mercoledì 25 aprile 2007

Non ci resta che ridere, verrebbe da dire parafrasando il titolo di un vecchio film. E «Lavoratori di tutto il mondo, ridete» è il consiglio marxista - nel senso di Groucho, ovviamente... - che Moni Ovadia offre già nel titolo del suo nuovo libro (Einaudi Stile Libero, pagg. 276, euro 15.50), che ha per sottotitolo «La rivoluzione umoristica del comunismo».

L’ironia, quand’è completa anche di autoironia, è sempre più necessaria per sopravvivere in questo mondo. Ma come vanno in fretta, ultimamente, le cose della politica. Che il comunismo non sia più nemmeno di moda è un dato di fatto. La falce e martello è stata riposta da tempo in soffitta. Le bandiere rosse sventolano ormai solo il primo maggio e in qualche corteo sindacale. In giro per il mondo resistono pallide parvenze (o caricature) di comunismo a Cuba e nella Corea del Nord, mentre la Cina è un ossimoro vivente con il suo comunismo capitalista e la Russia si è convertita al nemico di ieri, il capitalismo appunto, ma gestito e governato dagli stessi vecchi comunisti dell’Unione Sovietica che fu. In Italia, già patria del più grande partito comunista d’Occidente, gli eredi di Togliatti e Berlinguer, anzi, la maggior parte di quegli eredi ha appena rotto gli indugi decidendo di fare un partito unico, «Democratico» e stop, assieme agli eredi (anche qui: solo la maggior parte...) di De Gasperi e Moro. Una fusione a freddo, dicono i più critici. Nella quale già chiamarsi «compagni» potrebbe presto diventare un problema...

Ma il comunismo - spiega all’inizio del libro Salomone detto Moni Ovadia<IP9>, classe 1946, nato a Plovdiv, in Bulgaria, ma milanese d’adozione e molto legato a Trieste</IP> - non è stato soltanto è stato anche centinaia di milioni di donne e di uomini che hanno aderito «al più grande ideale di liberazione mai partorito dalla mente umana senza ricorrere alla fede, alla religione o ad altre forme di credenza».

Certo, il sistema partorito da quegli ideali teorici era iniquo e fallimentare e dunque è crollato miseramente. Ma non sono tramontati gli ideali, le ragioni, i valori che «hanno mobilitato lo slancio prometeico, l’energia, l’abnegazione e il sacrificio dei comunisti». Che si chiamano tuttora giustizia sociale, uguaglianza, fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

«Un revisionismo strumentale - scrive Ovadia - oggi vorrebbe far credere, per precise motivazioni politiche, che quella del comunismo fu solo una storia di orrori. Non è cosí: fu una storia di uomini, di idee, di sacrifici, di dedizione, di tradimenti, sofferenze e dolori che non può essere archiviata nel bidone della spazzatura della storia televisiva. Gli uomini che diedero la vita per l'utopia del grande riscatto meritano uno sguardo che ne ricordi l'umanità estrema, una pietas che non li trasformi in numeri. Il tutto visto attraverso la lente dell'umorismo, l'arma piú potente che abbiamo per prevenire la violenza».

A quelle donne e a quegli uomini traditi nelle proprie speranze l’artista e scrittore yiddish dedica il volume. E a loro ricorda il dovere di fare propri i motivi del fallimento fino alla più spietata autocritica. Anche quando sconfina nell’ironia e nell’autoironia, doti di cui il potere, da che mondo è mondo, è sempre stato privo.

Ecco allora l’epopea della grande Unione Sovietica raccontata con lo stesso approccio del witz mitteleuropeo, della storiella ebraica - della quale Ovadia è maestro sopraffino nonchè massimo divulgatore in Italia - ma anche dei vecchi aneddoti e delle vecchie storielle che circolavano, quasi sempre di nascosto, ai tempi dell’Urss. La battuta antistalinista, contrariamente a quanto si può credere, è nata dunque proprio a Mosca, partorita fra la rassegnata pazienza del popolo russo e l’eterna stupidità della burocrazia sovietica. Con un debito proprio nei confronti di quegli ebrei centro-europei che in Unione Sovietica avevano trovato rifugio.

Fino a un certo punto. Perchè anche lì d’un tratto le cose cambiarono radicalmente e tragicamente. Moni Ovadia è uomo di sinistra ma anche uomo di mondo. La sua formazione marxista, più volte ripercorsa criticamente e comunque mai rinnegata, non gli impedisce dunque di ammettere amaramente: «Io, ancorchè ”comunista”, se considero la mia storia personale dal punto di vista retrospettivo, a differenza di tanti anticomunisti odierni da salotto televisivo, sarei stato inesorabilmente una vittima dello stalinismo».

Di più. Identifica anche il giorno della sua virtuale fucilazione: il 12 agosto 1952, quando tutti i grandi dell’intelligenza ebraica bolscevica venne uccisi per ordine di Stalin. Quello stesso «caro e dolce padre» che nella copertina del libro, bell’esempio di iconografia sovietica, sorride rassicurante e paterno alla bimbetta bionda che gli cinge con le braccia il primo maggio di quello stesso ’52, sullo sfondo di una Piazza Rossa pavesata di fiori e bandiere.

Quante speranze, quanto dolore, quanta violenza dietro il tragico destino del comunismo sovietico, dietro la rivoluzione tradita e l’utopia di un mondo migliore. Moni Ovadia offre al lettore il tesoro della diceria popolare, della canzonatura, della storiella umoristica autodelatoria e tutta una tradizione satirica su Lenin, Stalin, Breznev...

Ecco allora un’originale storia del comunismo, dalla Rivoluzione del 25 ottobre 1917 alla caduta dell’Unione Sovietica, attraverso le debolezze, le manie, persino le perversioni dei suoi leader. Attingendo, sulla falsariga della storiella e del motto ebraico, a un vastissimo materiale inedito di storielle, aneddoti, barzellette, pubblicazioni censurate... E la gigantesca macchina della retorica di regime rivela il suo volto patetico di fronte alla fulminante sintesi del motto di spirito, della storiella.

Come quella che dice: «Qual è la principale differenza tra la società capitalista e quella socialista? In una società capitalista l’uomo sfrutta l’uomo. In una società socialista, viceversa». Pare che piaccia molto a Berlusconi...

giovedì 19 aprile 2007

TRIESTE È un grande della musica europea, An<IP9>dreas Vollenweider, che arriva questa sera a Trieste, per un concerto, l’unico in Italia, in programma alle 21 al Politeama Rossetti. Un ritorno in regione, per il musicista svizzero, che ha partecipato l’estate scorsa al cartellone itinerante di «Folkest» e nel 2005 a «Vocalia».

Il suo nome è accomunato spesso alla New Age, etichetta da lui rifiutata perchè «è ormai tanto vasta da racchiudere in sè tutto e il contrario di tutto: molto più appropriato infilarmi in quella che io chiamo Contemporary Cosmopolitic Instrumental Music...».

Nato nel ’53 a Zurigo, Andreas è figlio d’arte: suo padre è infatti Hans Vollenweider, considerato uno dei più grandi musicisti della scena europea contemporanea. Da autodidatta impara a suonare vari strumenti, scopre l'arpa già grandicello, creando un nuovo tipo di strumento: l'arpa elettro-acustica, con cui riprende le intuizioni del francese Alan Stivell e dell'americana Georgia Kelly.

Ha detto una volta: «Ho cominciato con il piano, poi con gli strumenti a fiato e vari strumenti a corda. Cercavo quello ideale e ne collezionavo anche parecchi. Uno di questi era una piccola arpa celtica. Non pensavo che proprio l'arpa sarebbe stata importante per il mio futuro. Ma poi ho scoperto la dimensione del ritmo sull'arpa e per me è stata come una rivelazione improvvisa. Attraverso questo strumento ho scoperto che la musica è qualcosa di molto più profondo di una semplice decorazione acustica, ha una dimensione che va al di là della nostra comprensione razionale...».

Nel ’79 Vollenweider firma il suo debutto in Svizzera con l'album «Eine Art Suite in XIII Teilen», sorta di dichiarazione d'intenti. Nell’81 Vollenweider & Friends si esibiscono per la prima volta al Montreux Jazz Festival, mentre esce l'album «Behind the gardens, behind the wall, under the tree?», trionfo sia di critica che di pubblico, seguito dai suoni mistici di «Caverna magica».

Siamo nell’83, quando arriva anche il successo negli Stati Uniti con l'album «White winds», a cui segue due anni dopo un tour punteggiato da tanti «sold out». Nell’87 l'album «Down to the moon» è premiato con un Grammy Award. Riparte una nuova stagione di tournée fra Canada, Stati Uniti, Europa, Giappone e Australia.

Nell’89 esce l'album «Dancing with the lions», nel ’90 è la volta di «Trilogy», selezione con il meglio dei primi tre album. «Book of roses», pubblicato nel ’91, è il disco nel quale Vollenweider include per la prima volta elementi sinfonici orchestrali.

A «Eolian ministrels» (’92) contribuiscono i cantanti americani Carly Simon e Eliza Gilkyson (ed è la prima volta, per Vollenweider, di un disco non completamente strumentale). Segue un tour mondiale di grande successo, praticamente una consacrazione. Che si completa nel ’94, quando al «Pavarotti & Friends», a Modena, il musicista svizzero duetta con lo stesso Pavarotti e con Bryan Adams.

Il ’95 è l’anno del debutto in America Latina. Nel ’97 esce «Kryptos», nel ’99 Vollenweider ritorna alla libera improvvisazione e a dialoghi musicali con l’album «Cosmopoly»: con lui collaborano Bobby McFerrin, Milton Nascimento, Abdullah Ibrahim (già noto come Dollar Brand), Carlos Nuñez, l’armeno Djivan Gasparyan, il cinese Xiaojing Wang, ancora Carly Simon... Un altro album uscito di recente è «Vox», che lo vede nella doppia veste di musicista e cantante.

Siamo al presente, a questo tour che arriva a Trieste. Lo spettacolo si intitola «Caverna Magica continuum», che riprende il titolo di un disco uscito venticinque anni prima, e viene descritto come «un viaggio sensoriale a più dimensioni, un'esperienza mistica che trasformerà le sale da concerto italiane in una vera e propria "Caverna Magica"...».

La musica di Vollenweider sarà accompagnata da effetti speciali in tre dimensioni, in uno show vario ed eclettico. Oltre all’arpa, un ruolo fondamentale è occupato dalle percussioni: dalle tubular bells (rese famose tanti anni fa da Mike Oldfield...) a strumenti etnici, passando per semplici pietre, ossa, vetro, legno ed altri elementi provenienti dal mondo della natura. Un altro elemento caratteristico dello spettacolo è la presenza di strumenti a fiato di varie origini, capaci di ricreare la magia dei suoni prodotti dal vento.

In venticinque anni di carriera Andreas Vollenweider ha venduto oltre quindici milioni di album in tutto il mondo, ha ricevuto un Grammy Award e due nomination, vanta collaborazioni con nomi del calibro di Zucchero, Pavarotti, Brian Adams, Bobby Mc Ferrin, Carly Simon...

Il suono della sua arpa è abbastanza inconfondibile perchè è più squillante dell'arpa classica, a metà strada fra un violino pizzicato e una chitarra acustica. In una fusion ricca di pulsioni etniche, che spazia dalle danze dei gitani agli stili africani, dal flamenco alle musiche caraibiche.

Il tour italiano che fa tappa stasera al Rossetti è cominciato il 16 aprile a Milano e si concluderà il 22 a Firenze.

domenica 15 aprile 2007

Non ci fosse stato Piero Chiambretti, oggi non saremmo qui a parlare di Momo. E dell’esistenza della trentacinquenne, stralunatissima cantautrice romana (ma nata all’Aquila nel ’72), che di vero nome fa Simona Cipollone, pochi sarebbero a conoscenza. Sì, perchè la sua filastrocca «Fondanela», scritta assieme alla pianista Alessandra Celletti, non aveva nemmeno superato lo scoglio delle giurie selezionatrici di Sanremo Giovani. Ma l’ha sentita il folletto piemontese, in tempo per invitare la ragazza al Dopofestival, farla diventare in un paio di giorni un personaggio e catapultarlo sul palco dell’Ariston nel corso della serata finale del Festival. Vinto proprio da quel Simone Cristicchi con cui la stessa Momo lo scorso anno aveva scritto «Che bella gente», seconda a Sanremo Giovani. E così, dalla sera alla mattina, grazie a quel tormentone surreale e un po’ sghembo, è passata dallo status di perfetta sconosciuta (che da dieci anni cantava le sue canzoni nei club e nei locali romani...) a quello di personaggio rivelazione dell'anno.

Si pensi che quando è andata a Sanremo Momo non aveva neanche una casa discografica. Subito dopo si è scatenata quasi una piccola asta, vinta - si fa per dire - dalla Sony Bmg, che pubblica ora il suo primo album, intitolato «Il Giocoliere». Quattordici canzoni, aperte ovviamente da «Fondanela» (di cui alla fine c’è anche il video), a metà strada fra vena cantautorale, teatro canzone, nonsense...

«Fondanela» à un’allegra parodia ispirata da un corso di ginnastica orientale intrapreso dalle due autrici per problemi di dolori cervicali. A bucare il video, trasformando la canzone in un piccolo caso discografico, è stata anche l’esilarante coreografia con cui Momo ne accompagna l’esecuzione. Movimenti che in pochi giorni sono diventati un tormentone, facendo il giro di tutti i programmi televisivi.

Prodotto da Simone Grassi con la produzione artistica dello statunitense Jono Manson (cugino dei registi americani Cohen: pare che l'abbia fatto ascoltare a Ethan Cohen, che se ne è innamorato...), l'album contiene anche «Embè», invettiva contro le maldicenze nonchè versione originale di «Che bella gente», e «Buon governo», che ha al centro un'ideale governo italiano formato dai personaggi di Walt Disney.

Ma nel disco c’è anche «Meno male», scritta due anni fa, che è la profezia in musica di ciò che è accaduto a Momo quest'anno: «E meno male - canta - siamo finiti nel club de li potenti, che l'arte è morta, ma per davvero, per questo noi diciamo, perchè Sanremo è Sanremo...».

E «Momosessuale», canzone-manifesto sul diritto di ognuno di vivere l'amore e la sessualità alla propria maniera: «È un'ipotesi - spiega Momo - di libertà all'amore. La libertà è bella, non ne abbiamo molta...».

Un disco eclettico, ricco di ironia, che alterna allegre ballate a struggenti poesie in musica, senza dimenticare la lezione della canzone d’autore e - come si diceva - del teatro canzone. Ad accompagnare Momo nel disco i musicisti che le sono da sempre accanto nelle sue esibizioni dal vivo, ovvero Luca Venitucci (arrangiamenti, pianoforte e fisarmonica), Daniele Ercoli (contrabbasso e bombardino), Desiree Infascelli (fisarmonica e violino), Ludovica Valeri (trombone e bombardino), Alberto Popolla (clarinetti).


Con i primi due cd Avril Lavigne ha venduto oltre venti milioni di copie (per l’esattezza: diciotto con «Let go» nel 2002, otto con «Under my skin» nel 2004). Diventando l’idolo, quasi l’icona delle adolescenti rock di mezzo pianeta. Affascinate da quell’approccio «scostumato», quasi punk, che ne ha caratterizzato l’esordio.

Ora, dopo tre anni di silenzio, la ventitreenne cantautrice canadese pubblica il nuovo disco, intitolato «The best damn thing» (Arista Sony Bmg), preceduto dal primo singolo estratto, nelle radio già da qualche settimana, che è «Girlfriend».

L’album - scritto e prodotto a quattro mani dalla stessa Lavigne assieme a Dr. Luke - ha un bell’impatto rock: brani energici, freschi, diretti, ben suonati e ben cantati, dotati di impianti melodici raffinati, nello stesso solco dei due vendutissimi dischi precedenti. Roba giusta per i giovanissimi che hanno decretato il grande successo della ragazza. «Ho voluto realizzare un disco molto diretto ma anche molto rock. Il suono è diverso dal pop punk del precedente. Ascolterete brani veloci, divertenti e un po' monelli...».

Tra i titoli «When you're gone», la title-track «The best damn thing», «I can do better», «Everything back but you» e la ballad «Keep holding on», quest'ultima presente nella colonna sonora del film «Eragon».

Per la realizzazione del disco Avril si è avvalsa della collaborazione di produttori quali Rob Cavallo (Greenday e My Chemical Romance), Butch Walker (già con lei in «Under my skin»), del già citato Dr. Luke e del marito Deryck Whibley dei Sum 41. Il disco è disponibile in due versioni, quella normale e la «Deluxe Edition» con dvd.

Una curiosità. Avril Lavigne è anche un Manga. La cantante è infatti apparsa da pochi giorni nel mercato statuinitense sotto forma di fumetto. Il titolo della serie è «Make 5 wishes». Nel primo albo una teenager introversa, Hana, riceve in dono la realizzazione di alcuni suoi desideri. Ma, quando le cose iniziano a mettersi male, Hana incontra Avril e la manga-cantante insegna alla sfortunata coetanea a risolvere i suoi problemi esistenziali...


PIPER CLUB Due anni fa, nel 2005, i quarant’anni del Piper sono stati adeguatamente festeggiati, anche discograficamente. Ora arriva questo cofanetto: in quattro cd (ottanta canzoni e quattro inediti) si ripercorre la storia del locale romano di Via Tagliamento inaugurato il 17 febbraio ’65 - che ha visto nascere il beat italiano. Non si poteva che partire da Patty Pravo (la «ragazza del Piper», appunto...) e la sua «Ragazzo triste». Ma ci sono anche i Rokes, l’Equipe 84, Renato Zero, Rocky Roberts, Mal dei Primitives, i Giganti, Ricky Shayne... Nota triste: il mitico club andrà nei prossimi giorni all'asta per i troppi debiti accumulati...


JENNIFER LOPEZ Cinque album, ventotto milioni di dischi venduti. Per fermarci alla sua attività come cantante, visto che la star portoricana Jennifer Lopez è anche attrice, ballerina, stilista... Con questo lavoro realizza un antico sogno: un disco interamente in spagnolo, per tornare alle sue origini. Dopo tre anni di lavoro il risultato sono queste undici canzoni, dedicate alle diverse maniere in cui una donna può amare, alle diverse fasi di una storia sentimentale. «Qué Hiciste», il singolo apripista, è il brano più ritmato e commerciale del cd. Gli altri battono sui tasti più intimi e romantici, in una produzione elegante, che per una volta lascia da parte le atmosfere «calienti» a cui J.Lo aveva abituato il suo pubblico.

giovedì 5 aprile 2007

TRIESTE È un tour davvero particolare, quello che fa tappa venerdì 18 maggio al Politeama Rossetti. Non capita infatti tutti i giorni che due stelle di prima grandezza della musica italiana realizzino un disco assieme (quasi divertendosi a cantare l’uno le canzoni dell’altro...) e poi se ne vadano in tour, a perpetuare anche dal vivo il divertimento che emerge chiaramente dall’ascolto dell’album.

Stiamo parlando di Umberto Tozzi e Marco Masini, che hanno recentemente pubblicato il cd «Tozzi Masini» (Mbo Music). Un disco - raccontano i due artisti - che nasce in realtà quasi vent’anni fa, nella seconda metà degli anni Ottanta, quando Tozzi era già uno dei cantanti italiani di maggiore successo e Masini era il giovane tastierista che lo accompagnava dal vivo. In Italia e all’estero, come per esempio alla leggendaria Royal Albert Hall di Londra, nell’88: un concerto documentato anche da un album dal vivo. Ed era stato lo stesso Masini, l’anno prima, a cantare il provino e ad arrangiare il disco di quella «Si può dare di più» con cui Morandi Ruggeri e Tozzi vinsero il Festival di Sanremo dell’87.

Legame di vecchia data, dunque, rafforzato dalla comune collaborazione con Giancarlo Bigazzi, che ha avuto un ruolo importante nel successo di entrambi. Sì, perchè negli anni Novanta - come tutti sanno - anche Masini è uscito dall’ombra per ottenere l’affermazione che meritava (vittoria a Sanremo compresa, nell’edizione del 2004).

L’anno scorso, a febbraio, è poi successo che una sera Tozzi aveva un concerto all’Olympia di Parigi e Masini, che si trovava in Belgio, decise di andarlo a trovare. Detto fatto: i due quella sera si ritrovarono assieme sul palco, a cantare assieme prima «Perché lo fai», classico di Masini che ha avuto un grande successo anche oltralpe, e poi «Gente di mare» e «Si può dare di più».

Da lì l’idea del disco assieme. Con lo spunto in più, quello di «scambiarsi» le canzoni. Così ognuno dei due ha scelto dal repertorio dell’altro i brani che riteneva più congeniali. Fra l’altro lavorando separatamente (Tozzi a Pistoia, Masini ad Arezzo) e «ascoltandosi» solo a lavoro finito. Tozzi ha registrato «Perché lo fai», «Ti vorrei», «Disperato», «Cenerentola innamorata», «Ci vorrebbe il mare» e «L’uomo volante»; Masini «Tu», «Gli altri siamo noi», «Ti amo», «Gloria», «Io camminerò» e «Qualcosa qualcuno». Ciliegina sulla torta «T’innamorerai», finalmente a due voci, e anche tre inediti: «Come si fa...?», «Anima italiana» e «Arrivederci per lei».

E' la musica, è il rock che sta dando la scossa a Trieste. Mentre la città delle istituzioni, della politica, dell’economia si trastulla nell’unico sport in cui sembra eccellere, ovvero quello dei progetti destinati troppo spesso a restare lettera morta, nel frattempo c’è un’altra città che zitta zitta si è rimessa in moto. È giovane, si arrangia, non guarda in faccia a nessuno, e soprattutto viaggia che è una bellezza.

Per anni, anzi, per decenni siamo stati estrema periferia dell’impero musicale. Città anziana, addormentata, noiosa, senza futuro. Luogo in cui nemmeno fermarsi, anche se diretti in viaggio verso le coste croate o l’universo balcanico. Le maggiori tourneè di artisti italiani e stranieri hanno quasi sempre saltato a piè pari la città.


Meglio Udine o Lubiana, Pordenone o Zagabria, Treviso o Monaco, storiche mete obbligate delle trasferte degli appassionati locali.

Anche la scena creativa locale non ha offerto per tanto tempo spunti degni di nota fuori dall’ambito provinciale (mentre da Monfalcone veniva fuori una certa Elisa, mentre a Pordenone facevano sfracelli i Tre allegri ragazzi morti...). E pure il panorama dei locali musicali per troppi anni è stato caratterizzato dalla cosiddetta calma piatta, stretta fra le proteste dei vicini desiderosi di un sonno tranquillo e minacciose ronde anti-rumore.

Poi qualcosa è cambiato. Ce ne siamo accorti per la prima volta nell’estate di due anni fa, quando l’adunata musical-televisiva di Mtv ha attirato in piazza Unità e sulle Rive qualche decina di migliaia di giovani sbucati come per incanto ad animare quella calda sera di metà luglio. Quella Trieste viva, giovane, colorata che mostrò tutta la sua scontrosa grazia in diretta televisiva a mezza Europa era la negazione più assoluta della città grigia, triste, brontolona del «no se pol» e «no se gà mai fato», dei mille progetti lasciati sempre su carta, delle diecimila chiacchiere fini a se stesse.

Trieste, città multietnica e cosmopolita che appena vuole sa essere tante cose assieme: giovane e anziana, vitale e assonnata, creativa e noiosa, colta e bottegaia, intraprendente e piagnona. Tutto e il contrario di tutto. In questo «non luogo» per eccellenza, chissà, forse proprio a partire da quella sera, qualcosa è cambiato. Pian piano la città, storicamente tagliata fuori dai grandi tour internazionali, si è trasformata in una piccola capitale della musica e in fondo anche dei giovani. Un autentico paradosso, per una delle città più anziane del pianeta, da dove i giovani sono sempre scappati appena hanno potuto, e che comunque sono sempre stati costretti a mettersi in viaggio se non altro per seguire i protagonisti della propria musica.

Da quella sera (poi sono arrivati il Festivalbar, ancora Mtv con i giovanissimi di «Trl», tanti concerti...) è successo che il capoluogo regionale, che storicamente era la cenerentola della scena musicale del Friuli Venezia Giulia, ha vissuto e sta vivendo un momento di assoluta rinascita. Dividendo con Pordenone la palma delle due città più ricche di appuntamenti, e relegando a un ruolo più defilato Udine, che in passato l’aveva spesso fatta da padrone, e Gorizia, che è sempre stata la meno toccata dai tour, fra l’altro ampiamente superata dalla gemella slovena che può contare sulla ricca dote dei denari dei casinò.

Di pari passo si è assistito al piccolo grande fenomeno di tanti giovani musicisti triestini pronti a fare il grande passo verso la ribalta nazionale e a volte internazionale. Ragazzi che parlano i linguaggi musicali del nuovo millennio, che forse si sono finalmente lasciati alle spalle la pigrizia atavica dei loro fratelli maggiori e dei genitori. Di pari passo, pur in un quadro sempre caratterizzato dalla carenza di veri spazi per la musica, sono anche aumentati in maniera esponenziale i locali nei quali la sera è possibile ascoltare della buona musica dal vivo (proteste dei vicini sempre permettendo...).

Intendiamoci, non siamo né potevamo d’un tratto diventare Roma e nemmeno Milano e tantomeno una di quelle capitali europee che vivono di notte. Ma non siamo più neanche la Trieste di qualche anno fa.

In questa città, per mesi si è dibattuto se è necessario un singolo grande evento, per trasformare un'identità culturale in un segno visibile anche all'esterno. Qualcosa come un grande festival per tradurre l'anima culturale della città in volano capace di contribuire alla sua crescita economica e turistica.

Chissà, forse è arrivato il tempo proprio di una grande manifestazione musicale che possa portare il nome di Trieste in giro per l’Italia e l’Europa. Magari nell’ambito di quel Distretto culturale al quale qualcuno alla Provincia sta da tempo lavorando. E magari sotto l’egida di quella Casa della Musica, realtà ormai più nota e apprezzata all'estero che non in città, che negli ultimi anni ha ricoperto un ruolo non secondario nella crescita musicale dei giovani triestini.

Oltre alla Casa della Musica (struttura comunale gestita dalla Scuola 55), oltre alla tradizione rappresentata dai concerti al PalaTrieste e allo stadio, al Rossetti o in piazza Unità, oggi la musica del 2007 a Trieste parla anche la lingua del Teatro Miela, della Casa delle Culture, dell’Etnoblog, del Tetris, di tanti altri locali e localini dove si incrociano liceali locali, universitari in trasferta e musicisti che arrivano da mezzo mondo. E dove si stanno facendo le ossa i musicisti triestini di domani.

Ora arriva un’altra estate, stagione musicale per eccellenza. Udine ha già calato il suo asso, preparandosi a ospitare il 28 giugno l’unica tappa italiana del tour mondiale dei Red Hot Chili Peppers. Il capoluogo regionale saprà confermare e consolidare l’inversione di tendenza che abbiamo descritto? Noi crediamo di sì. La prima data è già fissata, con gli inglesi Placebo il 21 giugno in quella stessa piazza Unità che due anni fa ha ospitato la marea di giovani di «Isle of Mtv» e l’anno scorso l’eterno carrozzone del Festivalbar. Altri appuntamenti, grandi e piccoli, seguiranno.

Forza Trieste, coraggio, prendi esempio dal rock. Che forse il treno sta passando di nuovo...