martedì 19 novembre 2013

TRIONFO DI PAOLO CONTE A LONDRA

Leggi di eccellenze italiane all’estero e pensi alla scienza, alla moda, al cibo. Poi una sera a Londra scopri che c’è Paolo Conte che suona alla Royal Festival Hall, nell’ambito del London Jazz Festival, vai e ti ritrovi in mezzo a tremila inglesi (vabbè, due o trecento italiani c’erano...) letteralmente in delirio per l’avvocato chansonnier astigiano. Presentato dal Guardian come un mix fra Tom Waits e George Brassens. E dall’Observer come “maestro di un’eleganza perduta”. Del resto, il suo successo all’estero non fa più notizia. A Parigi (dove ha tenuto due concerti dieci giorni fa) è di casa all’Olympia, miete consensi a New York e Berlino, a Montreal e Amsterdam, a Madrid e Atene. A Londra mancava da quattro anni, dal trionfale concerto al Barbican Theatre. Lui, settantasette anni a gennaio, si presenta con la tradizionale band: dieci musicisti-amici che lo seguono da anni, autentici mostri di bravura. Lascia a loro l’apertura. I tre chitarristi e il monumentale contrabbassista nero Jino Touche, francese delle Mauritius, cominciano a macinare ritmi. Si aggiungono gli altri. Due minuti sono sufficienti per riscaldare l’atmosfera. Arriva il maestro, total black, giusto un cenno di saluto (nel corso del concerto non dirà parola, solo i nomi dei musicisti...), attacca in piedi con “Quanta passione”. Ma stasera ha deciso di vincere facile: siede al pianoforte e arrivano subito “Sotto le stelle del jazz”, “Come dì”, “Alle prese con una una verde milonga”, “La negra”, una trasfigurata ma sempre rutilante “Bartali” coi suoi imperdibili “ta-tà-ra-tàt”. Un recital colto e cosmopolita che è frutto del genio, della creatività, della fantasia di un italiano che da ragazzo nella sua Asti sognava l’America. Che per tanti anni ha fatto l’avvocato masticando ogni sera jazz in jam session carbonare. Che all’inizio della carriera non osava cantare le sue canzoni e le affidava ad altri (“Azzurro” a Celentano, “Insieme a te non ci sto più” alla Caselli, “Tripoli 69” a Patty Pravo...). E che poi ha saputo farsi apprezzare in mezzo mondo con “quella faccia un po’ così”, quella voce roca e macerata intenta a scandagliare i segreti delle nostre vite, delle nostre solitudini, del nostro mal di vivere. E con uno show in bilico fra Cotton Club e vecchia Europa, New Orleans e Langhe, Duke Ellington e Guido Gozzano, afrori esotici e lampi di passione. Ma non divaghiamo. Per “Paso doble” Conte si sposta dal piano allo xilofono, sua giovanile passione. Tira fuori il kazoo, sua passione di sempre, e dimostra come anche le pernacchie sputacchiate in una trombetta, se fatte nel modo giusto, possano diventare arte. È arrivato il momento dell’artiglieria: “Gioco d’azzardo” (“si trattava di amore, e non sai quanto...”), “Dancing”, “Impermeabili”, una “Madeleine” punteggiata dal fagotto, l’irrinunciabile “Via con me”. Ovazioni a scena aperta. “Diavolo rosso” offre il destro a un’autentica gara di bravura fra i musicisti: il clarinetto dalle coloriture quasi yiddish, una fisarmonica che viaggia a mille, il violino che non ci sta a restare indietro. Da “Nelson”, album del 2010, estrae “Massaggiatrice”. Prima della standing ovation finale concludono il set “Max” e “L’orchestrina”. Uscendo, fra giostre e baracchette sulla riva del Tamigi, torna il ricordo sbiadito del suo primo concerto triestino. Sarà stato il marzo 1980. All’epoca per lui bastava un allora scalcagnato Ridotto del “Verdi”. Altri tempi.

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