«Billie Holiday era la cantante preferita di mia madre, prim’ancora che la mia. La sua vita è stata un concentrato di sangue, sudore e lacrime. E realizzare un musical su di lei, sulla sua vita, sulla sua musica, è per me un vecchio sogno che si avvera...».
Così Amii Stewart presenta «Lady Day», il musical che stasera inaugura al Politeama Rossetti il cartellone «Musical & Grandi Eventi» (repliche fino a domenica). Un musical che la stessa cantante americana firma assieme al regista Massimo Romeo Piparo. «L’incontro con lui - spiega l’artista - è stato determinante perchè il mio vecchio sogno diventasse realtà. È lui che mi ha proposto la parte di Maria Maddalena in ”Jesus Christ Superstar”. In quell’occasione la nostra collaborazione è stata ottima. E ha aperto le porte a questo nuovo progetto a cui tenevo molto».
Il musical, dice Amii, «mi è sempre sembrato la forma più completa della fantasia applicata al mondo dello spettacolo. Ciò sin da quando frequentavo l’Accademia delle belle arti a Washington, e ogni estate, finiti i corsi di lezione, giravamo le strade con i nostri piccoli spettacoli. Ci portavamo in giro tutto, dal palcoscenico alle luci, dagli strumenti ai costumi. Lì ho cominciato la mia carriera. Prima come ballerina, poi dedicandomi al canto e alla recitazione».
E in quegli anni si consolida l’amore per Billie Holiday. «Nella mia famiglia - ricorda la cantante - c'era una sorta di culto per le sue canzoni, che mia madre mi cantava quand’ero ancora in culla. Tanti anni dopo, leggendo le autobiografie dei grandi musicisti della ”black renaissance” (Billie, ma anche Louis Armstrong, Ella Fitzgerald...), ho scoperto che quel periodo, che credevo romantico, era stato in realtà durissimo per gli artisti neri. Così ho conosciuto anche la storia di Billie Holiday, le sue sofferenze, la lotta contro le ingiustizie, il razzismo».
Tempi difficili, che hanno segnato più di una generazione. «Ai loro tempi gli artisti neri hanno avuto il coraggio di lottare contro il razzismo, contro i pregiudizi. Billie, essendo una donna, ha dovuto lottare ancor più duramente. Gli artisti neri dei nostri tempi - e io fra loro - hanno un enorme debito con lei. È anche grazie al suo coraggio che oggi possiamo avere una carriera, il successo, una vita libera. Certo, negli Stati Uniti esistono ancora enormi problemi sociali, ma la povertà colpisce sia fra i bianchi che fra i neri».
«Billie è stata un'artista straordinaria - dice Amii Stewart - e ha avuto una vita così travagliata, piena di un dolore che lei è stata capace di trasmettere nel suo canto. Le è mancato quasi tutto: l’affetto, la famiglia, i soldi, l’amore. Si può dire che aveva soltanto la musica, la sua grande musica. Nessuno, come lei, ha saputo trasmettere queste emozioni con le note. Prima che un destino difficile la portasse dal trionfo alla rovina».
Amii Stewart vive in Italia da quasi vent’anni. «Sì, anche se continuo ovviamente a essere e sentirmi profondamente afroamericana. Oltre che nel colore della pelle, anche nel modo di pensare, di cantare, nei libri che leggo, nei dischi che ascolto. E ho notato che qui da voi tutti conoscono le canzoni di Billie Holiday (alcune le ritroviamo negli spot pubblicitari e come basi per i pezzi dance), ma quasi nessuno è a conoscenza della sua storia».
Ed ecco il musical. «Con Massimo Romeo Piparo abbiamo allora deciso di scrivere un musical ispirato alla vita di quella che possiamo considerare una delle cantanti più importanti del Novecento. Lui è stato capace di dare un respiro americano a questo lavoro. Non abbiamo fatto una rivista con una carrellata della sue canzoni più belle e importanti. Abbiamo fatto di più: abbiamo voluto raccontare innanzitutto la sua storia. Ed è nato ”Lady Day”...».
«Forse storie come quella di Billie Holiday - dice ancora la cantante - esistono ancora in Africa, non credo negli Stati Uniti. Anche per questo interpretarla è per me una grande responsabilità. La sua sofferenza, la sua sensibilità, la fatica di far emergere il suo talento, tutto questo provoca in me una profonda ammirazione e una grande commozione».
«Lady Day» sarà in tournèe fino al gennaio 2004. «Poi mi aspetta un lavoro con Ennio Morricone - conclude Amii Stewart - un grande lavoro orchestrale, che mi porterà in un ambito più classico. Avrò bisogno di almeno due mesi di studio e lavoro solo per reimpostare la voce...».
...sogni e bisogni fra musica e spettacolo, cultura e politica, varie ed eventuali... (blog-archivio di articoli pubblicati + altre cose) (già su splinder da maggio 2003 a gennaio 2012, oltre 11mila visualizzazioni) (altre 86mila visualizzazioni a oggi su blogspot...) (twitter@carlomuscatello)
giovedì 30 ottobre 2003
LUCIO, DI LUCIO DALLA
«Che cosa vuoi sapere, è meglio non sapere... L’amore che mi chiedi non può finire bene... Il cielo non lo vuole, ha le nuvole in catene, non fa più uscire il sole, senza vento e senza vele...».
Con tutto il rispetto e la stima per Iskra Menarini, la brava cantante che interpreta «Amore disperato» nella «Tosca» rivisitata da Lucio Dalla che ha appena debuttato a Roma, quando il disco parte e la voce di Mina fa vivere di vita propria questi versi, beh, allora hai la riprova di un fatto che forse qualcuno col tempo ha dimenticato: ci sono le cantanti, le brave cantanti, e poi ci sono le autentiche fuoriclasse, quelle che «potrebbero cantare anche l’elenco del telefono». Mina, appunto...
Il nuovo disco di Lucio Dalla, intitolato semplicemente «Lucio», esce domani e porta in dote questo prezioso dono: risentire la voce di colei che un tempo veniva chiamata la «Tigre di Cremona» impegnata in un grande brano, «Amore disperato», che apre e chiude il disco - rispettivamente nella versione in duetto e in quella del solo Dalla -, alla stessa maniera in cui apre e chiude lo spettacolo ancora in scena al Gran Teatro di Roma, e che presto andrà in tournèe in tutta Italia. Mina aggiunge emozioni, brividi e l’innata classe di cui è capace a una canzone di grande respiro melodico, dal tema travolgente, già destinata a entrare fra i classici della produzione dalliana.
«Mina - dice Lucio - aveva già cantato la sua parte che era in un file, io avevo fatto la mia. Poi però, per il cambio di tonalità, abbiamo cantato insieme e la registrazione di quella parte è stata fatta dal vivo in studio. A proposito di Mina posso dire solo che è un'artista straordinaria, ma non esiste un altro aggettivo per definirla ed è stupefacente come la sua voce sia ancora intatta, conservi perfino delle tracce di gioventù».
Ma il disco non vive solo di questo brano. Anzi, propone altre dieci canzoni che contribuiscono a formare un affresco pulsante e vitalissimo. Canzoni che profumano di semplicità, quella semplicità - giusto per parafrasare temi e citazioni più importanti - che nella musica è sempre più «difficile a farsi».
Dopo un capolavoro annunciato come «Amore disperato», e dopo il duetto con Mina, il compito di proseguire tocca a «Le stelle nel sacco». «No, questo amore non morirà mai... Arriverà alle porte del cielo e anche più in là. Arriverà ai confini del cielo e anche più in là. E se non ci sarà posto in cielo, va bene anche l’inferno, perché quando l’amore è vero, l’amore è eterno...». Una melodia limpida per una semplice - e bella - canzone d’amore.
È il turno di «Prima dammi un bacio», il singolo che ha anticipato l’uscita del cd, dalla colonna sonora del film omonimo e opera prima del regista Ambrogio Lo Giudice: «Dio, quante volte ti ho cercata. Dio, quante volte ti ho perduta. Mi sono perso anch’io. Quanta vita che è passata...».
Dopo «Ho trovato una rosa» (versione italiana di un successo del cantautore dominicano Juan Luis Guerra) e «Per sempre, presente», che ci restituiscono il Dalla melodico e appassionato di sempre, è il turno di «Per te», ovvero del secondo brano che fa parte di «Tosca, amore disperato»: in scena è un divertente tip tap ballato e cantato in chiusura di primo tempo, qui, nel disco, è una bella canzone che brilla di luce propria, e pone anch’essa la sua candidatura a entrare fra i classici del piccolo grande genietto bolognese.
«Ambarabà Ciccicocò» è la godibilissima, immaginaria sceneggiatura di un mini-film di amore e tradimento ambientato in una Napoli visionaria, nella quale ritorna il Dalla più provocatorio e divertente.
La lieve «Putipù» e l’amarissima «Yesterday o Lady Jane?» sono le ultime due canzoni del disco. Prima di una lunga e rarefatta versione jazz, quasi impressionista, di «Over the Rainbow», l’immortale composizione di Harold Arlen (già tema del celebre film «Il mago di Oz»), con il clarino di Lucio nel ruolo che fu di Judy Garland. E prima della riproposizione di «Amore disperato», stavolta interpretata dal solo Dalla.
Un ottimo disco, registrato nello studio casalingo che Dalla ha alle Isole Tremiti, che conferma l’assoluto stato di grazia e forse anche la ritrovata ispirazione dell’artista nell’anno nel sessantesimo compleanno (4 marzo ’43, do you remember...?). Un disco in bilico fra lirica, jazz e canzone, che si propone come uno dei migliori italiani dell’anno agli sgoccioli.
Con tutto il rispetto e la stima per Iskra Menarini, la brava cantante che interpreta «Amore disperato» nella «Tosca» rivisitata da Lucio Dalla che ha appena debuttato a Roma, quando il disco parte e la voce di Mina fa vivere di vita propria questi versi, beh, allora hai la riprova di un fatto che forse qualcuno col tempo ha dimenticato: ci sono le cantanti, le brave cantanti, e poi ci sono le autentiche fuoriclasse, quelle che «potrebbero cantare anche l’elenco del telefono». Mina, appunto...
Il nuovo disco di Lucio Dalla, intitolato semplicemente «Lucio», esce domani e porta in dote questo prezioso dono: risentire la voce di colei che un tempo veniva chiamata la «Tigre di Cremona» impegnata in un grande brano, «Amore disperato», che apre e chiude il disco - rispettivamente nella versione in duetto e in quella del solo Dalla -, alla stessa maniera in cui apre e chiude lo spettacolo ancora in scena al Gran Teatro di Roma, e che presto andrà in tournèe in tutta Italia. Mina aggiunge emozioni, brividi e l’innata classe di cui è capace a una canzone di grande respiro melodico, dal tema travolgente, già destinata a entrare fra i classici della produzione dalliana.
«Mina - dice Lucio - aveva già cantato la sua parte che era in un file, io avevo fatto la mia. Poi però, per il cambio di tonalità, abbiamo cantato insieme e la registrazione di quella parte è stata fatta dal vivo in studio. A proposito di Mina posso dire solo che è un'artista straordinaria, ma non esiste un altro aggettivo per definirla ed è stupefacente come la sua voce sia ancora intatta, conservi perfino delle tracce di gioventù».
Ma il disco non vive solo di questo brano. Anzi, propone altre dieci canzoni che contribuiscono a formare un affresco pulsante e vitalissimo. Canzoni che profumano di semplicità, quella semplicità - giusto per parafrasare temi e citazioni più importanti - che nella musica è sempre più «difficile a farsi».
Dopo un capolavoro annunciato come «Amore disperato», e dopo il duetto con Mina, il compito di proseguire tocca a «Le stelle nel sacco». «No, questo amore non morirà mai... Arriverà alle porte del cielo e anche più in là. Arriverà ai confini del cielo e anche più in là. E se non ci sarà posto in cielo, va bene anche l’inferno, perché quando l’amore è vero, l’amore è eterno...». Una melodia limpida per una semplice - e bella - canzone d’amore.
È il turno di «Prima dammi un bacio», il singolo che ha anticipato l’uscita del cd, dalla colonna sonora del film omonimo e opera prima del regista Ambrogio Lo Giudice: «Dio, quante volte ti ho cercata. Dio, quante volte ti ho perduta. Mi sono perso anch’io. Quanta vita che è passata...».
Dopo «Ho trovato una rosa» (versione italiana di un successo del cantautore dominicano Juan Luis Guerra) e «Per sempre, presente», che ci restituiscono il Dalla melodico e appassionato di sempre, è il turno di «Per te», ovvero del secondo brano che fa parte di «Tosca, amore disperato»: in scena è un divertente tip tap ballato e cantato in chiusura di primo tempo, qui, nel disco, è una bella canzone che brilla di luce propria, e pone anch’essa la sua candidatura a entrare fra i classici del piccolo grande genietto bolognese.
«Ambarabà Ciccicocò» è la godibilissima, immaginaria sceneggiatura di un mini-film di amore e tradimento ambientato in una Napoli visionaria, nella quale ritorna il Dalla più provocatorio e divertente.
La lieve «Putipù» e l’amarissima «Yesterday o Lady Jane?» sono le ultime due canzoni del disco. Prima di una lunga e rarefatta versione jazz, quasi impressionista, di «Over the Rainbow», l’immortale composizione di Harold Arlen (già tema del celebre film «Il mago di Oz»), con il clarino di Lucio nel ruolo che fu di Judy Garland. E prima della riproposizione di «Amore disperato», stavolta interpretata dal solo Dalla.
Un ottimo disco, registrato nello studio casalingo che Dalla ha alle Isole Tremiti, che conferma l’assoluto stato di grazia e forse anche la ritrovata ispirazione dell’artista nell’anno nel sessantesimo compleanno (4 marzo ’43, do you remember...?). Un disco in bilico fra lirica, jazz e canzone, che si propone come uno dei migliori italiani dell’anno agli sgoccioli.
martedì 28 ottobre 2003
INTERVISTA PAOLO ROSSI
Dice che dopo Shakespeare e Molière voleva affrontare un altro
classico. La scelta è caduta stavolta su un classico contemporaneo, la
Costituzione. Un testo importante, che come succede con i classici, tutti
sanno cos'è ma pochi conoscono davvero. E allora il suo scopo è farla
conoscere, questa Costituzione che gli attuali governanti vorrebbero invece
cambiare.
Paolo Rossi è da qualche giorno a Trieste, nella città da cui mancava da
sette anni (l’ultima volta fu quando portò «Rabelais» al Rossetti: finì in
polemica con lo Stabile, che non a caso non l’ha più chiamato...). Nella
città a un tiro di schioppo dalla Monfalcone dove è nato nel ’53, sta
provando la ripresa autunnale, dopo un centinaio di repliche l’anno scorso,
del suo spettacolo «Il signor Rossi e la Costituzione». Sottotitolo:
«Adunata popolare di delirio organizzato».
Di che delirio organizzato si tratti, chi conosce - e ama - Paolo Rossi lo
sa. Ma l'adunata popolare? «L’articolo 17 della Costituzione - spiega
l’attore, che lunedì, martedì e mercoledì propone lo spettacolo al Teatro
Miela - decreta e tutela il diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi.
Siccome le armi della poesia di pasoliniana memoria non sono ancora
contemplate fra le armi improprie, si è deciso di avvalersi di questa legge
per chiamare i cittadini a trovarsi in un luogo pubblico per parlare della
Costituzione. Per conoscerla prima di vederla modificata. Per discuterla.
Magari per riscriverla. Certamente per capirla, scandagliarla, renderla
fruibile».
Con Berlusconi il suo lavoro è diventato più facile o più difficile?
«Beh, in effetti a far ridere ci pensa già lui. Diciamo che lui aiuta la mia
parte di attore comico, mentre la sinistra, oltre a farmi soffrire, mi offre
numerosi spunti per il mio lavoro di attore tragico».
I politici le portano via il lavoro?
«Viviamo in una società dello spettacolo. La nostra è diventata la
democrazia della rappresentazione, non della rappresentanza. Sì, votiamo. Ma
come si vota a Sanremo, o all’Isola dei Famosi. Da noi non è il popolo a
esser sovrano, ma il pubblico. La politica dovrebbe essere un’altra cosa:
interessarsi concretamente dei problemi della comunità. E invece...».
Politica-spettacolo anche negli Stati Uniti: prima Reagan, ora
Schwarzenegger...
«Ognuno manda al potere i propri simboli. In America c’è Hollywood, il
cinema. Ed ecco Schwarzenegger. Da noi c’è il varietà, la canzone, la
commedia dell’arte... Ed ecco Berlusconi, che cantava sulle navi da
crociera».
Temi dunque universali.
«La satira è universale. Due anni fa ho portato ”Il medico per forza” di
Moliere a Cracovia, in Polonia. Tolsi i riferimenti diretti a Berlusconi. I
giornali scrissero che era chiaro: stavamo parlando di Walesa...».
E la nostra Costituzione?
«È il libro delle regole, che io affronto da un punto di vista non
ideologico, ma del buon senso. Non cerco di fare controinformazione,
analisi, critica... Mi pongo dalla parte del comune buon senso, quello che
anima le favole: quelle di Fedro, di Andersen, quelle inventate».
La gente come reagisce?
«Il mio è un happening recitato col pubblico, non per il pubblico. Ogni sera
chiedo alla gente gli argomenti di cui si vuol parlare. Improvvisazione
pura, su un canovaccio molto semplice».
Ogni sera uno spettacolo diverso...
«Sì, anche perchè la gente è disorientata, vuole capire che cosa sta
succedendo. Dunque lo spettacolo è sempre più storia, aneddoto, favola,
lazzo... Tutti strumenti che aiutano a capire che cosa sta succedendo».
I politici danno spettacolo, i teatranti fanno politica...
«Le favole, le storie aiutano a capire. Dagli albori dell’umanità il teatro
ha sempre avuto anche questa funzione. Già uscire di casa per andare a
teatro, trovarsi in mezzo alla gente, parlare, discutere, è un fatto
positivo. Sempre meglio che guardare la televisione...».
Televisione dove i comici la fanno ormai da padrone. Anche con alcuni suoi
vecchi compagni di strada...
«Sì, c’è stata anche una polemica con alcuni di loro, che prima vorrei
chiarire con i diretti interessati. Dico solo che quando il contenitore è
più forte del contenuto, la satira evapora. In televisione. A teatro no...».
A Trieste l’avevamo lasciata fra i velluti del Rossetti, la ritroviamo in
uno spazio importante ma piccolo come il Teatro Miela...
«A parte che io alterno tranquillamente centri sociali e grandi teatri,
anche in questo caso non mi interessa riaprire polemiche stupide. Torno al
Miela perchè qui sono fra amici, fra persone che stimo. E anche per dare una
testimonianza di solidarietà al prezioso lavoro che hanno fatto in questi
anni, in una città multietnica e multiculturale come Trieste, e che ora
potrebbe essere a rischio».
Qual è la «sua» Trieste?
«La città in cui a tre o quattro anni i miei genitori mi portarono per la
prima volta in piazza Unità. Mi fece impressione questa grande piazza che si
apre sul mare. Ricordo che c’erano tante navi, tante luci... La mia famiglia
è di Monfalcone, dove sono nato e ho vissuto fino ai cinque anni, la nonna
paterna era di Fiume. Poi ci trasferimmo a Ferrara, al seguito di mio padre
che lavorava alla Solvay, e quando avevo sedici anni a Milano. Ma da ragazzo
tornavamo qui, oltre che tutte le estati, altre tre o quattro volte
all’anno. Andavo al mare a Sistiana, a Castelreggio. E giocavo a pallone,
regolarmente tesserato, in due squadre: una a Ferrara, una a Monfalcone. Ma
non c’era conflitto d’interessi...».
A settembre lei era a Cancun, in Messico...
«Sì, ho voluto partecipare alla manifestazione del forum sociale per
contestare il Wto. È stata un’esperienza forte, che mi ha colpito. Io sul
palcoscenico dò l’impressione di essere uno tosto. Ma davanti all’esercito
messicano, tipo film di Sergio Leone, ho avuto anche momenti di paura...».
E oltre alla paura?
«Davanti agli accampamenti dei campesinos, vedendo da vicino problemi reali
come quelli legati all’acqua, alla terra, alla fame vera, beh, è chiaro che
i nostri problemi di italiani e di occidentali si ridimensionano fortemente.
La delegazione italiana ai lavori parlava del prosciutto: poi è chiaro che
gli altri, davanti a noi, spesso si mettono a ridere...».
classico. La scelta è caduta stavolta su un classico contemporaneo, la
Costituzione. Un testo importante, che come succede con i classici, tutti
sanno cos'è ma pochi conoscono davvero. E allora il suo scopo è farla
conoscere, questa Costituzione che gli attuali governanti vorrebbero invece
cambiare.
Paolo Rossi è da qualche giorno a Trieste, nella città da cui mancava da
sette anni (l’ultima volta fu quando portò «Rabelais» al Rossetti: finì in
polemica con lo Stabile, che non a caso non l’ha più chiamato...). Nella
città a un tiro di schioppo dalla Monfalcone dove è nato nel ’53, sta
provando la ripresa autunnale, dopo un centinaio di repliche l’anno scorso,
del suo spettacolo «Il signor Rossi e la Costituzione». Sottotitolo:
«Adunata popolare di delirio organizzato».
Di che delirio organizzato si tratti, chi conosce - e ama - Paolo Rossi lo
sa. Ma l'adunata popolare? «L’articolo 17 della Costituzione - spiega
l’attore, che lunedì, martedì e mercoledì propone lo spettacolo al Teatro
Miela - decreta e tutela il diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi.
Siccome le armi della poesia di pasoliniana memoria non sono ancora
contemplate fra le armi improprie, si è deciso di avvalersi di questa legge
per chiamare i cittadini a trovarsi in un luogo pubblico per parlare della
Costituzione. Per conoscerla prima di vederla modificata. Per discuterla.
Magari per riscriverla. Certamente per capirla, scandagliarla, renderla
fruibile».
Con Berlusconi il suo lavoro è diventato più facile o più difficile?
«Beh, in effetti a far ridere ci pensa già lui. Diciamo che lui aiuta la mia
parte di attore comico, mentre la sinistra, oltre a farmi soffrire, mi offre
numerosi spunti per il mio lavoro di attore tragico».
I politici le portano via il lavoro?
«Viviamo in una società dello spettacolo. La nostra è diventata la
democrazia della rappresentazione, non della rappresentanza. Sì, votiamo. Ma
come si vota a Sanremo, o all’Isola dei Famosi. Da noi non è il popolo a
esser sovrano, ma il pubblico. La politica dovrebbe essere un’altra cosa:
interessarsi concretamente dei problemi della comunità. E invece...».
Politica-spettacolo anche negli Stati Uniti: prima Reagan, ora
Schwarzenegger...
«Ognuno manda al potere i propri simboli. In America c’è Hollywood, il
cinema. Ed ecco Schwarzenegger. Da noi c’è il varietà, la canzone, la
commedia dell’arte... Ed ecco Berlusconi, che cantava sulle navi da
crociera».
Temi dunque universali.
«La satira è universale. Due anni fa ho portato ”Il medico per forza” di
Moliere a Cracovia, in Polonia. Tolsi i riferimenti diretti a Berlusconi. I
giornali scrissero che era chiaro: stavamo parlando di Walesa...».
E la nostra Costituzione?
«È il libro delle regole, che io affronto da un punto di vista non
ideologico, ma del buon senso. Non cerco di fare controinformazione,
analisi, critica... Mi pongo dalla parte del comune buon senso, quello che
anima le favole: quelle di Fedro, di Andersen, quelle inventate».
La gente come reagisce?
«Il mio è un happening recitato col pubblico, non per il pubblico. Ogni sera
chiedo alla gente gli argomenti di cui si vuol parlare. Improvvisazione
pura, su un canovaccio molto semplice».
Ogni sera uno spettacolo diverso...
«Sì, anche perchè la gente è disorientata, vuole capire che cosa sta
succedendo. Dunque lo spettacolo è sempre più storia, aneddoto, favola,
lazzo... Tutti strumenti che aiutano a capire che cosa sta succedendo».
I politici danno spettacolo, i teatranti fanno politica...
«Le favole, le storie aiutano a capire. Dagli albori dell’umanità il teatro
ha sempre avuto anche questa funzione. Già uscire di casa per andare a
teatro, trovarsi in mezzo alla gente, parlare, discutere, è un fatto
positivo. Sempre meglio che guardare la televisione...».
Televisione dove i comici la fanno ormai da padrone. Anche con alcuni suoi
vecchi compagni di strada...
«Sì, c’è stata anche una polemica con alcuni di loro, che prima vorrei
chiarire con i diretti interessati. Dico solo che quando il contenitore è
più forte del contenuto, la satira evapora. In televisione. A teatro no...».
A Trieste l’avevamo lasciata fra i velluti del Rossetti, la ritroviamo in
uno spazio importante ma piccolo come il Teatro Miela...
«A parte che io alterno tranquillamente centri sociali e grandi teatri,
anche in questo caso non mi interessa riaprire polemiche stupide. Torno al
Miela perchè qui sono fra amici, fra persone che stimo. E anche per dare una
testimonianza di solidarietà al prezioso lavoro che hanno fatto in questi
anni, in una città multietnica e multiculturale come Trieste, e che ora
potrebbe essere a rischio».
Qual è la «sua» Trieste?
«La città in cui a tre o quattro anni i miei genitori mi portarono per la
prima volta in piazza Unità. Mi fece impressione questa grande piazza che si
apre sul mare. Ricordo che c’erano tante navi, tante luci... La mia famiglia
è di Monfalcone, dove sono nato e ho vissuto fino ai cinque anni, la nonna
paterna era di Fiume. Poi ci trasferimmo a Ferrara, al seguito di mio padre
che lavorava alla Solvay, e quando avevo sedici anni a Milano. Ma da ragazzo
tornavamo qui, oltre che tutte le estati, altre tre o quattro volte
all’anno. Andavo al mare a Sistiana, a Castelreggio. E giocavo a pallone,
regolarmente tesserato, in due squadre: una a Ferrara, una a Monfalcone. Ma
non c’era conflitto d’interessi...».
A settembre lei era a Cancun, in Messico...
«Sì, ho voluto partecipare alla manifestazione del forum sociale per
contestare il Wto. È stata un’esperienza forte, che mi ha colpito. Io sul
palcoscenico dò l’impressione di essere uno tosto. Ma davanti all’esercito
messicano, tipo film di Sergio Leone, ho avuto anche momenti di paura...».
E oltre alla paura?
«Davanti agli accampamenti dei campesinos, vedendo da vicino problemi reali
come quelli legati all’acqua, alla terra, alla fame vera, beh, è chiaro che
i nostri problemi di italiani e di occidentali si ridimensionano fortemente.
La delegazione italiana ai lavori parlava del prosciutto: poi è chiaro che
gli altri, davanti a noi, spesso si mettono a ridere...».
giovedì 23 ottobre 2003
TOSCA DI LUCIO DALLA
Non è un’opera, non è un musical, non è un melodramma, non è un balletto, non è un varietà televisivo. Ma pesca in tutti questi settori, con un furore multimediale che ben si addice a questi tempi spettacolarmente - e non solo spettacolarmente - confusi.
La nuova «Tosca» scritta, musicata e allestita da quel genietto curioso e irriverente di Lucio Dalla debutta stasera al Gran Teatro di Roma (megatendone da 3200 posti che David Zard, produttore dello spettacolo assieme a Ferdinando Pinto, ha tirato su in viale di Tor di Quinto quando doveva mettere in scena «Notre Dame de Paris»). Debutta centotre anni dopo la prima rappresentazione - per gli storici: sempre a Roma, a Teatro Costanzi - dell’opera di Giacomo Puccini che a sua volta era tratta dal dramma omonimo di Victorian Sardou. Debutta con il titolo «Tosca, amore disperato».
Dalla ha mantenuto solo la storia della bella Tosca (la ventiquattrenne siciliana Rosalia Misseri, già Esmeralda nel secondo cast di «Notre Dame») che nella Roma papalina della restaurazione post napoleonica ama il pittore liberale Cavaradossi (Graziano Galatone, un passato a Sanremo Giovani del ’93), che si caccia nei guai nascondendo il rivoluzionario Angelotti (Attilio Fontana, già con i Ragazzi Italiani). Della ragazza si innamora il capo della polizia, il perfido barone Scarpia (Vittorio Matteucci, il Frollo di «Notre Dame»), che cattura e condanna a morte il pittore, ma promette di liberarlo se lei gli dirà di sì. Tosca lo uccide, scappa a Castel Sant’Angelo, dove il suo uomo dovrebbe essere fucilato a salve. Ma le pallottole sono vere, Cavaradossi muore, ma muore anche Tosca.
Per quest’eterna storia di amore e di morte il sessantenne artista bolognese ha riscritto ex novo testi e musiche. Con un cast di trenta elementi (senza Sabrina Ferilli, Franco Califano e Max Gazzè, le star annunciate originariamente), con le coreografie di Daniel Ezralow e i costumi di Giorgio Armani, Dalla non si è fatto mancare assolutamente nulla. Effetti speciali fantasmagorici, diavolerie tecnologiche, tentazioni cinematografiche, trovate quasi circensi, immagini multimediali. «Matrix» ambientato al luna park, fra sipari argentati in stile Las Vegas, sullo sfondo di San Pietro. Per un costo di quattro milioni di euro che ora bisogna ammortizzare.
«Siamo in un territorio - spiegava Dalla l’altra sera, prima che cominciasse l’anteprima - dove il melodramma non è mai stato. Ho puntato ancora una volta sulla commistione di linguaggi, che è la cosa che più mi intriga, scegliendo soluzioni inedite per il melodramma ma anche per il musical. È un’opera strana, ma è comunque un’opera. Ha il turbinio dei sentimenti, fra personaggi doppi e tripli. È una Tosca fatta correndo, ma non per questo cialtrona. È una Tosca facilissima, ma prende strade che io stesso non ho ancora capito. Per me comunque è già conclusa, e a me non piacciono le cose finite, perchè poi te ne distacchi...».
Il musicista tiene a precisare che si tratta ancora di un work in progress. In effetti il primo tempo mostra ancora alcune farraginosità e alcuni passaggi meriterebbero una generosa messa a punto. La seconda parte scorre meglio, anche grazie a numerose e importanti aperture melodiche. Il collante che tiene assieme la baracca sono infatti alcune grandi canzoni. E non poteva essere altrimenti, visto che abbiamo a che fare con Dalla. Soprattutto «Amore disperato» (cantata a teatro da Iskra Menarini, la veggente Sidonia, all’inizio e alla fine) e «Per te» (un gustosissimo tip tap in chiusura di primo tempo) sono destinate a entrare fra i classici dalliani. E saranno comprese nel nuovo disco del cantautore, in uscita nei prossimi giorni, fra l’altro con un attesissimo duetto nientemeno che con Mina.
«Puccini si sarebbe vergognato di una Tosca così - ammette Dalla - ma forse si sarebbe divertito. La mia è un'opera moderna, multimediale, diversa dall'originale pucciniano. Non temo il confronto con lui, non mi sembra proprio il caso. La sua è l'opera più bella mai scritta nel melodramma. Mi sono messo a disposizione di Puccini per spiegare la sua opera oggi, a un pubblico diverso e con mezzi espressivi diversi».
Il pubblico, sulla scia del trionfo riservato a «Notre Dame de Paris», sicuramente gradirà. Come ha gradito nell’anteprima dell’altra sera. Fra torture rap, guardie pontificie in tutine a strisce, patrioti della Roma papalina che volano appesi a delle funi, preti e suore in desabillé... E tutto ciò che la fantasia visionaria di Lucio Dalla ha immaginato per questa sua «Tosca» così vicina alla sensibilità e al gusto contemporaneo.
Un’opera pop, un musical cinematografico di grande impatto visivo, con cadenze e tempi quasi televisivi. Un magma incandescente di suoni, colori, sentimenti.
La nuova «Tosca» scritta, musicata e allestita da quel genietto curioso e irriverente di Lucio Dalla debutta stasera al Gran Teatro di Roma (megatendone da 3200 posti che David Zard, produttore dello spettacolo assieme a Ferdinando Pinto, ha tirato su in viale di Tor di Quinto quando doveva mettere in scena «Notre Dame de Paris»). Debutta centotre anni dopo la prima rappresentazione - per gli storici: sempre a Roma, a Teatro Costanzi - dell’opera di Giacomo Puccini che a sua volta era tratta dal dramma omonimo di Victorian Sardou. Debutta con il titolo «Tosca, amore disperato».
Dalla ha mantenuto solo la storia della bella Tosca (la ventiquattrenne siciliana Rosalia Misseri, già Esmeralda nel secondo cast di «Notre Dame») che nella Roma papalina della restaurazione post napoleonica ama il pittore liberale Cavaradossi (Graziano Galatone, un passato a Sanremo Giovani del ’93), che si caccia nei guai nascondendo il rivoluzionario Angelotti (Attilio Fontana, già con i Ragazzi Italiani). Della ragazza si innamora il capo della polizia, il perfido barone Scarpia (Vittorio Matteucci, il Frollo di «Notre Dame»), che cattura e condanna a morte il pittore, ma promette di liberarlo se lei gli dirà di sì. Tosca lo uccide, scappa a Castel Sant’Angelo, dove il suo uomo dovrebbe essere fucilato a salve. Ma le pallottole sono vere, Cavaradossi muore, ma muore anche Tosca.
Per quest’eterna storia di amore e di morte il sessantenne artista bolognese ha riscritto ex novo testi e musiche. Con un cast di trenta elementi (senza Sabrina Ferilli, Franco Califano e Max Gazzè, le star annunciate originariamente), con le coreografie di Daniel Ezralow e i costumi di Giorgio Armani, Dalla non si è fatto mancare assolutamente nulla. Effetti speciali fantasmagorici, diavolerie tecnologiche, tentazioni cinematografiche, trovate quasi circensi, immagini multimediali. «Matrix» ambientato al luna park, fra sipari argentati in stile Las Vegas, sullo sfondo di San Pietro. Per un costo di quattro milioni di euro che ora bisogna ammortizzare.
«Siamo in un territorio - spiegava Dalla l’altra sera, prima che cominciasse l’anteprima - dove il melodramma non è mai stato. Ho puntato ancora una volta sulla commistione di linguaggi, che è la cosa che più mi intriga, scegliendo soluzioni inedite per il melodramma ma anche per il musical. È un’opera strana, ma è comunque un’opera. Ha il turbinio dei sentimenti, fra personaggi doppi e tripli. È una Tosca fatta correndo, ma non per questo cialtrona. È una Tosca facilissima, ma prende strade che io stesso non ho ancora capito. Per me comunque è già conclusa, e a me non piacciono le cose finite, perchè poi te ne distacchi...».
Il musicista tiene a precisare che si tratta ancora di un work in progress. In effetti il primo tempo mostra ancora alcune farraginosità e alcuni passaggi meriterebbero una generosa messa a punto. La seconda parte scorre meglio, anche grazie a numerose e importanti aperture melodiche. Il collante che tiene assieme la baracca sono infatti alcune grandi canzoni. E non poteva essere altrimenti, visto che abbiamo a che fare con Dalla. Soprattutto «Amore disperato» (cantata a teatro da Iskra Menarini, la veggente Sidonia, all’inizio e alla fine) e «Per te» (un gustosissimo tip tap in chiusura di primo tempo) sono destinate a entrare fra i classici dalliani. E saranno comprese nel nuovo disco del cantautore, in uscita nei prossimi giorni, fra l’altro con un attesissimo duetto nientemeno che con Mina.
«Puccini si sarebbe vergognato di una Tosca così - ammette Dalla - ma forse si sarebbe divertito. La mia è un'opera moderna, multimediale, diversa dall'originale pucciniano. Non temo il confronto con lui, non mi sembra proprio il caso. La sua è l'opera più bella mai scritta nel melodramma. Mi sono messo a disposizione di Puccini per spiegare la sua opera oggi, a un pubblico diverso e con mezzi espressivi diversi».
Il pubblico, sulla scia del trionfo riservato a «Notre Dame de Paris», sicuramente gradirà. Come ha gradito nell’anteprima dell’altra sera. Fra torture rap, guardie pontificie in tutine a strisce, patrioti della Roma papalina che volano appesi a delle funi, preti e suore in desabillé... E tutto ciò che la fantasia visionaria di Lucio Dalla ha immaginato per questa sua «Tosca» così vicina alla sensibilità e al gusto contemporaneo.
Un’opera pop, un musical cinematografico di grande impatto visivo, con cadenze e tempi quasi televisivi. Un magma incandescente di suoni, colori, sentimenti.
martedì 14 ottobre 2003
NOA ALLA SALA TRIPCOVICH
TRIESTE Scelta coraggiosa, quella di cantare la pace, con la sola forza della musica, delle parole e dei suoni, mentre i padroni del mondo adottano la guerra come strumento per (tentare di) dirimere le questioni. Scelta ancor più coraggiosa e significativa quando arriva da una cantante come Noa, che ieri sera ha tenuto un emozionante e vibrante recital alla Sala Tripcovich, nell’ambito della manifestazione «Itinerari ebraici».
La cantante israeliana (vero nome Achinoam Nini, nata a Tel Aviv, genitori di origini yemenite, cresciuta a New York e poi tornata adolescente nella sua città) vive infatti ogni giorno sulla sua pelle la situazione drammatica del Medio Oriente. Vede due popoli che vivono sulla stessa terra affidare il proprio presente, il proprio futuro alla violenza e non al dialogo, alle armi e non alla pacifica e necessaria convivenza. Protesta nell’unica maniera che conosce, e affida al proprio canto, alla splendida voce, ai suoni che denunciano influenze culturali sia occidentali che orientali, la sua grande speranza di pace.
A Trieste Noa (che in ebraico significa «sorella di pace») si è presentata in versione acustica, con il fido Gil Dor alle chitarre e Zohar Fresco alle percussioni. Biancovestita, apre puntualissima con «U.n.i.», canzone che stava nel suo secondo album, del ’93: una sigla che pronunciata in inglese suona come «you and I», ma rappresenta anche le prime tre lettere della parola «universe». Prosegue con «Mishaela» (da «Noa», il disco del ’94 che ha rivelato l’artista alla grande platea internazionale), «Wild flower», «I don’t know»...
Spettacolo musicalmente scarno, senza gli orpelli pop dell’ultimo tour, che ha fatto tappa a primavera anche a Udine. Spettacolo che proprio per la sua essenzialità permette alla voce di Noa di librarsi alta, forte e al tempo stesso dolce. Una voce che sembra in grado di diffondere gioia, speranza, persino entusiasmo. Una voce e un canto che mescolano pop-rock americano, suggestioni etniche mediorentali, venature jazz. Una voce e un canto che sanno essere - in inglese come nell’idioma ebraico - soavi e delicati, ma anche forti ed energici.
Arrivano anche i brani dell’ultimo album, intitolato «Now», fra cui una straordinaria «Look at the beauty of that» - uno dei brani in cui lei stessa si scatena alle percussioni - e le due cover del disco: una rarefatta e magica «Eye in the sky» di Alan Parsons e la beatlesiana «We can work it out» (nel disco in duetto con la cantante palestinese Mira Awad). E alla fine, fra i bis, non può mancare «Beautiful that way», tema scritto da Nicola Piovani della colonna sonora del premiatissimo film di Benigni «la vita è bella». Ma non manca neanche l’omaggio all’Italia, e a Napoli, considerata soprattutto all’estero la patria della canzone italiana, con «Partono ’e bastimente» («...pe’ terre assai luntane...»). E dopo un messaggio di pace letto in italiano c’è posto persino per un inedito: quella «Shalom shalom» che riassume con la sua invocazione di pace, la pace che parla il linguaggio universale della musica, il senso del concerto e forse dell’intera produzione artistica della cantante.
«Cantare la pace mentre il mondo si fa la guerra - spiega Noa, per cui quello di ieri sera è stato il primo concerto a Trieste, dov’era però già passata velocemente in occasione delle sue varie partecipazioni a Folkest - è per me un sfida importante. Credo nella pace, credo nella pacifica convivenza fra i popoli, e sapere che ogni giorno c’è gente che muore o rischia di morire in Medio Oriente mi dà una forza ancora maggiore per continuare sulla mia strada».
«Certo, la difesa di questi valori, a cui continuo a credere profondamente, non è facile nella realtà angosciante con cui siamo costretti quotidianamente a confrontarci. Ma l'unica possibilità per resistere, per non arrendersi al peggio, sta proprio nella comunicazione. Continuo a credere nel dialogo e mi adopero come posso per stimolarlo e per sviluppare rapporti d'amicizia. Dev’essere un impegno per andare avanti, per sopravvivere, altrimenti tutto sembrerebbe troppo deprimente. Per me continuare a cantare, a fare musica, significa anche non arrendersi a una logica di morte».
Una scelta, quella di Noa, maturata pian piano. «I miei genitori - racconta la cantante - israeliani di nascita e yemeniti di origine, si trasferirono negli Stati Uniti quando io avevo appena un anno. Ho vissuto fino ai diciassette anni a New York, nel Bronx, dove ho studiato e fatto le mie prime esperienze musicali e artistiche. Ma un giorno è arrivato, con una crisi di identità, il richiamo della mia terra, che mi ha spinto a tornare in Israele. Lì, a Tel Aviv, ho proseguito gli studi, ho prestato il servizio militare e in una scuola di jazz e musica classica ho completato la mia formazione, cominciata a New York».
Rimane la consapevolezza di essere cresciuta immersa in ambedue le culture, quella americana e quella orientale. «I miei nonni provengono dallo Yemen, i miei genitori sono israeliani, e sono cresciuta in America parlando inglese. Dunque non mi sono mai posta il problema di scoprire una cultura rispetto a un’altra, perché le ho sempre vissute come parte integrante della mia vita».
Ieri sera, alla Tripcovich, trionfo di pubblico per la cantante dai grandi occhi scuri e dai lunghi capelli ricci. Vederla in concerto al di fuori di un tour è stata un’occasione unica, resa possibile dal consolidato rapporto di amicizia fra l’artista e gli organizzatori di Folkest. Stamattina Noa parte per Roma, dove giovedì nel corso di una cerimonia verrà nominata ambasciatrice della Fao per la pace nel mondo.
La cantante israeliana (vero nome Achinoam Nini, nata a Tel Aviv, genitori di origini yemenite, cresciuta a New York e poi tornata adolescente nella sua città) vive infatti ogni giorno sulla sua pelle la situazione drammatica del Medio Oriente. Vede due popoli che vivono sulla stessa terra affidare il proprio presente, il proprio futuro alla violenza e non al dialogo, alle armi e non alla pacifica e necessaria convivenza. Protesta nell’unica maniera che conosce, e affida al proprio canto, alla splendida voce, ai suoni che denunciano influenze culturali sia occidentali che orientali, la sua grande speranza di pace.
A Trieste Noa (che in ebraico significa «sorella di pace») si è presentata in versione acustica, con il fido Gil Dor alle chitarre e Zohar Fresco alle percussioni. Biancovestita, apre puntualissima con «U.n.i.», canzone che stava nel suo secondo album, del ’93: una sigla che pronunciata in inglese suona come «you and I», ma rappresenta anche le prime tre lettere della parola «universe». Prosegue con «Mishaela» (da «Noa», il disco del ’94 che ha rivelato l’artista alla grande platea internazionale), «Wild flower», «I don’t know»...
Spettacolo musicalmente scarno, senza gli orpelli pop dell’ultimo tour, che ha fatto tappa a primavera anche a Udine. Spettacolo che proprio per la sua essenzialità permette alla voce di Noa di librarsi alta, forte e al tempo stesso dolce. Una voce che sembra in grado di diffondere gioia, speranza, persino entusiasmo. Una voce e un canto che mescolano pop-rock americano, suggestioni etniche mediorentali, venature jazz. Una voce e un canto che sanno essere - in inglese come nell’idioma ebraico - soavi e delicati, ma anche forti ed energici.
Arrivano anche i brani dell’ultimo album, intitolato «Now», fra cui una straordinaria «Look at the beauty of that» - uno dei brani in cui lei stessa si scatena alle percussioni - e le due cover del disco: una rarefatta e magica «Eye in the sky» di Alan Parsons e la beatlesiana «We can work it out» (nel disco in duetto con la cantante palestinese Mira Awad). E alla fine, fra i bis, non può mancare «Beautiful that way», tema scritto da Nicola Piovani della colonna sonora del premiatissimo film di Benigni «la vita è bella». Ma non manca neanche l’omaggio all’Italia, e a Napoli, considerata soprattutto all’estero la patria della canzone italiana, con «Partono ’e bastimente» («...pe’ terre assai luntane...»). E dopo un messaggio di pace letto in italiano c’è posto persino per un inedito: quella «Shalom shalom» che riassume con la sua invocazione di pace, la pace che parla il linguaggio universale della musica, il senso del concerto e forse dell’intera produzione artistica della cantante.
«Cantare la pace mentre il mondo si fa la guerra - spiega Noa, per cui quello di ieri sera è stato il primo concerto a Trieste, dov’era però già passata velocemente in occasione delle sue varie partecipazioni a Folkest - è per me un sfida importante. Credo nella pace, credo nella pacifica convivenza fra i popoli, e sapere che ogni giorno c’è gente che muore o rischia di morire in Medio Oriente mi dà una forza ancora maggiore per continuare sulla mia strada».
«Certo, la difesa di questi valori, a cui continuo a credere profondamente, non è facile nella realtà angosciante con cui siamo costretti quotidianamente a confrontarci. Ma l'unica possibilità per resistere, per non arrendersi al peggio, sta proprio nella comunicazione. Continuo a credere nel dialogo e mi adopero come posso per stimolarlo e per sviluppare rapporti d'amicizia. Dev’essere un impegno per andare avanti, per sopravvivere, altrimenti tutto sembrerebbe troppo deprimente. Per me continuare a cantare, a fare musica, significa anche non arrendersi a una logica di morte».
Una scelta, quella di Noa, maturata pian piano. «I miei genitori - racconta la cantante - israeliani di nascita e yemeniti di origine, si trasferirono negli Stati Uniti quando io avevo appena un anno. Ho vissuto fino ai diciassette anni a New York, nel Bronx, dove ho studiato e fatto le mie prime esperienze musicali e artistiche. Ma un giorno è arrivato, con una crisi di identità, il richiamo della mia terra, che mi ha spinto a tornare in Israele. Lì, a Tel Aviv, ho proseguito gli studi, ho prestato il servizio militare e in una scuola di jazz e musica classica ho completato la mia formazione, cominciata a New York».
Rimane la consapevolezza di essere cresciuta immersa in ambedue le culture, quella americana e quella orientale. «I miei nonni provengono dallo Yemen, i miei genitori sono israeliani, e sono cresciuta in America parlando inglese. Dunque non mi sono mai posta il problema di scoprire una cultura rispetto a un’altra, perché le ho sempre vissute come parte integrante della mia vita».
Ieri sera, alla Tripcovich, trionfo di pubblico per la cantante dai grandi occhi scuri e dai lunghi capelli ricci. Vederla in concerto al di fuori di un tour è stata un’occasione unica, resa possibile dal consolidato rapporto di amicizia fra l’artista e gli organizzatori di Folkest. Stamattina Noa parte per Roma, dove giovedì nel corso di una cerimonia verrà nominata ambasciatrice della Fao per la pace nel mondo.
domenica 12 ottobre 2003
BARCOLANA FESTIVAL
TRIESTE Festa di mare, di vele, di vento (quando c’è...), di colori, di sapori, di gente. Un’impressionante marea di gente. Ma da qualche anno la Coppa d’Autunno è anche grande e straordinaria festa di musica, con il Barcolana Festival che ieri sera (ma anche la sera prima, e la sera prima ancora...) ha riempito il superbo palcoscenico naturale di piazza dell’Unità.
Guardando il mare là in fondo, dietro quella marea umana di teste e di braccia alzate, ieri sera per il gran finale si sono alternati sul palco i Meganoidi, Neffa e i Planet Funk. Apertura con la musica ska della band genovese partita dai centri sociali, uscita dall’ambito locale grazie all’invio di un video autoprodotto a Mtv («Supereroi vs Municipale», loro primo, insuperato hit), rampa di lancio per le 45 mila copie vendute del disco d’esordio «Into the darkness, into the moda».
Avrebbero potuto continuare a battere su quello stesso tasto, cercando di azzeccare un nuovo (analogo) successo. Nel nuovo disco «Outside the loop, stupendo sensation», presentato ieri sera a Trieste, hanno invece preferito proseguire una personale ricerca musicale, che li sta portando a privilegiare suoni e atmosfere più marcatamente rock. «È stata una maturazione naturale - spiegano i Meganoidi - il primo disco è uscito nel 2001(l’anno in cui avevano già partecipato al Barcolana Festival - ndr), ma quei brani erano più vecchi. Oggi siamo cresciuti. E non solo per la carta d’identità...».
Anche Neffa, che è salito sul palco dopo il gruppo genovese, era in piazza Unità due anni fa. Allora il suo hit dell’estate, che l’aveva fatto scoprire dal grande pubblico, s’intitolava «La mia signorina». Quest’anno analogo successo è toccato a «Prima di andare via», premiata un mese fa al Festivalbar come canzone più trasmessa dalle radio. Ieri sera Giovanni Pellino (questo il suo vero nome) ha aperto col vecchio successo e ha chiuso con quello nuovo. In mezzo non ha trascurato le cose nuove comprese nell’album appena uscito «I molteplici mondi di Giovanni, il cantante Neffa» («Lady») e quelle del disco «Arrivi e partenze» («Sano e salvo»).
«I singoli di successo - ammette Neffa, classe ’67, nato a Napoli e vissuto finora in varie città, prima di approdare a Roma - sono croce e delizia. La gente ti dice: ho sentito il tuo disco, ma si riferisce sempre al singolo, anzi, spesso ti identifica col singolo. Che rappresenta un collante, una sorta di chiave di accesso che a volte funziona, altre no. Solo alcuni, infatti, non si fermano al brano di successo e vanno più in profondità, ad ascoltare il resto della tua produzione».
«I molteplici mondi a cui si riferisce il titolo del cd - prosegue Neffa, che nel disco ha collaborato con tre musicisti triestini: Al Castellana (ospite ieri sera in un brano), Fabio Valdemarin e Paolo Muscovi - sono ovviamente mondi musicali. Il mio passato rap, coi Messaggeri del Dopa, è un capitolo chiuso. Ora mi sento libero di spaziare fra soul, funky, reggae, canzone, suoni brasiliani, il tutto amalgamato dalla matrice blues che sento maggiormente. Musicalmente mi sento anarchico, faccio quello che mi viene. E se mi viene un brano che fa anche ballare, sono più contento...».
E dopo Neffa e i fuochi d’artificio, saltato l’annunciato set del dj-performer Claudio Coccoluto, ieri sera il compito di concludere il festival è toccato ai Planet Funk. Due napoletani attivi da dieci anni come produttori di dance (con la sigla «Souled Out») incontrano nel ’99 a Londra due fiorentini (i Kamasutra). Nasce un progetto musicale nel quale vengono coinvolti vari vocalist, fra cui gli inglesi Dan Black e Sally Doherty. Segue il grande successo - anche europeo - dell’album «Non zero sumness» e di singoli come «Chase the sun», «The switch», «Inside all the people»...
«Non siamo una band - spiegano - siamo un collettivo musicale eclettico, convinti che l’elettronica sia all’origine delle innovazioni più importanti. A noi piace la dance, ma anche il jazz, il soul, il funk, l’house... Ci interessa sperimentare, contaminare i suoni, creare un crocevia musicale». Un crocevia vitalissimo, un tappeto sonoro di classe che ieri sera ha infiammato la marea umana di piazza dell’Unità.
Guardando il mare là in fondo, dietro quella marea umana di teste e di braccia alzate, ieri sera per il gran finale si sono alternati sul palco i Meganoidi, Neffa e i Planet Funk. Apertura con la musica ska della band genovese partita dai centri sociali, uscita dall’ambito locale grazie all’invio di un video autoprodotto a Mtv («Supereroi vs Municipale», loro primo, insuperato hit), rampa di lancio per le 45 mila copie vendute del disco d’esordio «Into the darkness, into the moda».
Avrebbero potuto continuare a battere su quello stesso tasto, cercando di azzeccare un nuovo (analogo) successo. Nel nuovo disco «Outside the loop, stupendo sensation», presentato ieri sera a Trieste, hanno invece preferito proseguire una personale ricerca musicale, che li sta portando a privilegiare suoni e atmosfere più marcatamente rock. «È stata una maturazione naturale - spiegano i Meganoidi - il primo disco è uscito nel 2001
Anche Neffa, che è salito sul palco dopo il gruppo genovese, era in piazza Unità due anni fa. Allora il suo hit dell’estate, che l’aveva fatto scoprire dal grande pubblico, s’intitolava «La mia signorina». Quest’anno analogo successo è toccato a «Prima di andare via», premiata un mese fa al Festivalbar come canzone più trasmessa dalle radio. Ieri sera Giovanni Pellino (questo il suo vero nome) ha aperto col vecchio successo e ha chiuso con quello nuovo. In mezzo non ha trascurato le cose nuove comprese nell’album appena uscito «I molteplici mondi di Giovanni, il cantante Neffa» («Lady») e quelle del disco «Arrivi e partenze» («Sano e salvo»).
«I singoli di successo - ammette Neffa, classe ’67, nato a Napoli e vissuto finora in varie città, prima di approdare a Roma - sono croce e delizia. La gente ti dice: ho sentito il tuo disco, ma si riferisce sempre al singolo, anzi, spesso ti identifica col singolo. Che rappresenta un collante, una sorta di chiave di accesso che a volte funziona, altre no. Solo alcuni, infatti, non si fermano al brano di successo e vanno più in profondità, ad ascoltare il resto della tua produzione».
«I molteplici mondi a cui si riferisce il titolo del cd - prosegue Neffa, che nel disco ha collaborato con tre musicisti triestini: Al Castellana (ospite ieri sera in un brano), Fabio Valdemarin e Paolo Muscovi - sono ovviamente mondi musicali. Il mio passato rap, coi Messaggeri del Dopa, è un capitolo chiuso. Ora mi sento libero di spaziare fra soul, funky, reggae, canzone, suoni brasiliani, il tutto amalgamato dalla matrice blues che sento maggiormente. Musicalmente mi sento anarchico, faccio quello che mi viene. E se mi viene un brano che fa anche ballare, sono più contento...».
E dopo Neffa e i fuochi d’artificio, saltato l’annunciato set del dj-performer Claudio Coccoluto, ieri sera il compito di concludere il festival è toccato ai Planet Funk. Due napoletani attivi da dieci anni come produttori di dance (con la sigla «Souled Out») incontrano nel ’99 a Londra due fiorentini (i Kamasutra). Nasce un progetto musicale nel quale vengono coinvolti vari vocalist, fra cui gli inglesi Dan Black e Sally Doherty. Segue il grande successo - anche europeo - dell’album «Non zero sumness» e di singoli come «Chase the sun», «The switch», «Inside all the people»...
«Non siamo una band - spiegano - siamo un collettivo musicale eclettico, convinti che l’elettronica sia all’origine delle innovazioni più importanti. A noi piace la dance, ma anche il jazz, il soul, il funk, l’house... Ci interessa sperimentare, contaminare i suoni, creare un crocevia musicale». Un crocevia vitalissimo, un tappeto sonoro di classe che ieri sera ha infiammato la marea umana di piazza dell’Unità.
ELIO E... AL BARCOLANA FESTIVAL
TRIESTE Una risata vi seppellirà, pronosticava la miglior contestazione di tanti anni fa. Elio e le Storie Tese - acclamati protagonisti ieri sera in piazza Unità della seconda serata del Barcolana Festival - sembrano figli di quella ottimistica previsione, peraltro rimasta a tutt’oggi una mera speranza. Hanno portato l’ironia e l’autoironia nel mondo della musica, serioso e spesso autoreferenziale per definizione, popolato di personaggi che si prendono troppo sul serio. Come tanti, non solo nel mondo della musica.
Gli Elii no. E ieri sera ne hanno dato l’ennesima conferma, infiammando un pubblico che conosce a memorie i loro successi vecchi e nuovi. Spettacolo pirotecnico, incentrato soprattutto sui brani del nuovo album «Cicciput» (il primo in studio dopo quattro anni, anche se nel frattempo era uscito il loro doppio live «fatto in Giappone»...), da «L’abate cruento» a «Cani e padroni di cani», ai già classici «Shpalman» e «Fossi figo».
Spettacolo che però non poteva trascurare i classici di sempre («Il vitello dai piedi di balsa», «Cara ti amo», fra i bis «Born to be Abramo»...), rifacendo i quali Elio e compagni si divertono, oltre che sparando i loro dissacranti nonsense e le loro citazioni più o meno colte, anche alternando generi musicali diversissimi con la maestria tecnica che da tempo viene loro riconosciuta. E allora sotto con marcette in stile ventennio e digressioni in salsa francese, suggestioni progressive e tentazioni metal, la lezione di Buscaglione incrociata con quella della canzone d’autore.
«Noi siamo sempre seri - tiene a precisare Elio, che ieri sera ha vestito la giubba dei lavoratori della Ferriera in segno di solidarietà alla loro lotta - diciamo cose serie e intelligenti, anche se quando vediamo un presidente del Consiglio che fa il buffone, per la verità ci viene un po’ voglia di far ridere anche noi la gente». E fin qui tutto regolare. Poi però il diavoletto dalle folte sopracciglia non sa resistere. E continua così: «Noi cantiamo per i giovani di Forza Italia perchè è giusto, in fondo sono ragazzi come tutti gli altri, sono l’anima trasgressiva del loro partito. E nessuno canta per loro. Quelli della Lega hanno Van De Sfroos, quelli di sinistra hanno tutti gli altri, e loro cosa sono?»
Già, cosa sono? Chiosa rassicurante: «La nostra è una scelta di marketing. Trattiamo temi a loro affini come le grosse automobili e le belle donne. Cose di cui la stampa non parla perchè è notoriamente in mano ai comunisti...». Discorso in effetti già sentito.
«Domenica comunque non parteciperemo alla regata - conclude Elio - perchè abbiamo degli impegni e non ci siamo preparati. Quattro anni fa eravamo in barca con Giovanni Soldini, ma ci siamo annoiati a morte perchè non c’era vento. Tu puoi stare in barca con il miglior skipper, puoi anche prepararti come avevamo fatto noi il giorno prima, ma se non c’è vento... Io mi sono persino addormentato. Comunque torneremo, statene certi, perchè abbiamo ancora in bocca il gusto del prosciutto e del vino che abbiamo gustato a bordo...».
La serata di ieri è stata aperta dagli italo-scozzesi Hormonauts, che hanno scaldato la piazza con il loro rockabilly in perfetto stile anni Cinquanta, attento però anche a influenze musicali successive. Poi belle vibrazioni reggae «made in Piemonte» con gli Africa Unite (anche per loro si è trattato di un ritorno al Barcolana Festival, dove avevano già suonato nell’edizione del ’99): Bunna e compagni hanno presentato i brani del nuovo album «Mentre fuori piove» (decimo lavoro in oltre vent’anni di carriera) e qualche classico d’impronta marleyana. Poi, il grande palco è stato tutto per Elio e i suoi compari.
Stasera è già gran finale. Alle 21 aprono le danze i Meganoidi, alle 21.45 è la volta di Neffa, fra le 22.30 e le 23 è previsto il set con il dj Claudio Coccoluto, alle 23 salgono sul palco i Planet Funk. A mezzanotte - per contratto - bisogna chiudere. Domani mattina va in scena la più affollata regata del mondo, bisogna svegliarsi presto...
Gli Elii no. E ieri sera ne hanno dato l’ennesima conferma, infiammando un pubblico che conosce a memorie i loro successi vecchi e nuovi. Spettacolo pirotecnico, incentrato soprattutto sui brani del nuovo album «Cicciput» (il primo in studio dopo quattro anni, anche se nel frattempo era uscito il loro doppio live «fatto in Giappone»...), da «L’abate cruento» a «Cani e padroni di cani», ai già classici «Shpalman» e «Fossi figo».
Spettacolo che però non poteva trascurare i classici di sempre («Il vitello dai piedi di balsa», «Cara ti amo», fra i bis «Born to be Abramo»...), rifacendo i quali Elio e compagni si divertono, oltre che sparando i loro dissacranti nonsense e le loro citazioni più o meno colte, anche alternando generi musicali diversissimi con la maestria tecnica che da tempo viene loro riconosciuta. E allora sotto con marcette in stile ventennio e digressioni in salsa francese, suggestioni progressive e tentazioni metal, la lezione di Buscaglione incrociata con quella della canzone d’autore.
«Noi siamo sempre seri - tiene a precisare Elio, che ieri sera ha vestito la giubba dei lavoratori della Ferriera in segno di solidarietà alla loro lotta - diciamo cose serie e intelligenti, anche se quando vediamo un presidente del Consiglio che fa il buffone, per la verità ci viene un po’ voglia di far ridere anche noi la gente». E fin qui tutto regolare. Poi però il diavoletto dalle folte sopracciglia non sa resistere. E continua così: «Noi cantiamo per i giovani di Forza Italia perchè è giusto, in fondo sono ragazzi come tutti gli altri, sono l’anima trasgressiva del loro partito. E nessuno canta per loro. Quelli della Lega hanno Van De Sfroos, quelli di sinistra hanno tutti gli altri, e loro cosa sono?»
Già, cosa sono? Chiosa rassicurante: «La nostra è una scelta di marketing. Trattiamo temi a loro affini come le grosse automobili e le belle donne. Cose di cui la stampa non parla perchè è notoriamente in mano ai comunisti...». Discorso in effetti già sentito.
«Domenica comunque non parteciperemo alla regata - conclude Elio - perchè abbiamo degli impegni e non ci siamo preparati. Quattro anni fa eravamo in barca con Giovanni Soldini, ma ci siamo annoiati a morte perchè non c’era vento. Tu puoi stare in barca con il miglior skipper, puoi anche prepararti come avevamo fatto noi il giorno prima, ma se non c’è vento... Io mi sono persino addormentato. Comunque torneremo, statene certi, perchè abbiamo ancora in bocca il gusto del prosciutto e del vino che abbiamo gustato a bordo...».
La serata di ieri è stata aperta dagli italo-scozzesi Hormonauts, che hanno scaldato la piazza con il loro rockabilly in perfetto stile anni Cinquanta, attento però anche a influenze musicali successive. Poi belle vibrazioni reggae «made in Piemonte» con gli Africa Unite (anche per loro si è trattato di un ritorno al Barcolana Festival, dove avevano già suonato nell’edizione del ’99): Bunna e compagni hanno presentato i brani del nuovo album «Mentre fuori piove» (decimo lavoro in oltre vent’anni di carriera) e qualche classico d’impronta marleyana. Poi, il grande palco è stato tutto per Elio e i suoi compari.
Stasera è già gran finale. Alle 21 aprono le danze i Meganoidi, alle 21.45 è la volta di Neffa, fra le 22.30 e le 23 è previsto il set con il dj Claudio Coccoluto, alle 23 salgono sul palco i Planet Funk. A mezzanotte - per contratto - bisogna chiudere. Domani mattina va in scena la più affollata regata del mondo, bisogna svegliarsi presto...
LE VIBRAZIONI AL BARCOLANA FESTIVAL
TRIESTE Una volta si diceva «good vibrations», per gli amici «good vibes», in italiano «buone vibrazioni». Roba vecchia, che non è più di moda, roba di quando la musica aveva un’anima, sgorgava spontaneamente, veicolava idee, abitava i luoghi e le persone. Non era di plastica, insomma, non era costruita a tavolino pensando soltanto ai numeri.
Roba vecchia che a volte per fortuna ritorna, verrebbe da dire ascoltando suonare Le Vibrazioni, il gruppo milanese rivelazione dell’anno al «Festivalbar», esploso prima con il singolo «Dedicato a te», poi con l’album d’esordio e con il secondo singolo «In una notte d’estate» (il terzo singolo, «Vieni da me», è da oggi nelle radio).
Ieri sera, in piazza Unità, erano loro il pezzo forte della prima serata del «Barcolana Festival». Ma sul palco, poco prima delle 22 è salita anche la protesta dei lavoratori della Feriera, che hanno esposto uno striscione e hanno chiesto la solidarietà del pubblico alla loro lotta. Tornnado alla musica, le «Vibrazioni», non hanno deluso le aspettative, presentando quasi interamente il loro - finora unico - album. Da «Sani pensieri» a «In una notte d’estate», da «Il cantico delle pene» a «Electrip music», fino a (ovviamente) «Dedicato a te» ma anche a un brano scoppiettante come «Su un altro pianeta», con tanto di jam session, presentazione del gruppo, baci abbracci e arrivederci alla prossima.
Un buon pop-rock, ben suonato e ben cantato, quello proposto dal gruppo milanese (il più vecchio, Stefano Verdieri, chitarra e tastiere, è del ’74; il più giovane, il bassista Marco «Garrincha» Castellani, con origini triestine - anzi, di Prosecco - per parte di madre, è del ’78), che non fa mistero di pescare nella lezione dei gruppi italiani e inglesi a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta.
«Io sono figlio unico - spiega il cantante e autore dei brani Francesco Sarcina, ventisette anni fra pochi giorni, dunque classe ’76 come il batterista Alessandro Deidda - a casa mia si ascoltavano Beatles, Santana, Presley, Pink Floyd, ma anche Mina e Battisti. Musica che ascoltava pure mia madre quando era incinta di me, e io credo alla teoria secondo la quale il feto è influenzato dalla musica che ascolta in attesa di nascere... Ma a parte questo, per me la svolta musicale è avvenuta grazie a mio padre: quando ho cominciato a sentire i Duran Duran, gli Europe e vari gruppi pop e rock degli anni Ottanta, è stato lui a spiegarmi che tutti quegli artisti prendevano dal passato dal decennio precedente».
«Le Vibrazioni - prosegue Sarcina - sono nate a Milano nella primavera del ’99. Come tutti abbiamo cominciato con le cover, poi siamo passati a una produzione originale, ma quando andavamo a suonare nei locali ci chiedevano solo le prime. Noi zitti zitti, un po’ alla volta, abbiamo cominciato a inserire i nostri brani. E il pubblico ascoltava e gradiva lo stesso. Nove mesi fa comunque eravamo ancora in cantina, nella cantina che fra l’altro usiamo ancora per le prove. A febbraio è uscito il primo singolo, dopo due settimane era già nella top ten, a marzo era primo in classifica, dove è rimasto per tre mesi...».
«In effetti tutto è successo in così poco tempo - riflette il cantante - che non ci sembra vero. Sembra una frase fatta ma è così. Eppure sono vicinissimi i tempi in cui facevamo il giro delle case discografiche senza trovare nessuno che ci desse retta. Solo una persona ci ha ascoltato e capito, Demetrio Sartorio, che infatti adesso lavora con noi. Il fatto è che molti discografici non ne capiscono di musica, loro sono soltanto dei venditori di dischi. E spesso non riescono nemmeno a farlo».
«Il video di Elio e le Storie Tese? Beh, quando Elio ci ha chiesto se ci poteva fare il verso nel loro clip - conclude Sarcina - ci siamo fatti innanzitutto una bella risata. Poi ne siamo stati felicissimi, convinti come siamo della forza dell’autoironia e della necessità di non prendersi mai troppo sul serio. Se dureremo come gruppo? Lo spero. Di certo io non sarò il Cesare Cremonini delle Vibrazioni. Non mollo la baracca per fare il solista. Credo nella forza del collettivo. E poi in quattro ci si diverte molto ma molto di più...».
Ieri la prima serata del Barcolana Festival è stata aperta dal cantautore pordenonese Marco Anzovino (già finalista al Premio Recanati 2002, apprezzato e «raccomandato» da Gino Paoli, primo album in arrivo a dicembre), dagli sloveni Elevators (frizzante quintetto guidato dalla superba flautista Tina Blazinsek) e dagli austriaci Hardbladers (da almeno dieci anni molto popolari anche in Germania). Un tris all’insegna dell’area geografica e musicale di Alpe Adria.
Stasera seconda tranche del festival. Aprono gli Hormonauts, proseguono gli Africa Unite, concludono Elio e le Storie Tese. Buon divertimento.
Roba vecchia che a volte per fortuna ritorna, verrebbe da dire ascoltando suonare Le Vibrazioni, il gruppo milanese rivelazione dell’anno al «Festivalbar», esploso prima con il singolo «Dedicato a te», poi con l’album d’esordio e con il secondo singolo «In una notte d’estate» (il terzo singolo, «Vieni da me», è da oggi nelle radio).
Ieri sera, in piazza Unità, erano loro il pezzo forte della prima serata del «Barcolana Festival». Ma sul palco, poco prima delle 22 è salita anche la protesta dei lavoratori della Feriera, che hanno esposto uno striscione e hanno chiesto la solidarietà del pubblico alla loro lotta. Tornnado alla musica, le «Vibrazioni», non hanno deluso le aspettative, presentando quasi interamente il loro - finora unico - album. Da «Sani pensieri» a «In una notte d’estate», da «Il cantico delle pene» a «Electrip music», fino a (ovviamente) «Dedicato a te» ma anche a un brano scoppiettante come «Su un altro pianeta», con tanto di jam session, presentazione del gruppo, baci abbracci e arrivederci alla prossima.
Un buon pop-rock, ben suonato e ben cantato, quello proposto dal gruppo milanese (il più vecchio, Stefano Verdieri, chitarra e tastiere, è del ’74; il più giovane, il bassista Marco «Garrincha» Castellani, con origini triestine - anzi, di Prosecco - per parte di madre, è del ’78), che non fa mistero di pescare nella lezione dei gruppi italiani e inglesi a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta.
«Io sono figlio unico - spiega il cantante e autore dei brani Francesco Sarcina, ventisette anni fra pochi giorni, dunque classe ’76 come il batterista Alessandro Deidda - a casa mia si ascoltavano Beatles, Santana, Presley, Pink Floyd, ma anche Mina e Battisti. Musica che ascoltava pure mia madre quando era incinta di me, e io credo alla teoria secondo la quale il feto è influenzato dalla musica che ascolta in attesa di nascere... Ma a parte questo, per me la svolta musicale è avvenuta grazie a mio padre: quando ho cominciato a sentire i Duran Duran, gli Europe e vari gruppi pop e rock degli anni Ottanta, è stato lui a spiegarmi che tutti quegli artisti prendevano dal passato dal decennio precedente».
«Le Vibrazioni - prosegue Sarcina - sono nate a Milano nella primavera del ’99. Come tutti abbiamo cominciato con le cover, poi siamo passati a una produzione originale, ma quando andavamo a suonare nei locali ci chiedevano solo le prime. Noi zitti zitti, un po’ alla volta, abbiamo cominciato a inserire i nostri brani. E il pubblico ascoltava e gradiva lo stesso. Nove mesi fa comunque eravamo ancora in cantina, nella cantina che fra l’altro usiamo ancora per le prove. A febbraio è uscito il primo singolo, dopo due settimane era già nella top ten, a marzo era primo in classifica, dove è rimasto per tre mesi...».
«In effetti tutto è successo in così poco tempo - riflette il cantante - che non ci sembra vero. Sembra una frase fatta ma è così. Eppure sono vicinissimi i tempi in cui facevamo il giro delle case discografiche senza trovare nessuno che ci desse retta. Solo una persona ci ha ascoltato e capito, Demetrio Sartorio, che infatti adesso lavora con noi. Il fatto è che molti discografici non ne capiscono di musica, loro sono soltanto dei venditori di dischi. E spesso non riescono nemmeno a farlo».
«Il video di Elio e le Storie Tese? Beh, quando Elio ci ha chiesto se ci poteva fare il verso nel loro clip - conclude Sarcina - ci siamo fatti innanzitutto una bella risata. Poi ne siamo stati felicissimi, convinti come siamo della forza dell’autoironia e della necessità di non prendersi mai troppo sul serio. Se dureremo come gruppo? Lo spero. Di certo io non sarò il Cesare Cremonini delle Vibrazioni. Non mollo la baracca per fare il solista. Credo nella forza del collettivo. E poi in quattro ci si diverte molto ma molto di più...».
Ieri la prima serata del Barcolana Festival è stata aperta dal cantautore pordenonese Marco Anzovino (già finalista al Premio Recanati 2002, apprezzato e «raccomandato» da Gino Paoli, primo album in arrivo a dicembre), dagli sloveni Elevators (frizzante quintetto guidato dalla superba flautista Tina Blazinsek) e dagli austriaci Hardbladers (da almeno dieci anni molto popolari anche in Germania). Un tris all’insegna dell’area geografica e musicale di Alpe Adria.
Stasera seconda tranche del festival. Aprono gli Hormonauts, proseguono gli Africa Unite, concludono Elio e le Storie Tese. Buon divertimento.
venerdì 10 ottobre 2003
giovedì 9 ottobre 2003
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