martedì 30 maggio 2017

VENEZIA FARÀ FESTA CON LA MAGICAL MYSTERY ORCHESTRA

Per festeggiare i cinquant’anni di “Sgt. Pepper”, si sono messi d’accordo Apple, Capitol e UMe: esce infatti una versione “deluxe” con molti inserti speciali dello storico album. E mentre a Liverpool, proprio in Mathew Street, dove c’era il Cavern Club diventato famoso per le esibizioni dei Beatles, è stato aperto un “pop-up shop” temporaneo dedicato unicamente a questo disco, nelle sale italiane arriva il film “The Beatles – Sgt. Pepper & Beyond”. Si tratta del documentario dedicato ai dodici mesi forse più importanti della storia della band: l’anno in cui i “Fab Four” sospesero i tour diventando gli artisti più innovativi del mondo in sala di registrazione. Diretto da Alan G. Parker e distribuito da Lucky Red, il film contiene immagini e interviste inedite che raccontano il periodo magico degli Abbey Road Studios, la nascita delle canzoni e dell’album che più di ogni altro ha segnato la loro storia. Tra gli intervistati: Tony Bramwell, collaboratore di Epstein e poi amministratore delegato della Apple Records, Hunter Davies, unico biografo autorizzato dei Beatles, Bill Harry, compagno di scuola di John Lennon, Philip Norman, autore di numerose interviste nel corso degli anni Sessanta e della biografia “Shout!”, Julia Bairs, sorella di Lennon, e Freda Kelly, una delle più leali impiegate dei Beatles. La passione di Parker per la musica dei “Fab Four” ha portato a un’analisi approfondita del periodo e delle ragioni per cui venne sospeso la tournèe, ma anche dei testi delle canzoni e della creazione della celebre copertina. Il tutto è arricchito da retroscena esclusivi. E il primo luglio, alla Fenice di Venezia, la Magical Mystery Orchestra (che da oltre vent’anni ripropone le musiche dei Fab Four) eseguirà assieme ai musicisti del teatro veneziano le musiche dello storico album.

50 ANNI DI SGT PEPPER, BEATLES

Sembrava dovesse essere l’inizio di una nuova era, l’alba di un giorno nuovo. Sembrava che il mondo dovesse andare sempre avanti. La fantasia al potere. Poi le cose sono andate diversamente. Sono passati cinquant’anni. “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, ottavo album dei Beatles, da molti considerato il capolavoro assoluto all’interno di una discografia di capolavori (c’è chi preferisce “Revolver”, chi “White album”...), per altri addirittura il disco più importante della storia del pop, uscì in Gran Bretagna il primo giugno 1967. Negli Stati Uniti il giorno dopo. In Italia e in tante altre parti del mondo qualche giorno dopo ancora. Non erano tempi di uscite in contemporanea mondiale. Già, erano altri tempi. In tutti i sensi. Il mondo - anche grazie ai Beatles - stava lasciando il bianco e nero per i colori. In Inghilterra governava il laburista Wilson, la frattura con il vecchio mondo era rappresentata dai capelli lunghi dei ragazzi, dalle minigonne delle ragazze. E dai Fab Four, vere superstar mondiali, più dei Rolling Stones. Alla Casa Bianca c’era Johnson, alle prese con quella tragedia che si rivelerà la guerra nel Vietnam. E contro la quale scendevano in piazza i giovani di mezzo mondo. Dall’altra parte del pianeta c’erano Breznev e Mao. In Italia Saragat al Quirinale, Moro al governo, a Sanremo è l’anno del suicidio di Tenco. Il Sessantotto sta per arrivare. Assieme alla contestazione, l’autunno caldo, poi la strategia della tensione, più avanti il terrorismo politico. In questo vecchio mondo la pubblicazione di quel disco, prodotto da George Martin, somiglia all’annuncio di una nuova era. Può sembrare strano che a un disco di musica pop venga data tanta importanza. Eppure... Lo spunto iniziale, in una sorta di concept album di ricordi adolescenziali dei quattro nella nativa Liverpool, germoglia alla fine dell’anno precedente. Fu McCartney a pensare a un album eseguito da un immaginario gruppo di musicisti, una banda di ottoni d’epoca vittoriana chiamata appunto “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (“La Banda del Club dei Cuori Solitari del Sergente Pepper”). E fu ancora lui, terminato di comporre il brano omonimo che avrebbe aperto l’album, a proporre agli altri di scrivere e interpretare i brani come se fossero eseguiti dall’orchestrina del Sergente Pepper. Montandoli poi nel disco in un’unica sequenza, che dopo la canzone del titolo avrebbe infilato perle assolute come “With a little help from my friends” (unica con la voce di Ringo Starr, poi lanciata a Woodstock da Joe Cocker), “Lucy in the sky with diamonds” (con le polemiche mai sopite sull’acronimo del titolo: Lsd...), “She’s leaving home”, “When I’m sixty-four” (mi amerai ancora quando avrò sessantaquattro anni?), fino alla definitiva e conclusiva “A day in the life”. L’opera comincia con un brusio di fondo, sembra di stare in una sala da concerto. Gli spettatori aspettano che gli orchestrali accordino gli strumenti. «Sono passati vent’anni esatti - dice una voce - da quando il Sergente Pepper ha insegnato alla banda a suonare...». La “Banda dei cuori solitari”, appunto. È fatta: lo schema consueto, la liturgia seguita fino a quel momento dai dischi di musica pop e rock viene capovolta. Grazie a quella finzione, a quell’artifizio, gli artisti sono liberi di creare, di eseguire, di proporre la propria musica - libera da lacci e lacciuoli - all’ascoltatore. Lennon (e non solo lui...) vi aggiunge le sue sperimentazioni con l’Lsd. E da quel momento nulla sarà più come prima. La cosa bizzarra è che i primi brani che i Beatles scrissero per “Sgt. Pepper’s”, “Strawberry fields” e “Penny Lane”, poi non entrarono nell’album. «Brutto errore», secondo George Martin. Ma i due pezzi uscirono su 45 giri a febbraio, e l’uso era quello di un inserire singoli negli album. Paradossalmente poco importava: i quattro erano in una sorta di furore creativo che per la selezione finale ci fu solo l’imbarazzo della scelta. E poi quella copertina, la più bella della storia della musica pop, capolavoro pop che tanta parte ha avuto nel successo e nella trasformazione dell’album in un oggetto di culto. Realizzata da Jann Haworth e Peter Blake su suggerimento dello stesso “Macca”, propone il pantheon dei personaggi dinanzi ai quali i Beatles - ritratti al centro, uniformi di raso sgargianti, come una banda militare di epoca vittoriana, o una sorta di esercito della salvezza - avrebbero voluto esibirsi: da Einstein a Marlon Brando, da Marx a Edgar Allan Poe, da Lenny Bruce a Bob Dylan, da Oscar Wilde a Shirley Temple, da Fred Astaire a Mae West... Non passarono la “selezione” Gesù, Hitler, Gandhi, ma anche Nietzsche e Brigitte Bardot. In compenso c’era anche un italiano: tale Simon Rodia, emigrato quindicenne in America dalla provincia di Avellino, autore di visionarie opere architettoniche, fra cui le Watts Towers (note anche con il nome di Nuestro Pueblo), simbolo delle lotte per i diritti civili. Un disco? No. «Un momento decisivo nella storia della civiltà occidentale», scrisse Kenneth Tynan sul Times. Il critico letterario Guy Aston sviluppò l’assioma: disse che «i Beatles sono riusciti a fare della musica pop qualcosa che si ascolta seriamente, e che si potrebbe trattare come qualsiasi altro tipo di espressione artistica». E poi che «l’influenza di “Sgt. Pepper” sul pop è stata enorme», in quanto il disco avrebbe dato ispirazione a tutta una serie di album di altri musicisti. «I Beatles erano sempre stati l’espressione di un mondo di adolescenti: qui assumono volontariamente il ruolo che in un primo tempo era stato loro imposto dalla stampa, quello di capi spirituali. “Sgt. Pepper” è per molti aspetti un disco didattico per il pubblico; i Beatles hanno scoperto la “liberazione spirituale” e vogliono estenderla al mondo». E quella del ’67 fu la “Summer of love”, non soltanto a San Francisco. Cinquant’anni dopo non possiamo affermare che l’impresa riuscì. Anzi. Ma di certo, quel disco ha influenzato (quasi) tutti gli artisti pop e rock che sono arrivati dopo, forse addirittura la cultura di questi cinque decenni. Tanto che oggi si può parlare di un prima e un dopo “Sgt. Pepper”. Nel ’69 la tre giorni di Woodstock e le violenze al Festival di Altamont (ma anche il festival sull’isola di Wight, tre edizioni fra il’68 e il ’70) calarono idealmente il sipario su un’epoca. “Nothing is real”, nulla è reale, cantava John Lennon. Nemmeno la banda dei cuori solitari, lonely hearts, appunto.

sabato 27 maggio 2017

NASCE ARTICOLO 21 FVG

Nasce Articolo 21 Friuli Venezia Giulia, sezione regionale dell’associazione che proprio quest’anno festeggia quindici anni di vita. Il primo appuntamento è per venerdì 26 maggio alle 18.30, al Circolo della Stampa di Trieste (Corso Italia 13, primo piano), con la presentazione del libro “Contro il razzismo” (Einaudi, 2016). La sezione regionale Fvg di Articolo 21 (“il dovere di informare, il diritto di essere informati”) si aggiunge a quelle già attive in Campania, Lombardia e Veneto. L’iniziativa parte da un gruppo di cittadine e cittadini, esponenti del giornalismo e della comunicazione, della cultura e dello spettacolo, con l’intento di creare un presidio volto a promuovere e difendere, anche nel Friuli Venezia Giulia, il «diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione…», come sancisce appunto l’articolo 21 della nostra Costituzione. Un diritto che riguarda tutte e tutti e che si realizza anche nel dare voce a chi è meno garantito: giornalisti minacciati o intimiditi, persone appartenenti a categorie più fragili, come bambini, donne, migranti, che oggi risultano spesso invisibili o particolarmente sotto tiro. Articolo 21 Fvg vuole diventare – anche in collegamento con importanti realtà già avviate, come il Premio Luchetta, il Festival Link e l’associazione Paole O_Stili – uno spazio di riflessione sull’importanza e il peso delle parole e delle immagini, che possono diventare violente e senza controllo in un universo mediatico nel quale è sempre più difficile orientarsi, nonostante l’apparente maggiore libertà. E proprio un’analisi delle parole che alimentano il razzismo, curata da Federico Faloppa nel libro “Contro il razzismo”, sarà venerdì a Trieste l’occasione per battezzare la sezione regionale. L’autore, docente di Linguistica italiana all’Università di Reading (Gran Bretagna) ed esperto di problemi legati alla rappresentazione dell’alterità nel linguaggio, sarà introdotto da Sergia Adamo, docente di Teoria della letteratura e letterature comparate all’Università di Trieste. L’incontro, coordinato dalla giornalista Fabiana Martini, prevede anche gli interventi di Cristiano Degano, presidente dell’Ordine regionale dei Giornalisti, Carlo Muscatello, presidente di Assostampa Fvg, e Pierluigi Sabatti, presidente del Circolo della Stampa di Trieste.

DELTABLUES COMPIE 30 ANNI

Trent’anni e non li dimostra. Deltablues, la storica rassegna veneta, taglia l’ambito traguardo e dal 2 giugno al 14 luglio propone un cartellone itinerante che prevede dodici giornate di concerti e tre crociere musicali sul Po. Fra i protagonisti: l’ex Jethro Tull Clive Bunker, il chitarrista Mike Zito, il batterista Dave Weckl, direttamente dal Mississippi Zac Harmon, la cantautrice emergente Sunny War (nella foto), l’italiano Fabio Treves, tanti altri. E proprio Treves, milanese di origini triestine, considerato il padre del blues italiano, aprirà la rassegna in duo con il chitarrista Alessandro Gariazzo venerdì 2 giugno alle 18.30, partenza da Loreo, sul Po di Levante. Tornati a terra, alle 21.30 suonano i livornesi Tres Radio Express Service. Sabato 3 giugno, sempre a Loreo, alle 18.30 Labir e Romea Quintet, poi serata con la Riki Massini Bonus Track Band; ospite davvero d’eccezione Clive Bunker, storico batterista dei Jethro Tull. Il 23 giugno, a Lendinara, “Dagli appennini al blues”, spettacolo del chitarrista Valter Gatti con il violinista Michele Gazich. Serata con la giovane cantautrice statunitense Sunny War, talento emergente e già maestra nella tecnica chitarristica del “fingerpicking”: proporrà brani dai suoi due album solisti, tra cui “Red, White & Blue”. La stessa Sunny War sarà protagonista anche nel “Deltablues on the road”, domenica 25 giugno nel centro storico di Rovigo. Poi la rassegna prosegue fino a metà luglio. Il 30 giugno a Rosolina Mare con “Rock around the blues”, sezione dedicata alla musica nera e americana degli anni Cinquanta. Il 7 e 8 luglio a Occhiobello, dopo le finali nazionali Ibc, spazio a Mike Zito, cantante e chitarrista del Missouri, fresco di nomination come miglior bluesman contemporaneo per i prossimi Blues Awards. Il 12 luglio a Rovigo il batterista Dave Weckl. Gran finale venerdì 14 luglio alle 22.30 ad Adria, in piazza Castello, con la giovane chitarrista udinese Eliana Cargnelutti.

venerdì 19 maggio 2017

ADDIO A CHRIS CORNELL

DETROIT È morto a Detroit Chris Cornell, voce dei Soundgarden e degli Audioslave. Aveva cinquantadue anni. Il suo agente ha confermato la notizia dicendo anche che la moglie e la famiglia del rocker sono sconvolti per il decesso che è stato «improvviso e inatteso». Il medico legale ha stabilito che si è trattato di suicidio. La famiglia chiede di rispettare la privacy. . di CARLO MUSCATELLO Poco più di un anno fa, era l’aprile 2016, aveva riempito il Politeama Rossetti di Trieste con un emozionante concerto acustico. E nessuno poteva immaginare che quel breve tour italiano (dopo la tappa triestina si esibì anche a Roma e Milano) sarebbe stato l’ultimo. Nato il 10 luglio 1964 nella Seattle che fu culla del movimento grunge di cui lui stesso è stato fra i maggiori protagonisti, Christopher John Boyle (Cornell era il cognome della madre, adottato dopo il divorzio dei genitori) forma i Soundgarden nel 1984, appena ventenne. La band spacca subito, si divide assieme agli Alice in Chains le luci della fertilissima scena locale. Ma per l’esplosione mondiale bisogna aspettare. “Superunknown” esce nel ’94 e fa il botto, vendendo nove milioni di copie. Fa una certa impressione rileggere oggi quelle liriche ispirate alle poesie di Silvia Plath e dedicate a temi come la morte, l’abuso di droghe, il suicidio... Nel disco, considerato da molti un capolavoro, spicca il brano “Black hole sun”, a tutt’oggi un un manifesto del movimento grunge. I Soundgarden si sciolsero pochi anni dopo e si riformarono nel 2010. E fu proprio con loro che Cornell aveva appena tenuto, mercoledì sera nella sua Detroit, l’ultimo concerto della sua vita. Una carriera ricca di altre perle. Dal ’90 al ’92, prima dell’esplosione dei Supergarden, è con i Temple of the dog, supergruppo con vari big della scena di Seattle, sorta di tributo alla memoria di quell’Andrew Wood, già leader dei Mother Love Bone, che era stato suo grande amico, stroncato dall’eroina ad appena ventiquattro anni. In un libro Cornell scrisse che la sua morte rappresentò l’evento che avrebbe poi condotto la scena di Seattle a immergersi in una spirale collettiva di autodistruzione, di cui la morte a soli ventisette anni di Cobain fu solo uno dei tanti, drammatici episodi (Layne Staley degli Alice in Chains, Scott Weiland degli Stone Temple Pilots, Mike Starr ancora degli Alice in Chains...). Un altro supergruppo dopo il primo scioglimento dei Soundgarden: gli Audioslave formati assieme a Tom Morello (che poi avremmmo ritrovato nella E Street Band di Bruce Springsteen nel “Wrecking Ball Tour” del 2012), Tim Commerford e Brad Wilk, tutti e tre provenienti dai Rage Against The Machine. Da solista Cornell ha prodotto diversi lavori interessanti, collaborando fra gli altri con Santana e Slash, scrivendo musiche da film (fra cui il brano dei titoli di testa per “Casino Royale”, il primo James Bond di Daniel Craig). Lo scorso anno Cornell arrivò a Trieste dopo il successo del suo tour americano, quell’”Higher Truth Tour” che prendeva il nome dal suo album solista “Higher Truth”, pubblicato dalla Universal. Dodici tracce, tra cui il singolo “Nearly forgot my broken heart”, per un album prodotto da Brendan O’Brien (già con Springsteen, Pearl Jam, Neil Young), all’uscita del quale i critici parlarono di un lavoro di ottimo livello, ispirato da artisti del calibro di Daniel Johnston, Nick Drake e addirittura dai Beatles del periodo del “White Album”. Ora questa morte che accentua l’alone plumbeo che avvolge ancor più il genere musicale di cui Chris Cornell era stato protagonista. Gli agenti di Detroit sono stato chiamati da un suo amico attorno a mezzanotte nell’hotel dove alloggiava il musicista: l’uomo era passato a vedere se stesse bene dopo il concerto e aveva trovato il musicista privo di conoscenza sul pavimento del bagno con una fascia attorno al collo. È un lutto importante. Perchè se il movimento grunge negli anni Novanta ha segnato un’epoca, lo si deve a tre gruppi: i Nirvana di Kurt Cobain, i Pearl Jam di Eddie Vedder, i Soundgarden di Chris Cornell.

giovedì 18 maggio 2017

COMICI, PAROLACCE E... PAROLE OSTILI / da Articolo 21

Intercalare un discorso con una sequela di “cazzo”, “vaffanculo” e altri francesismi contraddice il fine dichiarato di contrastare le “parole ostili” e il linguaggio dell’odio? Oppure, trattandosi di un comico, e avendo dinanzi una platea di ragazzi, può essere accettato come una tecnica per creare empatia e un clima adatto per veicolare tematiche positive? Insomma, una sorta di fine che giustifica i mezzi, risciacquato al tempo dei social? Il tema si è posto nella manifestazione “Condivido – Il manifesto della comunicazione non ostile nelle scuole”, svoltasi a Milano, in collegamento streaming con altre platee di studenti a Trieste, Cagliari e Matera. L’attore e comico toscano Paolo Ruffini, già noto per aver definito anni fa Sophia Loren “una topa meravigliosa”, peraltro in presenza dell’attrice, chiamato a condurre la mattinata milanese non ha lesinato con quello che un tempo si sarebbe definito un linguaggio scurrile. Attraverso il quale ha veicolato comunque messaggi di civiltà e buon senso. Per esempio quando ha messo a confronto un ragazzo di origine egiziana che non nascondeva la sua netta avversione nei confronti dei gay con un ragazzo e una ragazza milanesi che gay si dichiaravano esplicitamente. È successo però che a Trieste alcuni docenti e una assessora regionale si sono infastiditi per il linguaggio del comico, al punto che quest’ultima si è a un certo punto arrogata il diritto di interrompere il collegamento con Milano. Ne è seguito un dibattito, dal quale è emerso che pochissimi fra gli studenti presenti erano rimasti “turbati” e nemmeno contrariati per il linguaggio del toscanaccio dalla parolaccia facilissima. Un tema in più, allora, da aggiungere a una giornata comunque importante. Ha scritto Rosy Russo, ideatrice dell’evento: “30.000 studenti collegati in tutta Italia, migliaia di messaggi pieni di entusiasmo arrivati su whatsapp da ragazzi di ogni regione, l’hashtag #ParoleOstili al primo posto per buona parte della giornata su Twitter. L’Italia digitale e 1000 scuole in tutta la penisola hanno parlato, si sono confrontate e hanno condiviso i principi del Manifesto della Comunicazione non ostile. Questo è un risultato che ci riempie di orgoglio e ci dà ancora maggiore fiducia per il futuro. Così come ci fanno piacere le parole di incoraggiamento e di sostegno della Ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli: sapere che lei, per prima, sul suo tavolo conserva una copia del Manifesto della Comunicazione non ostile rafforza la nostra convinzione rispetto a un progetto inclusivo, positivo e capace di parlare a tutto il Paese”. E ancora: “Ci dispiace sinceramente se qualcuno a Trieste si è sentito spiazzato dall’ironia, a volte spigolosa di Paolo Ruffini. Siamo, però, convinti che tutti i ragazzi che hanno partecipato a “Condivido” siano tornati a casa arricchiti da un’esperienza sicuramente diversa ma bella e ricca di contenuti. E con una consapevolezza maggiore dell’importanza di usare e scegliere – online come offline – le parole con cura”.

venerdì 12 maggio 2017

LUN 15 "PAROLE O_STILI" A MILANO, TRIESTE, CAGLIARI, MATERA / da ARTICOLO 21

di Carlo Muscatello Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti in tempi non sospetti (“Palombella rossa”, 1989). Sono passati tanti anni. E le parole, in questo mondo sempre più social, sono diventate ancora più importanti. Vanno maneggiate con estrema cura. Recentemente è nato un moviemnto che va in questa direzione. Tutto è partito tre mesi fa da Trieste. Ora la platea si allarga: lunedì la manifestazione “Parole O_Stili” riparte da Milano (appuntamento alle 10 all’Unicredit Pavilion di piazzale Gae Aulenti), con eventi collegati a Cagliari, Matera e ancora Trieste. Dicono gli organizzatori: «Il potere delle parole: commuovono, scaldano il cuore, valorizzano, danno fiducia, semplicemente uniscono… E poi ci sono tweet, post e status: feriscono, fanno arrabbiare, offendono, denigrano, inesorabilmente allontanano. Perché se è fottutamente vero che i social network sono luoghi virtuali dove si incontrano persone reali, allora viene da domandarsi chi siamo e con chi vogliamo condividere questo luogo. “Parole O_Stili” ha l’ambizione di essere questo: l’occasione per ridefinire lo stile con cui stare in rete e magari diffondere il virus positivo dello “scelgo le parole con cura”, perché “le parole sono importanti”...». Appunto. Nella due giorni triestina di febbraio - alla presenza di Laura Boldrini, Gianni Morandi e tanti protagonisti del giornalismo, della comunicazione, della cultura, della politica - c’è stato un primo e importante confronto su linguaggi e comportamenti digitali. Ora “Condivido - Il Manifesto della Comunicazione non ostile nelle scuole” approda nelle scuole, alla presenza del ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli, che parteciperà alla mattinata milanese. Al centro dell’evento ci sarà il “Manifesto della comunicazione non ostile”, la carta lanciata da Trieste che raccoglie i dieci princìpi proposti e votati dalla Rete negli scorsi mesi per «ridurre, arginare e combattere i linguaggi negativi che si propagano in Rete». Oltre 20.000 gli studenti finora iscritti per seguire la diretta streaming. Fnsi e Assostampa del Friuli Venezia Giulia hanno partecipato alla manifestazione “Parole O_Stili” a Trieste, aderendo al manifesto. E parteciperanno alla mattinata di lunedì.

giovedì 4 maggio 2017

ADOTTIAMO LE INCHIESTE DEI CRONISTI MINACCIATI / Articolo 21

di Carlo Muscatello “Il fatto che mio fratello abbia studiato a Trento con Renato Curcio non significa che lui approvasse le azioni delle Brigate Rosse. Anzi. Mauro era contro la violenza. Quando è stato ucciso Aldo Moro ha pianto”. “Mio padre era tutto fuorché un eroe. La definizione di eroe per caso gli si attaglia perfettamente. Da giovane aveva fatto il professore, poi era passato al giornalismo. Quand’ero ragazzo, mi disse: non fare il professore né il giornalista”. Il ricordo della sorella di Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia nel 1988 in Sicilia, e quello del figlio di Carlo Casalegno, assassinato dalle Brigate Rosse nel 1977 a Torino, sono stati fra i momenti più emozionanti della decima Giornata del ricordo delle vittime di mafia e terrorismo, organizzata dall’Unione Cronisti, dalla Subalpina, dall’Ordine regionale dei giornalisti al Circolo della stampa del capoluogo piemontese, in occasione della Giornata mondiale della libertà di informazione. Rostagno è stato ricordato dai giornalisti sotto la sua casa natale, Casalegno davanti alla sua abitazione, nel punto dove quarant’anni fa è stato colpito dai terroristi. “Non esiste una gerarchia delle vittime – ha detto Beppe Giulietti, presidente della Fnsi -, dobbiamo metterle una a fianco dell’altra non guardando al passato ma al futuro. Dobbiamo usare la memoria per chi c’è, per chi ci sarà. Dobbiamo parlare del passato per costruire percorsi di futuro”. Giulietti ha poi rilanciato il tema della scorta mediatica: “Se un cronista viene minacciato, adottiamo le sue inchieste, illuminiamo le zone della criminalità e del malaffare. Le istituzioni devono varare una Carta dei diritti fondamentali dei giornalisti rivolta soprattutto a coloro che vivono ai margini della professione, fuori dalle grandi testate editoriali”. E ha ricordato i tanti giornalisti in carcere nel mondo, “non solo in Turchia”. Alla giornata hanno partecipato fra gli altri il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino, il segretario dell’Assostampa Subalpina Stefano Tallia, il presidente dell’Unione cronisti Alessandro Galimberti, il suo vice Leone Zingales, il presidente della Casagit Daniele Cerrato, il presidente dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte Alberto Sinigaglia, oltre ai familiari di alcuni dei giornalisti caduti. (da Articolo 21)

mercoledì 3 maggio 2017

OGGI GIORNATA MONDIALE LIBERTÀ INFORMAZIONE / newsletter Ordine Fvg

di Carlo Muscatello* La libertà di informazione in Italia? La situazione non è affatto buona. E ciò alla luce di quel che accade quotidianamente nel nostro Paese, ma anche con riferimento ai dati diffusi da osservatori internazionali.Secondo la classifica annuale di Reporters sans Frontieres, l'organizzazione per la libertà dell'informazione, l’Italia quest'anno guadagna 25 posizioni passando dal 77.o al 52.o posto. Restano «intimidazioni verbali o fisiche, provocazioni e minacce», e «pressioni di gruppi mafiosi e organizzazioni criminali». Nel rapporto si sottolinea che «sei giornalisti italiani sono sempre sotto protezione della polizia 24 ore su 24 dopo minacce di morte da parte di mafia o gruppi fondamentalisti». Inoltre, «il livello di violenze contro i reporter (intimidazioni verbali o fisiche, provocazioni e minacce...) è molto preoccupante, mentre alcuni responsabili politici - come Beppe Grillo del Movimento 5 Stelle - non esitano a comunicare pubblicamente l'identità dei giornalisti che gli danno fastidio». «I giornalisti - si legge ancora nel capitolo dedicato all'Italia - subiscono pressioni da parte dei politici e optano sempre più per l'autocensura: un nuovo testo di legge fa pesare su chi diffama politici, magistrati o funzionari, pene che vanno da sei a nove anni di carcere».Poi c’è il Report 2017 di Freedom House sulla libertà di stampa nel mondo, che etichetta la situazione in Italia con due parole: “parzialmente libera”. Ciò conferma - hanno detto il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti - «le criticità strutturali dell’informazione nel nostro Paese: gli irrisolti conflitti di interessi, il perdurante controllo politico sulla Rai, la debolezza delle normative antitrust, le minacce continuate e ripetute da parte della politica, ma anche della criminalità organizzata, nei confronti dei cronisti e del diritto di cronaca: minacce fisiche, verbali e sotto forma di querele temerarie». Sono temi che il sindacato dei giornalisti affronta da tempo, confrontandosi con tutti gli interlocutori in grado di contribuire a superare gli ostacoli che impediscono all’informazione italiana di essere davvero libera da condizionamenti e censure. Battaglie che la Federazione nazionale della stampa italiana combatte al fianco dei cronisti che ogni giorno con il loro lavoro garantiscono ai cittadini un’informazione corretta e completa e che per il loro impegno spesso rischiano in prima persona. Le loro storie, le storie dei giornalisti “sotto attacco”, sono al centro della Giornata mondiale della libertà di stampa, il 3 maggio, che la Fnsi celebra con tre appuntamenti: a Reggio Calabria, Torino e Milano. A Reggio Calabria, assieme con il Sindacato giornalisti della Calabria, la Fnsi celebrerà la XXIV Giornata mondiale della libertà di stampa con un'iniziativa nazionale a cui parteciperà fra gli altri il segretario generale Raffaele Lorusso. A Milano, la Fnsi sarà presente anche con il presidente Beppe Giulietti alla seconda edizione del Festival dei Diritti Umani, dedicato quest’anno alla libertà di espressione. A Torino, infine, sempre il 3 maggio si svolgerà la decima Giornata della memoria dedicata ai giornalisti uccisi da mafie e terrorismo, organizzata dall’Associazione Stampa Subalpina in collaborazione con l’Unione nazionale cronisti italiani. Nel corso dell’evento saranno ricordati Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia nel 1988 in Sicilia, e Carlo Casalegno, ucciso dalle Brigate rosse a Torino nel 1977. *presidente Assostampa Fvg, componente giunta esecutiva Fnsi