sabato 28 dicembre 2013

2014 a TRIESTE: Pearl Jam , Elisa, Venditti, Pezzali...

Antonello Venditti l’11 febbraio al Rossetti, Max Pezzali il giorno dopo al PalaTrieste. Dove il 29 marzo arriva anche Elisa. E poi il grande appuntamento del 22 giugno allo Stadio Rocco con i Pearl Jam, la cui attrattività è dimostrata da quei 14mila biglietti staccati nelle primissime ore di prevendita (l’altra tappa italiana del tour europeo è fissata il 20 giugno a Milano, stadio di San Siro). E poi ancora almeno un paio di altri nomi medio-grandi, almeno uno di “rock giovane”, da ospitare a luglio nell’impagabile cornice di piazza Unità. Insomma, il 2014 a Trieste promette di essere un anno da incorniciare, se non per l’economia e il porto, almeno per la musica dal vivo. Già i nomi citati sono un’ottima base da cui partire, non fosse che quasi sicuramente se ne aggiungeranno a breve degli altri. Gli organizzatori (ovvero la premiata ditta Comune di Trieste e Azalea Promotion, con il prezioso supporto della Regione) avrebbero voluto annunciare un altro nome già nei giorni scorsi, magari due settimane fa, in occasione della presentazione in pompa magna del colpaccio rappresentato dal concerto dei Pearl Jam. Un paio di trattative sono in corso, c’è un nome che ritorna con una certa frequenza, ma ancora mancano sia l’ufficialità che l’ufficiosità. Dunque meglio non illudere i fan, si dice. Nelle prime settimane dell’anno nuovo il panorama dovrebbe comunque schiarirsi e portare al completamento della stagione. Stagione che, come si diceva, promette di essere molto buona per gli amanti del rock e del pop. Alla base di questo successo, che negli ultimi anni ha riportato Trieste nei circuiti che contano della musica dal vivo, sicuramente il buon rapporto di collaborazione fra l’amministrazione comunale guidata dal sindaco springsteeniano Roberto Cosolini e il promoter Azalea (un buon esempio di proficua sinergia fra pubblico e privato...). Ma anche un fattore contingente, rappresentato dall’inagibilità dello Stadio Friuli per i lavori di ristrutturazione. E il quesito è sempre lo stesso: quando la struttura sarà nuovamente e completamente a disposizione, Udine si riprenderà il ruolo di prima scelta, forte della sua posizione geografica più baricentrica e dunque più facilmente raggiungibile? Alla presentazione del concerto dei Pearl Jam il vicepresidente della Regione Sergio Bolzonello - testimoni Cosolini e Serracchiani - assicurò che «assolutamente no, ci sarà spazio per tutti. Nell’ambito di un disegno di promozione turistica complessivo strutturato e tarato per i nostri vari centri di attrazione». Ma il timore che in futuro a Trieste tocchino nuovamente le briciole ci sta tutto. Non pensiamoci adesso. E godiamoci la prospettiva di un’annata ricca di appuntamenti. Oltre ai nomi citati all’inizio, il 2014 porterà subito in dote il concerto della Glenn Miller Orchestra lunedì 20 gennaio al Politeama Rossetti, dove lunedì 3 febbraio arriveranno anche i Perpetuum Jazzile (gruppo sloveno famoso per il canto a cappella: 25 mila spettatori in due serate alla Stozice Arena a Lubiana a inizio novembre). Nel frattempo, cose molto interessanti anche a Udine. Giovanni Allevi martedì 25 marzo al “Nuovo”, dove il giorno dopo è prevista anche una nuova tappa del “never ending tour” dei Nomadi. Da segnalare a primavera il doppio ritorno in regione di Simone Cristicchi con il suo spettacolo “Magazzino 18”, attualmente in tour in Italia e accolto nei giorni scorsi con emozione ed entusiasmo anche a Roma, dove ha tenuto varie repliche nella centralissima Sala Umberto. Lo spettacolo dedicato alla storia dell’esodo degli istriani, giuliani e dalmati sarà il 13 marzo al Teatro Verdi di Gorizia e il 7 aprile al “Nuovo” di Udine. Sempre nel moderno teatro friulano ancora due importanti appuntamenti che sono altrettanti ritorni: venerdì 11 aprile lo spettacolo “Vivo” del pianista e compositore pordenonese Remo Anzovino, martedì 20 maggio la chitarra senza tempo dell’albino Johnny Winter. Ma l’estate 2014 prepara i suoi botti anche e ovviamente fuori dal Friuli Venezia Giulia: arrivano Neil Young & Crazy Horse (il 21 luglio al Festival Collisioni di Barolo, Cuneo) e Metallica, Arcade Fire e Iron Maiden, Robbie Williams e Motorhead, Artic Monkeys e gli italiani Vasco Rossi e Ligabue. E chissà che uno di questi nomi non arrivi a rinforzare proprio l’estate musicale triestina...

lunedì 16 dicembre 2013

LIBRO 50 ANNI CIRCOLO STAMPA TRIESTE

Domani alle 17.30 al Circolo della Stampa di Trieste in Corso Italia 13 verrà presentato il libro “Circolo della Stampa di Trieste. 50 anni di storia, arte e cultura”. Curato da Laura Kraker Silla, è corredato da una interessante e inedita documentazione fotografica, che verrà proiettata durante l’incontro. Del libro parleranno l’autrice, lo storico Roberto Spazzali e l’editore della Mgs Press Carlo Giovanella. Nella foto a fianco, il giornalista e scrittore Gian Antonio Stella al Circolo della Stampa di Trieste. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo di seguito la prefazione del volume. ----------------------------- di Carlo Muscatello* Mezzo secolo dopo la fondazione, c'è ancora spazio per il Circolo della Stampa di Trieste? Può avere ancora un ruolo, al tempo dei social network e della comunicazione virtuale, un sodalizio nato quando il telefono era inchiodato al muro, la televisione aveva un solo canale ed era in bianco e nero, gli articoli venivano battuti sui tasti della macchina per scrivere e composti col piombo? Noi siamo convinti di sì. Anche per questo abbiamo festeggiato un compleanno speciale con tante iniziative e con questo libro. E anche per questo, diversi anni fa, con l'aiuto di alcuni amici e colleghi, noi dell’Associazione della Stampa del Friuli Venezia Giulia - il sindacato unitario dei giornalisti, la “casa madre” - ci siamo impegnati per rilanciare il Circolo dopo un periodo nel quale le iniziative e gli appuntamenti si erano decisamente ridotti. La città, la regione, l’Italia e il mondo sono cambiati forse più velocemente in questi cinquant'anni che nei cinque secoli precedenti, ma il ruolo che era stato immaginato per questo sodalizio all'inizio degli anni Sessanta rimane valido e in qualche modo attuale: “stimolare il dibattito culturale, sociale e politico cittadino, organizzando e ospitando iniziative e dibattiti che garantiscano sempre pluralismo e rispetto di tutte le opinioni, in un’ottica di civile e pacifica convivenza fra tutte le componenti della comunità in cui opera”. Sottolineo: in un’ottica di civile e pacifica convivenza. Una notazione che era importante allora e rimane importantissima oggi, qui, al centro della nuova Europa, su un confine che non c’è più ma ci ricorda antiche ferite che devono essere definitivamente sanate. Come giornalisti dobbiamo farlo ogni giorno con il confronto, nel rispetto delle opinioni di ognuno, con l’umiltà necessaria per comprendere le ragioni dell’altro. La rivoluzione digitale ha fatto sì che oggi l’informazione sia cresciuta esponenzialmente come quantità, purtroppo non come qualità. Allora l’attività e gli spazi del Circolo della Stampa di Trieste vogliono essere sempre a disposizione dell’approfondimento, dell’analisi, del confronto costruttivo. Lo dobbiamo agli amici e colleghi che mezzo secolo fa hanno posto la metaforica prima pietra, ma anche a tutti quelli che hanno tenuto in vita e fatto crescere questo particolare club nel corso dei decenni trascorsi. Citarli tutti è impossibile. Ne ricordiamo allora solo due ma con l’intento di ricordarli tutti: il compianto Chino Alessi e il nostro Danilo Soli, che visse da presidente dell’Assostampa l’angoscia dell’attentato incendiario del 1979. Ma lo dobbiamo anche alle giovani generazioni. Alle ragazze e ai ragazzi che, lasciati per un paio d’ore nello zaino lo smartphone e l’iPad, potranno al Circolo della Stampa riassaporare - o a volte conoscere per la prima volta - la bellezza di un dibattito, la ricchezza del confronto diretto, il fascino della comunicazione non solo virtuale. Magari guardando il proprio interlocutore negli occhi e non attraverso la luce artificiale di uno schermo. *presidente dell'Associazione della Stampa del Friuli Venezia Giulia

domenica 15 dicembre 2013

PEARL JAM, 22-6-14 STADIO ROCCO, TRIESTE

Dunque l’anticipazione è confermata: saranno i Pearl Jam le stelle dell’estate musicale triestina e regionale. L’appuntamento è per domenica 22 giugno allo Stadio Rocco. Due sole date italiane, l’altra il 20 giugno a Milano, stadio di San Siro. Conferma e dettagli sono arrivati nella conferenza stampa nel Salotto azzurro del Municipio di Trieste. Il sindaco springsteeniano Roberto Cosolini: «È un evento che conferma la città fra le grandi piazze italiane del rock. Il fatto che si svolga di domenica porterà minori problemi organizzativi e maggior afflusso “turistico” di pubblico, anche dal Centro ed Est Europa, considerato che l’unica altra tappa in zona del tour europeo è Vienna». La presidente della Regione Debora Serracchiani non era annunciata. Ma fra un impegno dall’altra parte della piazza e il nuovo incarico romano nella segreteria nazionale Pd griffata Renzi, ha trovato il tempo per esserci. Sottolinea «l’attrattività di Trieste e del Friuli Venezia Giulia a livello di grandi eventi, che caratterizzeranno l’intero 2014». Poi ricorda che «a pochi metri da qui, in questo momento si parla di sicurezza nel mondo dello spettacolo»: un imperativo, dopo il tragico incidente di due anni fa al concerto di Jovanotti al PalaTrieste. Il suo vice Sergio Bolzonello: «Un concerto di tale rilievo, fra l’altro nel week end, è una grande occasione per richiamare pubblico dal resto d’Italia e dall’estero, garantendo un indotto immediato al nostro territorio. E pochi sanno che questi sono eventi che si pagano da soli, con l’incasso dell’Iva». Al netto dei ringraziamenti incrociati, merito tuo, no merito tuo, prego passi prima lei, un paio di curiosità arrivano grazie a Loris Tramontin. «Portare i Pearl Jam - dice il boss di Azalea - era rimasto un mio chiodo fisso almeno da tre anni, quando era già stata annunciata la data a Udine del 6 luglio 2010, che poi ci fu scippata dall’Heineken Jammin Festival. I cui organizzatori avevano offerto di più. Stavolta ce l’abbiamo fatta, ma è stata un’impresa. Le due date erano già previste a Milano e Roma, noi siamo riusciti a inserirci al posto della capitale». Prendendo poi spunto dal fatto che il Tramontin, friulano di Latisana, non riesce a pronunciare per esteso il nome della regione (per lui siamo solo Friuli, e tanto basta...), il discorso torna al famoso “Mandi Trieste” di Springsteen, un anno e mezzo fa. «Prima del concerto Bruce aveva chiesto il significato di alcune parole alla massaggiatrice friulana. Era atterrato nello stesso aeroporto usato quando aveva suonato a Udine e, vedendo che le città sono vicine, aveva pensato che quel saluto già usato con successo allo Stadio Friuli poteva funzionare ancora...». A proposito di Stadio Friuli: ma quando termineranno i lavori di ristrutturazione, Udine tornerà prima scelta per i grandi concerti e Trieste dovrà nuovamente accontentarsi delle briciole? «Assolutamente no - risponde Bolzonello, che da pordenonese rivendica neutralità sull’argomento -, ci sarà spazio per tutti. Nell’ambito di un disegno di promozione turistica complessivo strutturato e tarato per i nostri vari centri di attrazione». Ma torniamo ai Pearl Jam. Debutto del tour europeo, che arriva dopo le date negli Stati Uniti, in Australia e in Nuova Zelanda, il 16 giugno ad Amsterdam. Quelle italiane sono la seconda e la terza tappa. Poi vanno il 25 giugno a Vienna, il 26 a Berlino, e dopo toccano Svezia, Norvegia, Polonia, Belgio e Inghilterra. Americani di Seattle e capitanati da Eddie Vedder, i Pearl Jam sono fra i maggiori esponenti del movimento grunge. In oltre vent’anni di carriera hanno venduto più di sessanta milioni di copie, di cui la metà negli Stati Uniti. Due mesi fa - a quattro anni di distanza dal precedente “Backspacer” - hanno pubblicato “Lightning bolt”, decimo lavoro in studio della band, anticipato dal singolo “Sirens” e subito ai vertici delle classifiche negli States, in Canada, in Australia e in diversi paesi europei fra cui l’Italia. Per diverse settimane il disco è stato numero uno della classifica di iTunes in ben cinquantasei paesi. Al concerto di Trieste sono attese almeno trentamila persone. Biglietti (dai 51,50 ai 71,50 euro, più diritti di prenvendita) disponibili dalle ore 11 di venerdì 20 dicembre sul circuito ticketone.it e nei punti vendita abituali di Azalea. Altre info su www.azalea.it Ancora Tramontin. «Ma non ci fermiamo qui. Abbiamo creato il marchio “Live in Trieste”. Stiamo trattando altri nomi. Almeno uno di “rock giovane”, in piazza Unità. Lo annunciamo la prossima settimana...».

DISCO DI CIOCCOLATO PER GIBONNI, ROCKER CROATO

Gibonni, considerato in Dalmazia il “Vasco croato”, colpisce ancora. Stavolta, in pieno periodo natalizio, il quarantacinquenne rocker di Spalato sforna un album fatto di cioccolata. Della serie: prima si ascolta e poi si mangia. Zlatan Stipisic, questo il suo vero nome, ha registrato in Inghilterra il nuovo album in studio, intitolato “20th Century Man”. Canzoni in inglese, incisioni ai leggendari Abbey Road Studios dei Beatles e allo Sphere Studio, produzione affidata ad Andy Wright (uno che ha firmato i lavori di Simply Red, Eurythmics, Simple Minds...) e, quasi a festeggiare l’evento, la decisione di realizzare una versione a 33 giri della traccia che dà il titolo al disco stampata su cioccolata e riproducibile su un normale giradischi. «È un singolo da suonare a 33 giri, ma dopo cinque ascolti devi mangiarlo...», afferma Gibonni, da oltre vent’anni ai vertici delle classifiche di vendita croate e di tutti i Balcani. Poche sere fa, il disco è stato presentato per la prima volta al Gasometer di Vienna e poi mangiato collettivamente. «Ho letto che il cioccolato contiene un ormone che stimola il desiderio - dice ancora Gibonni -, ho pensato allora che fosse una combinazione perfetta con la mia musica fortemente legata agli anni Ottanta. Quando ho saputo di questa opportunità, non ho voluto lasciarmela sfuggire». Figlio d’arte (suo padre Ljubo Stipisic era un famoso compositore di klapa, stile musicale tradizionale della Dalmazia, nel quale non a caso il giovane Zlatan ha mosso i primi passi, prima di dedicarsi al rock...) il “Vasco croato” è l’artista della vicina repubblica che in questi anni ha saputo mischiare meglio sonorità rock e pop, coniugando melodie e tematiche che hanno saputo coinvolgere i giovani del suo paese. Sia ai tempi tormentati della guerra dei primi anni Novanta, che nei vent’anni trascorsi nel frattempo. L’album ha i suoni e le atmosfere delle migliori produzioni rock contemporanee e rappresenta un’importante sfida dell’artista croato nei confronti del mercato internazionale. Una sfida che ora è anche al sapore di cioccolato.

venerdì 13 dicembre 2013

PEARL JAM A TRIESTE ESTATE 2014

Dovrebbero essere i Pearl Jam le stelle della prossima estate musicale triestina. Dopo Bruce Spingsteen nel 2012 e i Green Day quest’anno, l’accoppiata Comune di Trieste e Azalea Promotion (che stamattina terranno una conferenza stampa congiunta, annunciando quasi sicuramente questo e forse altri nomi in arrivo) produce insomma un’altra... “perla”. Bocche cucite da parte degli interessati. «I Pearl Jam? Un bel nome, magari - risponde Loris Tramontin, boss di Azalea -. Mi piacerebbe, ma non ci sono date disponibili. Più facile che arrivino Bon Jovi, o Robbie Williams, o addirittura i Metallica...». Ma sembra tanto un tentativo di depistaggio, per “salvare” la conferenza stampa odierna. È vero che il sito ufficiale della band di Seattle annuncia solo i concerti in Australia e Nuova Zelanda fra gennaio e febbraio. Ma si danno ormai per certi i concerti a Milano il 20 e a Roma il 22 giugno. Subito prima o subito dopo queste tappe dovrebbe essere infilato il concerto triestino allo Stadio Rocco, tenendo conto del fatto che la band sarà a Berlino il 26 giugno e in Inghilterra ai primi di luglio. Si diceva allo Stadio Rocco. Un ritorno dunque alla grande struttura di Valmaura, dopo il successo del concerto del Boss nell’estate 2012. E dopo che il 25 maggio di quest’anno, in un clima decisamente autunnale, è stata la centralissima piazza dell’Unità a ospitare invece i californiani Green Day. Per quanto riguarda i Pearl Jam, come i fan sanno, sono un gruppo grunge formatosi a Seattle nel ’90. In oltre vent’anni di carriera hanno venduto più di sessanta milioni di copie, di cui la metà negli Stati Uniti. Influenzati dal rock classico degli anni Settanta, a loro volta continuano a influenzare molti gruppi rock contemporanei. Due mesi fa hanno pubblicato “Lightning bolt”, subito ai vertici delle classifiche negli States, in Canada, in Australia e in diversi paesi europei fra cui l’Italia. Per diverse settimane è stato numero uno della classifica di iTunes in ben cinquantasei paesi. Anticipato dal singolo “Sirens”, l’album è il decimo lavoro in studio della band, arriva a quattro anni di distanza dal precedente “Backspacer” (uscito nel 2009) e comprende dodici brani. In un alternarsi di ballate e brani punk-rock con gli inconfondibili “riff” di chitarra di Mike McCready e la personalissima voce di Eddie Vedder, cantante e leader rinosciuto della band. «Il fatto di pubblicare un disco in questo momento - ha detto in un’intervista Vedder, vero nome Edward Louis Severson III, nato il 23 dicembre 1964 a Chicago - è un po’ come una scossa che vogliamo dare all’intero sistema. Ci piace rimarcare che sappiamo essere traumatici». Stamattina sapremo se il sogno di vederli a Trieste diventerà realtà l’estate prossima. Nell’incontro convocato dagli organizzatori inizialmente dovevano essere annunciati altri nomi in arrivo, ma sembra che le trattative siano ancora in corso.

giovedì 12 dicembre 2013

FRAGIACOMO, TROMBA DI LATTA PER RICORDARE L'ESODO

Un libro con annesso cd in uscita: “Quella tromba di latta del confine orientale italiano”. Il cofanetto multimediale “Histria e oltre”, con dentro un libro di disegni e commenti di Bruno Chersicla su Portole d’Istria (patria dei genitori dell’artista scomparso), un cd sulla musica popolare istriana e con canti dell’esodo, un dvd del regista Giorgio Diritti sulla storia istriana. E il concerto letterario con il suo Mitteleuropa Ensemble, che per il prossimo Giorno della memoria, il 10 febbraio, dovrebbe arrivare finalmente anche a Trieste. Insomma, il musicista triestino Mario Fragiacomo - anche se da tanti anni trapiantato a Milano - è più che mai impegnato sul fronte a lui da sempre congeniale: lo studio e la diffusione delle tradizioni culturali e musicali delle sue terre. «Libro e cofanetto usciranno nei primi mesi dell’anno nuovo - dice Fragiacomo -, ma tengo particolarmente a far vedere anche a Trieste lo spettacolo già portato a Torino, Gorizia, Pescara, Alessandria, Monza...». Ancora l’artista: «Raccoglie le testimonianze di tanti italiani d’Istria, di Fiume, della Dalmazia, che dopo la fine della guerra sono stati costretti ad abbandonare tutto: i propri beni, la casa, gli affetti. Quasi un viaggio dentro la memoria di tutto il popolo dell’esodo». «Sono felice - conclude Fragiacomo - del nuovo interesse su questi temi suscitato dallo spettacolo di Simone Cristicchi “Magazzino 18”. Io seguo da oltre dieci anni l’ambiente dell’associazionismo di istriani, fiumani e dalmati. E da dieci anni mi emoziono sui palcoscenici italiani quando racconto questa storia. La stessa che cantavo nel mio primo album “Trieste, ieri, un secolo fa”, presentato tanti anni fa da Fulvio Tomizza».

ADDIO A GIPO FARASSINO

Ultimamente aveva ripreso a occuparsi solo di musica, di canzoni. Il suo primo, grande amore, messo per anni un po’ in disparte per la passione politica e per la Lega Nord. Ma Gipo Farassino, scomparso ieri a settantanove anni, è stato soprattutto artista, cantante, anzi chansonnier. Il caposcuola della canzone piemontese. Torinese, classe 1934, Giuseppe “Gipo” Farassino debutta discograficamente nel 1960 con un album di canzoni popolari piemontesi. Scrive anche brani in lingua italiana, spesso venati di ironica e struggente malinconia. Le musiche sono spesso legate alla tradizione francese. Nel decennio del boom e della contestazione il pubblico italiano lo conosce per canzoni come “Avere un amico”, “Remo la barca”, “Ballata per un eroe”. Avvicinandosi spesso ai territori del cabaret (si esibirà per anni anche al celebre Derby Club milanese), racconta i problemi della povera gente, della sua Torino operaia, degli amori infelici consumati nelle case di ringhiera e della quotidianità di cui è attento testimone. Con “Non devi piangere Maria” nel ’70 partecipa a “Un disco per l’estate” e porta la sua poetica dinanzi al grande pubblico televisivo del sabato sera: canta «un mare di fredde ciminiere, un fiume di soldatini blu, un cielo scordato dalle fiabe, un sole che non ti scalda mai. Questa mia città ti fa sentir nessuno, ti strozza il canto in gola, ti spinge ad andar via. Questa mia città che spegne le risate, che sfugge a tanta gente, resta la mia città...». Sempre nel ’70 la sua “Senza frontiere”, con un testo contro le guerre in Vietnam e nel Biafra, viene respinta al Festival di Sanremo. E poi va alla Mostra Internazionale di Musica Leggera con “Quando lei arriverà”. Altri dischi, tanti spettacoli e molta televisione negli anni Settanta. Poi l’impegno politico prende il sopravvento. Nell’87 dà vita al un movimento Piemont Autonomista, dall’87 al ’96 è segretario della Lega Piemont, che poi si scioglie nella Lega Nord. Ne diventa segretario regionale nel suo Piemonte, assessore regionale, parlamentare europeo. Ieri l’addio.

domenica 8 dicembre 2013

MOGOL A UDINE: IO, LUCIO E 50 ANNI DI CARRIERA

Di Carlo Muscatello Inviato a UDINE Ha regalato le parole alla miglior musica leggera di casa nostra. In oltre mezzo secolo di onorata attività, Giulio Rapetti Mogol (dal 2006 quel che era uno pseudonimo è diventato parte del suo cognome) ha infatti firmato i testi di oltre millecinquecento canzoni. Molte delle quali bellissime, alcune indimenticabili, entrate a far parte della colonna sonora delle nostre vite. Con Lucio Battisti, ma non solo. Anche per Celentano, Morandi, Cocciante. Per non parlare di Mina, Bobby Solo, Equipe 84, Dik Dik... Mogol ieri era a Udine, ospite d'onore della serata al Castello per celebrare i venticinque anni dell'agenzia Rem. Poco prima, nella hall di un albergo del centro, ha ricordato con noi alcune tappe di una carriera straordinaria. Sanremo '61, "Al di là", Luciano Tajoli e Betty Curtis: un debutto subito vincente... "Ero un ragazzo - ricorda l'artista, milanese, classe 1936 - che aveva avuto la fortuna di scrivere quelle parole. Le avevo date al maestro Donida, un caso strano perché in seguito io ho sempre scritto su una musica già esistente. Una serie di coincidenze fortunate e la canzone vinse il Festival. Ma fu tutto merito di Tajoli". Che Italia era? "L'Italia che vorrei anche oggi, invece tutto è andato male, tutto va di male in peggio. È mancata la moralità, qui tutto raccontano balle, tutti fanno debiti e nessuno va galera". Battisti lo conobbe pochi anni dopo: intuì subito le sue potenzialità? "Assolutamente no. Si presentò con due canzoni, gli dissi che aveva scritto due brani modesti, la cosa che mi colpì fu che lui disse: sono d'accordo. Mi fece quasi tenerezza. Gli dissi: dai, vediamoci, proviamo a collaborare assieme. E cominciò quell'incredibile avventura. La terza canzone che scrivemmo assieme fu "29 settembre". E fu il botto". Quindici anni di collaborazione: i fan ancora non si capacitano di quel divorzio. "In effetti fu una cosa incomprensibile, girarono tante balle sui motivi della separazione. Questioni di gelosie, di soldi, persino di confini fra le nostre proprietà in Brianza. Tutte balle. La verità? Credo sia stato influenzato, mal consigliato da chi gli era vicino". Un ricordo bello e uno brutto di quegli anni con lui. "Brutto nessuno. Mi sono sempre trovato bene, anche lui mi sembrava appagato e contento. E anche quando ci siamo incontrati di nuovo, anni dopo, tutto sempre bene. Era un rapporto ad alto gradimento reciproco". Un'alchimia irripetibile? "Beh, ho lavorato e scritto canzoni con altri artisti. Anche belle canzoni. Ma credo che sì, era irripetibile perchè completa nel senso globale del termine. Lucio era un grande autore, un arrangiatore, un interprete. Assieme avevamo raggiunto la completezza, una certa complementarietà". Quella storia che eravate fascisti? "Io sono sempre stato moderato, Lucio non l'ho mai sentito parlare di politica. La verità è che in quegli anni se un artista non alzava il pugno era fascista. Chi scriveva di privato era qualunquista. La neutralità non era ammessa". Lei fa cronaca? "Si, credo che un autore degno di fede è quello che fa cronaca. La fantasia non conta. Io mi ispiro alla vita, alla mia, a quella della gente comune. Per questo il pubblico mi segue". Una parola per alcuni artisti con cui ha lavorato. Celentano. "Timbrica straordinaria. Meglio come artista che come predicatore". Mina. "Coerente nella sua scelta di ritirarsi a Lugano. L'altro giorno mi hanno detto quante canzoni ho scritto per lei: sono ventotto, nemmeno me le ricordavo". Morandi. "Anche lui libero di fare quel che vuole. Bravissimo nel ripartire, con quella "Canzoni stonate" che scrissi per lui trent'anni fa". Cocciante. "Grande interprete e grande musicista, di livello internazionale". Gianni Bella. "Un genio musicale. Non lo ha aiutato l'accento siciliano, lui che in inglese canta benissimo". L'opera che avete scritto assieme? "L'ha scritta soprattutto lui, e dopo due anni di lavoro, il giorno dopo averla finita, è stato colpito dal male che ancora non gli permette di comunicare. Per l'opera abbiamo dei problemi economici, forse debutterà all'estero" La scena musicale attuale? "Manca la qualità, e sa perchè? Perché oggi si cerca solo il profitto. Una volta era diverso, si cercava l'artista che aveva qualcosa da dire e sapeva come dirlo. Oggi si cerca di fare soldi, e subito. Non va bene". Ha detto che oggi Battisti e Mogol non emergerebbero. Possibile? "Lo confermo. Noi eravamo pieni di idee e trovavamo gente disposta ad ascoltarci. C'era entusiasmo, voglia di cambiare. Lucio fu bocciato alla radio come interprete, ma poi le radio lo trasmettevano comunque. Oggi non c'è questa possibilità. I dj sono degli impiegati, passano quello che gli dicono di trasmettere". Il Cet, la sua scuola? "Ha vent'anni, ha diplomato oltre duemila allievi, abbiamo tenuto a battesimo interpreti come Arisa e autori come Giuseppe Anastasi. Abbiamo una didattica avanzatissima, di livello europeo. Ma anche per noi mancano i fondi, dobbiamo fare economia. Chi ci governa non capisce che diffondere la musica e la cultura popolare è una priorità". Dopo l'inno della Ternana ora scrive quello della Lombardia. Cos'è successo con Maroni? "L'inno per la Ternana l'ho scritto perché è la squadra per cui tifo. Maroni ero andato a trovarlo per alcune borse di studio finanziate dalla Regione Lombardia già nella precedente legislatura. Mi ha chiesto di scrivere questo inno, gli ho detto che al momento non avevo la musica giusta. Poi mi sono ricordato di un bellissimo brano inedito di Lavezzi, e ho scritto il testo. Maroni ha detto che voleva una musica più rock, e da questa battuta si è scatenato un casino". Che testo ha scritto? "La storia della mia vita, ricordi di me da bambino. Io sono sempre stato autobiografico. Ho scritto una cosa bella, sentirete. Figuriamoci se per la mia regione, ripeto, la mia regione, la mia terra, non per una giunta di destra o di sinistra, figuriamoci se non scrivevo una cosa bella. Invece di questo sembra non interessare niente a nessuno. Sotto con le balle, con le polemiche, con i titoloni". I talent show? "Torniamo al discorso del qualità. Se scegli degli artisti veri da presentare al pubblico, forse fai un'operazione culturale. Ma se aspetti quelli che vogliono essere lanciati, che vogliono vendere due dischi, fare la bella vita, beh, non vai da nessuna parte". Internet? "Ci sono 200mila siti musicali, manca chi ti aiuta a individuare le cose di qualità. Siamo sempre lì. Corsa ai soldi, al profitto, poca attenzione alla qualità". Gli aforismi? "Ho sempre amato la sintesi, mi piace scrivere breve. Questo libro "Le ciliegie e le amarene" ha avuto quattro premi, uno internazionale. Ne sto scrivendo un altro. Si intitolerà "le arance e i limoni". Mogol, lei ha fede? "Sì, prego tutte le sere. E lo faccio con il cuore".

sabato 7 dicembre 2013

BAUSTELLE 16-12 Udine, intervista BIANCONI

«Non so se un disco sinfonico come “Fantasma” ha rappresentato una svolta. Mi piace pensare che ogni album dev’essere di svolta, altrimenti ci si annoia. In realtà bisogna svoltare sempre, mantenendo il proprio stile e la propria personalità. Cosa non sempre facile...». Francesco Bianconi è il cantante e leader riconosciuto dei Baustelle, il trio di Montepulciano (gli altri sono Rachele Bastreghi e Claudio Brasini) che lunedì 16 torna in regione per un concerto al “Nuovo” di Udine. Il loro “Minimal Fantasma Tour” li sta riportando ancora una volta in giro per l’Italia: stasera sono a Napoli, il 18 a Torino, il 21 a Roma... «Abbiamo scelto di registrare con un’orchestra di sessanta elementi perchè gli archi veri sono più belli di quelli riprodotti con le tastiere. E anche dal vivo stiamo suonando assieme a un quartetto d’archi». Cos’è, il rock non vi piace più? «Tutt’altro. Ma nella nostra musica c’è sempre stata la passione per l’elemento sinfonico, per le musiche da film, anche nei primi dischi. Forse allora non potevamo permetterci l’orchestra d’archi. Diciamo che l’elemento pop-rock, con le chitarre elettriche e la batteria, l’abbiamo messo temporaneamente da parte». “Fantasma” vi ha avvicinato a un pubblico diverso? «Sì, credo che abbiamo rubato qualche ascoltatore al pubblico dei cantautori, grazie a un album che in effetti è un po’ più cantautorale. Non mi piace la parola “adulto”, ma devo ammettere che l’età media in platea si è un po’ alzata, rispetto ai tempi di “Charlie fa surf” e “Colombo”. Insomma, nessuno potrà più dire che siamo una band per ventenni...». Come mai avete ripubblicato “La moda del lento”? «Dopo il nostro debutto nel 2000 con “Il sussidiario illustrato della giovinezza” eravamo rimasti senza contratto discografico. Ma sentivamo di avere ancora molte cose da dire, avevamo il nuovo disco quasi pronto ma senza la possibilità di pubblicarlo. Periodo difficile, insomma». Dunque? «Riuscimmo ad avere dei soldi dalla Bmg, che però non poteva pubblicarlo con il proprio marchio. L’album uscì per un’etichetta satellite nel 2003, vendicchiò qualcosa, finì fuori catalogo, non venne più ristampato, e attraverso un complicato giro di fusioni il master divenne di proprietà della Sony». È meglio di un giallo... «In effetti. Per farla breve, in questi anni molti ci hanno chiesto di rispampare quell’ormai introvabile nostro secondo album, finalmente abbiamo trovato un accordo con la Sony e ora il disco viene ripubblicato: da alcuni giorni è disponibile in cd e in digitale, la prossima settimana esce anche su doppio vinile a tiratura limitata». Richieste dei fan a parte, perchè riproporlo? «Perchè, in un’epoca in cui tutta la musica è disponibile con un semplice clic, ci sembrava incredibile e ingiusto che su quel lavoro fosse sceso il silenzio tombale». Lo trova ancora attuale? «Alcuni brani di quel disco li facciamo ancora dal vivo, dunque sì, lo trovo abbastanza attuale. L’ho riascoltato in questi giorni: lo trovo un buon album, i suoni sono ovviamente un po’ invecchiati. Ma bisogna pensare al fatto che all’epoca eravamo dei ragazzi innamorati delle sonorità elettroniche, con tanta voglia di fare, dire, suonare». Oggi lo fareste diverso? «Certo, sono passati dieci anni. Forse ne faremmo una versione più intima, magari da camera, chissà. Ma arrangiamenti a parte, la sostanza è ancora buona». Come sta la musica italiana? «Bene, ma tutto il sistema sta andando in crisi. Non si vendono dischi, dunque non si investe sulle nuove band, suoi nuovi artisti. In giro c’è buona musica, ma le major vogliono andare sul sicuro, puntando magari sui ragazzi dei talent show». Sui quali che giudizio dà? «Non ce l’ho con i talent. Ma rischiano di far pensare ai ragazzi che la musica in tivù è fatta solo di gente che interpreta brani scritti da altri. Un grave errore culturale. Un De Gregori oggi avrebbe difficoltà a emergere». Fra gli stranieri chi ascolta? «Tante cose. Ultimamente mi piacciono i Tame Impala, un gruppo proveniente dall’Australia. Ma ho apprezzato anche il nuovo disco dei Daft Punk». Prossimo Baustelle? «Dopo questo tour abbiamo bisogno di un po’ di letargo, di silenzio, di fare tabula rasa per ripartire. Diciamo che se dovessi incidere oggi farei un disco senza orchestra. Per una nuova svolta». A Montepulciano ci tornate? «Claudio ha continuato a viverci. Rachele vive a Milano da anni. Io da ancor prima, quando venni qui per fare il giornalista in una rivista. Ma a Montepulciano torno spesso. E forse mi piacerebbe anche tornare a viverci».

giovedì 5 dicembre 2013

LUDOVICO EINAUDI stasera a Trieste, Rossetti

Italo Calvino girava per casa sua, quand’era bambino: praticamente uno zio. In una famiglia letteraria nella quale Natalia Ginzburg era una sorta di zia. Capita se ti chiami Ludovico Einaudi, pianista di fama ormai internazionale che stasera alle 21 suona a Trieste, in un Politeama Rossetti strapieno: i biglietti sono esauriti (e tutti venduti sono anche i tagliandi per il concerto di Mario Biondi domani sera alle 21 al Teatro Nuovo di Udine). Chi affolla i suoi concerti a Londra e Parigi, a Berlino e Budapest, a New York e Sidney, probabilmente nulla sa di quel cognome importante, che significa figlio dell'editore Giulio e nipote del secondo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, appunto. «Calvino - ricorda il pianista, torinese, classe 1955 - era un personaggio particolare, molto attento ai dettagli, ai rapporti umani. Veniva spesso a casa nostra. La sua famiglia aveva tradizioni botaniche che anche lui coltivava. Sono passati quasi cinquant’anni, ma non dimentico che una volta mi regalò una pianta grassa, ricordo ancora il nome: sedum guatemalense. Particolare perchè le foglie, interrate, facevano nascere una nuova pianta». Suo padre? «Le sue amicizie, le sue frequentazioni mi hanno permesso di conoscere persone importanti legate alla cultura italiana. Ciò è stato fondamentale negli anni della mia adolescenza e formazione. Una figura impegnativa, la sua. Con lui ho condiviso alcune visioni del lavoro, la grande cura che aveva per il lavoro mi ha segnato. Bisogna avere passione per le cose che si fanno. La sua vita era indissolubile dalla sua attività. Un po’ com’è capitato a me». Il nonno? «Quando sono nato, nel ’55, aveva appena terminato il suo settennato al Quirinale. È morto che io avevo sei anni. I ricordi sono dunque per forza di cose molto sfumati, mediati dai racconti di mio padre. Credo però mi abbia lasciato una certa filosofia di sobrietà, presente nel mio dna. Il fatto di guardare alle cose importanti, una certa morale. Molto piemontese». La musica? «Mia madre suonava il pianoforte. Musica classica: Bach, Chopin, Schumann. Ma anche canzoni francesi: amava Jacques Brel, Moustaki. Dalle stanze delle mie sorelle arrivavano invece i suoni nuovi, i dischi dei Beatles. Io sono cresciuto in mezzo a tutto questo». Fino a che... «Fino a che un giorno cominciai a prendere lezioni private di pianoforte, poi presi a suonicchiare anche la chitarra. Nell’adolescenza, verso i sedici anni, misi su anche qualche complessino, sviluppando una conoscenza e un interesse maggiore. E decisi che avrei voluto appronfondire il mio rapporto con la musica. Mi iscrissi allora al convervatorio: composizione e pianoforte, sentivo un forte interesse per l’aspetto creativo della musica». Lo studio è stato importante? «Diciamo che mi è servito, mi ha aiutato a ragionare sulla musica. Ma forse è un’illusione, perchè poi la conoscenza ognuno la sviluppa per conto proprio, attraverso una propria interpretazione della musica e dei suoi misteri». A Londra, due mesi fa, all’iTunes Festival, ha diviso il palco con Lady Gaga... «Non nella stessa serata. C’erano anche Elton John, Kate Perry, Justin Timberlake. Un’esperienza che ho vissuto con grande entusiasmo. Un’occasione importante legata al discorso delle nuove tecnologie. Eravamo in un teatro, la leggendaria Roundhouse, con duemila persone in platea, ma in diretta streaming ce n’erano probabilmente cento volte tanto». Le piace mischiare i generi? «Molto. Quella sera mi divertiva il contesto diverso dal solito. È sempre stimolante mescolare le carte, soprattutto nella musica». Ascolta rock? «Sì, qualche volta. Radiohead, Bjork, Portishead, Pj Harvey... Artisti che suonano quello che a me sembra un rock di ricerca, che sperimenta soluzioni nuove. Di una scena che ha i suoi alti e bassi, ma mi dà degli stimoli». Da ragazzo? «Sono cresciuto con Beatles e Rolling Stones, ma anche Jimi Hendrix, il rock progressive di King Crimson, Soft Machine, Jethro Tull, Genesis. Mi piacevano i Pink Floyd, i Colosseum. Alcuni li ho anche visti dal vivo, a Torino, negli anni Settanta. Ma non ero un fan sfegatato, di quelli che divoravano i dischi». Com’è diventato un pianista star? «Per caso. All’inizio ero concentrato sulla composizione, il pianoforte era lo strumento per scrivere. “Time out”, il primo album, è uscito nell’88, ma non mi ha cambiato la vita. Le cose hanno cominciato a mutare negli anni Novanta, con dischi come “Stanze”, “Salgari”, soprattutto “Le onde”: un lavoro che ha ottenuto molta attenzione, ha cambiato il mio destino». Cosa propone a Trieste? «Alcuni brani del mio nuovo album, “In a time lapse”, e altre cose del passato. La mia musica».

DISCHI: ANZOVINO, VIVO

REMO ANZOVINO “VIVO” (Egea Music) Il trentasettenne pianista e compositore pordenonese brucia le tappe e vola verso i piani alti della scena musicale di casa nostra. Dopo il successo del “Viaggiatore immobile” e del Concerto per il mezzo secolo della strage del Vajont, arriva il suo primo album dal vivo. Registrato ad aprile all’Auditorium del Parco della Musica, a Roma, assieme alla band che lo ha accompagnato in tour, comprende quattordici brani già conosciuti dal pubblico e due inediti: “Afrodite” e “No smile (Buster Keaton)”. Di quest’ultimo brano esiste anche un godibilissmo video. Anzovino dimostra a tratti un piglio da rocker, e si conferma versatile e intelligente equilibrista fra generi, che attraversa con leggerezza e ottima tecnica. Il disco è in realtà un cofanetto, che comprende anche il dvd del Concerto della memoria tenuto a settembre accanto alla diga del Vajont, con il Coro polifonico di Ruda. Info e altre cose su www.remoanzovino.it

DISCHI: LIGABUE, MONDOVISIONE

Una certa indignazione per come va il mondo, per la politica italiana che anche a sinistra è sempre più distante dalla gente comune. E poi l’eterno mondo dei sentimenti, dell’amore che fa girare il mondo. Ruota attorno a questi temi “Mondovisione” (Warner), il nuovo album di Ligabue che non ha fatto in tempo a uscire che è subito balzato in testa alle classifiche di vendita. Erano tre anni che il rocker di Correggio non proponeva un disco di inediti, i fan cominciavano a essere impazienti, la casa discografica forse pure. Copertina che cita il vecchio Carosello, dentro quattordici brani (fra i quali due brevi strumentali) che non deludono le attese. Album abbastanza rock, suoni semplici e diretti, senza bisogno di ricorrere a tutti i marchingegni che le nuove tecnologie mettono oggi a disposizione di un artista che entra in sala d’incisione. «Ho sempre raccontato delle mie emozioni, dei miei sentimenti in maniera scarnificante. Non so se sono arrivato ad essere ancora più diretto». Apertura con “Il muro del suono”, brano che più arrabbiato non si può («Sotto gli occhi da sempre distratti del mondo, sotto i colpi di spugna di una democrazia, chi doveva pagare non ha pagato, è sotto gli occhi di tutti...». “Nati per vivere” ha una bella ritmica nera, rhythm’n’blues. “Con la scusa del rock’n’roll” sembra voler chiudere il trittico iniziato tanti anni fa con “Sogni di rock’n’roll” e poi proseguito con “In pieno rock’n’roll”. “Il sale della terra”, che con “Tu sei lei” è il brano di punta dell’album, è una di quelle canzoni destinate a entrare nel canzoniere dell’artista. Lui la spiega così: una canzone sull’esercizio del potere, una galleria di personaggi, non è l’Italia tutta; parla di quelli che troppo spesso ci sono passati negli ultimi vent’anni. «È un album piuttosto rock, ma in questi vent’anni - dice il Liga - il rock è cambiato, è cambiato anche il modo di ascoltarlo. Il rock è il modo che uno ha per non avere pudore dei propri sentimenti e urlarlo in faccia alla gente. Se il rock è quello lì, faccio rock. Se rock è una chitarra metal, allora non sono rock...». Per il suo popolo, quello che affolla i suoi concerti e compra i suoi dischi, Luciano Ligabue è rock per tutta la vita... La conferma nel “Mondovisione Tour”: 30 e 31 maggio allo Stadio Olimpico di Roma, 6 e 7 giugno allo Stadio di San Siro a Milano. E ancora il 12 luglio allo Stadio Euganeo di Padova, il 16 a Firenze, il 19 a Pescara, il 23 Salerno.

martedì 3 dicembre 2013

ELISA 29-3 trieste

Elisa chiuderà al PalaTrieste, sabato 29 marzo, il suo nuovo tour. A ottobre, in occasione dell’uscita dell’album “L’anima vola”, quando le avevamo fatto notare che la tournèe - debutto il 7 marzo alla Zoppas Arena di Conegliano, Treviso - purtroppo non prevedeva tappa nella “sua” regione, aveva risposto così: «Beh, c’è la tappa a Conegliano, che non è molto lontana. E poi c’è ancora speranza di rimediare. C’è sempre speranza...». Ed ecco la novità, che è anche bella sorpresa. Gli organizzatori hanno aggiunto al tour due tappe: il 27 marzo a Montichiari (Brescia) e il 29 a Trieste, per ora ultima data de “L’anima vola tour”. Che, dopo il debutto veneto del 7 marzo, toccherà l’8 Padova (Pala Fabris), il 10 marzo Torino (Pala Olimpico), l’11 marzo Genova (105 Stadium), il 13 marzo Firenze (Nelson Mandela Forum), il 15 Roma (Palalottomatica), il 18 Napoli (Pala Partenope), il 19 marzo Pescara (Pala Giovanni Paolo II), il 21 Perugia (Pala Evangelisti), il 22 Bologna (Unipol Arena) e il 24 Milano (Mediolanum Forum). Intanto, sabato 7 dicembre Elisa parteciperà alla 21.a edizione del Concerto di Natale, il tradizionale appuntamento musicale in scena all’Auditorium della Conciliazione, a Roma, che poi verrà proposto in tv e alla radio, come di consueto, la sera della vigilia. Per l’occasione l’artista monfalconese proporrà un brano estratto dal nuovo album “L’anima vola” - il suo primo tutto in italiano, da settimane ai vertici delle classifiche, già disco d’oro con oltre 30mila copie vendute - e duetterà per la prima volta con Dolores O’Riordan dei Cranberries. Fra gli altri duetti, quelli fra Patti Smith e Alex Britti, e fra Anggun e Luca Barbarossa. Venerdì 20 dicembre Elisa sarà - con Jovanotti, Tiziano Ferro, Franco Battiato, Fabri Fibra, Biagio Antonacci e tanti altri - fra gli ospiti di Luca Carboni al PalaDozza di Bologna, nel concerto per celebrare i trent’anni di carriera del cantautore. È invece di pochi giorni fa la pubblicazione del secondo singolo tratto dal nuovo album, “Ecco che”, scritto da Giuliano Sangiorgi dei Negramaro e scelto da Giovanni Veronesi come tema principale del suo ultimo film “L’ultima ruota del carro”, per cui Elisa ha composto, per la prima volta nella sua carriera, l’intera colonna sonora. Il video del brano (su youtu.be/9QAxaltZ6Z0) è stato diretto dal regista toscano e vede la partecipazione dell’attore Elio Germano, protagonista del film. «Veronesi lo chiama ironicamente un video “solo in bianco” - spiega Elisa - perchè è molto etereo e basato sull’idea di uno spazio surreale dove pennellate di grigio, che scrivono poche cose minimali, si contrappongono alla mia figura e a quella di Elio Germano». Tornando al tour e al concerto triestino, biglietti e info su www.ticketone e www.azalea.it, e nei punti vendita abituali.

lunedì 2 dicembre 2013

IL COLPO DI STATO DI BANCHE E GOVERNI, libro di Gallino

«Quando arriva l’uragano, è dura per tutti. Ma se hai costruito per tempo una casa in cemento armato, avrai una certa quantità e un certo tipo di danni. Se invece vivi in una casupola fatta di lamiera, è chiaro che rischierai di venir spazzato via...». Luciano Gallino, uno dei più importanti sociologi italiani, professore emerito all’Università di Torino, dov’è stato per oltre trent’anni ordinario per l’appunto di sociologia, legge così, attraverso questa metafora, una crisi apparentemente senza fine. Che secondo alcuni non è una crisi mondiale, ma soltanto o perlomeno soprattutto italiana. «Fuor di metafora - spiega il docente, che ha appena pubblicato per Einaudi il volume “Il colpo di stato di banche e governi, L’attacco alla democrazia in Europa” (pagg, 344, euro 19) -, la nostra economia è di latta. In Italia da anni abbiamo assistito all’incapacità di realizzare politiche industriali e progetti adeguati alla fase storica. Nel frattempo la Germania si è attrezzata per la bisogna, dunque soffre di meno di una situazione oggettivamente difficilissima». Perchè dopo oltre due anni di recessione, e una caduta dell’economia del nove per cento dal momento simbolico del fallimento di Lehman Brothers, la zona euro dà segnali di ripresa e crea posti di lavoro. Anche in Spagna, in Portogallo, in Irlanda. Mentre l’Italia è drammaticamente ferma al palo. Professore, quando è cominciata questa crisi? «È una crisi che parte da lontano. Già negli anni Settanta il sistema produttivo dei paesi sviluppati dava segni di rallentamento. Per ovviare al quale, governi e società finanziarie statunitensi ed europei hanno intrapreso, a partire dagli anni Ottanta, una forte campagna di finanziarizzazione dell’economia». I cosiddetti mutui facili? «Sì, soprattutto negli Stati Uniti in quegli anni si è cominciato a erogare milioni di prestiti e mutui che tutti venivano sollecitati a sottoscrivere. Anche quanti non avevano ragionevolmente la possibilità di farvi fronte». La ricetta ha funzionato? «Per alcuni anni. Poi ha mostrato i suoi limiti, anche perchè si trattava di tutto un sistema di crediti ingenti, concessi con estrema disinvoltura». Quand’è saltato tutto? «C’erano stati segnali allarmanti già nel 2003, segnalati da alcuni giornali e persino dalla Fbi. Ma nessuno ha datto loro retta. Poi tutto il sistema entra drammaticamente in crisi nel 2007. E quando nel 2008 falliscono le grandi banche, i governi intervengono pompando soldi pubblici per salvare banche private». Altre cause della crisi? «Proprio perchè i governi intervengono con soldi pubblici, nel 2010 quella che comincia come una crisi di banche private e dell’industria finanziaria diventa una crisi del debito pubblico. Alla quale si tenta di far fronte con politiche di austerità, che portano alla recessione e a tutti i danni che ben conosciamo». L’Europa ha meno responsabilità? «No, le responsabilità di Europa e Usa sono due facce della stessa medaglia. Pensiamo al fatto che i governi europei hanno avuto una parte importante nel processo di liberalizzazione dell’economia, nel creare le piazze finanziarie. E i gruppi finanziari europei hanno contribuito in maniera determinante a creare la situazione poi esplosa innanzitutto oltreoceano». La politica, intanto? «Il fatto che i governi abbiano salvato le banche con i soldi pubblici è stato difeso da molti sottolineando che poteva saltare tutto, che comunque sono stati salvati anche i risparmi della gente. Vero. Però è anche vero che i governi non hanno chiesto nulla in cambio. E potevano, forse dovevano farlo». Cosa potevano chiedere? «Per esempio di ridurre i derivati. Di eliminare certe attività discutibili. Di separare le oneste e necessarie attività di deposito e prestito da quelle meramente e smaccatamente speculative. Invece hanno concesso enormi aiuti e non hanno chiesto, e dunque ottenuto, nulla in cambio». Potevano tentare di cambiare il modello produttivo? «Anche. Automobile, televisione, frigorifero ormai ce li hanno tutti, dopo le enormi diffusioni dei decenni passati. Bisognava inventare altro». I grandi gruppi finanziari? «Hanno enormi responsabilità. Hanno inventato nuovi prodotti finanziari. Pericolosi perchè fondati su modelli che hanno concentrato il rischio su pochi piani e settori». Le grandi banche? «Sono rimaste scoperte anche per centinaia di miliardi di euro. Abbiamo assistito a fallimenti clamorosi anche in Europa. Tutto il sistema poteva saltare». E l’Europa, appunto, cosa poteva fare? «Anche qui, come si diceva, non è stato chiesto nulla in cambio. Ma il vecchio continente poteva in particolare fare a meno di sviluppare le piazze finanziarie, cercando di far meglio degli Stati Uniti, nella corsa forsennata alla distribuzione dei rischi». Invece? «Invece queste pratiche sono state esaltate. Ricordo che in Germania, nella campagna elettorale del 2005, entrambi i due maggiori partiti avevano preso l’impegno con gli elettori di trasformare il paese in una grande piazza finanziaria. E i problemi erano già quasi tutti sul tappeto». I responsabili? «La classe politica e dirigente, che non capito la crisi e ha favorito con ricette sbagliate i dirigenti dei grandi gruppi finanziari, davanti ai quali sono stati stesi dei veri e propri tappeti rossi». Austerità fa rima con recessione? «Sì, lo scrivono anche gli economisti liberali. Le politiche di austerità dei governi hanno prodotto ventisei milioni di disoccupati in Europa, dato dell’agosto 2013: sei/sette più del 2007». Perchè parla di “attacco alla democrazia”? «Perchè le dicisioni importanti vengono prese da un numero sempre più ristretto di persone, attraverso leggi e trattati sottratti al processo democratico. E si liquidano le discussioni dicendo che non ci sono alternative». Invece, come se ne esce? «Traducendo la consapevolezza degli errori fatti in passi politici. I trattati si possono modificare. Si può chiedere alla Bce di applicare meglio le sue norme. Si deve puntare sulla creazione di posti di lavoro...». Altrimenti, sostiene Gallino, si continuerà a destrutturare le democrazie, distruggere i diritti, in primis quello al lavoro.

sabato 30 novembre 2013

CRISTICCHI, MAGAZZINO 18 DIVENTA DISCO e LIBRO

Un libro e adesso anche un disco. L’onda lunga del grande successo di “Magazzino 18”, lo spettacolo di Simone Cristicchi che ha debuttato al Politeama Rossetti un mese e mezzo fa e che ora sta girando per l’Italia, non accenna a finire e produce nuovi frutti. «Sì, l’album dovrebbe uscire a metà dicembre, a cura dello Stabile regionale - conferma il cantautore romano -, e comprenderà alcuni monologhi e tutte le canzoni dello spettacolo. Sarà corredato da un libretto fotografico e ovviamente dal testo dello spettacolo». «Dopo Trieste - prosegue Cristicchi - finora siamo stati a Tolmezzo, a Cuneo, a Torino. Le prossime date sono il 3 e 4 dicembre al Teatro Ariosto di Reggio Emilia, già esaurito per entrambe le serate in prevendita». Ancora l’artista: «Siamo felici del fatto che dappertutto stiamo ricevendo un’ottima accoglienza. Al Rossetti, nonostante le note polemiche della vigilia, poteva essere una cosa scontata. In altre città molto meno». «Fra l’altro ci tengo a sottolineare, con il senno di poi, che il teatro a Trieste non era pieno solo di esuli e figli di esuli. C’era tanta gente comune. E le richieste di biglietti sono state tali che si sta pensando di fare una ripresa la prossima stagione...». Come detto, intanto lo spettacolo gira l’Italia. E se a Trieste le musiche erano suonate dal vivo dall’orchestra, nelle repliche Cristicchi utilizza le basi registrate proprio al Rossetti da Fulvio Zafret dell’Urban Recording Studio della Casa della Musica. Dove sono poi state completate le parti vocali, musicali e narrative, che ritroveremo nel disco. «A marzo al Teatro Verdi di Gorizia e poi nelle tappe in Istria - sottolinea l’artista - vorremmo però tornare all’orchestra che suona dal vivo. E il mio grande sogno è l’Arena di Pola, l’estate prossima...». Intanto, il 4 dicembre esce per Mondadori il libro “Magazzino 18”, per la collana Arcobaleno. La stessa nella quale sono già stati pubblicati gli altri due volumi firmati dall’artista romano: “Centro di igiene mentale. Un cantastorie tra i matti” e “Mio nonno è morto in guerra”. Il libro racconta le vicende dell’esodo così come Cristicchi le ha messe in scena. Voce narrante ancora quella dell’archivista Persichetti, spedito dal ministero da Roma al porto vecchio di Trieste per fare l’inventario degli oggetti e dei mobili abbandonati tanti anni fa dagli esuli nel Magazzino 18. Dove si imbatte dello “spirito delle masserizie” e scopre lui stesso - romanaccio un po’ ignorante ma sensibile e sveglio - le vicende del tormentato Novecento giuliano, dall’avvento del fascismo con le sue violenze ai campi di internamento italiani. Fino all’8 settembre e a tutto quel che accadde dopo: l’invasione jugoslava della città, le foibe, l’esodo, la vita nei campi profughi, la strage di Vergarolla, le vicende dei “rimasti” e di quelli che partirono, accolti in alcune stazioni italiane al grido di “fascisti, fascisti” (“e invece eravamo solo italiani...”). «Fra l’altro - conclude Simone Cristicchi, ormai triestino quasi d’adozione -, sull’onda di questo spettacolo stanno accadendo cose strane, inaspettate. Per esempio un recente incontro, a Padova, fra la sezione locale dell’Anpi e l’associazione degli esuli istriani e dalmati. I figli e i nipoti di quanti sessant’anni fa stavano su sponde contrapposte, insomma, cominciano finalmente a parlarsi. Mi sembra una cosa buona».

venerdì 29 novembre 2013

A GENNAIO NUOVO ALBUM SPRINGSTEEN, HIGH HOPES

S’intitola “High hopes”, è il nuovo album di Bruce Springsteen, uscirà il 14 gennaio. Quasi una sorpresa, per i fan del Boss, reduce dal secondo anno di trionfi del “Wrecking ball tour” (passato un anno e mezzo fa da Trieste e questa primavera da Padova). Registrato in vari studi, fra New Jersey, Los Angeles, Atlanta, Australia e New York, l’album è il diciottesimo in carriera per il sessantaquattrenne rocker di Freehold. Che ha voluto con sè, come insostituibile supporto musicale, la E Street Band al completo. In particolare c’è Tom Morello, che si è unito al gruppo nel marzo di quest’anno, durante le date australiane, in sostituzione di Steve “Little Steven” Van Zandt. Con Bruce il rapporto è subito decollato, se è vero com’è vero che ha definito lui e la sua chitarra «la mia musa, la mia fonte di ispirazione che ha portato questo progetto a un altro livello». Ancora il Boss, nelle note di copertina: «Stavo lavorando a un disco di brani inediti tra i migliori dell’ultimo decennio quando Tom Morello, che sostituiva Steve durante le date australiane del tour, ci suggerì di aggiungere “High hopes” alla scaletta dei concerti. Quel brano, scritto da Tim Scott McConnell della band losangelina Havalinas, l’avevo inciso negli anni ’90. Durante le prove del “live” abbiamo preparato il pezzo, poi con Tom alla chitarra abbiamo davvero spaccato. A metà tournée siamo andati a reinciderlo agli Studios 301 di Sydney insieme a “Just like fire would”, brano dei Saints, uno dei primi gruppi punk australiani, peraltro uno dei miei preferiti (andatevi ad ascoltare “I’m stranded”)...». Qualche titolo del disco: “Harry's place”, “American skin (41 shots)”, “Down in the hole”, “Heaven's wall”, “Frankie fell in love”, “This is your sword”, “Hunter of invisible game”, ovviamente “High hopes”, del quale esiste un video diretto da Thom Zimny. Una curiosità. Clarence Clemons e Danny Federici, scomparsi rispettivamente nel 2011 e nel 2008, sono presenti in quelli che Springsteen definisce «alcuni dei migliori brani inediti realizzati negli ultimi dieci anni e mai pubblicati». Info www.brucespringsteen.net

OGGI A TRIESTE PRESENTO AL SAN MARCO ALBUM "VIVO" DI REMO ANZOVINO, con l'artista

Oggi alle 19, a Trieste, al Caffè San Marco, appuntamento con Remo Anzovino (nella foto) che presenterà il suo ultimo cd, “Vivo”. Dialogherà con lui il giornalista e critico musicale del "Piccolo" Carlo Muscatello. Anzovino affiderà alle inconfondibili note del suo pianoforte il compito di trasferire tutta l’immediatezza delle sue melodie, capolavori di comunicazione e immaginazione, che hanno portato tutti i quattro suoi precedenti album - Dispari, Tabù, Igloo, Viaggiatore Immobile - alla prima posizione degli album più scaricati nella classifica jazz di iTunes. Da lunedì sarà disponibile nei negozi tradizionali e in digital download “Vivo”, nuovo progetto discografico del pianista e compositore, uno speciale cofanetto con il primo live della sua carriera registrato lo scorso aprile all’auditorium Parco della musica di Roma, e il dvd dello storico “Concerto della Memoria” sulla Diga del Vajont per celebrare il 50esimo anniversario di una delle più grandi tragedie della storia italiana. Ingresso libero.

domenica 24 novembre 2013

MILES KANE

Dalla centralissima Charing Cross alla più trendy Brick Lane, nell’East End londinese ormai assurto a nuovo centro della vita giovanile della capitale britannica, il suo sguardo furbetto occhieggia dalle vetrine dei (pochi) negozi di dischi e le sue canzoni sono presenza costante nella colonna sonora della megalopoli sul Tamigi. Il suo nome è Miles Kane, è nato nel 1986, arriva dalla stessa Liverpool (anche se è nato a Birkenhead) di quei Beatles dei quali copia - o cita, se preferite - le movenze, gli abiti, persino il taglio di capelli. Insomma, la “new thing” della musica inglese profuma tanto di passato. Il giovane Kane, dopo un paio di gruppi (Little Flame e Rascals) e un precedente album solista (“Colour of the trap”, uscito nel 2011), ha finalmente messo d’accordo con “Don’t forget who you are”. I suoi singoli impazzano dappertutto, e ormai non solo in Inghilterra. Sostiene Miles: «Ho scelto questo titolo (non dimenticare chi sei - ndr) per ricordare a me stesso chi sono come persona e per farlo ricordare agli altri. Credo sia importante tenere a mente quali sono le cose importante nella propria vita». Rock’n’roll godibilissimo, con un occhio agli anni eroici e i piedi ben piantati nel presente. I temi sono quelli di sempre: emozioni e sentimenti, la gioia e il dolore, l’amore che va e che viene. E la collaborazione nel disco con Paul Weller (che firma un brano) è più che una garanzia di qualità. Ancora l’artista: «Questo è il mio secondo album solista, ma mi sento come un debuttante. Ho ricominciato a scrivere dopo tanti concerti dal vivo. Fare un disco da cantautore sarebbe stato più semplice. Ho preferito, anche da solo, cercare un’altra strada...». Miles Kane è stato protagonista anche di una sorta di progetto parallelo con Alex Turner degli Arctic Monkeys, intitolato “The last shadow puppetts” e ben accolto da pubblico e critica. Una curiosità. Per non dimenticare le proprie origini, nella copertina del disco il musicista si è fatto fotografare, con madre e zia, accanto al banco di macelleria che la sua famiglia gestisce da trent’anni a Liverpool. «Lì ho guadagnato i miei primi soldi facendo il garzone, ed è mia madre che mi ha fatto ascoltare Beatles, David Bowie, Four Tops, tutti i grandi della Motown... A casa mia girava musica fantastica».

ENCICLOPEDIA POP ROCK

La musica, dalla metà degli anni Cinquanta in poi, ha suggerito mode, capovolto comportamenti. È stata bandiera, grazie a molti brani, di lotte politiche, di battaglie civili, di poesie di protesta, di confessioni dolenti ma anche di esaltazione collettiva... Ce lo ricorda Carlo Verdone, attore regista ma anche appassionato di rock, nella prefazione del “Dizionario del pop-rock 2014”, di Enzo Gentile e Alberto Tonti (Zanichelli, pagg. 1896, euro 33), che verrà presentato domani alle 16.30, a Milano, a Palazzo Reale, in piazza Duomo, nell’ambito di “BookCity 2013”. All’incontro interverranno, oltre agli autori, i cantautori Eugenio Finardi, Dente e Marco Sbarbati. Per mole, completezza e precisione dei riferimenti, si tratta di un’opera enciclopedica: edizione rivista e ampliata rispetto a quella del ’99 pubblicata da Baldini&Castoldi. Un paio di numeri: 33mila album citati e commentati, di complessivi 2200 artisti. A coprire i quindici anni trascorsi è stato aggiunto un centinaio di nuove voci: fra queste il drappello di artisti francesi e brasiliani esclusi dalla precedente edizione. E sono aumentati gli italiani. Con un omaggio speciale, già in copertina, a quel Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti al quale il successo dell’album “Back Up” e del conseguente “Back Up Tour - Lorenzo negli stadi” ha conferito il titolo di star italiana dell’anno, con ben quattro suoi album insigniti delle cinque stelle, cioè il massimo dei voti. «Sfidando l'accusa di provincialismo - spiegano gli autori sempre nella presentazione -, abbiamo voluto dedicare la copertina a un artista che meglio rappresenta il vigore e la creatività della musica italiana contemporanea». Per il resto, opera non da leggere tutta in una volta ma piuttosto da consultare. Voce per voce, artista per artista, dal vinile all’mp3, quando se ne presenta l’occasione o la voglia. Magari cedendo al giochino del “chi c’è e chi non c’è”, o andando a confrontare i propri gusti personali con quelli esplicitati da Gentile e Tonti. Che, fra i dischi usciti negli ultimi dodici mesi, hanno nobilitato delle quattro stelle David Bowie, Deep Purple, Iggy Pop. Tre stelle per i grandi ritorni dei Black Sabbath e dei Depeche Mode. Fra gli italiani, quattro stelle a Baustelle ed Elio e le Storie Tese. Bocciatura per Renato Zero e Modà. Da questa edizione il dizionario - che esce anche in edizione digitale per Windows e Mac - avrà cadenza annuale.

venerdì 22 novembre 2013

VENDITTI 11-12 a Trieste, Rossetti

Antonello Venditti ritorna al futuro. E lo fa passando anche per Trieste, città nella quale hanno fatto tappa molti suoi tour da una quarantina d’anni a questa parte. Partiamo subito dal concerto. Appuntamento martedì 11 febbraio alle 21, al Politeama Rossetti. Terza data della tournè del cantautore romano, che comincerà il 3 febbraio a Bologna, al Teatro Europa Auditorium, farà tappa il 5 a Bergamo, e - dopo lo spettacolo triestino - toccherà il 15 febbraio Cesena, il 24 Milano al Teatro Arcimboldi, 28 Cremona, il 3 marzo Firenze, l’8 Roma (al Palalottomatica, nel giorno della Festa delle donne, ma anche nel giorno del suo sessantacinquesimo compleanno...), l’11 Napoli e il 15 Catania. Queste, almeno, le date annunciate ieri, in occasione della presentazione di “’70/’80... Ritorno al futuro”, questo nuovo progetto di “concerti-evento” nei quali l’artista ripercorrerà i suoi successi dei due decenni citati. «Ci sono momenti nella vita - dice Venditti, classe 1949 - in cui il presente diventa passato e il passato futuro. Sento che è venuto il tempo in cui la mia storia torna come speranza di non vissuto a riempire la nostra vita. Dico questo perché quaranta anni passati insieme per tutti potrebbero costituire la nostra storia, ma le canzoni che l’hanno rappresentata e che proporrò sono il nostro ritorno al futuro». Già, le canzoni. Alcune delle quali già passate direttamente alla storia della musica italiana. Classici come “Roma capoccia” e “Le cose della vita”, ”Le tue mani su di me” e “Marta”, “Sara” e “Compagno di scuola”. E ancora “Notte prima degli esami”, “Bomba o non bomba”, “Modena”, “Ci vorrebbe un amico”. Fino a “Giulio Cesare”, “Piero e Cinzia”, “In questo mondo di ladri”, “Ricordati di me”. Alcune di queste canzoni sono diventate titoli e colonne sonore di film. Stavano in album come “Theorius Campus” (debutto a quattro mani nel 1972 di Venditti e De Gregori, entrambi usciti dalla fucina del Folk Studio romano e “adottati” da quella fucina discografica che era la Rca...) e “L’orso bruno”, “Quando verrà Natale” e “Lilly”, “Ullalla” e “Sotto il segno dei pesci”, “Buona domenica” e “Sotto la pioggia”, “Cuore” e “Venditti e segreti”. «Mi piace ripartire dal passato - dice ancora Venditti, che ha appena pubblicato il disco dal vivo “Io, l’orchestra, le donne e l’amore” -, forse perché è lo stesso mondo ad andare indietro. In certi casi non è un male, perché si apprezza di più quel che di buono si è fatto e si prova a non ricadere in errori giganteschi. Porterò le mie canzoni nei più bei teatri italiani, rivisitando il repertorio di quel ventennio assieme a quattro musicisti: Alessandro Centofanti, Danilo Cherni, il jolly Alessandro Canini e Amedeo Bianchi. Mi auguro possa esserci anche Gato Barbieri, magari per una o due date...». Il concerto di Trieste è, per ora, l’unica tappa triveneta del tour. La prevendita dei biglietti comincia oggi alle 16 su www.ticketone.it

BATTIATO e ANTONY: concerto Verona diventa disco

È nelle radio da qualche giorno “Del suo veloce volo», singolo e “title track” del cd registrato dal vivo che documenta l’incontro tra Antony and the Johnsons e Franco Battiato l’estate scorsa all’Arena di Verona (un altro concerto si era tenuto a Firenze), che esce per Universal il 26 novembre. “Del suo veloce volo”, brano da cui è iniziata la collaborazione tra i due artisti (“Frankenstein” di Antony su “Fleurs 2” si era trasformata in “Del suo veloce volo”), viene proposto per la prima volta dal vivo, mettendo in mostra il meglio delle due vocalità. Due grandi sperimentatori del pop internazionale come il siciliano Battiato e lo statunitense Antony Hegarty - transgender dichiarato ed impegnato sul fronte dei diritti dei gay - degli Antony & The Johnsons hanno condiviso il palco l’estate scorsa, accompagnati dalla Filarmonica Arturo Toscanini. E ora quell’esperienza è diventata un album. Lo show, della durata di un paio d’ore, prevedeva le distinte esibizioni dei due artisti. La scintilla dell’intesa musicale tra i due artisti scoccò, ha raccontato quest’estate Battiato, «diversi anni fa quando ospitai a casa mia Antony, che era in Italia per presentare un suo disco. Ci eravamo conosciuti, tempo addietro, a un festival a Torino: lo avevo sentito cantare ed ero rimasto abbagliato dalla sua timbrica. Ha qualcosa che ti tocca in profondità, e non importa cosa sta dicendo, scatenerebbe questo effetto anche cantando l’elenco del telefono». Insomma, un “amore a primo ascolto”, contraccambiato anche da Hegarty, che ha confessato di essere stato «sedotto dalla voce di Battiato» ascoltando i suoi album: «Ma l'innamoramento vero è avvenuto quando l’ho sentito dal vivo, a Londra. Ci siamo conosciuti e trovai subito che fosse una persona di grande gentilezza». Nel disco i duetti: “You’re my sister”, la cover dei Rolling Stones “As tears go by”, il brano da cui è nata la collaborazione, “Frankenstein” di Antony che su “Fleurs 2” si era trasformata in “Del suo veloce volo”. Battiato canta con Alice “I treni di Tozeur” e “La realtà non esiste” del compianto Claudio Rocchi.

BATTIATO merc al Rossetti, Trieste, con DIWAN

Una cultura fiorita in Sicilia circa mille anni fa, quella arabo-siciliana, oggi completamente dimenticata. Ci pensa Franco Battiato a darle nuovo lustro con lo spettacolo “Diwan, l’essenza del reale”, realizzato un paio d’anni fa in occasione delle celebrazioni per il centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, e che mercoledì alle 21 arriva a Trieste, al Politeama Rossetti. Battiato, cosa significa Diwan? «Nella nostra accezione significa canzoniere, raccolta di componimenti poetici». Ci spieghi questo progetto. «L’unione di due linguaggi musicali apparentemente differenti». Come immagina la Sicilia dell’anno Mille? «Una Sicilia rinascimentale». Qual è stata la molla che ha fatto scattare il suo interesse? «Ho studiato i grandi mistici del sufismo». Quanta cultura araba c’è ancora nella Sicilia di oggi? Che influenza ha avuto su di noi? «Oggi credo che sia rimasto ben poco, ma è sempre ben conservato nel nostro patrimonio genetico». C’è un filo che lega il concerto dell’Apriti Sesamo Tour e questo spettacolo? «Solo alcune canzoni del mio repertorio». Ci spiega il progetto “Attraversando il bardo”, le riprese che sta realizzando in Nepal... «Mi è stato commissionato un documentario sulla morte, il 30 novembre parto per Katmandu per intervistare tre lama tibetani, ho già intervistato un ateo e un monaco». Il suo film su Händel? «Aspettiamo». Con Antony and the Johnsons com’è andata? Farete altre cose assieme? «Quièn sabe... (nella colonna a destra, tentiamo di sopperire all’estrema laconicità della risposta - ndr)». Ora che la sua “carriera politica” è alle spalle si sente meglio? «Sì». Se tornasse indietro direbbe di nuovo sì a Crocetta? «No». Grande artista, Battiato, anche quando risponde alle interviste. Memore dell’ammonimento del Vangelo («Il vostro parlare sia sì, si; no, no. Il di più viene dal maligno...»). E forse avviato sulle orme di John Cage, che rispose così a un intervistatore: «La sua è un’ottima domanda, mi consenta di non rovinarla con una risposta». Del resto stiamo parlando di uno che, un paio d’anni fa, rispose a Lilli Gruber a “Ottoemezzo”: «Non sono né di destra né di sinistra, sto in alto». L’anno scorso, di questi tempi, accettò a sorpresa di entrare nella giunta regionale siciliana. Finì che in una visita al parlamento europeo, a Bruxelles, a marzo, parlò di «queste troie che si trovano in parlamento, farebbero qualsiasi cosa. È una cosa inaccettabile, sarebbe meglio che aprissero un casino...». Polemiche, indignazione, richieste di dimissioni, revoca dell’incarico. Ma torniamo a noi. E allo spettacolo che arriva al Rossetti. Si diceva della cultura, della scuola poetica arabo-sicilaina che prese vita intorno all’anno Mille in Sicilia. In quasi tre secoli di attività lasciò tra i manoscritti dell’Andalusia e del Nord Africa tracce preziose di una produzione molto ricca e di un fertile intreccio di culture. L’artista siciliano, classe 1945, ha ripreso in mano un millennio dopo queste opere per riproporle in musica. Ne è venuto fuori un omaggio a una cultura dimenticata e a una lingua lontana ma che fa parte della nostra storia e delle nostre radici culturali. Con lui, sul palco, i musicisti Etta Scollo, Nabil Salameh dei Radiodervish, il tastierista Carlo Guaitoli, Gianluca Ruggeri della Pmce e Ramzi Aburedwan, fondatore degli Al Kamandjâti. Un ensemble multietnico, assieme al quale Battiato propone brani scritti per l’occasione e ripropone pezzi tradizionali nonchè nuove letture di suoi classici. Fra questi: “Haiku”, “L’ombra della luce”, “Aurora”, “Veni l’autunnu”, “Personalità empirica”, “Lode all’inviolato”...

giovedì 21 novembre 2013

QUERELLE TEDDY RENO / VEDOVA LUTTAZZI

Teddy Reno scrive a Rossana Luttazzi e lamenta: in occasione della mostra Lelioswing (già “rifiutata” da Trieste e da poco inaugurata a Roma, ai Mercati di Traiano) ti sei dimenticata di me, che pure ho avuto un ruolo determinante all’inizio della carriera del compianto Luttazzi. In quella mostra non vengo citato, c’è solo una mia foto. Non basta: anche nel cd nel quale hai coinvolto “gli amici più cari di Lelio” ti sei scordata di me, che suo amico fraterno sono sempre stato. E non basta ancora: hai scordato che un tuo collaboratore discografico (il friulano Alberto Zeppieri), auspicando una collaborazione fra noi, voleva organizzare spettacoli intitolati “Lelioswing con Teddy Reno”. Ultimo sgarbo: non mi hai nemmeno invitato all’inaugurazione. Insomma, roba grossa. A supporto della quale “el mulo Ferucio” (Teddy Merk Ricordi, in arte Teddy Reno, triestino, che a luglio ha compiuto la bella età di 87 anni) allega una lettera autografa di Luttazzi, datata “Trieste, 18 luglio 2009”, nella quale l’artista gli rinnovava sensi di ammirazione e amicizia. Concludendo con questo post scriptum: «Se vedaremo in Piaza Unità, e a casa mia (terzo pian e sei finestre sula piaza, son ’ssai contento). Ma Rossana, che da qualche settimana non vive più a Trieste, dove si era trasferita anni fa con Lelio che aveva scelto di tornare dov’era nato, a passar per smemorata e scortese non ci sta. E risponde piccata. A proposito della mostra: sei stato informato male, non è vero che c’è un’unica tua foto, ci sono molte più cose. E tante cose che scrivi («non tutte, solo le vere...») sono pubblicate nel libro/catalogo. Delle proposte di collaborazione con la Fondazione Luttazzi «non ne so nulla, non rispondo di lettere scritte da altri, rispondo solo di quelle scritte da me». Concludendo: l’invito all’inaugurazione ti è stato inviato, «anche al tuo telefonino svizzero». Finale conciliante: «Spero di vederti presto a visitare la mostra». Potremmo chiudere qui, archiviando la piccola querelle alla voce “incomprensioni fra anziano artista e vedova di altro artista”. Ma la lettura del lungo scritto di Teddy Reno alla signora Luttazzi apre interessanti squarci sulla storia, la collaborazione e l’amicizia fra due dei tre maggiori protagonisti della musica leggera italiana espressi dalla città di Trieste dal dopoguerra a oggi (il terzo, a nostro avviso, è Lorenzo “Pilade” Pilat, laddove ci sembra invece inopportuno inserire nella lista la monfalconese Elisa, solo perchè è nata al Burlo e sulla carta d’identità c’è scritto Trieste...). “El mulo Ferucio”, anzichè godere serenamente dei ricordi (e dei proventi) di una straordinaria carriera, tende spesso a lamentare mancanza di attenzione dalla città natale, dai colleghi artisti, forse dall’universo mondo. Ritiene probabilmente di aver subito dei torti, di non essere stato onorato abbastanza, ma ciò fa parte delle opinioni personali. La lettera a Rossana, dopo aver doverosamente ricordato il suo prossimo recital, intitolato “My way” (alla Sinatra, insomma...), si conclude cristianamente con la speranza di ri-lavorare con Luttazzi in paradiso. E con l’auspicio perfiduccio, rivolto alla signora, di passare «almeno una giornata di purgatorio, prima di raggiungerci in paradiso».

martedì 19 novembre 2013

TRIONFO DI PAOLO CONTE A LONDRA

Leggi di eccellenze italiane all’estero e pensi alla scienza, alla moda, al cibo. Poi una sera a Londra scopri che c’è Paolo Conte che suona alla Royal Festival Hall, nell’ambito del London Jazz Festival, vai e ti ritrovi in mezzo a tremila inglesi (vabbè, due o trecento italiani c’erano...) letteralmente in delirio per l’avvocato chansonnier astigiano. Presentato dal Guardian come un mix fra Tom Waits e George Brassens. E dall’Observer come “maestro di un’eleganza perduta”. Del resto, il suo successo all’estero non fa più notizia. A Parigi (dove ha tenuto due concerti dieci giorni fa) è di casa all’Olympia, miete consensi a New York e Berlino, a Montreal e Amsterdam, a Madrid e Atene. A Londra mancava da quattro anni, dal trionfale concerto al Barbican Theatre. Lui, settantasette anni a gennaio, si presenta con la tradizionale band: dieci musicisti-amici che lo seguono da anni, autentici mostri di bravura. Lascia a loro l’apertura. I tre chitarristi e il monumentale contrabbassista nero Jino Touche, francese delle Mauritius, cominciano a macinare ritmi. Si aggiungono gli altri. Due minuti sono sufficienti per riscaldare l’atmosfera. Arriva il maestro, total black, giusto un cenno di saluto (nel corso del concerto non dirà parola, solo i nomi dei musicisti...), attacca in piedi con “Quanta passione”. Ma stasera ha deciso di vincere facile: siede al pianoforte e arrivano subito “Sotto le stelle del jazz”, “Come dì”, “Alle prese con una una verde milonga”, “La negra”, una trasfigurata ma sempre rutilante “Bartali” coi suoi imperdibili “ta-tà-ra-tàt”. Un recital colto e cosmopolita che è frutto del genio, della creatività, della fantasia di un italiano che da ragazzo nella sua Asti sognava l’America. Che per tanti anni ha fatto l’avvocato masticando ogni sera jazz in jam session carbonare. Che all’inizio della carriera non osava cantare le sue canzoni e le affidava ad altri (“Azzurro” a Celentano, “Insieme a te non ci sto più” alla Caselli, “Tripoli 69” a Patty Pravo...). E che poi ha saputo farsi apprezzare in mezzo mondo con “quella faccia un po’ così”, quella voce roca e macerata intenta a scandagliare i segreti delle nostre vite, delle nostre solitudini, del nostro mal di vivere. E con uno show in bilico fra Cotton Club e vecchia Europa, New Orleans e Langhe, Duke Ellington e Guido Gozzano, afrori esotici e lampi di passione. Ma non divaghiamo. Per “Paso doble” Conte si sposta dal piano allo xilofono, sua giovanile passione. Tira fuori il kazoo, sua passione di sempre, e dimostra come anche le pernacchie sputacchiate in una trombetta, se fatte nel modo giusto, possano diventare arte. È arrivato il momento dell’artiglieria: “Gioco d’azzardo” (“si trattava di amore, e non sai quanto...”), “Dancing”, “Impermeabili”, una “Madeleine” punteggiata dal fagotto, l’irrinunciabile “Via con me”. Ovazioni a scena aperta. “Diavolo rosso” offre il destro a un’autentica gara di bravura fra i musicisti: il clarinetto dalle coloriture quasi yiddish, una fisarmonica che viaggia a mille, il violino che non ci sta a restare indietro. Da “Nelson”, album del 2010, estrae “Massaggiatrice”. Prima della standing ovation finale concludono il set “Max” e “L’orchestrina”. Uscendo, fra giostre e baracchette sulla riva del Tamigi, torna il ricordo sbiadito del suo primo concerto triestino. Sarà stato il marzo 1980. All’epoca per lui bastava un allora scalcagnato Ridotto del “Verdi”. Altri tempi.

mercoledì 13 novembre 2013

MARTA SUI TUBI ven a Trieste, teatro Miela

Dieci anni sulla scena off, fra gli alternativi “duri e puri”, poi un giorno vai a Sanremo e la tua storia cambia. È quanto successo al gruppo Marta sui Tubi, il cui tour arriva venerdì alle 21.30 a Trieste, per un concerto al Teatro Miela. «Questo per noi è stato davvero un anno speciale - conferma Giovanni Gulino, cantante nella band, classe 1971 -, per la partecipazione al Festival ma non solo per quello. L’album “Cinque, la luna e le spine” è andato molto bene. Il Concertone del Primo maggio e il tour, che non è ancora finito, anche meglio...». Ma come siete finiti a Sanremo? «Perchè a un certo punto ci siamo trovati davanti a un bivio. Dopo dieci anni di carriera, quello era l’unico modo per intercettare un pubblico diverso e più ampio. È inutile far finta: ogni artista vuol essere conosciuto da un pubblico più ampio possibile. Altrimenti non ti lamenti e resti nelle cantine. O sotto i portici di Bologna, dove suonavamo io e Carmelo Pipitone all’inizio». Racconti. «Entrambi originari di Marsala, come tanti meridionali eravamo a Bologna per studiare. La sera suonavamo in centro, sotto i portici, nei dintorni di piazza Maggiore. Chitarre e voci. Pezzi di Jeff Buckley, Radiohead, Piero Ciampi. A volte qualche canzone nostra». Poi, una sera... «Dopo che per mesi avevamo suonato gratis, o al massimo per una birra pagata nel pub più vicino, si avvicina un tipo che ci chiede se volevamo suonare nel suo locale. D’accordo, gli diciamo senza nemmeno pensarci su». E che succede? «Innanzitutto che il tipo ci chiede come ci chiamiamo. Ovviamente il duo non aveva un nome, eravamo semplicemente Giovanni e Carmelo. Che però per cominciare una carriera non ci sembrava il massimo. Dunque ci siamo inventati questo “Marta sui Tubi”: doveva essere un nome provvisorio, ma ci ha portato fortuna e lo abbiamo mantenuto, anche quando la band si è allargata ed è arrivato il primo contratto discografico. E poi tutto il resto». Torniamo a Sanremo 2013. «Sì, per noi è il paradigma di come dovrebbero andare le cose. Abbiamo mandato il “file” con due canzoni, seguendo le istruzioni lette sul sito. A Fazio sono piaciute, ci ha chiamato, siamo andati e stop». I vostri fan erano spiazzati? «Non credo. Nel bene e nel male Sanremo è la cosa più grossa che puoi fare in Italia nel campo della musica. Avevamo l’esigenza di allargare la nostra platea. Diffidiamo dagli artisti duri e puri. Proprio non volevamo “morire di nicchia”...». Le cose sono cambiate? «Assolutamente sì. In dieci anni di carriera, nonostante le collaborazioni importanti, anche con Lucio Dalla ed Enrico Ruggeri, praticamente non avevamo fatto tivù. E non passavamo nei grandi network radiofonici. Solo circuiti indipendenti e più o meno alternativi. Dopo il Festival il nostro pubblico si è allargato, il tour è andato e sta ancora andando molto bene». Insomma, vi state togliendo delle soddisfazioni. «Siamo convinti che alcune nostre canzoni, alcuni nostri dischi avrebbero meritato maggior fortuna. Avere un pubblico ristretto era un po’ il nostro cruccio. Siamo felici di averlo allargato senza tradire noi stessi. Per andare a Sanremo, infatti, non abbiamo proposto canzoni diverse dalle nostre solite». Come “Dispari”. «Sì, quella che non è passata. Peccato, perchè tenevamo molto a quella riflessione: il computer che ti mette in relazione col mondo, ma in fondo ti lascia solo. Si parlava di più quando la comunicazione non era virtuale...».

domenica 10 novembre 2013

BOB DYLAN ven 8 a padova

Tre concerti nello scorso fine settimana a Milano, al Teatro degli Arcimboldi. Poi due serate a Roma, all’Atlantico Live. E stasera alle 21, unica tappa nel Triveneto, al Gran Teatro Geox di Padova. Poi Bruxelles, Parigi, Lussemburgo, Glasgow, Londra... Della serie: Bob Dylan (settantadue anni il 24 maggio scorso) non molla un colpo. Il suo “Never ending tour” (nome coniato dal giornalista Adrian Deevoy in un’intervista al magazine “Q” del dicembre ’89) va avanti, con poche pause, giusto per tirare il fiato, dal 7 giugno 1988. È dunque un quarto di secolo, che Robert Allen Zimmerman - il suo nome alla nascita - gira il mondo, suona anche in città piccole, giocando a stravolgere i suoi classici fino a renderli a volte quasi irriconoscibili all’ascoltatore meno esperto. Potrebbe attendere il Premio Nobel - che prima o poi, speriamo, arriverà - godendo dei frutti di una carriera più unica che rara, mezzo secolo sempre ai vertici, una delle figure più importanti della cultura e della musica del Novecento. Potrebbe fare un disco ogni tanto, qualche concerto ogni tanto, invece sembra ancora mosso dall’urgenza di andare, fare, suonare e cantare. Come quando aveva vent’anni, nei localini del Greenwich Village. Nei concerti di Milano e Roma, con una band di cinque elementi (due chitarre, basso, batteria e chitarra “slide”), il menestrello di Duluth ha proposto al pubblico una scaletta molto simile a quella delle tappe precedenti del tour, che aveva già toccato l’Italia quest’estate. Una curiosità: in questi concerti l’artista si alterna tra microfono a centro palco e pianoforte, “snobbando” la chitarra. In scaletta, molto spazio agli ultimi dischi pubblicati, a cominciare dagli album “Tempest” - con le sue “I pay in blood” e “Dusquesne whistle” -, “Time out of mind” e l’inarrivabile “Modern times”. Dal passato più o meno remoto, oltre a “Desolation row” (stava in “Highway 61 revisited”) e “She belongs to me” (da “Bringing it all back home”), entrambe del ’65, arrivano anche perle come “Tangled up in blue” e “Simple twist of fate”. Info www.zedlive.com - www.dalessandroegalli.com

giovedì 7 novembre 2013

ALL FRONTIERS 2013

Un omaggio a Lou Reed che non c’è più. Un tributo a John Zorn che compie sessant’anni. Ma soprattutto il concerto della chitarrista milanese Alessandra Novaga, che incrocerà le musiche del primo e quelle del secondo. La performance dello statunitense Charlemagne Palestine. Quella del musicista elettronico finlandese Vladislav Delay. Un focus e una tavola rotonda sul musicista goriziano di nascita Fausto Romitelli. Tanto altro. Sotto la regia accorta e appassionata di Tullio Angelini ha ormai preso forma l’edizione 2013 di All frontiers, il cui viaggio sulle rotte della musica contemporanea internazionale si terrà dal 28 novembre al primo dicembre a Gradisca. «Le difficoltà soprattutto economiche sono sempre maggiori - sottolinea Angelini -, ma la nostra voglia di continuare il viaggio non è ancora sopita. Quest’anno non possiamo non ricordare il grande Lou Reed, e con lui Nico. Molti anni fa, nel 1987, quando organizzammo in regione il suo concerto, fu lei stessa a propormi di allestire un nuovo festival da chiamare All Frontiers, offrendosi come protagonista per la prima edizione. Poi non è riuscita a tornare, ma la sua intuizione è stata determinante per concepire un festival che attraversa gli spazi, le idee e i suoni in direzione non parallela al margine: in un modo obliquo che intrattiene un pubblico di appassionati, non promette alcuna riuscita ma stimola la deriva e promuove chi ha elementi da indagare». Ma torniamo al menù di quest’anno. Dopo un’anteprima giovedì 28 al Visionario di Udine, da venerdì 29 si torna nella “culla” di Gradisca con la performance di Charlemagne Palestine, compositore, artista e scultore statunitense. Un contaminatore per eccellenza, che sarà in scena con il chitarrista e trombettista Rhys Chatham. Sabato 30 giornata dedicata al compositore goriziano di nascita, anche se milanese per formazione e carriera, Fausto Romitelli. Alle 15 tavola rotonda nella sala consiliare del Comune di Gradisca, con la partecipazione di studiosi e musicologi come Alessandro Arbo, Enrico Girardi, Paolo Pachini, Marco Maria Tosolini, Stefano Lombardi Vallauri, Isabella Vasilotta e Silvia Vizzardelli. A seguire verranno eseguite musiche di “Trash Tv Trance” (Romitelli), “Foliage” (Elliot Sharp), “Erosive Raindrops” (Vittorio Zago). Sempre sabato 30 novembre e sempre a Gradisca, concerto del finlandese Vladislav Delay. Classe 1976, vero nome Sasu Ripatti, è un apprezzato musicista elettronico che nell’ultimo decennio ha saputo ritagliarsi un ruolo di primo piano nella scena elettronica europea. “Vantaa” è il suo ultimo lavoro, nel quale ha confermato la ricetta che gli ha portato fortuna: una musica senza frontiere, che spazia dall’house alla techno, dal jazz all’improvvisazione più libera. Siamo a domenica primo dicembre, con la “festa di compleanno” organizzata per John Zorn, molto legato alle nostre terre per concerti, frequentazioni e la sua incisione-omaggio alla musica resiana di alcu ni anni fa. Protagonista della serata la chitarrista milanese Alessandra Novaga, che suonerà musiche di Zorn con alcune “sorprese” in memoria di Lou Reed. L’edizione di “All Frontiers” di quest’anno, in perfetta continuità con le passate edizioni, brillerà complessivamente della presenza di trenta musicisti, con due prime mondiali - segnala con orgoglio Angelini -, sette prime regionali, dieci concerti in esclusiva nazionale e ben otto Paesi rappresentati: oltre all’Italia, Austria, Francia, Ungheria, Inghilterra, Finlandia, Svezia e Argentina.

mercoledì 6 novembre 2013

SENZA PAURA, nuovo disco di GIORGIA

GIORGIA “SENZA PAURA” (Sony) È una delle migliori interpreti italiane. Finora non ha ottenuto quel che avrebbe meritato. Forse per colpa di un repertorio non sempre all’altezza. Ora Giorgia (Todrani, classe ’71) torna con un nuovo album, anticipato dal singolo “Quando una stella muore”. Lavoro di concezione e impianto internazionali, registrato negli storici Sunset Studios di Los Angeles, con musicisti del calibro di Gary Novak, Reggie Hamilton, Michael Landau, e duetti con Alicia Keys (“I will pray - Pregherò”) e con Olly Murs, nuovo idolo del soul pop. C’è anche un brano scritto da Ivano Fossati. E in questi casi, si sa, tutto aiuta... «Rispetto al precedente “Dietro le apparenze” - spiega la cantante romana, che ha scritto buona parte dei testi - volevamo fare un passo ulteriore, senza abbandonare le incursioni nell’elettronica dance ma sviluppando un discorso più ampio, con l’obiettivo di dare al disco un sound complessivo omogeneo». Missione riuscita, verrebbe da dire. Ora vedremo come reagirà il pubblico.

GLAMOUR, IL NUOVO DISCO DEI CANI

Difficile orientarsi, nel marasma della musica italiana. Sempre più divisa fra vecchie star che spesso vivono di rendita e nuovi progetti, personaggi, artisti, gruppi troppo spesso evanescenti. Da una botta e via, se va bene e se ci è concesso l’ardire. Fra quelli che si salvano (con Baustelle, Vasco Brondi, pochissimi altri), da un paio d’anni ci sono i Cani. Nell’estate 2001 incuriosirono e sorpresero le orecchie più attente e le intelligenze meno cloroformizzate con un esordio col botto: s’intitolava «Il sorprendente album d'esordio dei Cani». Fra “pariolini di diciott’anni” e “pranzi di Santo Stefano”, sullo sfondo di un “theme from the cameretta”, rigorosamente a “Roma nord”, scoprimmo che non si trattava di un gruppo ma di una sorta di “one man band”, costruita attorno all’eclettica figura dell’allora venticinquenne romano Niccolò Contessa. Che comunque dal vivo, due anni fa di questi tempi anche a Trieste, si faceva accompagnare da un gruppo vero e proprio. E nei primi tempi si presentava mascherato con un sacchetto di carta in testa, un po’ alla maniera dei Tre allegri ragazzi morti. Sono passati due anni, e quel che allora sembrava quasi impossibile («Questo disco è talmente particolare che è difficile immaginarsi altre trecento canzoni fatte così. Meglio, non mi interesserebbe neanche farle...», disse Contessi due anni fa proprio al nostro giornale), è diventato realtà. “Glamour” (42records) è il secondo album dei Cani. Dodici brani nuovi (compresa la ghost track finale, dal titolo “2033”) che intanto mettono a tacere alcune critiche all’album di esordio, cioè che i brani fossero un po’ tutti simili, quasi con un marchio di fabbrica. Ora, con la collaborazione in studio di Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax, Contessi riprende solo in parte le suggestioni del disco precedente e preferisce - saggiamente - guardare al futuro. “Corso Trieste”, “Storia di un artista” e “Non c’è niente di twee” fanno parte del gruppo, diciamo così, riconoscibile. “Roma Sud” e “Theme from Koh Samui” sono invece due brani strumentali: esperimenti sonori che aprono praterie alla creatività. “Storia di un impiegato”, che cita esplicitamente Fabrizio De Andrè, sta in mezzo. E affonda il pedale nell’autoironia: «Considerato che non sono un artista, e con le velleità non ci si vive, mi ritrovai con un lavoro vero, uno di quello proprio senza glamour». Fare un secondo album sulla falsariga del debutto, per i Cani, sarebbe stata cosa semplice e forse remunerativa. Qui invece c’è il coraggio di andare avanti, se necessario rischiare, azzardare in definitiva uno scenario almeno in parte nuovo. E di questo la musica italiana ha bisogno come l’aria.

MARCO MENGONI stasera anteprima al cinema, anche trieste e friuli

Con l’Essenziale Tour Marco Mengoni è stato uno dei protagonisti dell’estate trascorsa. Trenta tappe, una anche a Trieste, ovunque fan in delirio a consacrare questa nuova star della canzone italiana, partita da un “X Factor” di qualche anno fa. Ora il venticinquenne cantante laziale - vincitore del Sanremo 2013 proprio con il brano “L’essenziale”, che gli è valso anche un dignitoso settimo posto all’Eurofestival - ritorna con un evento in contemporanea nei cinema italiani (a Trieste a The Space delle Torri, a Udine al multiplex di Pradamano), che stasera riunirà molte migliaia di spettatori, lontani fisicamente ma uniti dalle nuove tecnologie nel tributo al loro idolo. L’anteprima del fil-concerto #prontoacorrereilviaggio racconta infatti una stagione di grandi successi, a partire dal concerto al Teatro Antico di Taormina lo scorso agosto. Uno scenario unico al mondo, a fare da fondale alle suggestioni disegnate dalla voce di Mengoni, che nel concerto propone i brani del nuovo album #prontoacorrere (registrato fra Milano e Los Angeles, 90mila copie vendute finora) e gli altri suoi successi. Gli spettatori potranno porre domande all’artista utilizzando l’hashtag #marcomengoniilviaggio, via Twitter e Facebook. «La prima parte del concerto – avverte Mengoni – serve per scaldare i muscoli, la seconda per ballare. È uno spettacolo più europeo dei miei precedenti, ciò dipende anche dalla nuova squadra che mi circonda e che ha contribuito alle mie scelte. Stavolta provo anche a imbracciare una chitarra, pur non avendola mai suonata in passato e avendo interrotto le lezioni che avevo provato a seguire...». Quindi all’inizio brani più intimisti, come “Prontoacorrere”, “Evitiamoci”, “Bellissimo”, “Non passerai”. Poi le cose più ritmate. Sul palco, con Mengoni, sei musicisti: Luca Colombo, direttore musicale, che ha arrangiato tutte le parti musicali; Gianluca Ballarin al piano tastiere e alle programmazioni, Giovanni Pallotti al basso, Andrea Pollione all’organo e alle tastiere, Peter Cornacchia alla chitarra, Davide Sollazzi alla batteria.

RAPHAEL GUALAZZI stasera a trieste, rossetti

«È successo tutto così in fretta che a volte non me ne rendo ancora conto. A febbraio saranno tre anni dalla mia vittoria a Sanremo Giovani, poi l’Eurofestival, i dischi, i tour, di nuovo Sanremo quest’anno...». Raphael Gualazzi stasera alle 21 porta il suo nuovo spettacolo al Rossetti di Trieste. L’Happy Mistake Tour - dal titolo dell’ultimo album - è cominciato a febbraio, subito dopo il Festival, e non è ancora terminato. Anzi... «Quest’estate - spiega l’artista, nato a Urbino, classe ’81 - abbiamo fatto molte tappe in Europa. Francia, Svizzera, Spagna, oltre ovviamente all’Italia. A ottobre eravano a Londra, il 29 novembre saremo al Montecarlo Jazz Festival. E nell’anno nuovo Germania, Austria, ancora Svizzera...». All’estero il pubblico come la accoglie? «Sempre con molto affetto. Anche perchè le radici a cui mi ispiro, cioè il jazz e il blues, al netto di tante contaminazioni, hanno come matrice comune il divertimento. Che è un elemento in grado di unire il pubblico a ogni latitudine. Soprattutto in tempi di crisi come quelli che viviamo». Lei nasce come jazzista, ha fatto studi classici e ha fatto il botto a Sanremo. «È vero, può sembrare strano. Ho studiato pianoforte al Conservatorio di Pesaro, il jazz e il blues sono sempre stati la mia grande passione. Ho fatto tanta gavetta, ma quando si è presentata l’occasione del Festival non ci ho pensato due volte: Sanremo è una grande vetrina, un’occasione unica per entrare nelle case della gente, soprattutto per un musicista agli inizi». Una scelta che le è costata compromessi? «Direi di no. Sanremo mi ha portato visibilità, opportunità di lavoro, l’attenzione del pubblico. Del resto io, pur partendo da basi classiche e dalla passione per il jazz, non ho mai posto barriere, non ho mai rifiutato la musica popolare. E poi non dimentichiamolo: lo stesso jazz nasce come musica popolare». Prima ha accennato alle contaminazioni. «Per me sono fondamentali. Fra i vari generi musicali non devono esistere barriere, tutti devono parlare, interagire con tutti. E poi, parlo per il mio caso ma sono convinto che il discorso non vale solo per me, “mischiarsi” ha un effetto benefico per tutti gli stili e anche per i vari tipi di pubblico». Lei ama rileggere brani altrui. «Assolutamente. Sono convinto che ogni brano, ogni canzone possa avere al suo interno varie sfaccettature, varie atmosfere, vari colori. Tutto sta a farli venire fuori». Cosa ascolta in questo periodo? «Molto rhythm’n’blues, in questi giorni ascolto tanto Al Green. Sugli italiani non nascondo di essere un po’ ignorantello, devo approfondire. Ma mi levo idealmente il cappello davanti al grandissimo Fabrizio De Andrè». Cosa presenta a Trieste? «Rivisito con arrangiamenti nuovi i brani di “Reality and fantasy”, il mio album d’esordio, al quale devo molto. Non posso ovviamente saltare i pezzi del disco nuovo, “Happy mistake”. Poi faremo degli omaggi strumentali alla grande musica italiana, da Verdi al tema di “Amarcord”». Niente blues? «Ma sta scherzando...? Ho la fortuna di suonare con un’orchestra di nove musicisti, compresa una bella sezione di fiati. Con la quale i classici del blues vengono che è una bellezza». A Sanremo ci torna? «Non lo so, per ora non ho il brano giusto. E quello è un palco che merita di essere calcato solo se hai il brano giusto...».

lunedì 4 novembre 2013

MARCO CAVALLO IN TOUR DAL 12-11

Gli avevano dato un nome da uomo, perchè quel cavallo addetto a trascinare il carretto della biancheria sporca era per loro un animale domestico, forse un amico, certo un conforto dentro le brutture del manicomio di San Giovanni, a Trieste, prima che Franco Basaglia portasse a compimento la sua rivoluzione. Alla vigilia del pensionamento, che significava mattatoio, Marco Cavallo diventa un grande animale di cartapesta blu e il 25 febbraio del ’73 viene fatto uscire dal comprensorio dell’Opp, viene portato in giro per le strade di una città che non capiva da un festoso corteo di “matti”, medici, infermieri, volontari. Da quarant’anni, dopo aver impersonato la battaglia per la chiusura dei manicomi, è la rappresentazione stessa della psichiatria dal volto umano. Di più: è un simbolo della lotta per la libertà, per la dignità delle persone. Di tutte le persone. Ora per il cavallo azzurro è tornato il tempo di partire. Dopo aver ispirato spettacoli, testi, poesie, favole, “Le grand cheval bleu” va in tournèe. Parte il 12 novembre, ovviamente da casa sua, dal grande parco di San Giovanni sempre più restituto alla città e alla sua popolazione. Toccherà sedici città italiane, entrerà nei sei Ospedali psichiatrici giudiziari che ancora esistono sul territorio nazionale. Nei quasi 3500 chilometri del viaggio, sarà accompagnato ovviamente da Peppe Dell’Acqua, già direttore del Dipartimento di salute mentale triestino, uno degli eredi diretti di Franco Basaglia, che della chiusura dei manicomi fece la sua ragione di vita. «In questi anni - dice lo psichiatra - Marco Cavallo non ha mai smesso di viaggiare. Ora riparte con tre obiettivi: chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari, dire no ai manicomi/ospedali psichiatrici giudiziari regionali, aprire i centri di salute mentale ventiquattr’ore su ventiquattro». Entriamo nel dettaglio. «Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono ancora in funzione, con oltre mille persone internate, rinchiuse in luoghi che Napolitano ha definito “indegni per un Paese appena civile”. Per portare all’attenzione di cittadini e istituzioni questa situazione il comitato stopOpg, con il coinvolgimento delle associazioni che lo compongono e di quelle delle città toccate, ha chiesto a Marco Cavallo di riprendere il suo viaggio. Il cavallo azzurro, che nel ’73 a Trieste ruppe i muri del manicomio dando il via all’inarrestabile processo di cambiamento e alla legge 180, toccherà le città sedi di Opg e alcune di quelle che potrebbero diventare sedi dei cosiddetti “mini Opg”». Ancora Dell’Acqua: «È dunque un viaggio di denuncia, ma con esso si vuole lanciare anche un allarme: al posto degli Opg si stanno progettando delle “strutture speciali” in ogni regione (i mini Opg, appunto), in cui trasferire e rinchiudere di nuovo gli internati. Con il rischio si aprano, al posto dei vecchi manicomi giudiziari, nuovi piccoli manicomi regionali. La mancata chiusura degli Opg è anche lo specchio di come funzionano (o non funzionano) i servizi di salute mentale nel territorio». E arriviamo al terzo fronte. «Ecco perché chiediamo l’apertura dei Centri di salute mentale ventiquatt’ore su ventiquattro. Chiudere gli Opg significa promuovere accoglienza e cura per le persone che vivono l’esperienza, come ha stabilito la legge 180, e come è successo dove i servizi di salute mentale sono visibili, attraversabili e vicini. Con Centri di salute mentale accoglienti, aperti giorno e notte, integrati con i servizi territoriali, con la progettazione di forme abitative sostenute, di formazione al lavoro e di inclusione lavorativa e sociale, capaci concretamente di “prendersi carico” delle persone e dei loro familiari». Per questo il cavallo è di nuovo in viaggio: per chiudere gli Opg, scongiurarne l’apertura di nuovi, tornare allo “spirito originale” della 180 che, chiudendo i manicomi, puntava a restituire dignità e cittadinanza a tutte le persone. Il viaggio, come detto, parte martedì 12 novembre da Trieste: prima il saluto delle autorità, degli operatori e delle associazioni nel Parco San Giovanni, poi l’evento in piazza Unità, con i bambini delle scuole e la presidente della Regione Fvg, Debora Serracchiani. Prima tappa Torino il 13, seconda Genova il 14, poi Livorno, la nave fino a Palermo, Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Roma (con passaggio al Quirinale e davanti a Camera e Senato), L’Aquila, Montelupo Fiorentino, Firenze, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Milano... Il viaggio incontrerà presenze del mondo politico, del teatro, della musica, del cinema, del giornalismo. Da Fabrizio Gifuni (il Basaglia della fiction televisiva) a Gino Paoli (che a San Giovanni ha cantato prima e dopo la chiusura del manicomio), da Lella Costa a Sonia Bergamasco, dai gruppi teatrali legati alle esperienze attorno alla salute mentale a Massimo Cirri (che aprirà una finestra sul viaggio nella trasmissione “Caterpillar” di RadioDue), da Ida di Benedetto a Giuliano Scabia. «Mi piace pensare - prosegue Dell’Acqua - che il futuro sia Marco Cavallo, questo viaggio, riflettere sulla storia che abbiamo alle spalle per andare avanti. Malgrado tutto. Che significa anche i pregiudizi, gli attacchi che sono stati fatti negli anni alla 180, l’usuale ed erronea triangolazione malattia mentale, pericolosità e istituzione, gli ambienti accademici che non hanno cambiato nulla nei loro percorsi di formazione, le psichiatrie che si sono rigenerate e riprodotte, le scelte di campo che la cultura e la politica avrebbero dovuto fare ma non hanno fatto, l’oppressione e il dominio delle industrie farmaceutiche...». Perchè le persone con problemi di salute mentale non hanno bisogno di luoghi dove stare, se non casa propria, nei luoghi dove la libertà di sé possa essere arricchita dai servizi, dall’aiuto degli altri: gruppi, famiglie, associazioni. «Il futuro - conclude lo psichiatra salernitano, triestino ormai da tanti anni d’adozione - è una porta aperta, che non significa creare un fuori e negare un dentro, quanto piuttosto posizionarsi sulla soglia. Abitare la soglia può essere il tema del futuro. Non possiamo più immaginare il malato di mente come altro da noi, dobbiamo mettere tra parentesi la malattia, solo così siamo in grado di scoprire persone, cittadini, storie. Questo è il significato della metafora della porta aperta, in una dimensione che è politica, etica e terapeutica: è nell’incontro con l’altro sulla soglia che nasce la possibilità di cura».