezzo. Di quel mondo lui ha preso la dimensione del sogno, come già aveva fatto Kennedy, giovane e prestante come lui, e l’ha trasferita in politica. Senza questa dimensione la sua avventura forse non sarebbe stata possibile. A un certo punto gli è stata anche utilizzata contro da McCain, con qualche contraccolpo nei sondaggi, e lui ha dovuto rallentare. Ma all’inizio, nell’ascesa, gli è servito molto».

Michelle fondamentale.

«Assolutamente. Con una doppia funzione. Lei che viene dal ghetto di Chicago gli ha dato le radici nere che non aveva ma che cercava, come dimostra l’esperienza di volontariato nei quartieri neri. Con cui lui non c’entrava nulla, cresciuto com’è fra le Hawaii e l’Indonesia. E poi, a lui figlio di un padre che aveva avuto otto figli da quattro donne diverse, lei ha dato la solidità di una coppia e di una famiglia. Che negli Stati Uniti è importante».

Come la fede. E con Obama Dio non è più repubblicano...

«I cattolici stavano con Bush, ora hanno votato Obama. Mentre i protestanti sono ancora con i repubblicani, ma in misura minore. La novità di Obama è che parla apertamente dell’importanza della religione, della fede nell’attività politica, mentre i democratici avevano una tradizione più laica. Del resto lui ha forti radici nella religione. Dai predicatori neri ha preso lo stile, l’oratoria, le metafore».

Per il programma ha attinto invece dalla sua vita.

«È un’altra sua particolarità. Basti pensare che a trent’anni aveva già scritto la sua autobiografia. Sì, il programma di Obama è Obama. Si tratta di un’arma retorica molto efficace, usata ben sapendo che il racconto biografico è molto più efficace di un programma, in una società e per una generazione narcisista dove tutti si raccontano, fra blog, siti e social network».

Quarant’anni dopo Bob Kennedy e Martin Luther King, e 45 dopo John Kennedy, Obama oggi rischia la vita?

«Purtroppo sì. Gli Stati Uniti sono pieni di armi, e ci sono questi gruppi di fanatici militarizzati molto pericolosi. Ma il rischio è preso sul serio: già nel discorso della vittoria ho visto che Obama era molto più protetto che nella campagna elettorale. Rimane un forte elemento di preoccupazione».

E in Italia?

«La forza del segnale di Obama è che tutto è possibile. E il contrasto con la realtà italiana è netto. La partita va giocata in positivo, non con il lamento. Obama vince perchè offre una promessa, la realizzazione del sogno americano secondo il quale tutto è possibile».

«Le cose si muovono - conclude Giuliano da Empoli - quando qualcuno porta innovazione in termini di messaggio, contenuti, tecnologia. Ma le trasformazioni della società italiana non sono ancora state portate in politica. L’ultimo che l’ha fatto è stato Berlusconi, ma solo nella fase iniziale, ormai quattordici anni fa. Il prossimo che riesce a farlo vince. Ma a questo punto ci vuole un outsider. Com’era fino a ieri Barack Obama».


 

lunedì 3 novembre 2008

GORIZIA TU SEI MALEDETTA


La Grande Guerra per noi fu anche quella dei seicentomila morti. Seicentomila giovani vite umane sacrificate sull’altare della patria. La battaglia di Gorizia - agosto 1916 - costò da sola un prezzo terribile: oltre cinquantamila soldati per parte italiana, quasi altrettanti sul versante austriaco. Un autentico massacro, secondo gli storici.

Un massacro, un macello a cui venne mandata la gioventù dell’epoca, che valse alla città isontina l’attributo di «maledetta» in una canzone della grande tradizione antimilitarista. «Oh Gorizia tu sei maledetta, per ogni cuore che sente coscienza, dolorosa ci fu la partenza, e il ritorno per tutti non fu...».

Pare che la versione originale fosse stata raccolta, qualche anno dopo i tragici fatti, da un testimone che affermò di averla ascoltata dai fanti che conquistarono la città il 10 agosto 1916. Ma il brano si innestava su moduli di tradizione popolare risalenti a una manciata di anni prima: una strofa è infatti simile a un’altra cantata dei tempi della guerra di Libia.

Fra le tante canzoni contro la guerra, «Oh Gorizia tu sei maledetta» è diventata nel corso del Novecento una delle più conosciute, quasi un simbolo dell’antimilitarismo e del pacifismo italiano.

Ciò un po’ per i toni drammatici e incisivi dei versi, nella ferma e dura condanna della violenza e della guerra, resa più amara dalla sottolineatura di classe, sulla differenza fra ufficiali («Traditori signori ufficiali, che la guerra l’avete voluta, scannatori di carne venduta e rovina della gioventù...») e soldati semplici («Raccomando ai compagni vicini di tenermi da conto i bambini, che io muoio invocando il suo nom...»).

Ma la fama del brano nasce anche dal vero e proprio scandalo avvenuto nel giugno 1964 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, nel corso dello spettacolo «Bella ciao», nel quale il Nuovo Canzoniere Italiano proponeva un programma di canzoni popolari e canti della gente comune. Quando Michele L. Straniero e Fausto Amodei, Roberto Leydi e Giovanna Marini cominciarono a cantare i versi di «Gorizia» - recuperata dagli studiosi della musica popolare che si erano raccolti in quella formazione - tutto filò via tranquillo fino al verso «Traditori signori ufficiali...».

Lì scoppia il finimondo. «Un tumulto - come racconta trent'anni dopo lo stesso Straniero - provocato da chi esige l'interruzione dello spettacolo. I dissenzienti non vogliono intendere ragioni: Gorizia non si tocca, la Grande Guerra nemmeno. Questi qui sono una banda di comunisti, il festival è caduto in mano ai rossi, bisogna farli tacere e cacciarli via».

Ancora Straniero: «Un facinoroso particolarmente acceso tenta la scalata al palco: ma Giovanna Marini, già alta e imponente di suo come una matrona romana, lo ferma di botto levandogli sul capo la sua superba e preziosa mandòla. In un palco Giorgio Bocca, tra i sostenitori più convinti, ribatte da par suo a una "carampana" che squittisce dissenso. Dal fondo della sala una voce stentorea proclama: "Signori ufficiali, attenti!"...».

Ufficiali scandalizzati dalla visione assai poco eroica della «guerra vittoriosa». Ufficiali che quel giorno abbandonarono la sala assieme alle autorità. Lo spettacolo venne sospeso. E pochi giorni dopo gli artisti vennero denunciati per vilipendio alle forze armate.

Questo era il clima all’inizio degli anni Sessanta nel nostro Paese. Nei quarant’anni che son passati, soprattutto Giovanna Marini ha mantenuto viva - negli spettacoli e nei dischi - la tradizione di «Gorizia» (questo è ormai diventato il titolo della canzone).

E recentemente anche il gruppo goriziano ’Zuf de Zur - che attinge alle tradizione multietnica di queste terre - ne ha realizzato una versione originale e convincente.

domenica 2 novembre 2008

SHEL


Se è vero che un Paese può essere raccontato anche attraverso la sua musica, «Sarà una bella società» di Shel Shapiro - domani e mercoledì al Comunale di Monfalcone, poi in giro per la regione fino a domenica - è un manuale perfetto di quarant’anni di storia italiana e non solo italiana. Una storia illustrata attraverso canzoni che, fra sentimenti e avvenimenti, fanno da sfondo alla grande trasformazione sociale e culturale cominciata negli anni Sessanta.

«Sarà una bella società, fondata sulla libertà, però spiegateci perchè se non pensiamo come voi, ci disprezzate, come mai...?», cantava nel ’66 Shel Shapiro con quel suo caratteristico accento inglese che oltre quarant’anni in Italia non hanno ancora cancellato. Il gruppo era quello dei Rokes, quattro ragazzi britannici che avevano trovato l’America qui da noi.

La canzone era «Che colpa abbiamo noi», versione firmata Mogol di «Cheryl’s going home» di Bob Lind. Col suo sapiente mix di contestazione e vittimismo, e grazie al ritornello orecchiabile, divenne il manifesto del beat italiano. Ma forse anche della contestazione che stava sbocciando.

Oggi quel verso torna come titolo di uno spettacolo - scritto dal giornalista Edmondo Berselli, debutto al Mittelfest 2007 - che racconta lo spirito di un’epoca attraverso lo strumento popolare della canzone e affidandosi a un uomo-icona degli anni Sessanta. «I Sessanta – spiega Berselli - sono un decennio “seminale”, in cui sembra essersi concentrata una creatività, un’energia sociale, ma anche intellettuale, culturale, comportamentale, davvero irripetibile. Se pensiamo all’America di Bob Dylan, a una voce mai sentita prima che annuncia il tempo nuovo, che investe i grandi raduni civili e politici dell’età kennediana e post-kennediana, abbiamo una fotografia suggestiva del cambiamento».

Speranze, sogni, illusioni di ieri; certezze, amarezze, disillusioni di oggi. Shapiro (vero nome: David) in tutti questi anni ha lavorato nella musica come autore e produttore, ma anche come attore.  Accompagnato dalla sua band (Alessandro Giulini tastiere, fisarmonica e voce; Daniele Ivaldi chitarre; Luigi Mitola chitarre e mandolino; Mario Belluscio basso, Ramon Rossi batteria e percussioni), nello spettacolo - e nel disco omonimo che è stato pubblicato da Edel/Promo Music - Shel alterna alcuni fra i pezzi più celebri della storia del rock e del pop ai suoi più famosi successi, per raccontare la sua storia e i cambiamenti della nostra società, citando Elvis e Beach Boys, Beatles e Rolling Stones, Dylan e Hendrix.

Come si diceva, «Sarà una bella società» va in scena domani e mercoledì al Comunale di Monfalcone, aprendo la stagione, e poi giovedì allo Zancanaro di Sacile, venerdì al Pasolini di Casarsa, sabato al Verdi di Maniago e domenica al Candoni di Tolmezzo.

Ma la stagione di Monfalcone ha già in programma un altro grande protagonista della musica italiana: martedì 11 novembre Eugenio Finardi presenta infatti lo spettacolo «Il cantante al microfono», dedicato al poeta e cantautore russo Vladimir Vysotsky.